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Autore: _Lightning_    27/08/2023    2 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
~~~
Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          IL BUIO non dovrebbe spaventarlo, in verità.

Dopotutto, quante altre volte vi ha già scrutato, scorgendovi solo nero e, non poi così raramente, gli aloni traslucidi dei fantasmi che popolano il suo mondo? Affacciarsi in una stanza buia non dovrebbe sembrargli qualcosa di terrificante, ormai è conscio da tempo che, quando volge le pupille verso l’oscurità, il suo sguardo potrebbe essere ricambiato da quello perlaceo dei morti.

Eppure, quando varca la soglia della stanza occupata da Bruno, sebbene sia solo in una leggera penombra rischiarata dall’alone dorato di una applique da parete, si sente mordere lo stomaco dalla stessa ansia che provava da ragazzino, quando non si era ancora abituato all’idea di dover condividere la propria vita con quella degli spettri. Allo stesso tempo, è un’ansia diversa, più subdola, che gli recide le corde del cuore. Quella che si prova nel guardare una stanza che potrebbe presto diventare vuota per tutti gli altri, ma non per lui.

In quel momento, mentre si accosta al letto di Bruno, è convinto di stare davvero fissando la morte in faccia per la prima volta; non i volti pallidi dei fantasmi, ma l’attimo sospeso che li precede, la loro attesa, il buio subito prima (è ancor più buio che in strada, lì, è inchiostro denso e viscoso). Ha visto abbastanza spettri annidati nei vicoli e agli angoli delle strade da sapere che un pestaggio del genere può essere letale.

Il volto di Bruno è pulito, adesso, e in un certo senso lo rende ancor più inquietante. Il miscuglio di sangue, polvere e sudore mascherava la reale gravità delle lesioni, mentre adesso spiccano vivide sul suo volto pallido: marchi violenti, impressi da pugni e calci impietosi. Ricciardi si rifiuta di soffermarvisi e coglie comunque ogni singolo dettaglio che deturpa quel viso così conosciuto (che ha mandato a memoria in ogni sua piega e imperfezione, dalla curva del naso adunco alle piega degli occhi all'ingiù).

Vede la mezzaluna violacea di una punta di stivale impressa sullo zigomo; un sopracciglio tumefatto e la base del naso solcata da un taglio, dove si scorgono la patina lucida di un unguento e il gonfiore dei fili di sutura; le decine di escoriazioni, vecchie e nuove, che gli costellano fronte e guance; la spaccatura profonda, rossastra, che gli solca le labbra, pronta a riaprirsi; l’alone bluastro e sensibile che gli contorna l’occhio destro. Non osa immaginare cosa celino le lenzuola, ma sa che ci sono altri segni, altre ferite, e nota comunque la fasciatura che gli immobilizza in parte il braccio sinistro. Una pezza di lino bagnata gli rinfresca la fronte, inumidendo i suoi ricci sul cuscino (si chiede come sarebbe passarvi le dita e non è un pensiero che dovrebbe avere adesso).

Credeva di essere preparato a sopportare quella vista, ma scopre di non esserlo affatto, di avere di nuovo quel principio di nausea che preme in fondo alla gola. Non è questa l
’ultima immagine che vuole avere di Bruno. Si blocca a un passo dal letto, domando l’istinto di sedersi lì, accanto a lui, di prendergli la mano, di chiamarlo (e rispedisce indietro con fermezza il velo che gli offusca la vista).

Avverte la presenza di Livia appena dietro di lui e, anche se sarà pur vero che sa tutto, non è intenzionato a darle alcuna conferma.

Così, rimane pietrificato, le mani ancora giunte dietro la schiena, stringendosi il polso con così tanta forza che sente la mano sinistra indolenzirsi. Non si è nemmeno tolto il soprabito e sa esattamente dove trovare le macchie di sangue che lo costellano; le ha fissate fin troppo a lungo durante l’attesa, senza mai toccarle, come se fossero contaminate.

Si sente come quando, all’obitorio, se ne sta in piedi accanto all’ennesima vittima. Solo che adesso Bruno è steso davanti a lui e non è al suo fianco, a illustrargli per filo e per segno tutti i perché e i percome della morte del disgraziato, con quel suo velo di cinica ironia che non varca mai il confine della crudeltà. Il ricordo lo turba, sovrapposto troppo precisamente a ciò che vede, e distoglie lo sguardo dal suo volto tirato, terreo, smosso solo dal respiro affaticato. Lo appunta sulla mano tesa sopra al lenzuolo, l'unico appiglio nella stanza.

Sente che dovrebbe fare o dire qualcosa, ma ogni mossa gli sembra sbagliata (troppo, o troppo poco, non sa più dire quale sia la differenza).

Infine, come tante altre volte in vita sua, decide semplicemente di non fare nulla. Di chiudere quella finestra, tagliando fuori la luce e il sole e tutto ciò che portano con sé. Ci è già stato abbastanza vicino e ha rischiato di bruciarsi; così può bastare, fare di più sarebbe solo come volare troppo in alto e poi precipitare in fiamme (sarebbe solo rischiare di vivere troppo). Si volta verso Livia, che è rimasta sulla soglia e lo osserva con sguardo indecifrabile.

«Sarà meglio lasciarlo riposare,» si sente dire Ricciardi, stritolandosi il polso e quasi conficcandoci le unghie (non vuole andarsene, non vuole lasciarlo solo, e non vuole nemmeno stare da solo con se stesso; e allo stesso tempo non può restare così vicino a lui).

Allunga già un passo verso la porta, quando Livia gli si fa incontro, sbarrandogli la strada:

«Luigi.»

Sentire il suo nome ha lo stesso effetto di essere folgorato da una saetta a ciel sereno. Nessuno lo chiama così: quello è un nome morto assieme a sua madre e ha l’effetto di un incantesimo su di lui. Si immobilizza come a comando, gli occhi schivi ma interrogativi, e Livia prosegue, impassibile:

«Puoi smetterla con questa pantomima. Non c’è bisogno di fingere con me.»

Ricciardi deglutisce a vuoto, scoccando un’occhiata verso la porta socchiusa e la lama di corridoio che si scorge dallo spiraglio dietro di lei. Potrebbe scansare Livia e raggiungerlo, fuggire da lei (da Bruno) come ha già fatto così tante volte, ma rimane piantato al suo posto in muta attesa. Ha paventato questo momento da quando ha indirettamente rivelato troppo a Livia, perché non si è mai aspettato che tutto potesse passare in sordina o non venisse mai menzionato. Merita il suo disprezzo, merita qualsiasi rimprovero o insulto vorrà rivolgergli, merita di vedersi togliere il saluto, merita la gogna pubblica, se così vorrà lei (ma Bruno è qui, quasi in salvo, e il resto saprebbe affrontarlo).

Di solito, le parole non gli vengono mai facilmente e rimangono rinchiuse troppo in profondità per trovare una via di fuga. Stavolta, escono nel modo più sbagliato, caotiche:

«Lo stesso vale per te. Non mi devi nulla, e io non ti chiederei mai più di quanto ti ho già chiesto. Hai già fatto abbastanza e ti ringrazio, sarò sempre in debito con te, ma ora...»

«Se vuoi restare con lui, fallo,» lo interrompe lei, come se non lo avesse nemmeno sentito.

E, esattamente come pochi giorni fa, Ricciardi non comprende subito il significato di quelle parole, ma sente un sobbalzo nel petto ancor prima che ciò accada (sollievo, confusione, un
’accozzaglia che gli fa girare la testa di vertigini). Cerca sul volto di Livia una qualsiasi traccia di risentimento, di disprezzo, ma di nuovo non gli riesce di leggerla fino in fondo; ne tocca solo la superficie, ed è quieta come quella di uno stagno immobile. Gli occhi calmi, ma venati di tristezza, la testa inclinata in modo inquisitorio.

«Vuoi restare o no?» lo incalza, più tagliente, esigendo una risposta e non uno dei suoi silenzi che mette a scudo tra sé e il mondo.

Potrebbe mentire e precludersi per sempre la fiducia di Livia, salvaguardando forse in parte la propria immagine di uomo imperturbabile e non legato a nessuno, tantomeno a un altro uomo. Potrebbe mentire e mentire anche a se stesso, dirsi che il suo dovere l’ha fatto e che ora tutto tornerà come prima. Potrebbe mentire, ma si è già mentito fin troppo a lungo davanti a una finestra affacciata sul nulla.

Si costringe a sciogliere le mani da dietro la schiena, con un fiotto di calore che gli infiamma la sinistra quando il sangue torna a irrorarla. Abbassa lo sguardo brevemente e, sì, sul dorso, sui palmi ci sono ancora le chiazze scure e ormai rapprese del sangue di Bruno. Le vede sfocate, oltre la cortina liquida che gli ha appannato gli occhi e che, stavolta, è troppo lento ad arginare; ma non importa, non più, perché non ha più senso mentire:

«Sì,» mormora soltanto, ma con quel monosillabo gli sembra di essersi liberato di un fardello titanico e di potere finalmente respirare aria pulita e non catrame.

Incontra fugacemente gli occhi di Livia, seri e fermi, che seguono solo per un istante i due solchi bagnati lungo le sue guance, prima di tornare discretamente nei suoi. L’ombra di un sorriso mesto le inclina le labbra.

«È quasi un sollievo saperlo, in fondo,» gli dice a mezza voce, senza dire nulla e dicendo comunque tutto. «Sapere che almeno non dipende da me.»

Ricciardi scuote deciso la testa a rafforzare quell’affermazione, incapace di dire altro. No, che non dipende da lei. Livia, in tutta risposta, gli sfiora la guancia umida con la punta delle dita, in una carezza che sa già di rimpianto (e sa continuerà ad amarlo, non può fare niente per impedirglielo).

Lui non si sottrae, perché almeno quel piccolo atto di vicinanza glielo deve, e il fatto che qualcuno lo tocchi a quel modo così gentile invece di schiaffeggiarlo o scostarlo in preda al ribrezzo è molto più di quanto avrebbe mai osato chiedere a chiunque (più di quanto oserebbe chiedere anche a Bruno).
«Mi dispiace, Livia,» riesce solo a dirle, per una volta quasi con le parole giuste, anche se è solo una minima parte di tutto ciò che vorrebbe esprimere.

Se non fosse successo tutto questo (se non avesse guardato inavvertitamente il sole, scoprendolo), è certo che Livia sarebbe stata l’unica donna a cui avrebbe permesso di stare così vicino a lui, ai suoi fantasmi, alla sua solitudine (spera ancora, egoisticamente, che possa essere così, pur in modo diverso da quanto desidererebbe lei).

«Anche a me,» soffia via lei, soffermandosi per un battito di cuore sulle sue labbra.

Ricciardi trattiene il fiato, con un vuoto al petto quando lei si tende verso di lui, ma è pronto. Pronto a donarle, a dispetto di tutto, quell’unico gesto che non è nemmeno così pretenzioso esigere da lui; magari solo un ricordo di ciò che non potrà mai essere tra loro. Ma Livia si limita a posare le labbra sull’altra guancia, in un bacio breve e morbido, che sa di addio, prima di recuperare distanza e spingerlo con delicatezza via da sé.

Le scintillano gli occhi, un mare nero di stelle, e sa che non è solo il riflesso della luce nella penombra.

«Ora va’ da lui.»
 
 
Il respiro laborioso di Bruno è l’unico suono che rompe il silenzio notturno.

Ogni pochi secondi si leva come uno schiocco di frusta, come se dovesse scagliar via l’aria dai polmoni a forza. È sicuro che Bruno saprebbe spiegargli, a livello medico e anatomico, perché due costole fracassate e un polmone quasi collassato causino quel rumore asfittico e assordante.

Lui, però, sa solo che ogni respiro gli sembra l’ultimo, che gli lacera i timpani, ma che il silenzio assoluto sarebbe ancor più straziante. E, dopo il silenzio, il resto. Sa che accadrebbe; quella di Bruno non sarebbe una dipartita pacifica o lieve.

Non l’ha mai visto accadere di fronte ai suoi occhi. Non vuole vederlo accadere adesso, non con lui, non con Bruno. Non si è mai abituato del tutto agli occhi spenti che lo fissano per strada e sa che non si abituerebbe mai a quelli caldi e ridenti di Bruno privati della loro luce, piantati in eterno su un viso tumefatto e contorto dal dolore. Non si abituerebbe a sentirlo ripetere all’infinito qualcosa, la stessa cosa (chissà cosa). Non ha mai capito con esattezza come funzionano le vie tra vita e morte, cosa rimanga impresso di più nell’anima di chi scivola via; se l’amore per chi lasciano indietro o l’odio per chi li ha privati della luce.

Forse, sarebbe una battuta sagace rivolta ai suoi aguzzini, di quelle che scocca con le labbra arricciate attorno a un sigaro, perché sa che lo fanno sorridere o alzare gli occhi al cielo, soprattutto quando sono inopportune. Lo sa, Bruno riderebbe pure in faccia alla morte; non come lui, che a riderle in faccia non ci trova gusto, perché la vede ogni giorno e sa che prima o poi avrà il suo volto.

Oppure, e questo lo agghiaccia, non sarebbe una battuta, l’ultimo refolo di vita di Bruno a rimanere ancorato al mondo mortale. Sarebbe il suo nome, così come l’ha esalato al porto (un misto di sollievo e gioia e spavalderia che ha subito afferrato e rinchiuso nel cuore). Non può immaginarlo distorto negli echi lugubri che gli rintronano le orecchie ogni notte.

Ciononostante, sa che, se l’innominabile dovesse accadere e Bruno dovesse rimanere legato a questo mondo, lui tornerebbe comunque qui a fissarne la sagoma evanescente, perché sarebbe peggio non vederlo mai più. Alla morte ci si abitua. All’assenza, mai.

Stringe delicatamente la mano di Bruno. Solo pochi minuti fa ha trovato il coraggio di prenderla, dopo che Livia è uscita e dopo essersi ripulito i palmi e disfatto di soprabito e giacca, dai segni insanguinati di quella notte e dalla cravatta ormai soffocante come un nodo scorsoio. Sulla camicia, almeno, c’è solo una macchiolina rossa sul colletto, che non può vedere se non allo specchio; e sul panciotto scuro, se c’è altro, non è visibile.

Segue il profilo delle sue nocche con la punta del pollice, sentendolo escoriate e calde al tatto (si è difeso? Ha reagito? Da Bruno se lo aspetterebbe). Racchiude la mano sua tra le proprie, lisce e troppo pallide in confronto (Bruno gli diceva sempre che doveva prendere un po’ più di sole). Ne avverte l’elasticità, anche se sono inerti, memorizza i minuscoli calli nei punti in cui impugna le forbici chirurgiche e il bisturi. Sa che, se lui dovesse svegliarsi, non avrebbe idea di come giustificare quel gesto così intimo (ma non lo lascia, si bea di quel sottile calore e della sensazione sconosciuta che gli invia attraverso le vene, l’albore di un sentimento).

A tratti, si arrischia a guardare il suo volto. Vi si sofferma più a lungo di quanto abbia mai fatto, ora che può farlo senza essere visto, ma gli sembra comunque di essere invadente, di stare facendo qualcosa di riprovevole. Soprattutto quando gli occhi si impigliano sulla sua bocca piena, schiusa, semi nascosta dalla barba. È segnata da uno spacco netto, dall’arco di Cupido al labbro inferiore, di un rosso quasi nero che fa male solo a guardarlo (e si scontra col filo impalpabile, rovente, che sembra attrarlo proprio in quel punto, come se così facendo potesse sanare la ferita).

Si costringe a riscuotersi da quel vortice di pensieri. Gli lascia la mano per il tempo necessario a sostituire la pezza bagnata sulla sua fronte, strizzando quella nuova nel bacile che Livia gli ha lasciato sul comodino. Nel farlo, cede alla curiosità soppressa e inappropriata che lo punzecchia da prima, e gli scosta le ciocche inumidite dal volto, anche se non ce ne sarebbe bisogno, prima di ritrarre le dita come se si fosse scottato.

Bruno emette un sospiro quasi muto, nell’avvertire il rinnovato  refrigerio sul capo bollente (per un istante, non spera che si stia svegliando, ma lo teme). Ma le sue palpebre rimangono sigillate, anche quando Ricciardi si siede di nuovo e, esitando molto meno di quanto dovrebbe, gli racchiude di nuovo la mano tra le proprie. È quasi già una sensazione familiare, il modo in cui il psuo palmo si incastra tra i suoi, così come tutte quelle che gli si agitano in corpo e sembrano ballare tra cuore e vene e polmoni, in una danza imprevedibile.

Si chiede quante di quelle siano nuove e quante lo abbiano accompagnato ogni giorno passato in compagnia di Bruno; scintille a cui semplicemente non ha dato peso, fremiti inghiottiti dalla quotidianità, palpiti vivaci che ha attribuito a tutt’altro (che ha proiettato oltre una finestra dalla quale non voleva davvero sporgersi).

Gli basta guardare il volto di Bruno, ora, per sciogliere tutti i nodi apparentemente inestricabili. Sembra così semplice, adesso; tanto da essere terrificante. Lo è. Lo è più di qualunque altra cosa abbia mai provato, se si è mai concesso di provare qualcosa, e allo stesso tempo è la cosa più naturale che abbia mai sentito.

Nemmeno tre giorni fa, ha affermato di fronte a Bruno che non importava cosa ne pensasse lui dei sentimenti, con una stizza (una paura) tale che persino l’altro era ammutolito. Adesso, mentre se li sente pulsare in ogni angolo del corpo, pensa che forse non sono mai stati tanto importanti per lui come adesso (forse–)

Forse, semplicemente, nessuno è mai stato così importante per lui in quel modo, e dovrebbe smetterla di mentirsi e ingannarsi con le sue stesse mani, perché il sole ormai ce l’ha davanti e non può più fingere di non vederlo.
 
 
Inizialmente, è convinto che sia uno scherzo della luce fioca; anzi, della penombra grigiastra in cui è piombata la stanza quando ha spento l’applique, in cerca di un brandello di sonno che metta a tacere l’emicrania.

Così, batte le palpebre, si distoglie dal volto di Bruno e ritorna nella scomodissima posizione in cui si è ripiegato sulla sponda del letto: di fianco, con la schiena adesa a lui da sopra le coperte, le gambe che sporgono fuori e la fronte premuta sulle sue nocche. Sa che, vista da fuori, sembrerebbe la posa di un qualche penitente che si castiga nel chiedere una grazia. Stringe appena il polso di Bruno, trattenendo un respiro stanco (di sonno, d’angoscia, di spossatezza).

Il pensiero di pregare l’ha sfiorato, insistente, più volte, anche se in vita sua non l’ha mai fatto seriamente, anche se non conosce o ricorda alcuna vera preghiera. Pur volendo, ogni volta che prova a tramutare i pensieri in parole, si ritrova in testa solo una litania infantile (ti prego, no, ti prego, ti prego...) rivolta non sa nemmeno lui a chi o cosa; se a Dio, a chissà quale divinità o a Bruno stesso. Che diritto ha di pregare, dopotutto, lui che vede i morti ed è maledetto, condannato a sentirne gli ultimi echi per poi fare loro giustizia in un ciclo infinito?

Solleva ancora il capo e lo vede di nuovo, quel gioco di riflessi sul volto di Bruno che lo illude abbia schiuso gli occhi, solo che stavolta è accompagnato dal più flebile dei sussurri:

«Ohi, Riccia’?»

Lui manca un battito, che rimbomba a vuoto nel petto, immenso. Si raddrizza di colpo e scocca d’istinto occhiate fulminee attorno a sé, convinto di incrociare occhi spenti e spettrali; ma la stanza è vuota, ingrigita dal primo cenno d’aurora e la voce è quella viva, seppur fioca, di Bruno. Incontra infine le sue iridi castane, offuscate ma coscienti, che fanno capolino oltre le palpebre gonfie e socchiuse.

Bruno, vorrebbe chiamarlo, ma gli muore la voce in gola, si rifugia in fondo alla gabbia toracica e sussulta, rischiando di trasformarsi in un singulto strozzato. Si rende conto di stringere troppo forte la sua mano e ammorbidisce la presa. Sa che in realtà dovrebbe lasciarla, dovrebbe riprendere distanza, ma riesce solo a rimanere immobile (e per un istante Bruno ricambia la stretta, forse solo un riflesso involontario).

Bruno ha un brivido, con le pupille che guizzano frastornate qua e là, cercando un punto di riferimento, prima di appuntarsi sul suo volto (nei suoi occhi, più a fondo di quanto lui permetta di fare agli altri).

«Non credo... di essere in galera o al confino, no?» gli sorride, con un filo di voce. «A meno che non ti sei fatto arrestare pure tu. Ne saresti capa...»

Si interrompe a metà quando Ricciardi, ancora ammutolito, si china su di lui e preme la fronte sul lenzuolo, contro la sua spalla, dove sa che non gli farà male. Respira a fondo, in cerca di calma, e trova l’odore familiare di Bruno (tabacco e colonia e una nota di creolina). Non gli importa di cosa penserà lui (tanto prima o poi si tradirà lo stesso, non può pensare di non essersi dipinto tutto sul volto e negli occhi, ormai).
Lo sente espirare in modo discontinuo, affaticato, e capisce che è una piccola risata che non ha voce per far risuonare appieno.

«T’ho fatto davvero preoccupare così tanto?» chiede appena udibile, lambendogli quasi l’orecchio, e provocandogli inconsapevolmente un fremito.

Nonostante il piccolo sprazzo d’ilarità, Ricciardi riconosce quel raro sottotono più serio, di quando gli sta parlando davvero e non solo per battute e risatine sotto i baffi. Forse è la stanchezza, forse una traccia di senso di colpa perché, come sempre, non gli dà mai retta e finisce nelle peste. Forse è solo la febbre, che sente irradiare da lui in un calore malsano.

Ricciardi non risponde subito, il volto ancora celato in quel modo sconveniente. Non crede di avere il coraggio o l’autocontrollo per rispondere in modo noncurante. Né tantomeno di spiegare l’angoscia che l’ha stritolato fino a quel momento. Né l’irrazionale rimpianto che già lo coglie, nel sapere che ora dovrà lasciarlo, scostarsi da lui e continuare a vivere come ha sempre vissuto, col sole oltre la finestra.

Prima che possa raccogliere la volontà per ritrarsi, Bruno gli preme goffo la mano libera sulla nuca, in una pressione lieve, inattesa, che gli spedisce brividi elettrici lungo la spina dorsale.

«Facciamo che lo prendo per un sì. Che sennò ti senti male a dir qualcosa chiaramente,» lo prende in giro, ancor più piano, con voce più roca.

«Tu, la prossima volta che vuoi farti arrestare dai fascisti, fallo mentre ci sto io nei dintorni,» riesce a ribattere lui, un po’ sconnessamente, sentendo la punta di un sorriso tirargli le labbra contro ogni sua aspettativa (gli era mancato farlo).

«Ma quelli mica sono così fessi... da mettersi contro un commissario di polizia come te,» soffia via lui a corto di fiato, la voce che gli traballa, vinta dallo sfinimento.

«Allora, facciamo che d’ora in poi ci pensi due volte, prima di dare aria alla bocca,» lo rimbrotta. “Fallo per me,” sta per dirgli, per poi cambiare idea appena in tempo: «Fallo per la mia salute, visto che dici di essere medico.»

Bruno soffia via un altro tentativo di risata, smorzato da una smorfia dolorante, ma annuisce.

Tiene ancora la mano premuta sulla sua nuca e contrae appena la punta delle dita tra i suoi capelli, in quello che potrebbe essere uno spasmo involontario, così come una carezza. Per un attimo, Ricciardi teme che sappia anche lui tutto, tutto, e che quell’intimità così estranea si stia per tramutare in beffa; ma Bruno è sempre stato così, sopra le righe e fisico oltre la comune decenza, ed è probabilmente lui a essere ora troppo recettivo.

Quante volte gli ha rifilato uno scappellotto o un buffetto in viso, o una pacca sulla spalla o uno spintone giocoso? Una volta gli ha pure fatto il solletico, dicendo che era per un
’indagine medica; un’altra, lo ha tirato per la cravatta perché non lo stava ascoltando; più di una volta, a fine giornata, gli ha scarmigliato il ricciolo di capelli sulla fronte perché era “troppo da damerino”. Quando beve un bicchiere di troppo, poi, diventa di un’espansività smodata, oltre che un malanno per la sua schiena, visto come gli si aggrappa al collo per camminare dritto (e più ci pensa, a quei frammenti di vita, più scopre di averli impressi nella memoria nitidamente, come fossero eventi imprescindibili). Bruno è fatto così, da sempre. È solo lui che lo vede oltre una lente diversa.

Strizza con forza gli occhi: deve prendere distanza, ridisegnare i confini, prima di dimenticare quali fossero.

Si scosta con decisione da lui ed è un errore, lo capisce troppo tardi. Guarda Bruno in viso, ora, ed è troppo vicino al suo, più di quanto non sia mai stato, tanto da avvertire il suo respiro. A quel movimento, la mano indebolita di Bruno perde la presa e scivola sul suo collo, inerte, bollente contro la sua pelle.

Si ritrova nei suoi occhi caldi, ora leggermente velati e non più del tutto vigili. Coglie sfumature nuove appena visibili nella penombra, striature e pagliuzze ambrate che non aveva mai notato oltre le sue ciglia folte, che si aprono e chiudono al rallentatore, affaticate.

Quanto può rimanere così vicino, senza risultare inopportuno anche a un uomo in preda alla febbre? Il pensiero lo sfiora e poi viene scacciato quando lo sguardo gli scivola lungo la curva del suo naso e si incastra sulle sue labbra, tra il rosso dei lividi e la barba. Sono socchiuse, invitanti in un modo che gli strizza le viscere e gli invia vampate nel petto (non può farlo, non può nemmeno pensarlo).

Bruno batte di nuovo le palpebre, già sul bordo del dormiveglia. Ricciardi sa di immaginare la lieve pressione del suo palmo che lo attira verso di lui, che è semplice gravità, ma vi cede ugualmente, in quel singolo sfarfallio di ciglia che sembra cristallizzato nel buio.

Posa le labbra sulle sue in quello che, più che un bacio, è una carezza effimera (caldo e tabacco e una nota ferrigna e le dita di Bruno che gli arricciano di nuovo le ciocche sulla nuca) e si ritrae altrettanto rapido, boccheggiando come se fosse riemerso da un’apnea, il cuore che cerca di spaccarsi in due a ogni respiro. Bruno ha già gli occhi chiusi, il respiro calmo di chi dorme e nemmeno si è accorto di scivolare nel sonno, una mano ancora abbandonata contro di lui, ora scivolata sul suo petto.

Ricciardi si riscuote a fatica, intorpidito, con le orecchie che prima ronzano e poi prendono a rintoccare a tempo con i battiti galoppanti del suo cuore. Rimane incredulo di fronte alla facilità con cui ha superato quel limite inviolabile, con la stessa facilità con cui si scavalca il confine di un prato e si lasciano impronte profonde tra gli steli. Non riesce nemmeno a convertire in pensieri sensati ciò che ha appena fatto; è un unico fascio di nervi ipersensibili, di torrenti che gli corrono nelle vene e sentimenti leggeri che gli si gonfiano nel petto come dirigibili pronti al decollo e poi a prendere fuoco.

Può sperare che per Bruno sia stato solo un sogno, un’ombra di febbre insensata che verrà dissipata dalla luce che filtra nel buio, qualcosa di cui riderà in futuro per la sua totale assurdità (può pensare anche lui che sia stato un sogno, dopotutto). Però posa di nuovo il capo sulle nocche di Bruno e chiude gli occhi finalmente appesantiti dal sonno, liberi da emicrania.

Oltre i vetri, raggio dopo raggio, sorge un’alba timida e rosea. E va bene così, conclude, sentendo racchiusa tra le costole una pace che forse non ha mai saputo di desiderare.

Dopotutto, gli è sempre bastato guardare il sole dalla finestra.
 
 

Note dell'Autrice:
Mi era mancato scrivere angst? Assolutamente, anche se questo è più che altro hurt/comfort ma vabenelostesso *voce di Lundini*
Sono cosciente che trovare così tanta gente rainbow-friendly negli anni Trenta fosse pure utopia? Ovvio, ma io scrivo questa storia per divertirmi e non per fare un trattato sociologico sul riconoscimento dei diritti LGBTQ+ nel Novecento, e mi limito a una patina di verosimiglianza (tra l'altro "preferirei sapere che non gli piacciono le donne" son parole canoniche di Livia, non mie, e ringrazio per questo i cari sceneggiatori di Boris).
In teoria la storia potrebbe pure finire qui, in quanto la ritengo abbastanza autoconclusiva, seppur con finale aperto... ma posso io esimermi dallo scrivere confronti sul filo del rasoio tra i personaggi? Ecco.
Quindi andrà avanti per uno/due capitoli a seconda di quanto avrò voglia di sguazzare ancora nelle turbe di questi due cape toste, prima di rinsavire e tornare ai miei vecchi lidi (con sei o sette storie incompiute che mi guardano male male).
Grazie a chi continua a leggere questa mia follia, a chi commenta e a chi ha aggiunto la storia alle proprie liste ♥
A presto,

-Light-




 
   
 
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