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Autore: _Lightning_    04/09/2023    2 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
~~~
Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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Napoli, febbraio 1934,
tre mesi dopo


 
          UN VENTO aggressivo scuote i vetri delle finestre, provocando nell’ufficio un tintinnio sottile e uno sbatacchiare di legno negli infissi alquanto preoccupante.
 
«Alla faccia del “rinnovo”,» sbotta Maione, scrutando la finestra traballante come se gli avesse arrecato un’offesa personale. «Hanno speso tre lire solo per i busti e i mamozzi, qui.»
 
Passa a fulminare i ritratti arcigni del Duce e del re che campeggiano sulla parete in mezzo alle finestre, quasi volesse accusarli di aver preso parte in prima linea alla ristrutturazione interna della Questura di Napoli.
 
Ricciardi sbuffa piano dal naso con malcelato divertimento, apponendo una firma stanca e poco leggibile in calce all’ennesimo foglio. Le invettive di fine giornata di Maione fanno parte dell’atmosfera familiare che permea quel luogo, sebbene stravolto dalle ultime velleità ornamentali di Garzo nel tentativo di propiziarsi i favori dei “piani alti”, tra un motto del Partito all’ingresso, busti romani marmorei a ogni angolo e un murale futurista in corridoio.
 
Non vi partecipa, né le zittisce come farebbero molti suoi colleghi. Maione, ormai, sa che con lui certe caute libertà può permettersele. Si limita ad ascoltarlo, pensando che è una distrazione che sa di casa, e che lo aiuta a scordare i recenti pomeriggi vuoti passati a Fortino (che ormai di casa ha solo il nome).
 
Volta il foglio a faccia in giù, passando al successivo. Dopo lo scalpore del caso Rummolo, accesosi a nemmeno un giorno dal suo rientro, sta ancora smaltendo il lavoro arretrato svolto in sua assenza, per lo più grossolanamente, da De Blasio, che non ha mancato di fargli notare come abbia preso in carico anche le sue indagini mentre lui si “svagava” in Cilento. Ricciardi si è dovuto mordere la lingua, per non rispondergli che non s’è svagato affatto, e che quei poveri morti ammazzati avrebbero preferito essere lasciati lì dov’erano, piuttosto che doversi affidare a lui per trovare giustizia.
 
Progetta già di riesumare un paio di casi che non gli tornano. Ad esempio, quello che ha sotto il naso: l’avvocato mancino che si è “suicidato” sparandosi alla tempia destra. Sul referto dell’autopsia, la parola “mancino” è stata sottolineata più volte, segno che chi l’ha scritto sapeva bene che non sarebbe stato lui a leggerlo; l’imbeccata non è stata colta da De Blasio, evidentemente. Non ha bisogno di leggere la firma a piè di pagina per sapere chi l
’ha stilato. Si risistema nervoso sulla sedia, facendola scricchiolare, prima di chiudere di scatto il fascicolo e prendere a compilare la terza richiesta di riapertura di un caso. A Garzo verrà una sincope.
 
Tre colpi ravvicinati risuonano nell’ufficio.
 
Ricciardi solleva lo sguardo dai suoi incartamenti solo per raggelare chiunque sia oltre la soglia. Il sospiro pesante e meno discreto di Maione si leva dall’altra scrivania; incrocia i suoi occhi in mezzo alla stanza e poi li ruota platealmente al cielo. Ricciardi non lo biasima: chiunque bussi in Questura di venerdì alle sette di sera non è certo il benvenuto.
 
Ancor prima che il nuovo arrivato parli o faccia il suo ingresso, Ricciardi sa che è Bruno. Lo capisce dal fatto che nemmeno aspetta il permesso per entrare, come fosse scontato, dal sottile odore di tabacco che si porta appresso, dal modo energico e non molto formale con cui spalanca la porta e dal paio di passi arzilli che sente subito dopo. Stringe con più forza tra le dita la stilografica, tracciando una linea d’inchiostro sbavata. Non si cura di correggerla e non alza la testa dal documento.
 
«Commissario, brigadiere...» esordisce Bruno a mo’ di saluto, molleggiando verso la sua scrivania (non zoppica più così tanto, lo nota anche se non lo sta davvero guardando).
 
«‘Sera, dottore,» ricambia Maione, in tono amabile.
 
È evidentemente sollevato dal non trovarsi di fronte Garzo o qualche altro seccatore (Ricciardi, dal canto suo, avrebbe preferito sorbirsi una delle filippiche patriottiche di Garzo).
 
«Ciao, Bru’,» risponde distratto, pure se in realtà tutta la sua attenzione è ormai focalizzata sul dottore, accostatosi alla sua scrivania.
 
Lui non alza la testa dal foglio. Ultimamente, non lo guarda più negli occhi, se non per i pochi istanti necessari a non sembrare sgarbato (non che ci sia stato molto tempo per vedersi, ultimamente).
 
«Vi fanno fare le ore piccole per noi?» chiede Maione, mollando di buon grado la penna sullo scrittoio.
 
«Lui mi fa fare le ore piccole per voi,» lo corregge Bruno, prima di lasciar cadere di malagrazia un fascicolo sulla scrivania di Ricciardi, invadendo il suo spazio di lavoro; lui è costretto a scansare l'angolo della cartella per continuare a scrivere. «Dovrebbe vergognarsi, il signor commissario... stacco dopo una giornata infernale e mi tocca pure passare dall’obitorio per i comodi suoi.»
 
«Non ho controllo su chi decide di accoltellarsi a Napoli il venerdì sera,» sbotta Ricciardi, rimediandosi un’occhiata interrogativa da Maione e una affilata da Bruno.
 
Sposta infine lo sguardo sul referto post-mortem, compilato nella grafia svolazzante e angolare che riconoscerebbe ovunque, e trattiene un sospiro dietro i denti. Scocca a Bruno un’occhiata fugace, il tempo di cogliere la sua espressione un po’ adombrata.
 
«Grazie, potevi portarmelo pure domattina,» corregge il tiro.
 
Bruno scrolla le spalle, ed è chiaro che non se l’è presa. Lo intravede tastarsi il taschino della giacca, dove tiene il sigaro, per poi lasciar ricadere di colpo la mano (come se si fosse ricordato che a lui infastidisce quando fuma al chiuso).
 
«Ah, dovevo comunque passare di qua,» dice poi, in modo abbastanza criptico da fargli alzare la testa in modo istintivo e guardarlo, dimentico di quel veto silenzioso che si è imposto. «Emicrania?» domanda a tradimento non appena incontra i suoi occhi, svelto come una stoccata di fioretto.
 
«Sì, da stamattina,» mente Ricciardi, altrettanto prontamente, senza nemmeno doversi sforzare troppo per mettere su una smorfia convincente (l’emicrania gli verrà lo stesso, tanto, è la sua unica compagna di vita stabile). «Scusa, perché dovevi passare di qui? Questo era l’unico caso in sospeso e la questione di Rummolo è chiusa. Non mi pare avessi altri incarichi per noi.»
 
«Corretto,» sorride Bruno, con un gesto spigliato del capo (un ricciolo castano gli ricade sul volto e rimane lì a ondeggiare, catturando il suo sguardo). «Infatti, ne ho io uno per te. Si chiama “trattoria” e la rimandiamo da mesi. Cioè, tu la rimandi; fosse per me, mi ci sarei fiondato appena alzato dal letto, ma bere da soli è assai triste.»
 
È difficile coglierlo alla sprovvista, ma Bruno ci riesce sempre con una disinvoltura incomprensibile, tanto che Ricciardi continua a fissarlo in volto, quasi stralunato (e Bruno sostiene il suo sguardo, sembra quasi sfidarlo ad abbassarlo con quel suo fare impertinente).
 
«Non dovresti andarci piano con l’alcol?» ribatte debolmente, adocchiando il suo addome, a significare il suo fegato forse non ancora rimarginato.
 
Bruno si poggia coi palmi al lato più stretto della scrivania e alza entrambe le sopracciglia, ironico.
 
«Disse il commissario al medico.»
 
«Bru
’, sono serio, non...»
 
«Pure io sono serio, Riccia’,» lo tronca Bruno, per la prima volta con tono più tagliente, per poi girare il capo: «Brigadiere, vi unite a noi? Siete invitato, pure se vi ostinate a indossare l’arma del delitto,» e addita il panciotto verdognolo di Maione, «tanto offre il barone, qua.»
 
Maione sorride a mo’ di scusa, non prima di essersi guardato il panciotto, dono del cognato, con un’espressione a mezza via tra il disgusto e la costernazione.
 
«Vi ringrazio, dottore, ma se non torno per cena, con questo tempaccio, mia moglie mi fa una capa tanta,» aggiunge, strabuzzando gli occhi con fare esplicativo.
 
«Ecco, allora è meglio se stacchi ora, Maio’,» si sente dire Ricciardi, e sa di stare agendo d’istinto quando dovrebbe rimanere lucido (quando non dovrebbe rimanere da solo con Bruno). «Sennò va a finire che Lucia non mi invita più ai pranzi della domenica.»
 
Maione, già in piedi e intento a rassettarsi la divisa, gli rivolge un’occhiata acuta:
 
«Se smette di invitarvi, è solo perché non venite mai, commissa’.»
 
«È sempre come se avessi accettato,» replica lui, con un sorriso rigido e forse un po’ colpevole.
 
Lo sguardo che gli rivolge Maione ha un che di paterno, che travalica per un attimo i confini gerarchici. Ricciardi lo accompagna con gli occhi fuori dall’ufficio, con un cenno di saluto sulla soglia ricambiato con un blando attenti sulla tesa del berretto.
 
Quando la porta si richiude, esita un paio di istanti prima di voltarsi verso Bruno, ancora puntellato sul bordo della sua scrivania; non sa se lo stia facendo solo per dargli fastidio o per non pesare sulla caviglia ancora fragile, in realtà. Fissa la porta e sembra distratto, come se stesse pensando a qualcosa (e Ricciardi ne approfitta e ruba uno sguardo di troppo al suo profilo, alla minuscola linea più scura che si scorge ancora sulle sue labbra là dove erano spaccate).
 
«Ce l’hai davvero, l’emicrania?» chiede Bruno a bruciapelo, mentre riporta lo sguardo su di lui e lo coglie in fallo.
 
Ricciardi sospira sottovoce e fugge i suoi occhi, sfregandosi le tempie e ravviandosi poi i capelli.
 
«No,» non gli riesce di mentire. «È solo una giornata pesante,» aggiunge, sperando con poca convinzione che colga l’antifona (non è poi così difficile, e ha motivi più che validi e noti per essere d
’umore tetro, dopotutto, col lutto di Rosa ancora dietro l'angolo).
 
«Ragione di più per starsene al caldo in trattoria, con del buon cibo e un bel bicchiere di vino,» gli sorride sghembo lui, senza mai schivare il suo sguardo, anzi, cercandolo attivamente e strizzandogli poi l'occhio. «E poi chiudiamo in bellezza con un cordiale al Gambrinus.»
 
«Bruno, veramente, apprezzo il pensiero, ma non ho proprio voglia. Non è serata,» scuote la testa, cercando di fissarlo pure lui negli occhi e di non farsi distrarre dalle sue labbra o dalle sue mani che gesticolano, vivaci come sempre.
 
Vede la delusione allargarsi nelle sue iridi scure, assieme a qualcos’altro, forse preoccupazione. Si scosta un poco dalla scrivania, rimanendo lì impalato, un po’ ciondolante.
 
«Tu, piuttosto, dovresti stare in piedi senza grucce?» gli chiede Ricciardi, prima di potersi frenare (non dovrebbe sfiorare il ricordo del suo arresto nemmeno lontanamente, eppure si ritrova a ricercarlo, quasi).
 
«No, ma non ne potevo più di starmene seduto in panciolle,» replica lui, senza riserbo. «Almeno, ho ripreso a operare. I morti, per ora. Per tornare a operare i vivi, beh...» apre e chiude la mano sinistra, mostrandogli come indice e medio non si pieghino ancora perfettamente, scossi da un lieve tremore, «Per quello ci vorrà un po’ più di tempo. Guarirà, perché lo dico io e so sempre quel che dico, ma nel frattempo è una bella seccatura.»
 
Posa il pugno semichiuso sulla scrivania e Ricciardi ha l’insano istinto di posarvi sopra la mano; lo reprime, stringendosi i palmi sotto allo scrittoio. Sa che sono state settimane dure, per Bruno. Tornare a lavorare in ospedale dopo appena un mese di convalescenza l
’ha stremato più di quanto ammetterebbe mai a chiunque, sebbene fosse costretto a star seduto nel suo ufficio o al massimo in corsia, relegato a compiere visite e stilare diagnosi e prescrizioni, ben lontano dal reparto emergenze o dalla sala operatoria.

Almeno, così immagina ragionevolmente. Non è che lo abbia visto molto, in quel periodo; ciò che sa l’ha appreso soprattutto da Maione, che ha spedito da lui con scuse più o meno plausibili per sincerarsi di come stesse. Lui, di persona, è passato dall’ospedale giusto un paio di volte come tappa obbligata per seguire dei casi e non ha mai cercato volontariamente Bruno (piuttosto, è stato Bruno a cercare lui, non appena saputo che era nei paraggi, riuscendo a intercettarlo solo per pochi, frettolosi istanti).

Sa che il suo comportamento nei suoi confronti è stato tutt’altro che corretto, soprattutto considerando gli ultimi eventi. Anche adesso, n
on sa cosa dire; sente di essersi cacciato in un vicolo cieco (è un po’ come avere il sole in faccia, dopotutto, e non avere idea di dove si debba andare).
 
«Almeno, sei ancora qui,» gli sfugge infine, per poi sigillare le labbra con forza ed evitare i suoi occhi, fattisi attenti sopra un sorriso lieve, forse un po’ sorpreso.
 
Con una smorfia improvvisa, si poggia a sedere sul lato della scrivania, sollevando la caviglia da terra (come se a quel punto non avesse più bisogno di portare avanti la farsa). Ricciardi avverte una pausa sospesa tra loro, elettrica, carica di quella distanza che si è accumulata tra loro in quei tre mesi infiniti, dolorosi. Sa che ora la stanno accorciando di nuovo; che Bruno la sta accorciando di nuovo, ignaro di quanto sia difficile per lui ritrovarselo così vicino (di quanto sia stupidamente felice di poterlo avere lì).
 
Bruno ha solo visto un amico farsi distaccato e freddo in uno dei momenti più difficili della vita di entrambi. Non può biasimarlo per cercare di ricucire quello strappo apparentemente inspiegabile tra loro.
 
«Riccia’, te la posso fare una domanda?»
 
Lui sente il cuore saltare una trentina di battiti; forse gli si ferma del tutto, incastrato tra le costole (gli occhi, invece, si incastrano sul volto di Bruno, insolitamente tirato). Di rado l
ha visto così serio, così composto, così attento a dove mette i piedi nel parlare a qualcuno. Lo terrorizza, lo riporta a quel singolo istante di tre mesi fa in cui è stato lui, a mettere un piede in fallo, a scivolare e cadere (a voler cadere, incurante delle conseguenze, in quel bacio rubato che ancora gli pizzica le labbra).
 
«Certo, me lo chiedi pure?» risponde con simulata leggerezza, troppo in ritardo per essere convincente, e Bruno non si fa attendere, spara senza un istante di tentennamento:
 
«Tu credi che io non abbia fatto tutto il possibile per salvare Rosa?»
 
Ricciardi si ritrova a battere la palpebre, come se una secchiata gelida gli fosse piombata addosso. Guarda Bruno dabbasso e non gli riesce di nascondere lo sconcerto che gli allarga gli occhi, sopprimendo tutto il resto. Non erano le parole terrificanti che si aspettava, ma non riesce a provare sollievo.
 
È in questo dubbio, che ha lasciato Bruno a crogiolarsi per... quanto? Due settimane? Schiude la bocca, senza nemmeno sapere se riuscirà a parlare, ma Bruno lo anticipa:
 
«Sinceramente, ti prego; non mi indorare la pillola. Non sarebbe la prima volta che mi succede ed è normale pensarlo; sapessi quanta ne vedo, di gente che fa così quando gli muore un parente. Io voglio solo sapere se è per questo che ce l’hai con me,» conclude a raffica Bruno, finendo per guardarlo solo sulle ultime parole, sfuggente come non è mai, sconclusionato contro il suo modo di fare di solito così preciso, analitico.
 
Ricciardi scuote appena la testa, più a riprendersi dallo stupore che in una vera e propria risposta.
 
«Io non ce l’ho con te,» riesce a dire, facendo poi leva sui braccioli della sedia per alzarsi e fronteggiarlo allo stesso livello (ed è rischioso, ma adesso non gli importa). «No, che non ce l
’ho con te. Ma sei impazzito? Bruno, come diamine ti viene in mente?» lo incalza quasi indignato, ora in piedi, a poco meno di un braccio di distanza da lui (troppo poca, lo sa) e lo prenderebbe e scrollerebbe per il bavero della giacca, se così non rischiasse di avvicinarsi più di quanto possa permettersi.
 
«Mi viene in mente perché tu ti impegni a evitarmi con ogni mezzo proprio da quando Rosa non c’è più. Era un dubbio legittimo,» risponde pacato Bruno, rifilandogli uno sguardo deciso che lo trapassa.
 
Nonostante tutto, nonostante la puntura acuta sotto al cuore che prova nel parlare di Rosa, Ricciardi sente un nodo di tensione che si scioglie (è da molto prima, che evita Bruno, ma lui non sembra essersene reso conto).
 
«Volevo solo starmene un po’ per conto mio,» ribatte piano, senza sentirsi meno in difetto per avergli fatto pesare qualcosa di cui non ha colpa. «So che hai fatto tutto il possibile per Rosa. Non ho mai nutrito dubbi al riguardo, grazie a te lei...»
 
Gli si rompe la voce e ammutolisce, girando di lato il capo per nascondere gli occhi lucidi. Non ce la fa ancora, a parlarne.
 
Grazie a Bruno, Rosa se n’è andata in pace, senza lasciare spettri dietro di sé. E se n’è andata da sola, mentre lui era corso a Ischia come un folle, inseguendo Enrica come di solito inseguiva i suoi fantasmi (o credendo di inseguire il sole, quando era ben conscio di avercelo alle spalle).
 
Il palmo di Bruno contro la sua guancia lo fa sobbalzare. È esattamente come quel giorno maledetto all’ospedale, al capezzale di Rosa, quando stava annegando nel dolore e lui l’aveva sfiorato così per confortarlo, riscuoterlo, per donargli un appiglio nel buio (e lui avrebbe voluto baciarlo sul posto, lì e allora, incurante di tutti). Gli fa voltare di nuovo il viso e gli lascia un buffetto impacciato ma gentile, come quella volta, accompagnato da uno dei suoi rari sorrisi sinceri, sottili, sempre semi nascosti dalla barba.
 
«Lo so, che vuoi stare da solo, ma capisco pure che la vita da misantropo alla lunga non ti fa bene. Rischio di ritrovarti a San Martino a farti monaco, se continui così.»
 
Ci riesce, a strappargli un tenue sorriso (anche se forse è più merito di quella breve carezza di cui si bea), a disegnargli sulle labbra una curva impercettibile che brilla di muta riconoscenza. Forse si è sbagliato, a voler chiudere la finestra; forse può bastargli anche solo quel poco, intenso calore che filtra fino a lui, senza doversi per forza spingere fino al sole (sa che non è vero, ma è bello crederci, seppur per pochi attimi).
 
«Passerà, non starti a preoccupare per me,» gli dice, battendo via dagli occhi la tristezza e affondando le mani nelle tasche dei pantaloni. «E poi, lo sai che l’inverno m’incupisce,» aggiunge, in una flebile scusa non del tutto falsa, accennando al vento di burrasca che si abbatte contro i vetri.
 
Bruno lo scruta a fondo, con gli occhi assottigliati e le labbra un po’ storte, in quel suo modo peculiare che oscilla sempre tra il beffardo e il compunto (quello che gli era mancato osservare e da cui ora non gli riesce di distogliere le pupille).
 
Infine, gli pianta un indice a un palmo dal volto, con fare ammonitore.
 
«Ultima offerta per la trattoria, Riccia’, poi giuro che non ti scoccio più,» dice, suonando come un maestro severo che redarguisce uno studente. «Almeno fino a primavera,» si corregge, scivolando in un sorrisetto ammiccante.
 
A Ricciardi viene da ridere, a quella sua persistenza. Rilascia uno sbuffo che vorrebbe essere il principio di una risata, con una leggerezza che non gli si agitava nel petto da mesi (gli è mancato, più di quanto possa ammettere anche a se stesso). Nelle iridi scure di Bruno, che ora gli riesce di guardare con sciocca semplicità, legge che sa già di averla avuta vinta.
 
E lui sa che dovrebbe rifiutare, che a stare con lui così a lungo e così vicino, dopo quello che è accaduto, finirà solo per farsi del male (o peggio, commettere errori insanabili). Ma l’inverno è lungo, e lui non vuole superarlo da solo.
 
«Dai, aspettami all’ingresso. Finisco ‘ste scartoffie e ti raggiungo,» dice, senza riuscire a nascondere, né negli occhi né sul viso, quanto sia genuinamente felice, in un modo così bambinesco che lo sente stonare sul suo volto sempre compassato, disabituato a mostrare gioia in modo troppo evidente.
 
«Sai che Garzo non le leggerà mai, vero? Al massimo se le fa leggere da Ponte.»
 
«Fila, prima che cambi idea,» sbotta lui, rifilandogli una spintarella verso la porta, che Bruno imbocca a piè sospinto, sogghignando con il sigaro già tra i denti, chiaramente vittorioso.
 
Ricciardi non finisce di scrivere un bel niente, perché gli trema troppo la mano e sente il petto oppresso da quella che non sa se sia paura, contentezza o un miscuglio acido delle due, ma che gli toglie comunque il respiro. Non esce o va a cena con Bruno da prima del suo arresto, e già ora, nel suo ufficio, si è sentito come se lui potesse leggergli dentro.

Non sa come riuscirà a guardarlo in volto per tutta la sera senza ricordare quella notte. La vede ogni volta che vede lui, vivida, e teme che Bruno possa scovarne il ricordo nei suoi occhi, con la stessa facilità con cui si trova il sole nel cielo anche quando è velato.
 
 

Note dell'Autrice:
Come al solito, dico bugie e la storia non è finita, ops.
Vorrei dire che il prossimo capitolo sarà l'ultimo, ma non faccio promesse, perché chissà che si inventano questi due imbecilli... però le strofe adatte della canzone stanno finendo, quindi al massimo posso partorirne altri due :')
Questo capitolo, in effetti, è un po' di raccordo (oltre che totalmente sconclusionato a livello cronologico, visto che Rosa muore d'estate nel 1933, ma shhh) e mi serviva uno stacco temporale per inserire almeno un po' di canon, tipo la sortita di Ricciardi a Ischia e tutta la situazione che ne consegue. Sulla superata convalescenza/ripresa di Bruno ci tornerò, non temete.
Grazie a chi legge e commenta la storia, mi fate felicissima ♥
A prestissimo,

-Light-

 
   
 
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