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Autore: _Lightning_    08/09/2023    2 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
~~~
Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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Napoli, Caffè Gambrinus

 

          «NO, Ricciardi, non esiste che non bevi manco un goccio,» sbotta indignato Bruno, facendogli capire dal nome pronunciato per intero che, sì, è serissimo su quella faccenda.

«Guarda che sto bevendo, ed è più di un goccio,» gli fa notare lui, alzando a schermirsi il bicchierino mezzo pieno.

«Devi bere pure per me,» lo zittisce lui con un ghigno da delinquente che mal si addice alla figura di un medico, così come il consiglio di darci giù con l’alcol.

Ricciardi non cede e tiene il bicchiere fuori dalla portata di Bruno, che si sporge e cerca di rabboccarlo facendo oscillare la bottiglia di cognac; anzi, di arzante, come ci tiene a specificare l’etichetta sotto al sigillo metallico con due fasci littori stampigliati, quello che Bruno ha divelto con un entusiasmo e una forza decisamente eccessivi poco fa.

«Oh, se non stai fermo finisce che lo verso al pavimento invece che a te,» sbotta dopo un paio di tentativi, ed effettivamente un paio di gocce di liquore vanno a macchiare la tovaglia.

«Che t’importa? Tanto pago io,» lo rimbecca Ricciardi, senza trattenere un sorrisetto a quelle manovre esagerate.

«M’importa, sarebbe un peccato capitale,» non gliela dà vinta lui, altrettanto divertito.

Con un’agilità inaspettata, allunga la mano libera e gli acchiappa al volo il polso, tirandolo a sé e inchiodandolo al tavolo, riuscendo finalmente a riempirgli il piccolo calice fino all’orlo. E ci riesce soprattutto perché Ricciardi, in quella frazione di secondo, è troppo sorpreso da quel contatto per opporsi (la stretta di Bruno è calda sulla sua pelle, là dove gli si è scostato il polsino della camicia).

«Ecco, tutta salute, garantisco io,» conclude trionfante il dottore, lasciandolo andare come se nulla fosse successo (e non è successo nulla di diverso dal solito, considerando le loro uscite tipiche).

Afferra poi il proprio bicchiere, pieno solo per un quarto, e lo solleva verso di lui. Ricciardi è svelto a recuperare compostezza, sperando invero di non averla mai persa, e fa tintinnare i vetri in mezzo a loro con un istante di ritardo.

«Al tuo pronto recupero,» augura di getto, senza arrischiarsi in qualcosa di troppo personale.

Prevedibilmente, Bruno lo scruta inclinando il capo, un angolo della bocca, quello segnato dalla cicatrice, leggermente incurvato verso l’alto con fare sardonico.

«Seriamente, Riccia’?» ridacchia, a voce abbastanza alta. «Che c’è, sei a un rinfresco con Garzo e la sua schiera di soldatini con un fascio ficcato su per il...»

«Bruno!» sibila Ricciardi, sentendo ogni traccia di colore defluire dal volto.

Scocca un’occhiata allarmata attorno a sé, ma il vocio al Gambrinus è come sempre troppo vivace per cogliere le conversazioni ai tavoli vicini e loro hanno scelto un posto abbastanza appartato, all’angolo. C’è un gruppetto di camerata in fondo al locale, stravaccati sulle sedie e coi fez in testa anche al chiuso, ma sono troppo distratti o troppo alticci per far caso a invettive contro di loro.

Riporta lo sguardo su Bruno, stringendo il bicchiere con le dita sbiancate.

«Non t’è bastato?» gli sfugge, più aspro di quanto intendesse.

Bruno sbuffa sottovoce, e fino a tre mesi prima avrebbe ignorato la sua apprensione e avrebbe continuato a farsi beffe di chi non gli andava genio. Ora, invece, non perde il sorriso, sempre lievemente di scherno, ma si astiene dal continuare (Ricciardi coglie il modo fuggevole in cui si sfrega lo zigomo con una nocca, nel punto in cui era stampata la punta di uno stivale).

«Vabbè, sto buono, altrimenti finisce che devi venirmi a ripescare in qualche altro porto,» sospira, cacciandosi in bocca il sigaro.

«Non dirlo manco per scherzo,» ribatte lui, a malapena scandendo le singole parole oltre la mascella contratta.

Beve un sorso troppo generoso di cognac che gli brucia la gola e strizza gli occhi di riflesso, affatto abituato all’alcol. A quel punto, nel fissare il suo volto che sa essersi fatto ombroso, la giovialità di Bruno si affievolisce appena, come se si fosse reso conto di aver calcato la mano su una piaga troppo fresca.

«Dai, invece di fare sempre il tedioso, non possiamo brindare alla vita, all’amore, alle donne e alle solite cose?» riprende subito, sfregando un cerino e accendendosi il sigaro con uno svolazzo di fumo.

Nel farlo, si reclina sullo schienale, stiracchiandosi e stendendo le gambe sotto al tavolo e urta inavvertitamente la caviglia contro la sua, premendovi contro. Bruno, intento ad aspirare le prime boccate, nemmeno ci fa caso, forse credendo distratto che sia la gamba del tavolo, mentre Ricciardi si pietrifica.

Quel minuscolo punto di pressione sul piede diventa tutto ciò di cui è cosciente, come se il suo intero sistema nervoso si fosse concentrato in quei pochi centimetri. Ritrarsi di scatto darebbe nell’occhio; ma forse non farlo sarebbe più sospetto (sospetto in che modo, poi? Si sente paranoico, con Bruno così vicino).

Per fortuna, Bruno si ricompone alla svelta e piega di nuovo le ginocchia, privandolo del contatto, per poi puntellarsi coi gomiti sul tavolo e fissarlo interrogativo. Ricciardi si rende conto che sta ancora aspettando una sua reazione. Per una volta, è lieto di avere la fama di non essere molto loquace; almeno, ha il tempo di riprendere il filo del discorso e farla passare per una pausa studiata.

Mette su come può un sorriso fermo, anche se sente lo stomaco chiudersi a pugno. Vita, amore e donne... non è proprio il genere di augurio che si farebbe in questo momento (né è certo di volerlo fare a Bruno, vita esclusa).

«Magari al prossimo giro,» dice, già sapendo che quella sera si fermeranno al primo; e infatti Bruno rotea gli occhi al cielo con fare esasperato.

«Finché non brindi a lui, va bene tutto,» mastica tra i denti, sfidandolo a riprenderlo anche su quel suo commento indiretto; Ricciardi strizza le labbra con disappunto, ormai rassegnato.

A quel punto, Bruno prende a gustarsi il suo bicchiere, in modo insolitamente assorto e morigerato, alternando piccoli sorsi a svogliate boccate di fumo, che vanno ad accumularsi nel sottile strato caliginoso che già vela il soffitto.

Ricciardi approfitta di quell’attimo di quiete per prendere un respiro leggermente più profondo, che non lo calma affatto, anzi, gli fa percepire quanto contratti siano i suoi polmoni. Non in modo spiacevole, in verità, ma come se stessero tentando di contenere molta più aria del normale, gonfiandogli la gabbia toracica e facendogli battere il cuore troppo vicino alle costole.

Quella cena è stata molto meno problematica di quanto avesse temuto, anche se il merito è soprattutto di Bruno, che senza nemmeno impegnarsi ha preso le redini della conversazione e l’ha condotta a spron battuto, come d’altronde fa sempre.

Riempiendo i momenti vuoti, facendo straripare quelli già pieni, tirandogli fuori un sorriso e una risata dietro l’altra come un prestigiatore che pesca ogni carta a colpo sicuro, e facendogli eco con altrettanta ilarità ed esuberanza (gli era mancato; gli era mancato lui e tutto questo).

Stasera, gli appare persino più allegro e sopra le righe del solito (splende, Bruno, sembra irradiare luce da ogni poro).

Gli viene in mente solo ora che, con ogni probabilità, quella è la prima uscita sociale a cui prende parte da quando è stato arrestato. Bruno non ha mai avuto una cerchia di amici particolarmente ampia, se non un paio di colleghi con cui è in buoni rapporti e lui stesso.

Ora che è stato bollato come dissidente, e ne ha portato i segni addosso per mesi, può immaginare il vuoto che gli si è creato intorno, unito alle settimane di solitudine passate in convalescenza (di cui è anche lui complice, non manca mai di rammentarselo).

Prende un altro sorso di liquore e lo sente acido contro il palato, privo di qualsivoglia aroma piacevole; gli arriva però quello caldo del Toscano di Bruno, che gli solletica le narici. Ora si è poggiato coi gomiti sul tavolo esalando una piccola boccata di fumo, che non gli riesce di dirottare del tutto verso l’alto, finendo per farsi sfuggire un paio di volute fino al suo viso.

Normalmente, Ricciardi agiterebbe una mano a scacciarla via, redarguendo l’amico per quel suo vizio irritante, ma stavolta si ritrova a tacere e inalarla discretamente, a fondo, sentendola premere sul retro della lingua come qualcosa di tangibile. Si rende conto di stare fissando Bruno negli occhi da non sa più quanti secondi, e avverte una palpitazione scomposta all’altezza dello sterno.

Si affretta a portare di nuovo il calice alle labbra, distogliendo lo sguardo, con l’opprimente sensazione di avere un manifesto delle proprie emozioni dipinto in faccia.

Bruno non sembra farci caso. Tamburella col retro del sigaro sul tavolo, ancora proteso in avanti, nella posa felina che assume di solito quando ha intenzione di porre qualche domanda non necessariamente gradita, ma che lo divertirà parecchio.

«Visto che siamo più o meno in argomento...» esordisce infatti, con un sorrisetto sibillino.

«Quale argomento?» lo anticipa lui, subito sulla difensiva.

«Vita, amore e donne. Non stai attento, Riccia’,» lo rimbrotta lui, e stavolta la boccata di fumo che lo raggiunge in faccia è intenzionale, mirata (e lui si ricorda in ritardo di scacciarla, con un gesto goffo del palmo e un altro sussulto al petto).

«È che non c’è molto da dire su nessuno dei tre,» sorride rapido, tirato; e quella, almeno, non è una reazione diversa da quella che avrebbe di solito quando Bruno tenta di scucirgli qualcosa di personale (anche se, alla fine, ci riesce quasi sempre).

Non sa quale argomento sarebbe peggio affrontare adesso, se la vita, l’amore o le donne, con lui che lo scrutina con occhio clinico a distanza sin troppo ravvicinata.

«E che mi dici di Livia?» rimpalla Bruno, senza perdere un battito, come se non avesse appena sganciato un colpo di mortaio su di lui.

Ricciardi tace e cinge lo stelo del bicchierino con entrambi i palmi tesi, soffermandosi sul liquido ambrato che sembra tremare, a ritmo col centinaio di pensieri gli corrono in testa come una mandria di cavalli impazziti (forse sono le sue dita, a tremare). Non gli piace mentire sfacciatamente, nemmeno se ne va di una questione così vitale, e tenta di sviare la domanda:

«Non so sotto quale dei tre argomenti ricada Livia nella tua testa, ma...»

«Nel caso non l’avessi notato, e può anche darsi, visto come sei fatto, è una donna; se poi vuoi metterci pure l’amore-»

«...ma non c’è molto da dire neanche su di lei,» lo sovrasta Ricciardi, ignorando volutamente la frecciatina che, lo sa, è priva di malizia, ma finisce per intaccare un po’ troppo in profondità in quel nuovo punto sensibile.

«Ohi, Riccia’,» Bruno gli molla una schicchera sul dorso della mano, abbastanza forte da farlo sobbalzare. «Di nome non faccio Battilocchio, quindi non dire fesserie,» continua, quasi offeso, con un cipiglio che va a incidergli la fronte.

«Dovresti sapere che non ne dico,» ribatte lui, altrettanto stizzito, sapendo che dovrà dirne a frotte, di lì a poco (ritrae di scatto la mano, a distanza di sicurezza).

«La prima donna che passa non è disposta a ospitare per giorni il migliore amico del primo uomo che passa dopo che i fascisti gli hanno dato una strigliata,» sciorina senza esitare, come se ci avesse pensato più di qualche volta, a quel fatto, e non dovesse nemmeno pensare a che parole usare. «Cherchez la femme, come sempre,» aggiunge, con impertinenza.

Ricciardi, in quel momento, detesta la sua proverbiale sagacia, la stessa che spesso lo trae d’impiccio durante i suoi casi. È ovvio, che sia arrivato da tempo alla conclusione che, se Livia è stata così ben disposta nei suoi confronti, è per qualcosa di più della semplice riconoscenza o umanità. Il fatto più ironico è che ci ha visto giusto.

«Possiamo cambiare argomento?» tenta, senza troppa convinzione.

«No,» ribatte lui, con solo un filo d’ironia a tendergli il volto altrimenti serio. «Me lo sto chiedendo da quando riesco a mettere due pensieri lucidi di fila. E tu sei convenientemente sparito dalla circolazione, visto che, al solito, piuttosto che ammettere che ti è capitato qualcosa preferisci rinchiuderti in casa a doppia mandata e tanti saluti al mondo e agli amici e a chi ti vuol bene. E non venirmi a dire che non è vero, Riccia’.»

La risposta serrata di Bruno lo colpisce come un pugno ben mirato allo stomaco, spezzandogli il fiato. Serra la mandibola, con Bruno che non gli schioda gli occhi di dosso, con la caparbietà che riserva solo ai pazienti più complessi e a lui. Ricciardi non dovrebbe essere stupito dalla precisione chirurgica con cui l’ha sviscerato in meno di dieci secondi, pur male indentificando l’attore principale della questione: lui stesso, non Livia.

«Ora, puoi rispondermi come un normale essere umano?»

Ricciardi, nel momento in cui inizia a parlare, sa già di essersi avviato lungo una discesa dalla quale non saprà risalire, ma vi si fionda ugualmente:

«Semplicemente, Livia mi doveva un favore. Ha agganci in alto e l’ho scagionata dalle accuse sull’omicidio del marito. Potevo permettermi di chiederglielo e non avevo alternative,» ribatte flemmatico, raddrizzandosi sullo schienale e ostentando la stessa, rigida compostezza di quando è dietro la sua scrivania, di fronte a un testimone o sospettato.

Si sente meschino, a offuscare a quel modo la verità, con l’ultima conversazione con Livia che ancora lo perseguita. Sa che è stata l’ultima, perché, per Livia, è molto meglio che lui sparisca definitivamente dalla sua vita. Non l’ha ringraziata abbastanza, né sarà mai in grado di farlo e ora si ritrova anche a sminuirne il ruolo.

«Ti era riconoscente per avermi salvato la vita,» aggiunge svelto, sapendo di imboccare un’altra strada dissestata; ma non ce la fa, a dipingerlo come un asettico scambio di favori tra loro. «E sa che sei un ottimo medico, le dispiaceva saperti in difficoltà.»

«Lusingato,» sbuffa lui sarcastico. «Mi ha accolto per pura carità e buon cuore, capisco,» chiosa poi, in tono petulante.

«Dovresti solo esserle grato,» quasi ringhia in risposta Ricciardi, con una veemenza che non dovrebbe certo riservare a lui, ma a se stesso, per tutte quelle mezze bugie che mette in piedi.

«Lo sono, non fraintendere,» dice lui, agitando appena una mano tra loro a rassicurarlo. «Mi chiedevo solo se ci fosse qualcosa di più tra voi... alla buon’ora, aggiungerei, visto che vi ronzate intorno da-»

«Con Livia è finita.»

Quella semplice constatazione riesce a far ammutolire di colpo persino Bruno, e a far comparire un’ombra più seria sul suo viso, che va a scurirgli le iridi sempre giocose.

Ricciardi espira tremante dal naso. Bruno ha fatto breccia, esattamente come ogni altra volta, ma stavolta non ne è affatto lieto. Prova quasi un moto di collera verso l’amico, che lo spinge sempre a cedere, ad aprirsi, a mostrarsi molto più fragile di quanto sia (a scoprirsi molto più fragile di quanto pensasse, soprattutto davanti a lui).

«A dir la verità, non è mai nemmeno cominciata,» si ritrova ad aggiungere con amarezza, senza volerlo, gli occhi inchiodati sul cristallo del bicchiere che gli restituisce l’alone del suo volto pallido, distorto, simile a quello di un fantasma. «Ma non dovrebbe stupirti, no? L’hai visto tu stesso.»

Bruno abbassa per una frazione di secondo gli occhi, forse colpevolmente, alla menzione indiretta di quel diverbio avvenuto ormai mesi fa, ma che con tutta evidenza ricorda bene anche lui. Ricciardi spera non lo ricordi così bene perché, più ci ripensa, più si rende conto di essersi esposto fin troppo quella volta, a parlare a vanvera di sentimenti e di quali prova lui e per chi.

«Credevo vi foste chiariti,» dice Bruno, con molta meno sicumera.

«Infatti,» sputa fuori lui, lapidario. «È per questo che è finita.»

Ricciardi parla e avverte un senso di costrizione al collo. Gli lampeggiano sulle retine stralci di quella notte con Livia, indesiderati, eppure quasi nostalgici, ora che li vede così lontani; e, più vividi, quasi accecanti, frammenti di quel bacio che ha rubato a Bruno (quelli tagliano, invece, sono affilati). Si sovrappongono e rimescolano in un caleidoscopio folle che lo fa sentire su una barca in mezzo alla burrasca. Non gli riesce di guardare in faccia l’amico.

È una marea improvvisa, quella che gli monta dentro, che quasi lo soverchia; un mare spumeggiante e vorticoso di quella che riconosce come rabbia. Una rabbia già domata, però, incapace di rompere gli argini. Perché con Livia, anche volendo, non avrebbe mai potuto costruire nulla per via di come è fatto lui; e con Bruno, nonostante lo desideri con ogni stilla della sua anima, non potrebbe mai costruire nulla lo stesso, per il medesimo motivo.

Ciò di cui non lo hanno privato i fantasmi che vede se l’è precluso lui con le proprie mani (perché c’è un’unica finestra, nella sua vita, e un unico sole, e sono entrambi sbagliati e irraggiungibili).

«Come ti dicevo, non ho molto da dire su vita, amore e donne, perché, pure quando ce li ho, non so mai che farmene,» conclude, con un sorriso caustico che brucia solo se stesso, prima di buttar giù il fondo del bicchiere in un sorso. «Possiamo cambiare argomento, ora?»

Il silenzio meditabondo di Bruno lo allarma, così come i suoi occhi inquisitori che lo osservano e sembrano scavare oltre la superficie, granello dopo granello. Ricciardi sa di aver detto più del dovuto, forse anche sull’onda di quel bicchierino di troppo (ma è solo una comoda scusa, perché lui si sente più lucido che mai).

Sa anche di aver rovinato una serata che avevano atteso entrambi da tempo, seppur per motivi diversi, e sa di avere una confusione tale, in testa, da far invidia a una Babele sul punto di collassare (un principio di emicrania gli fa pressione sulle tempie, insistente).

Senza preavviso, Bruno spegne il sigaro nel posacenere e si alza in piedi, senza nemmeno aver finito il suo cognac. Ricciardi sente il cuore che cade a capofitto nello stomaco, in una voragine di panico, nel vederlo andar via. Ha detto troppo, ne è ben cosciente, e Bruno forse ha intuito qualcosa che non avrebbe mai dovuto immaginare (forse ha addirittura ricordato).

Invece, lui gli si fa accanto e gli pianta una mano ferma sulla spalla, scuotendolo leggermente e inviandogli una scarica di formicolii lungo il braccio. Si china appena verso di lui, parlando sottovoce, con fare cospiratore:

«Stasera paghi tu, perché non ti priverei mai di questo onore,» annuncia compito, al che Ricciardi si limita ad annuire con circospezione, preso in contropiede.

Bruno fa pressione sulla sua spalla, inclinandogli il busto, cosicché lui lo guardi del tutto e non di sottecchi. Quando lo fa, è più vicino di quanto pensasse, tanto che quasi trattiene il fiato, ma Bruno sembra non farci caso, disinvolto come lo è sempre. Sul suo viso, trova il riflesso di un sorriso sincero, di quelli quasi invisibili che bisogna saper vedere, e gli occhi che gli scintillano.

«Però a casa tengo una bottiglia di cognac vero; roba francese, non questa schifezza autarchica. Penso che potrà largamente ripagare la cena, e pure tutto il resto. Che dici?» aggiunge, ammiccando furbo.

Ricciardi sa che, per non destare sospetti, dovrebbe alzarsi a sua volta, o perlomeno scostarsi, prima di catalizzare l’attenzione degli altri avventori. Dovrebbe rispondere, ridere, accettare l’offerta (e le scuse) di Bruno e trarsi d’impaccio.

Invece, il mondo si ferma e i suoi occhi si perdono in tutti i dettagli sbagliati (la curva piena delle sue labbra, la lieve gobba del suo naso, i ricci disordinati, il modo in cui quel sorriso gli renda più pronunciato uno zigomo, i riflessi ambrati nelle sue iridi ora illuminate) e, come un folle, vorrebbe sfiorarli tutti in punta di dita come il sole sfiora a lui il viso ogni mattina.

Pensa senza alcuna ragione che, se lo baciasse adesso, come ha fatto quella notte e come vorrebbe fare ancora (e ancora e ancora), non ci sarebbe nulla di sbagliato. Né per lui, né per Bruno. Non in quel preciso momento, in quella bolla che si è venuta a creare e che non sta rompendo, lasciando che si solidifichi attorno a loro.

Sente uno strappo sotto lo sterno; qualcosa di rotto, di bruciante, qualcosa che gli albeggia sul viso e gli straripa dagli occhi, impossibile da nascondere (e Bruno vede tutto, lo fissa troppo intensamente, troppo da vicino, per non vederlo).

È un singolo istante sospeso. Poi un’ombra repentina, indecifrabile, passa sul volto di Bruno, e per un attimo sembra imbarazzato. Recupera distanza con la sua consueta disinvoltura, ritraendo però svelto la mano (e il mondo riprende a girare, come se avesse ritrovato la sua unica orbita, l’unica che ha sempre seguito senza nemmeno saperlo).

«Lo prendo per un sì.»

 


«Beh, siamo a posto?» lo incalza Bruno una volta fuori dal Gambrinus, col vento teso che graffia loro la faccia in lame di gelo, portando con sé il pizzicore salmastro del mare.

C’è un che di apprensivo, nel modo in cui lo chiede, e ormai Ricciardi sa riconoscere il modo goffo ma sincero in cui Bruno si scusa con lui. Accoglie l’aria fredda con liberazione, oppresso dalla calura fumosa del locale, e anche dalla miriade di sentimenti che gli si agitano ovunque tra stomaco e petto.

Non sa spiegarsi con chiarezza cosa sia successo; sa solo che, quando inspira l’aria frizzante della notte, si sente la testa sgombra, più calma di quanto non lo sia stata per mesi. Come se, all’improvviso, avesse imparato a navigare in quel caos che gli ruota attorno senza esserne sopraffatto. Forse perché, invece di dimenarsi a casaccio tra le onde, ha infine capito di dover assecondare la corrente, rimanendo semplicemente a galla.

«Ohi, Riccia’,» lo riscuote Bruno, con un colpetto sul braccio, ora visibilmente allarmato. «Non mi far stare col patema. Siamo a posto, sì?»

Lui si volta verso il dottore, le mani trattenute rigide dietro la schiena, e lo fissa impettito, senza tradire alcuna espressione. Bruno si irrigidisce, sul chi vive, le sopracciglia strettamente aggrottate, come a prepararsi all’impatto di qualcosa di inatteso e sgradevole.

«Penso che dipenda da quel cognac, no?» risponde infine Ricciardi, col tono piatto e inflessibile da commissario che usa coi sospettati sotto interrogatorio.

È Bruno, per una volta, a essere preso alla sprovvista, per poi scoppiare in una risata fragorosa, sollevata, che si unisce alla propria, breve e scoppiettante (il cuore gli bussa contro le costole, leggero, pronto a prendere il volo oltre la propria gabbia).

Gli sfugge senza alcuno sforzo, anche se dovrebbe essere terrorizzato, anche se in quel momento ogni tassello della sua vita è storto o perduto, anche se quel mare in cui galleggia può tramutarsi in burrasca, anche se potrebbe perdere il mondo in un battito di ciglia (e forse è proprio tutto questo, quell’amore che non ha mai capito).

Mentre si incamminano fianco a fianco come ogni altro venerdì sera, tra gli aloni dorati dei lampioni e sotto il manto nero che cala su Napoli (mentre Bruno risplende, brilla di luce propria che fende il buio e scaccia i fantasmi), Ricciardi pensa che, magari, non capirà mai nulla.

Né dell’amore, né della vita, né del resto; ma può almeno provare a starci vicino, a scaldarsi coi loro raggi, finché può, finché amare è semplice come una risata.

 

 

 

Note dell’Autrice:
Non fatevi ingannare dall’atmosfera vagamente fluff e spensierata... però tra poco ci rituffiamo nell’angst :)
Se avete notato comportamenti ambigui da parte di Bruno... nooo, cosa andate mai a pensare? E sì, Ricciardi è confuso, così confuso da colpirsi da solo, ma almeno adesso ci è venuto a patti definitivamente, col suo orientamento. Poi, nella mia testa, gli piaceva pure Livia, solo che non potevo aprire una parentesi d’indagine consapevole sul proprio orientamento sessuale e quindi bon, vedeteci quel che volete nel loro rapporto ;)
Comunque, dovrei smetterla di dare ultimatum sulla fine della storia, ma stavolta ci siamo e il prossimo è l’ultimo capitolo. Ci sarà poi un breve (seh) epilogo per chiudere qualche filo rimasto in sospeso e più per vezzo mio, perché la storia potrebbe considerarsi benissimo conclusa così come sarà. Ora la smetto di parlare al futuro e vedo di scrivere il tutto, però ahahah
Grazie a chi continua a leggere e a commentare e a quella santa di
Miryel che si becca i miei scleri e mi sblocca l’ispirazione ♥ Ricordatevi sempre che è colpa sua se i capitoli hanno questi titoli, non mia! XD
A prestissimo,

-Light-



 

   
 
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