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Autore: _Lightning_    15/09/2023    2 recensioni
Napoli, 1933.
Il dottor Modo, come suo solito, non si cura di nascondere l'astio verso il regime e viene arrestato dai fascisti, in attesa di essere mandato al confino – o peggio.
Il commissario Ricciardi, recluso nella sua solitudine volontaria dacché vede i morti, si rende conto di non poter tollerare di perderlo – né tanto meno di vederlo unirsi alle schiere di spettri che già popolano il suo mondo.
~~~
Ricciardi sa benissimo a cosa dovrebbero essere associate quelle sensazioni, quei sentimenti (ha paura a dare loro un nome) lui che si proibisce di provarli con chiunque e rifugge il mondo dei vivi (perché i morti sono spaventosi, sì, ma semplici e immutati, mentre le persone cambiano e lui non riesce a stare loro appresso).
Sono spaventose, le persone, i sentimenti; quelle stesse cose che legano i morti al mondo dei vivi.

[Angst // Hurt&Comfort // Ricciardi/Modo // Ricciardi&Livia]
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          LA CASA di Bruno è precisamente come lui: calda, disordinata e ribelle.

Ricciardi non c’è stato abbastanza spesso da poter dire di conoscerla bene, ma di certo se la ricorda, e ricorda l’impressione che gli ha lasciato addosso; quella che nella sua, di casa, di rado trova (e, adesso che Rosa non c’è più, probabilmente non troverà in futuro).

È un senso d’accoglienza, di familiarità, che è sorprendente trovare nei pochi metri abitati da un medico scapolo che passa più tempo in ospedale e in Questura che a occupare quegli spazi domestici ristretti, addossati a quelli di altre decine di persone nei caseggiati popolari.

Bruno potrebbe anche permettersela, una casa più grande, più ariosa, al Vomero e non incastonata nelle viuzze dei Quartieri Spagnoli. Però, quando ha soldi da spendere, li scialacqua in buon cibo e buon vino, o al bordello, o per comprarsi qualche chincaglieria d’antiquariato al mercato delle pulci, o per un libro di medicina d’epoca smangiucchiato dalle tarme e senza rilegatura; non certo per costruirsi attorno una reggia che poi nemmeno si gode appieno.

Quei piccoli vezzi che si concede fanno mostra di sé sui ripiani della libreria, che occupa mezza parete del salotto. Ricciardi adocchia più di un libro che, ne è abbastanza sicuro, è probito dalla censura, e un paio di modellini anatomici umani, con organi e tutto, che farebbero fare il segno della croce a Don Pierino.

«Vuoi rimanere imbacuccato come una comare freddolosa pure qua dentro?» lo riscuote Bruno, indicando col mento il suo cappotto invernale mentre appende all’attaccapanni il proprio assieme al cappello. «Dai, fammi fare l’ospite come si deve, sennò il tuo animo nobile si accorge di stare in un tugurio,» aggiunge, facendoglisi incontro per prendergli il cappotto.

«Quando mai mi hai visto attaccato all’etichetta?» alza le sopracciglia lui, lasciando però di buon grado che gli sfili l’indumento dalle spalle (ne approfitta, stavolta consapevolmente, per averlo vicino anche solo per quegli attimi rubati).

«Lo stai dicendo vestito come un damerino e con addosso un completo che da solo vale quanto casa mia,» lo rimbecca Bruno, lisciandogli i il risvolto della giacca anche se non ce n’è bisogno, solo per punzecchiarlo (e l’avrà fatto migliaia di volte con lo stesso intento, ma stavolta gli sembra di avvertire davvero il suo tocco e non di registrarlo come un qualcosa di passivo).

«E dovrebbe essere un vanto?» sbuffa in risposta, optando per togliersi pure la giacca, vista la temperatura più che accettabile lì dentro. «A me pare solo una cosa molto sciocca.»

«Ecco, è proprio per questo che sei qui e non nella mia lista di aristocratici e borghesi maledetti con cui non voglio avere nulla a che fare,» ridacchia Bruno (e Ricciardi si trattiene dal sorridere troppo platealmente a quello che, per com’è fatto l’amico, è un complimento più che esoso). «Accomodatevi, signor barone, che vado a cercare il vostro rinfresco.»

Gli fa un cenno svolazzante della mano, completo di riverenza, verso il piccolo salotto, per poi allontanarsi oltre il corridoio. Ricciardi si concede quel sorriso che gli era rimasto in punta di labbra e si siede su un lato del divano, mentre Bruno traffica con gli sportelli della credenza in cucina con un tramestio di stoviglie.

Lui incrocia le braccia, le gambe accavallate, in attesa. Respira a fondo, col petto leggero e i polmoni liberi. Tutta l’ansia sedimentatasi in quei mesi sembra dissiparsi pian piano, con ogni secondo che passa con Bruno, in quel modo conosciuto.

Per tutto quel tempo, si è angosciato al pensiero che non sarebbe mai stato capace di interagire con l’amico in modo normale, dopo quanto successo (dopo che quei sentimenti rimasti sopiti per chissà quanto sono esplosi). Ma scappare, tenendolo a distanza, è di fatto l’azione più anormale che potesse compiere.

Invece, sta scoprendo, non è cambiato assolutamente nulla. Bruno si comporta come fa sempre, gioviale e coi suoi modi di fare eccentrici e poco conformi alla norma, sempre accompagnati da un pizzico d’ironia.

Quanto a lui, è ancora il solito commissario schivo, dall’umore melanconico e dai modi ora enigmatici, ora troppo diretti, a cui ormai tutti hanno fatto l’abitudine. C’è solo quella nuova sensazione di calore più accentuata nel petto quando sta con lui (che, in tutta onestà, non può considerare spiacevole).

In fin dei conti, pure se dovrà portarsi quel segreto in cuore per tutta la vita; pure se dovrà accontentarsi di quelle poche ore insieme passate come le passano i buoni amici; pure se tutto ciò che gli è concesso è guardarlo, quel sole, non riesce a prenderlo come un qualcosa di terribile (se esclude quegli spasmi che gli muovono troppo il cuore quando lo fissa).

Almeno, ce l’ha accanto e non sta oltre una finestra. È già qualcosa, ed è molto più di quanto avrebbe mai potuto sperare.

Deve solo stare attento a come si muove e a cosa dice, a non rischiare di tradirsi (come poco prima al Gambrinus, quando è certo che, per un istante, Bruno gli abbia letto tutto negli occhi).

In fondo, però, non è più difficile di quanto faccia ogni giorno durante le sue indagini, quando deve necessariamente omettere gli indizi criptici che gli sussurrano gli spettri per non sembrar pazzo. Magari, riflettendoci, pazzo lo è sempre stato e questa è solo l’ennesima conferma; e visto che Bruno è medico e avvezzo a discernere ogni sintomo di malattia, deve andarci particolarmente cauto.

«Trovato!» esclama trionfante l’amico in quel momento, spezzando il filo dei suoi pensieri, per poi emettere subito un sospiro sonoro. «Ah, accidenti.»

«Che c’è?»

«Nulla, è che me la ricordavo più piena, ’sta bottiglia.»

Torna in salotto stringendola per il collo, mostrandogli con una smorfia come all’interno vi sia giusto la quantità per un paio di bicchieri, nemmeno troppo generosi.

«Basterà. Devo tornarci, a casa,» scherza Ricciardi (che in effetti non è lì per l’alcol, ma per Bruno).

«Io no, però,» sogghigna lui, stappando la bottiglia con un suono allegro che riempie il salotto.

«Vacci piano, Modo. Non voglio portarti in collo all’ospedale,» lo ammonisce bonario, sapendo che sono parole al vento (eppure, con un pizzico di serietà genuina, perché i ricordi di Bruno allettato ancora non riesce a farseli uscire del tutto alla testa).

«Ma va’, non vado lungo per un goccetto,» lo rimbrotta, mollandogli uno scappellotto sulla testa con la mano libera (gli strappa un’alzata d’occhi al cielo, ma anche un sobbalzo al contatto delle sue dita con i suoi capelli).

Bruno si lascia cadere seduto di peso accanto a lui, prende due bicchieri rovesciati su un vassoio dal tavolino di fronte e versa lesto ciò che rimane del cognac a entrambi. A Ricciardi non sfugge il modo in cui il suo volto si distende non appena smette di pesare sulle gambe, né il movimento un po’ contratto con cui si piega in avanti, come se non potesse muovere agevolmente il busto. Si chiede quanto davvero si stia sforzando per dimostrare a tutti di star bene, soprattutto a lui.

Bruno intercetta il suo sguardo, ed è chiaro che ne abbia colto l’insistenza. Ricciardi, però, decide di soprassedere: è chiaro che nemmeno lui voglia pensarci.

«Com’era il brindisi che volevi?» chiede invece, alzando il proprio bicchiere.

Bruno non si fa attendere e porta il bicchiere vicino al suo.

«Vita, amore e donne... ma mi sa che anche un po’ di salute non guasta,» aggiunge, come se gli avesse letto la preoccupazione nel pensiero.

«Alla salute, allora.»

Bruno scuote la testa, trattenendo una risata, ma i bicchieri cozzano già tra loro con un suono secco, all’unisono, suggellando quel singolo augurio.

«Sei sempre il solito,» lo rimbrotta Bruno da dietro un sorriso, prima di prendere un sorso di liquore.

«E pure tu.»

Beve anche lui e, deve ammetterlo, quel cognac ha un gusto decisamente più gradevole rispetto a quello servito al Gambrinus, anche per lui che di alcol ne capisce poco o niente. Solleva appena il bicchiere verso Bruno, a sottolineare l’ottima scelta. Lui rimane stranamente zitto, senza decantare i suoi gusti impeccabili come fa di solito.

Sul suo volto continua ad aleggiare quel sorriso, che si allarga addirittura, colmo di un calore sincero che Ricciardi gli vede esternare solo molto raramente; ma c’è qualcos’altro, dietro, un riflesso più spento che stride nei suoi occhi rimasti seri, quasi rattristati.

Fissa il suo bicchiere, o forse le proprie mani, con la testa un poco reclinata cosicché i suoi occhi non sono del tutto visibili, schermati dalle ciglia. E Ricciardi fissa lui, discretamente, seguendo ogni più piccola variazione sul suo volto.

«Ohi, Riccia’?» lo chiama d’un tratto, in quel modo che è solo suo e che gli pare inspiegabilmente dolce nella sua semplicità.

Ora, però, c’è un’energia tale nella sua voce bassa, nelle iridi puntate su di lui, che a Ricciardi il cuore balza in avanti, quasi a volergli andare incontro. Gli fa cenno col capo di continuare, perché non è da lui interrompersi e non dire subito ciò che vuole dire (e una parte di lui teme qualunque cosa essa sia).

Bruno esita ancora qualche istante, prima di proseguire:

«Sono contento di essere qui e che non mi abbiano spedito al confino. Insomma, che tu l’abbia impedito,» aggiunge, con un gesto goffo a mezz’aria della mano a calcare quell’ultima parte.

Ricciardi riesce a mascherare solo in parte la propria sorpresa a quelle parole. Bruno sa essere molto diretto, sì, ma verso gli altri. Non si esprime quasi mai così schiettamente riguardo se stesso. Stringe il bicchiere con entrambi i palmi, giusto per tenerli impegnati, lo sguardo che fugge qua e là senza trovare alcun appiglio.

«Perché, c’era la possibilità che non lo facessi?» replica, dopo un silenzio troppo lungo e tentando di mantenere la linea spiritosa che, di solito, è Bruno a orchestrare.

Stavolta, però, lui non sembra incline a farlo, se non per un tenue brillio beffardo che gli rimane acceso negli occhi.

«Scherzi? Ti conosco,» dice senza esitare, prima di bere un altro sorso, bagnandosi appena le labbra. «Ma non vuol dire che lo dessi per scontato.»

«Avresti dovuto, però,» lo redarguisce lui, nel modo più gentile che gli riesce, ma punto nell’orgoglio da quell’esternazione di dubbio.

«No, credimi,» scuote la testa Bruno, «In quei momenti, non dai per scontato manco il sole che sorge.»

Lo dice ridendo, ma con occhi cupi.

Ricciardi, in quel momento, la vede per un istante, quell’emozione che continua a passare in controluce nelle pupille di Bruno, oscurandole di tanto in tanto: paura. O meglio, il ricordo della paura. Di quelle notti passate tra percosse e vessazioni, dei giorni di febbre e dolore, della lunga convalescenza passata da solo a rimescolarsi tutto in testa. A temere, forse, che possa ricapitare, in un giorno nemmeno troppo lontano.

Ricciardi abbassa lo sguardo colpevolmente (è stato lui, in primis a lasciarlo solo) schermandosi gli occhi e tirando le labbra. Non sa che dire, di fronte a quell’ammissione. Vorrebbe rassicurarlo, dirgli che ormai non c’è più pericolo, ma sarebbe una mezza bugia e teme che, così facendo, si esporrebbe troppo, dando voce a pensieri che sarebbe meglio tenere per sé.

«Bru’, ma tu sei proprio sicuro che non vuoi prenderti un po’ più di tempo?» gli chiede invece, misurando a una a una le parole e sapendo che avranno lo stesso effetto di un fiammifero in una santabarbara. «Un’altra settimana di riposo puoi concedertela, nessuno ti biasimerebbe.»

«Sì, certo, potrei,» annuisce lui, sfregandosi pensoso la barba con un palmo, scevro dell’indignazione che si aspettava. «Ma non ne vedo il motivo.»

Ricciardi sospira in silenzio, guardandolo fissamente e trovando molto più semplice guardarlo in viso rispetto a solo qualche ora fa. Se è vero che vi è tutto un carosello di sentimenti nuovi, a ruotare attorno a Bruno, è anche vero che gli vuole bene da sempre. Non sarebbe la prima volta che tenta di scoraggiarlo da comportamenti deleteri o di dargli consiglio; esattamente come fa Bruno con lui.

«Il motivo è che non sei obbligato ad andartene in giro come se niente fosse dopo quello che hai subito,» dice, reprimendo l’impulso di posargli una mano sul braccio (cosa che, forse, qualche mese fa avrebbe fatto senza nemmeno pensarci). «Non devi dimostrare niente a nessuno.»

Bruno, contrariamente al previsto, sembra meditare su quell’affermazione, quasi la ritenesse sensata. Fa ondeggiare il liquore nel bicchiere, osservandone il moto ondoso in miniatura contenuto nel cristallo come se ci stesse cercando dentro le parole che gli servono.

«È vero. Potrei riposare ancora, farmi una villeggiatura. Magari smetterei di camminare come uno sciancato e di avere fitte ovunque,» confessa, confermando i suoi sospetti. «Però è qui che ti sbagli: pure da sano, non potrei comunque andarmene in giro come se niente fosse,» continua, rialzando il capo di scatto e scostandosi i ricci che gli sono scivolati sul volto.

«Non ti seguo.»

Ricciardi aggrotta le sopracciglia, chinandosi d’istinto in avanti, coi gomiti poggiati sulle ginocchia e il bicchiere che gira lentamente tra le sue dita. Bruno scuote la testa, come se fosse tutto più che ovvio:

«Commissario, sveglia,» lo esorta, con brio fasullo. «Credi che non rischi costantemente di incrociare qualche squadrista a cui non va a genio che io sia ancora a Napoli e non su qualche isola? O, anche, che io sia ancora vivo e vegeto?»

«Bruno...»

«Però non è un buon motivo per non uscire più di casa, no?»

«Non intendevo questo, e lo sai,» dice Ricciardi, ignorando il gelo nelle ossa nel sentirlo parlare così. «Hai controllo su entrambe le cose: puoi riguardarti ed evitare di sfinirti e puoi cominciare a tenere un basso profilo, invece di sbandierare il tuo dissenso ai quattro venti.»

«Lo so, ma non ho intenzione di fare nessuna delle due cose,» taglia corto Bruno, scolando poi il fondo del suo bicchiere con fare provocatorio. «La vita è breve, Riccia’, la gente crepa ogni giorni nei modi più tremendi. Di passarla a pensare a cosa mi fa bene o male non ho proprio voglia.»

Per una volta, Ricciardi non ha di che ribattere. Non perché non possa rispondere per le rime o trovare qualche falla nel suo ragionamento, ma perché sarebbe ipocrita a farlo.

Non da parte di qualcuno che sa perfettamente cosa gli faccia bene o male, ma ha deciso di ignorarlo (e di baciare Bruno, e di tacere, e poi di vivergli accanto in silenzio, fosse pure per il resto dei suoi giorni, allo stesso modo in cui vive fianco a fianco coi morti senza dirlo a nessuno).

Finisce anche lui il suo cognac, di cui ora percepisce a malapena il sapore, offuscato dal baccano dei propri pensieri, solidi e tangibili in un cerchio alla testa che gli stringe le tempie.

«Lo sai che puoi dirlo a me, se ti danno problemi, vero?» sbotta infine, incapace di lasciar morire lì quel discorso, di accettare che a Bruno possa capitare qualcosa e che sia inevitabile.

«A te?» Bruno ride di gusto, una risata al fiele che gli brucia sottopelle. «Apprezzo lo spirito, ma cosa potresti mai fare? Mettere al gabbio tutti gli esaltati in nero che han voglia di menare le mani? Sporgere rimostranze al Duce? Lascia stare, finisce che ti disegni un bersaglio in fronte pure tu.»

«Me ne fotto, Bruno.»

Bruno ha toccato un nervo, ci ha pigiato sopra fino a farlo scattare (perché ci sono poche cose che odia e una di queste è sentirsi inutile, tanto più sentirselo dire).

«Se ti arrestano, ti vengo a ripigliare pure cento volte.» Stavolta non frena la mano che va a stringergli il braccio, salda, forse troppo. «Che ho da perdere, alla fine? La faccia?»

«Quella sì, se te la spaccano,» sorride tra i denti lui (e guarda per un istante la sua mano, ma non si ritrae). «Oppure, che so, la vita. Su quella ci farei un pensiero.»

«E che bella vita avrei, se rimanessi a guardare mentre ti portano via?» Gli si strozza quasi la voce in gola: non gli è uscita come voleva, quella frase, e si corregge in corsa, cercando di edulcorarla, di renderla meno carica di sottintesi: «Morirei di vergogna.»

Gli molla il braccio di colpo, rendendosi conto di averlo stretto con troppa forza, in un gesto affatto discreto o naturale (doma un principio di affanno, sapendo di essersi forse tradito, a dispetto di tutti i buoni propositi).

Bruno non risponde subito, mentre lo scruta con intensità tangibile, gli occhi che pesano nei suoi quasi vi si fosse ancorato in profondità. Ricciardi riesce a sostenerli solo perché si impone con violenza di farlo (anche se bruciano, accendono quella miccia che si porta nel petto da mesi).

«Lo so, che non rimarresti mai a guardare,» ribatte infine Bruno, pacatamente, come se non fosse affatto stupito della sua reazione. «È proprio questo che mi dà pensiero.»

Tra loro si interpone un altro di quegli istanti sospesi, cristallizzati; Ricciardi, d’un tratto, si sente nudo di fronte a lui, con ogni emozione e sentimento appuntati sul petto come fiori all’occhiello troppo appariscenti, a catturare gli sguardi sbagliati.

Gli trema la mano, quando poggia il bicchiere sul tavolino, tanto che il vetro picchietta contro il legno in modo udibile.

«Non ne hai motivo,» sorride poi con sforzo, coi muscoli della bocca che si tendono in quell’atto senza coinvolgere il resto del viso (ha caldo e freddo assieme ed è con la schiena al muro, braccato e troppo, troppo vicino a Bruno su quel divano ristretto).

«Ce l’ho eccome,» lo contraddice lui, inclinando il capo.

Ricciardi sente un fischio all’orecchio, assordante, come quando gli hanno detto che avevano arrestato Bruno e ogni pensiero nella sua testa si era arrestato, lasciandola vuota e inerte.

Quasi non osa respirare. L’aria gli si condensa nei polmoni come piombo fuso, rovente. Non riesce a ordinare alle sue corde vocali di vibrare: si serrano nella sua gola, mute, come se non avessero mai emesso suono in vita sua, mentre le gambe gli si fanno rigide, pesanti.

Il suo corpo sa perfettamente cosa sta cercando di dire Bruno, prima ancora che lo dica, come un animale avverte un pericolo prima di vederlo, ma la sua mente si oscura (diventa pece buia, e sta aspettando quel singolo istante da tre mesi, ormai).

Bruno sospira piano dal naso, continuando a trapassarlo con quello sguardo cristallino e, quando parla, è con un fendente netto:

«Riccia’, ma tu pensi che non me lo ricordo, quello che è successo la notte che mi hanno arrestato?»

Riesce solo a sbarrare gli occhi, con la sensazione di avere la testa in fiamme, pulsante di un dolore sordo; è di nuovo incastrato, riverso in viscere contorte di vetri e lamiere, quando ha avuto l’incidente e per un momento ha messo il piede dall’altra parte (prima che Bruno lo riacciuffasse per i capelli e lo trascinasse di nuovo tra i vivi). È la stessa sensazione di panico che gli morde la spina dorsale adesso.

Fissa Bruno senza nemmeno vederlo davvero (vede solo i suoi occhi scuri, il suo braccio magro allungato sullo schienale, i ricci disordinati che gli incorniciano la fronte).

Non negare e non mostrare smarrimento è già un’ammissione di per sé, ma provare a rifuggire quell’accusa sarebbe ancor peggio; Ricciardi, quando lo sfiora il pensiero di tentare, si rende conto di essere stanco, stanco di dire bugie.

Tutto quello che si è costruito attorno finora gli sembra solo un’illusione, una bella favola che si è raccontato per non guardare in faccia la realtà. E la realtà è che lui non può vivere così, nel limbo che si è creato tra loro, e nemmeno Bruno. La realtà è che lui deve starsene da solo come si è sempre imposto di fare, per un motivo o per un altro: è futile sperare di poter sfuggire alla propria solitudine, impressa nei suoi occhi come un marchio (è come pensare di poter sfuggire alla morte o agli spettri che lo accompagnano).

Prende un respiro corto, più un rantolo che una vera immissione d’ossigeno, le mani che si sfregano il volto e poi la fronte, prima di forzarsi finalmente a parlare:

«A essere sincero, mi chiedevo quanto ci avresti messo per ricordartelo,» si trova a dire, strizzandosi la radice del naso, con voce ferma ma appena udibile (e scopre che, in fondo al cuore, è ciò che ha sempre pensato).

«Non me lo sono dovuto "ricordare", e lo sai pure tu,» ribatte Bruno, stringendo lo schienale con più forza, tanto che la mano sinistra gli trema leggermente.

E Ricciardi scopre, con un senso di vertigine che lo artiglia dal basso, di aver sempre saputo anche quel fatto: che Bruno era sì febbricitante, ma ancora vigile, quando lui l’ha baciato (e averne conferma è come guardare direttamente il sole, in un atto inutile quanto sciocco, solo per confermare che esiste). Di certo, non ha il coraggio di guardarlo ora.

«Non serve che mi rinfacci nulla,» dice infine, schivando i suoi occhi e accorgendosi col respiro mozzo che gli trema la voce, adesso. «Me ne vado, non voglio importi la mia presenza.»

Le sue gambe si tendono, azzannate dall’istinto di fuga, agognando il momento in cui metterà piedi fuori da quella casa (lo stesso che sancirà la sua ultima visita a Bruno e l’ultima volta in cui lo vede e ci parla, probabilmente, e non riesce a scacciare il senso d’oppressione che gli schiaccia il petto).

È già avviato nel suo slancio per alzarsi, quando una forza contraria lo afferra per il gomito e lo fa ricadere di nuovo seduto, con un impeto tale che gli scaglia il fiato fuori dai polmoni e quasi gli fa sbattere la testa contro la cornice di legno.

Bruno lo lascia andare con la medesima bruschezza, scansandolo poi via con una spinta.

Lo sguardo che gli scaglia addosso è temporalesco, seghettato come un fulmine: Ricciardi non l’ha mai visto così irato, così fuori di sé come in quel momento. Prima di parlare, strizza le labbra con chiaro disappunto:

«Non lo so, cosa mi fa più rabbia. Se il fatto che mi hai baciato e poi sei fuggito o il fatto che stai cercando di fuggire pure ora.»

Sentirlo pronunciare quella frase, delineando il suo crimine con tanta chiarezza, gli invia una stilettata tra le costole e un calore ustionante in viso.

«Ti ho detto che me ne vado,» ripete, col cuore che prende a battergli scompostamente sotto la lingua. «Non so cos’altro vuoi che faccia, ma–»

«Voglio che non scappi per una volta in vita tua!» sbotta Bruno, con la voce che si impenna mentre gli pianta l’indice a un soffio dalla faccia. «E pensare che c’eri quasi riuscito, a non farlo.»

«Modo, se vuoi sfottermi, fai pure,» ribatte lui, e stavolta si alza troppo rapidamente per dargli modo di bloccarlo di nuovo. «Non sono venuto qui per discutere di... di quanto accaduto,» svia all’ultimo secondo, con le parole proibite che si sfaldano un attimo prima di scappargli di bocca.

«E perché sei qui, allora?» Anche Bruno è in piedi, adesso, lo fronteggia implacabile come sempre a due passi di distanza. «È questa la parte che non mi è chiara, di tutte le fesserie che hai fatto e detto finora.»

A quello, come a tutto il resto, Ricciardi non ha risposta. Sapeva sin dall’istante in cui ha accettato di uscire come ai vecchi tempi, che stava commettendo un errore irreparabile. Eppure, ha perseverato (e ce l’ha, la risposta: perché la sua vita, senza Bruno, rischia di essere fin troppo grigia e buia).

«Devo veramente spiegartelo?» e nel dirlo, in quel singulto strozzato, sa di essersi sporto dal ciglio della forra, di aver completamente rotto il fragile equilibrio che ha mantenuto per tre mesi.

«No, grazie, ci arrivo da solo,» gli rovescia addosso Bruno, ancora rosso in viso, ancora coi pugni serrati, e sembra trattenere l’impulso di farglisi incontro con veemenza. «Ma pensi che mi serviva un bacio, per capirlo? Pensi che sia cieco e sordo? Che la gente non parli già... pensi che siano tutti ciechi e sordi?»

Ricciardi non trattiene lo spasmo che lo attraversa. Quelle parole continuano a martellargli nei timpani per interi secondi, con l’eventualità di aver involontariamente messo in pericolo Bruno che gli toglie la terra sotto i piedi.

Si stringe con forza le braccia, imponendosi di rimanere piantato lì (di non fuggire, come l’ha accusato di fare non solo Bruno, ma chiunque lo conosca abbastanza o cerchi di stargli vicino), coi pensieri che gli sfarfallano in testa in stormi inquieti e imprevedibili.

«In realtà, qui l’unico cieco e sordo mi sento io,» riesce a spiccicare, con le dita che si serrano nervose sulla stoffa della camicia, imprimendosi sulla pelle. «Non capisco se ce l’hai con me o se mi stai dicendo qualcos’altro. Ma tanto io non capisco manco quello che penso e non l’ho capito finché non t’ho saputo in mano ai fascisti.»

Bruno sospira a fondo, un suono secco ed esasperato, indice e pollice che si stropicciano le palpebre. Poi sembra fare uno sforzo visibile per parlare a un volume accettabile:

«Ti sto dicendo che ti sei comportato da schifo,» esala piattamente, muovendo a malapena la bocca. «Ti sei preso ciò che volevi e poi sei sparito, mi hai mollato da solo, ridotto a uno straccio. Mi hai evitato finché non ti è servito il mio aiuto con Rosa e poi sei sparito di nuovo. L’avevo accettato, Riccia’. Ero arrabbiato, ma lo capivo. Non mi aspettavo una confessione o delle scuse, ma pensavo che rimanessi coerente. Invece, adesso rieccoti qua, come se nulla fosse.»

«Hai insistito tu per vederci, non io,» gli fa notare piano Ricciardi, senza però negare nessun’altra delle accuse che gli ha scagliato contro.

«Come ogni santo venerdì da quando ci conosciamo!» lo rimbecca pronto lui, muovendo un passo verso di lui. «Niente di più, niente di meno. Ma mi rendo conto di esserci sopravvalutati entrambi, visto come stiamo parlando,» conclude infine, con un sorriso amaro e una luce inattesa, più mite, negli occhi.

«Non posso che concordare,» ribatte meccanicamente Ricciardi, cogliendo al volo quello spiraglio che preannuncia la fine (del discorso e di tutto il resto, in realtà). «Motivo per cui sarà meglio tornare al prima. Al... prima di stasera. Non siamo obbligati a parlare o frequentarci, anche se per le indagini congiunte non posso farci niente, ma–»

Il verso che emette Bruno è lo stesso, basso e strascicato, di quando viene a sapere di dover parlare con qualcuno di sgradito; o di quando lui fa qualcosa di molto stupido o molto avventato; è un latrato a mezza via tra una risata sfinita e un sospiro di rassegnazione.

«Madonna benedetta, Luigi, non puoi essere così idiota.»

Lui scatta, sulla difensiva, prima di poterci anche solo pensare:

«Non c’è bisogno di chiamarmi così.»

Bruno copre la distanza che li separa e gli molla uno spintone inatteso sullo sterno, forte abbastanza da fargli quasi perdere l’equilibrio.

«Alfredo, allora! Commissario, Ricciardi, barone di Malomonte, come sfacimma ti pare! Un idiota rimani!»

E dopo quell’esplosione, quell’accozzaglia di parole e gesti e occhi infiammati, Bruno lo afferra di nuovo per entrambe le maniche e lo tira a sé, cingendolo in un abbraccio improvviso, sconvolgente, troppo stretto (strettissimo, spaccaossa, e gli sembra che le loro costole si fondano in un’unica cassa di risonanza, i suoi battiti impazziti e fuori sincrono con quelli accelerati ma fermi di Bruno).

«Perché credi che io sia ancora qui?» dice Bruno, e quando parla sente vibrare le ossa della sua voce. «Perché credi che non ti abbia allontanato, che non abbia fatto finta di niente, che ti stia inseguendo da mesi, o che ti abbia invitato qui, se non per tentare di capire se sono pazzo io o solo un deficiente tu?»

Ricciardi non riesce a rispondere, almeno non a parole (quelle gli si sono sciolte in gola, inafferrabili, così come torrente di sollievo che gli scorre nelle vene).

Non parla, non potrebbe mai, ma risponde lo stesso: fa scivolare le braccia oltre quelle di Bruno, incastrandovisi con facilità, e lo stringe a sé piano (e subito più forte, più forte, si aggrappa alla sua schiena come se potesse tramutarsi in fumo, dissiparsi come rugiada all’alba).

Preme la fronte contro la sua spalla e inspira a fondo (tabacco, acqua di colonia, quella traccia di creolina che gli rimane sempre addosso) fino a farsi girare la testa e lacrimare gli occhi. Non lo sa, cosa sta succedendo. Non sa cosa sta cercando di dirgli Bruno (anche adesso, pensarlo gli sembra follia).

Non gli importa saperlo, dopotutto, così come non gli è importato la notte che ha deciso di afferrare il sole a occhi chiusi, per poi chiuderlo di nuovo oltre la finestra.

La mano ampia di Bruno gli sfrega la schiena, per poi posarsi salda dietro il collo, le dita che si insinuano tra i capelli, arricciandone le punte (e conosce quel gesto, l’ha già provato). Poi ride, una risata tenue e bassa, di gola, che gli riverbera nel corpo dalla testa ai piedi e gli sfiora l’orecchio.

«Te lo chiedo di nuovo, perché mi sa che i tuoi istinti investigativi sono andati a farsi benedire.» Bruno lo scosta da sé e lo guarda negli occhi, vicinissimo, a un respiro da lui, la sua mano che scivola delicata dalla nuca alla guancia. «Perché sono ancora qui, secondo te?»

E Ricciardi la sente di nuovo, quell’aria ferma e incandescente che sembra bloccare il mondo sul suo asse. Gli preme sul petto, in gola, gli ruba il respiro e gli blocca il cuore in una morsa che ne accentua ogni battito.

Guarda Bruno, lo guarda davvero, e la risposta a quella domanda semplicissima è lì, posata sulle sue labbra come un segreto visibile a tutti (da quanto, e come ha fatto a non vederlo mai?)

Quindi, fa l’unica cosa che potrebbe fare in quel momento. È l’unica azione a essere l’errore più grande di tutti, ma anche l’unica giusta, l’unica sensata, l’unica che trova un posto in quel quadrato di cielo e sole che si è ritagliato e vi si incastona senza sforzo. Non potrebbe fare nient’altro, se non quello.

Lo bacia e preme il proprio segreto contro il suo, fondendoli nella risposta più semplice e naturale del mondo. Qualunque altra scelta sarebbe un errore. Sarebbe scappare e rompere la finestra, spegnere il sole e rintanarsi nel buio.

E, questa volta, lui il sole vuole toccarlo a occhi aperti e rimanerne scottato.

 

 

 

Note dell’Autrice:
Oh, ce l’abbiamo fatta! Anzi, ce l’hanno fatta, direi :’)
Scrivere discussioni, litigi e confronti penso sia una delle cose che mi piace più fare, perché è quando i personaggi sembrano prendere realmente vita e voce (e ti scappano dalle mani, vero, Bruno?), quindi spero che il confronto tra queste due cape toste vi sia piaciuto ♥
La storia potrebbe anche finire qui, ma ci sarà ancora un piccolo epilogo che metterà qualche base per il sequel. Sì, avete letto bene. Perché io mi diverto tantissimo a scrivere gialli e polizieschi, e mi è giusto venuta un’ideuzza compatibile col brutto vizio di Ricciardi di vedere i morti. Non me ne voglia Di Giovanni, ma continuerò a sguazzare nella mia pozzetta fandomica finché ne avrò voglia :D Ulteriori dettagli sul sequel nel prossimo capitolo, così non intaso le note.
Grazie a chi ha letto e commentato fin qui, mi fate felicissima ♥ E comunque, non riesco ancora a credere che abbia più seguito questa storia nata quasi per scherzo, senza manco una sezione, che quelle più "serie" su fandom strapopolari, ma oh, non mi lamento XD
A prestissimo col gran finale,

-Light-

   
 
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