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Autore: time_wings    16/09/2023    1 recensioni
[Wolfstar, Jily + una ship non taggata]
Sirius Black sa che ha quattro mesi prima di perdere la vista. James Potter sa che hanno quattro mesi per vedere il mondo insieme. Dopo averci riflettuto per meno di dieci secondi, i due partono per un viaggio dalle destinazioni incerte, che li porterà più lontano di quanto avessero previsto. Perché alla fine è davvero così cruciale trovare se stessi?
Una storia raccontata da alcuni occhi.
Dal testo: “Sei uno che pianifica molto, eh?” La verità era che non lo sapeva, era cresciuto con l’idea che leggere gli altri servisse solo a sfruttarli successivamente. Era nuovo a questo gioco.
“Mh, un sacco.”
“È molto grave, fa male alla salute.” Inclinò il viso su un lato, lo guardò ancora, le palpebre di colpo pesanti rispondevano più al torpore che al sonno. Un altro paradosso di quel paese. Le ciglia di Remus si piegavano sulle guance, la pelle era segnata da qualcosa che sembrava vento. “Dove hai detto che vai?”
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Peter Minus, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Il sole tramontava da qualche parte dietro montagne bordate di verde. Gettava luci ambrate sul cielo terso di novembre, accompagnando il volo di uccelli che in ombra diventavano indistinguibili. La strada stessa curvava dolcemente attorno a un muretto alto poco più di un metro.
James e Remus discutevano con un uomo che sembrava aver contato ogni stagione sulle rughe sul viso. Parlava attraverso una barba che cresceva solo da qualche giorno, con note che rendevano l’inglese una lingua più complessa e simile a una canzone.
Il caldo e l’umidità ristagnavano su avambracci e dita, mettendo in risalto le vene.
James annuì. Avvenne un passaggio di soldi colorati, poi arrivarono le moto, sulle targhe riccioli di lettere misteriose.
“Ha un amico,” gli disse Remus, porgendogli un casco. “Le consegniamo a lui a sud.”
“Ma che fa, si fida?”
Remus inclinò il capo in direzione del garage, dove James si rigirava ancora le chiavi tra le dita. Parlava con il proprietario come se avesse guadagnato il suo rispetto con una partita a carte. “È un grande oratore.”
Sirius rise. “Chi, James? Crede di esserlo, ma dice ‘anche a te’ quando gli fanno gli auguri di compleanno.”
“A volte la sicurezza basta.”
“Remus, dimmi la verità. Siamo entrati in un giro di criminalità thailandese? Me lo puoi dire, anzi è molto eccitante, mi sta bene.”
Lui strinse le labbra per non sorridere. Era diventata una specie di presa di posizione, non ridere quando diceva una stupidaggine. Sirius lo sapeva perché aveva imparato a notare la cicatrice sul labbro inferiore, appena più che una linea di pastello, che sbiancava quando distendeva la bocca.
“Dovevate far parlare me.”
“L’ultima volta che sei stato lasciato senza supervisione hai quasi fatto ribaltare un chiosco.”
“È stato un incidente!”
“È successo lo stesso.” Remus si strinse nelle spalle.
“Sei molto più cattivo con me che con James.”
“Perché lo apprezzo molto.”
Sirius si mise in sella alla moto di Remus, si sporse in avanti, superandolo con un braccio, e girò la chiave. Illuminò un triangolo di luce sulla strada davanti a loro. “Chi disprezza vuol comprare,” gli sussurrò all’orecchio.
“Non ho detto che ti disprezzo,” disse Remus, mostrandogli solo il profilo.
 

Ecco cos’era successo.
Remus aveva un progetto e il progetto, dopo la Finlandia, era cambiare completamente temperatura e fetta di mondo. Ufficialmente era ancora perché aveva rapinato una banca, ma gli indizi raccolti nel tempo puntavano a un diverso tipo di fuga. Sirius stava cercando di non farne un’ossessione e di non pressarlo con le domande, il che comportava almeno tre domande al giorno con inflessione forzatamente disinvolta. Remus non si arrabbiava, ma non gli rispondeva.
L’unica volta che si era lasciato davvero sfuggire qualcosa era stato all’improvviso, mentre bevevano cioccolata calda, in seguito a nessuna domanda affatto. Aveva detto: “Non è vero. Quando dicono che scappare non risolve nulla, perché i problemi li porti via con te… non è vero. Non strettamente, comunque.”
James e Sirius avevano alzato gli occhi dalle loro tazze e lo avevano guardato, ma lui non aveva ricambiato nessuno sguardo, continuava a girare la cioccolata con un cucchiaino e a leccarlo prima di ripetere l’operazione da capo.
“Non è vero mai niente, quando dicono qualcosa come se fosse una regola, no? Ogni estremo implica il suo opposto, che sia per disgusto, paura di riscoprirsi attratti o esclusione. Quindi quando qualcuno dice che non è vero che si può ad esempio essere amici di un ex in realtà vuol dire che non è vero sempre. Ci sono state troppe persone e troppi anni per dire che è impossibile che qualcosa accada, per avere una posizione estrema.”
“Dove hai detto che vuoi andare?” aveva chiesto Sirius. Lo aveva guardato di sottecchi, perché sapevano entrambi cosa era successo l’ultima volta che gli aveva fatto quella domanda.
“Voglio finire in Australia, partendo dalla Thailandia.”
James e Sirius si erano guardati. Con un respiro profondo, James aveva sgranato gli occhi e aveva concluso il tutto con uno sbuffo. “Fino a quando?”
“Più o meno il nuovo anno.”
James e Sirius si erano guardati di nuovo.
“Perché diavolo viaggiate senza neanche preoccuparvi di dove andrete dopo? Avete una data di scadenza?”
Sirius aveva preso un sorso dalla sua cioccolata, con tutta la calma del mondo. Oltre la finestra biancheggiavano le cime degli alberi innevati. “Vacci piano, Lupin.”
James aveva riso. “Facciamo le nostre valutazioni.”
“Sembrate una iena e un avvoltoio,” aveva mormorato Remus, la faccia nella tazza.
“Chi è la iena e chi l’avvoltoio?”
“Non ho ancora deciso.”
Sirius aveva annuito, il sorriso di chi la sapeva lunga. “Mentre ci pensi, ti servono due compagni di viaggio?”
“Davvero volete venire con me?”
 

Il sole tramontò dietro una montagna bordata di verde, i fari squarciavano una cosa più densa del buio che sarebbe arrivato, una melassa di umidità e odori dolci e striati. Sirius mantenne la mano destra sui fianchi di Remus, ma si sbilanciò indietro sul sellino puntando il braccio sinistro. Le ultime lacrime di sole gli bagnarono arancioni il viso a chiazze, dove foglie e fili della corrente glielo consentivano. Erano come gli aloni delle macchie di sugo sulle carte delle pizze. 
Era un caldo diverso da quello che Sirius percepiva a volte quando anni prima la scuola finiva e le strade alberate percorse in moto diventavano più leggere, forse ingentilite da una sonnolenza simile a una concessione. Era un caldo diverso da quello della conquista di un pallone da calciare finché ancora si distingueva nella penombra del tramonto ritardatario. Era una vita diversa, in fondo, quella in cui scappava a casa di James nei pomeriggi senza compiti. Una vita in cui c’erano ancora tutti e nessun litigio era esploso e nessun rimorso si formava sul fondo e nessuno manteneva ancora i segreti.
Era un caldo diverso perché le montagne lo pressavano ai lati, asfissianti come un abbraccio che ancora non aveva capito se gli piaceva. E anche perché aveva almeno dieci anni in più e il vento che gli remava contro portava l’odore di un ragazzo misterioso che sorrideva ferite non del tutto cicatrizzate e che guidava la moto.
Guardò tutto questo e il modo in cui curvava.
“Ci fermiamo oltre le mura,” disse James, nel soffio d’aria in cui passò.
Sirius reclinò la testa indietro e respirò forte. Il cielo era rosa e ogni cosa era feroce. Non ti sembra mai che se guardi troppo a lungo il mondo poi questo ti punga?
Aveva la sensazione che in quell’ultimo tratto di strada – che fosse fino in città o fino in Australia non lo sapeva – qualcosa si sarebbe spezzato. Era fragile tutto, la vista come alcuni equilibri, e a stare lì, dall’altra parte del mondo, c’era il rischio che nulla di ciò che conosceva avesse senso.
 

Oltre una porta di mattoni, dei faretti posti a terra a intervalli regolari fecero da linea d’arrivo.
Come per ogni gara, alla fine c’era una festa.
Le strade erano invase da bancarelle, chioschi, retri di pick-up, semplici tavolini sormontati da ombrelloni e tende. Migliaia di oggetti brulicavano in esposizione, da stampe a palline di patate dolci, passando per sculture piccolissime e granite dai colori sgargianti. Parcheggiarono le moto in una stradina laterale. Nessun lampione la adornava, l’unica fonte di luce era una lanterna bianca all’ingresso di una casa. Per il resto, la sera si stendeva su un cielo che iniziava a scoprire le prime stelle.
“Che succede?” chiese James a una ragazza, quando tornarono tra i capillari più attivi della città quadrata.
“È il mercato della domenica,” gli rispose. Ma era già un’eco, trasportata via dal fiume di persone e voci.
“È il mercato della domenica,” ripeté lui, facendosi strada controcorrente. Sirius e Remus lo seguirono, “per fortuna ce l’ha detto lei, perché non mi sarei mai accorto che questo è un mercato e che oggi è domenica. Oh, cazzo!”
Sirius si voltò di scatto per seguire lo sguardo di James. “Che?”
“Sono scorpioni su uno stecchino!” poi proseguì.
 

“È la situazione a essere romantica, la convenzione sociale è nata da quello.”
James scosse la testa, poi addentò un oggetto che sembrava un taco in miniatura. “No, Remus, è la candela a rendere la tavola romantica, è così che si capisce che tipo di cena è.”
Erano seduti a un tavolo di plastica alto un metro o poco meno. La pittura blu era sbucciata e scolorita al centro, dove nel tempo si erano concentrati con ogni probabilità gli spostamenti maggiori di oggetti. Le sedie, sempre in plastica, venivano forse da qualche scuola elementare lì vicino, ma spaziavano di più con i colori. James aveva tirato fuori dai meandri del suo zaino una candela e l’aveva accesa e messa al centro del tavolo. Questo aveva dato il via a un’accesa discussione sulla natura del romanticismo e delle candele.
“Non lo so, Jamie,” Sirius si prese un attimo per tuffarsi nel suo piatto. Ne uscì vincitore, se si può considerare vittoria passarsi il tovagliolo sulla faccia e scoprire che più che ripulirsi si era spalmato meglio il sughetto. “Se tutti mettono le candele alle cene romantiche, poi la società finisce per associare le candele al romanticismo, ma questo non significa che le candele abbiano qualcosa di intrinsecamente romantico.”
“Esatto!” convenne Remus. Era molto soddisfatto, come se vincere quella discussione fosse stato fondamentale.
“Allora, innanzitutto io ho piazzato questa candela qua e ho deciso che la nostra è adesso una cena romantica. Non me ne frega proprio,” disse James e rimarcò il punto afferrando la sua candela e battendola un paio di volte al centro del tavolo. La fiamma tremolò. “E poi vi sbagliate. Se tutti hanno deciso di accompagnare le cene romantiche con delle candele è perché hanno convenuto che ci fosse una buona ragione.”
“Anche questo ha senso, in verità,” disse Sirius, tra un tuffo e l’altro nella sua cena.
“Ma un tempo non c’era l’elettricità, a quel punto cos’erano, tutte cene romantiche, per te?” Remus scosse la testa. Poi, in un impeto di quello che poteva solo essere il pinnacolo della ribellione, si sporse in avanti e soffiò sulla fiamma.
“Non l’hai fatto!” James si portò una mano al cuore.
“Ora che le candele sono spente possiamo passare alla mia parte preferita delle cene romantiche.” Sirius concluse la sua applicazione di brodo sul mento – una nuova linea di skincare – con un occhiolino in direzione del suo amico. Col gomito, però, diede un colpetto a Remus. Si conoscevano da meno di un mese, ma il fruscio della carta che seguì al segnale lasciava intendere già una certa intesa.
“Chiudi gli occhi, è una sorpresa” suggerì Remus e fu la conferma finale.
“Sul serio?” James divise uno sguardo incerto tra i due.
Sirius si inginocchiò sulla sua sedia alta tre millimetri, per sporgersi meglio in avanti. “Chiudi gli occhi,” ripeté.
Dopo un’ultima esitazione scettica, James chiuse gli occhi. “Ti giuro, se provi a baciarmi…”
“Niente di nuovo,” Sirius scrollò le spalle.
Remus ridacchiò. “L’avete fatto?”
“Eravamo a scuola.”
“Un gioco della bottiglia,” disse James, in supplemento.
“Eravamo anche ubriachi.”
“Com’è stato?” Intanto, Remus lasciò cadere un po’ del contenuto della busta nelle mani di Sirius.
“Disgustoso,” risposero entrambi in coro.
E poi Sirius gli ficcò lo scorpione impalato in bocca.
Dopo qualche momento di soffocamento più o meno premeditato, James aprì gli occhi e afferrò lo stecchino. Masticando, guardò l’insetto decapitato come se stesse cercando di capire da che lato si analizzasse. “Quest’era?”
Sirius scambiò un’occhiata con Remus, che rivelò il sacchetto che conteneva altri insetti fritti più piccoli. “Be’, sì.”
“Ah,” James diede un altro morso. “È croccante.”
Sirius lo guardò.
“Vuoi provare?” prima che potesse rispondere, gli aveva già passato lo stecchino. Poi si appropriò degli altri insetti e, sgranocchiando, si rivolse nuovamente a Remus. “Comunque, resta quello che ho detto. La candela è una cosa romantica.”
“Ti ho letteralmente fatto un esempio di quando non c’era elettricità.”
Sirius osservò il suo scorpione. Il risultato di uno zodiaco fraudolento e decapitato che non poteva guardarlo e che presto avrebbe imitato in questa cecità. Gli diede un morso. Piccolo, per accertarsi forse che non avrebbe preso vita e non avrebbe iniziato a contorcersi e arcuarsi in cerca di una porzione di pelle da pungere. La candela era stata accesa di nuovo, gettava una luce inedita dal basso che colorava i suoi amici un po’ come i faretti alle porte della città vecchia. Erano gli unici illuminati così in quel mare di occupatori di tavolini sbiaditi. 
James indossava una maglietta bianco panna con una grande stampa scolorita al centro. Era tutta accartocciata, forse aveva conosciuto forme incomunicabili mentre cercava di sopravvivere nel suo zaino, dalla spirale all’impossibilità di un nastro di Möbius. Dal basso, mentre parlava, la luce si appoggiava sulle labbra, prologo di ogni parola assurda. Le fossette forse svelavano la battuta. Remus gesticolava per spiegarsi, le vene sulle mani che circondavano le nocche e le mettevano in risalto. Se le faceva cadere in grembo di tanto in tanto, pizzicando il tessuto sottile del pantalone a strisce. Gli brillavano gli occhi perché c’erano mille luci e da dove partisse la prima era una questione che si contendevano scienza e poesia, distraendosi da qualche parte sulla strada che così evidentemente le metteva in connessione. La candela illuminava la cicatrice sul labbro, un solco come un cratere lunare, come un errore, come una violenza. Là, dove un tempo sanguinava, ora abbelliva. Le crepe di Remus Lupin, notava Sirius con crescente stupore, non avevano bisogno dell’oro di alcun kintsugi, erano il lato selvaggio della calma ostentata. Erano l’intemperia, la tempesta.
“Com’è?” chiese di colpo James.
Sirius inspirò, considerando il suo scorpione, “mah, croccante.”
“Visto?”
“Passa gli altri.”
 

In Scozia le montagne erano grattate, ma addolcite dal vento. In Finlandia erano ruvide, l’inverno ci passava sistematicamente una mano di vernice. Qui, in Thailandia, erano morbide, si sarebbero abbassate con pigrizia, cedendo il posto alle città e poi al mare.
“Che cos’è quello?” chiese Remus, gridando dal suo motorino e indicando un puntino nero più avanti, su un rettilineo lungo il quale gli alberi si inclinavano verso l’interno.
Sirius sentì James, dietro di lui, sbilanciarsi sul sellino per dare un’occhiata.
Venne fuori che quello era una persona, per un po’ trasformata in una matassa di parolacce, capelli biondo cenere disordinati e vestiti dai colori sgargianti che facevano forse da lanterna diurna a tutte le api e specie simili del paese.
“Ti serve una mano?” chiese James, scendendo dalla moto e già porgendone una a quello che, guardando bene, poteva essere un coetaneo.
Lui si voltò, liberando un angolo della pallina che formava accovacciato. A quanto pareva proteggeva un cellulare. “Grazie, amico,” disse. Aveva nel tono la disinvoltura tipica delle disinvolture forzate. James lo tirò su con un grugnito che era più di solidarietà che di sforzo. “Non c’è campo e ho inserito per sbaglio la luminosità al minimo. Non riuscivo a sbloccare il cellulare!”
“Come ci sei arrivato qui?” chiese Remus. Si guardava intorno in cerca di un mezzo che in effetti non c’era.
“Oh, è una storia davvero incredibile,” disse lui, grattandosi la testa. Si guardò la mano, poi la porse con un sorriso in mezzo a loro. “Piacere, Peter!”
Sirius si mise una mano sulla coscienza e accettò la stretta per primo. Non era vigorosa, saltò buffa su e giù.
“Vi va se ve la racconto non nel nulla più totale?”
Si fece da parte, rivelando uno zaino che avrebbe potuto contenere dieci delle tende di James, che comunque ancora si trascinava dietro.
Con un cenno del capo, Remus li guidò nuovamente verso le moto.
 

Non era proprio una storia incredibile, Sirius ci credeva benissimo. Era una storia stupida, quello sì.
“Non ho capito, tu hai preso un autobus?”
Peter prese un sorso del suo tè freddo, il ghiaccio danzò nel bicchiere, mostrandosi solo nei suoi contorni nel liquido arancione. Aveva il retrogusto del tè molto intenso, ma si attaccava al palato come se fosse stato velluto, polvere, chicco tagliato finissimo. “Sì, volevo raggiungere il tempio sulla montagna,” parlò, quando lo ebbe finalmente mandato giù. Teneva un pollice puntato oltre il portico del bar, dove un’altura si sollevava vestita di vegetazione verde vibrante. Proprio sulla punta, a metà tra miraggio e ovvietà, si stagliava contro il cielo una struttura piccolissima, un bagliore. “Mi avevano detto che l’autobus mi avrebbe portato alla montagna. Io li ho visti gli altri passeggeri ridere, ma pensavo che fossero solo dei tipi molto amichevoli. Invece mi ha mollato alla base della montagna. Non c’era nient’altro. Diamine, è un’intera città in cui non c’è niente, quindi mi sono incamminato.”
“Volevi arrampicarti sulla montagna?” domandò James.
“Volevo usare la strada.” Peter gli rispose come se il concetto di arrampicarsi fosse stato semplicemente assurdo, il che era interessante, detto da uno che si era fatto mollare da un autobus a una manciata di chilometri in altezza dalla sua destinazione.
“Questo paese è pieno di templi sulle montagne. Perché questo?”
Peter si strinse nelle spalle. “Non lo so, mi piaceva.”
“Non l’hai visto,” disse Sirius, lanciando uno sguardo al suo stesso tè quasi finito. Faceva caldo, finire il tè non era mai una notizia piacevole.
“Ci stavo provando.”
“Non lo so,” Sirius continuò, facendo ruotare distrattamente la cannuccia nel bicchiere, “non mi sembra un piano con grandi possibilità di riuscita.”
“Ce l’avrei fatta, dovevo solo riuscire a sbloccare il cellulare e dare un’occhiata alla mappa.”
“Ah, scusami, se vuoi ti riportiamo nel mezzo del nulla dove ti abbiamo trovato.”
In quel momento, Remus si voltò verso di loro. Si era perso a guardare la cima della montagna, le nuvole di zucchero che baciavano le cime degli alberi. Si mosse a ritmo col vento, che fece suonare un campanello, da qualche parte lì vicino. Nel complesso, era una visione fresca, portava il tipo di nostalgia che sta nelle desinenze delle stagioni. Sirius non sentì quello che disse.
“Massì, perché no,” James si alzò in piedi come caricato a molla. Sfregò le mani tra loro e raccattò i bicchieri vuoti. “Tu che dici?”
Sirius li guardò tutti e tre. “Sì,” disse, quando concluse il giro su Remus. Lui gli sorrise. “Cosa? Sì.”
“Vi ho chiesto se vi va bene portare Peter sul tempio.”
Sirius lanciò un’occhiata alla montagna, l’intrico di foglie, l’intrico di cavi elettrici, l’intrico di vocali. Era un paese intricato, come tutti forse, ma erano nodi completamente nuovi, del tipo che per stringersi forse ne scioglievano altri. “Sì, avevo sentito.” Non aveva sentito precisamente niente. “Certo, accontentiamolo.”
 

Sirius aveva imparato molte lezioni nella vita. Di certo questo non lo rendeva speciale. Ad essere curioso era il fatto che non avesse mai imparato quel genere di lezione che si sente per la prima volta quando si è molto piccoli, dall’altezza di una mamma che, prendendo suo figlio per il polso e trascinandolo via, gliela sussurra tra i denti per non fare brutte figure. La lezione sulla gentilezza.
Se Sirius però non l’aveva mai imparata in venticinque anni un motivo c’era ed era che era inutile. Avrebbe dovuto tenerne conto prima di essere tanto gentile da ‘accontentare Peter’.
Piantò una mano sulla balaustra di pietra bianca e provò a lasciare che fosse lei a fargli salire l’ultimo gradino. Funzionò a metà.
Con un respiro incompleto, si cacciò i capelli via dalla faccia e si appoggiò al parapetto. Il sole stava tramontando, quindi non era neanche il caso di incolparlo per tutto quel sudore.
Camminò lungo un porticato complesso, intervallato da campane immobili. Sentiva la voce di James che si mischiava a quella meno familiare di Peter, più avanti. Quest’ultimo non aveva fiato, ma a quanto pareva questo non sembrava fermarlo.
Ai lati del passaggio, la vegetazione si aprì e Sirius capì perché anche le campane a volte si congelavano.
Una distesa di verde si spingeva verso il basso, le chiome degli alberi seguivano il flusso curvo di un percorso segreto che forse aveva a che fare col vento, con la pioggia o con le nuvole, che in alcuni punti si poggiavano sulle montagne più lontane. Non avrebbe saputo dire dove cominciassero, perché erano parte integrante del tappeto. Al lato si distinguevano a stento i tetti delle case, mentre il cielo si tingeva di rosa, arancio e blu, più in alto di tutti, anche più della loro montagna e del tempio e delle punte delle strutture in oro che luccicavano sotto lo sguardo delle ultime luci del giorno.
Accanto a lui, lo sfiorò un suono gentile. La pressione leggera delle dita di Remus aveva fatto vibrare le campane. Era un suono basso e incostante, aveva l’ambizione delle lunghe distanze, la sacralità delle sentenze. Era bellissimo e per questo preoccupante che gran parte della sua concentrazione si fosse focalizzata sul respiro di Remus, affaticato dalla salita.
Non era ancora successo, nessuna terrificante previsione gli aveva ancora oscurato la vista, ma esistevano altri paesaggi, al mondo. Esistevano nel modo strano in cui la notte il silenzio ronzava, nel mettere piede per la prima volta in un posto nuovissimo e scoprire che aveva un odore, che c’era un paesaggio sovrapposto a ogni paesaggio, una specie di fantasma che ne disegnava un contorno di fragranze e che era segreto perché gli esseri umani erano programmati per affidarsi più ad altri sensi.
“Che ne pensi?” chiese Remus, le dita che tamburellavano ancora sulla campana, un suono di sfondo che si allargava intorno a loro.
“Che sono esausto, dovevamo lasciare Peter per strada.”
Remus ridacchiò e si mise dietro di lui. Appoggiò il mento nell’incavo della sua spalla e Sirius sentì il suo sguardo su di sé solo per un secondo, poi seppe che si era concentrato sulle linee del tramonto, che velocissime guadagnavano sempre più cielo. “Cos’è che cerchi?”
Sirius voltò appena la testa, nella finta di un’occhiata. “In che senso?”
“Non lo so, a volte ti distrai.”
“Non sei l’unico che rapina le banche, penso a tutti i soldi che mi aspettano.”
Remus soffiò una risata. Era una cosa pericolosa da fare così vicino al suo collo. “Ti serve un’altra storia, non puoi prendere la mia.”
“Allora mi distraggo perché mi incanto a guardarti, Lupin.”
Un secondo, una zanzara gli pizzicò il gomito, l’avrebbe iniziata a odiare più tardi. Verso il cuore del tempio, la risata di James si sollevò come il fumo di un falò in un bosco desolato.
“James ha detto che non me lo dice. Aspetta che sia tu a scegliere di parlarne.”
Sirius sorrise. “James è un paraculo.”
Remus mugugnò soltanto.
“Crede che non sappia che questa cosa serve anche a lui. Non sono così egocentrico!”
Faceva un caldo infernale, ma nessun inferno avrebbe mai fermato il brivido che percorse la schiena di Sirius quando Remus alzò la testa e sussurrò al suo orecchio: “sicuro?”
Si allontanò lungo il porticato, toccando tutte le campane.
Sirius pensò che se l’avesse conosciuto dieci anni prima l’avrebbe odiato o l’avrebbe facilmente irretito col fascino semplice che gli adolescenti combinaguai esercitano sui compagni più introversi, al punto che più che volergli bene forse si sarebbe goduto la sua ammirazione. Odio o amicizia, avrebbe avuto un apparente potere su di lui, il genere di cosa che gli anni e la maturità invertono a un certo punto fino a mettere quelli come Sirius in condizione di sentirsi più impreparati alla vita vera, meno saggi, meno competenti.
Con Remus era svantaggiato in partenza, perché non aveva avuto modo di mostrargli il ragazzino indisponente e carismatico che era stato. C’era solo lui, che aveva scoperto che in realtà il mondo non gli doveva proprio niente, che a un certo punto aveva bussato alla porta del suo migliore amico, vari anni prima, e lui gli aveva detto di andare a farsi fottere e Sirius si era dato una calmata, perché se era troppo anche per James forse era troppo davvero.
Lasciò stare quell’angolo di realtà e seguì le voci, più avanti.
Per un istante soltanto ebbe la sensazione che i colori fossero più vividi. Era un effetto inspiegato che seguiva a volte un battito di palpebre su uno sfondo appena più bagnato del solito.
Sirius Black era un ammasso di bombe e micce. Lo era sempre stato, aveva passato l’adolescenza a infiammare stoppini ed era sempre stato facile perché non si era mai preoccupato di impostare alcun timer: scoppiava dove capitava.
Sotto tutto quel mondo, partì un criptico conto alla rovescia. Irrilevabile, irrilevato. Tick-tick, ineluttabile nucleo esplosivo.
Le campane ronzavano ancora una frequenza nascosta.
 

I led ronzavano frequenze inesistenti.
Alle loro spalle, mosche invisibili si schiantavano contro campi elettrici e illuminavano le vetrine di un seven eleven ingurgitato dalla vegetazione e una coppia di ombrelloni. La luce artificiale era bianca, tendeva al blu.
Eppure quel ronzio rimase inascoltato, perché il temporale gridava più lontano, ma più forte. Scendeva giù come una tenda infinita, scosso da un vento che avrebbe dovuto sradicare le montagne e travasare i mari e Sirius sapeva che si stava inzuppando le scarpe, in qualche modo. Non credeva di averle mai bucate, ma a quel tipo di pioggia non importava dei materiali isolanti.
Peter uscì dal minimarket aiutandosi col gomito, le mani impegnate con cibo e bevande. Si lasciò cadere accanto a Sirius, sullo scalino del negozio, ed espirò pesantemente.
La pioggia odorava più o meno come a casa, ma non aveva lo stesso colore. Gli piaceva come le foglie si piegavano sotto il suo peso, saltando su e giù e tenendo il ritmo. Osservò una ragazza in jeans bagnati a chiazze passare loro davanti. Non correva, reggeva una busta di plastica sopra la testa ma i capelli le ricadevano comunque in viso zuppi, accompagnando il suo incedere. La guardò finché non girò un angolo e sparì dietro un muro bucherellato.
Peter distribuì delle cose che sembravano panini. Sirius si preoccupò poco della loro natura e ne addentò uno.
“Qualcuno sa cosa c’è qui attorno?” domandò Peter.
Non dovevano fermarsi lì, ma pioveva troppo per proseguire in moto.
“Io ho la tenda,” disse James, prendendo un sorso di una bibita rosa all’anguria. Ne prendeva varie in un giorno. A Sirius non piacevano granché e riteneva che contenessero un po’ troppo zucchero per uno come James, ma non c’era più modo di fermarlo, era l’inizio di una dipendenza.
“Hai ragione, Jamie,” iniziò Sirius.
Remus lo intercettò. “Montala sulla strada.”
“Siete degli ingrati,” continuò James. Ogni volta che tamburellava il piede alzava qualche schizzo. Non che facesse troppa differenza, col dio che piangeva lassù. “Almeno io ho una soluzione.”
“È una buona soluzione, James,” mormorò Peter.
Alla fine l’avevano raccattato, Peter. James l’aveva preso sotto la sua ala, forse perché lo lusingava. Sirius si stava acclimatando a lui e Remus ci andava d’accordo. Era pieno di risorse, la maggior parte poco pratiche all’apparenza. Ad esempio si portava dietro un tagliaunghie, che non sarebbe l’utensile d’emergenza di nessuno, ma erano riusciti a stapparci delle birre, una volta. Un po’ come per gli oggetti, conosceva i luoghi più strani. Era il motivo per cui nel cuore dello sfarfallio di luci di Bangkok, qualche sera prima, era riuscito a convincerli a deviare il percorso per passare per templi sconosciuti, grotte e luoghi che avevano dimenticato forse anche gli insetti.
“Oh, questo temporale non ne vuole sapere di darsi pace,” disse una donna, uscendo dal negozio. Aveva il volto cosparso di rughe, ma gli occhi brillavano di intelligenza. Il vestito colorato e un cappello a tesa larga rendevano difficile capire se fosse in grado di bagnarsi o se fosse esentata da simili seccature. Sembrava aver parlato meno inglese di quanto avrebbe voluto, in quella vita. “Non sapevo che questo fosse un luogo turistico.”
“No, andiamo verso sud, ma pioveva troppo e siamo stati costretti a fermarci,” rispose James, girandosi la bottiglia rosa tra le mani.
“In moto?” la donna sgranò gli occhi. “Un viaggio faticoso, venite da Chiang Mai?”
Lui annuì.
“Oh, la mia casa!” si portò una mano al petto e sorrise. Le labbra di carta si distesero come se avessero preferito spezzarsi pur di non negarsi quella gioia.
“Viene da lì?”
“Sì! Avete mangiato le fragole? Le fragole di Chiang Mai?” Con un gesto della mano, fece segno a Peter di farsi un po’ più in là e si sedette accanto a loro.
“No?” Remus aggrottò la fronte e scosse la testa. “Chiang Mai ha buone fragole? Non c’erano fragole.”
“Le migliori, ragazzo!”
“Io le ho mangiate,” si intromise Peter. Sollevò una mano come se avesse prenotato la parola a scuola. “Erano ottime.”
Sirius ne era sicuro. L’aveva visto mangiare anche la corteccia di un albero, a un certo punto. Diceva che i locali la cucinavano e la mettevano nel brodo. Non era minimamente vero e l’aveva sputata dopo quindici nanosecondi.
“Sapevo che vi sarebbero piaciute. Quindi dove dormite?”
“Abbiamo una tenda!” disse James.
La donna guardò un attimo il cielo, poi il ragazzo inglese con gli occhiali che le aveva appena detto che aveva una tenda. “Mh,” mormorò, una maestra che fingeva di apprezzare il disegno di un alunno, “be’, io ho un albero di limoni. Li porto sempre a un amico e in cambio lui condivide un po’ della pesca del giorno, se ha qualcosa di buono. Detto tra noi, penso che sia più di un amico. In ogni caso, i figli sono partiti per studiare in città, quindi dovrebbe avere due stanze libere.”







NotEl: I'm back olè. Mi scuso per il ritardo, settembre esami la vita la pesantezza. Ad oggi onestamente non so niente sulle fragole di Chiang Mai, un saluto alla signora che in realtà era di Phuket.
Ora che ho più chiaro tutto assicuro almeno altri tre, quattro capitoli, c'è un pezzo che non so bene come e quanto dividere MA SIAMO Lì
Grazie per aver letto ed essere tornati qui :))
El

 
   
 
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