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Autore: time_wings    03/10/2023    1 recensioni
[Wolfstar, Jily + una ship non taggata]
Sirius Black sa che ha quattro mesi prima di perdere la vista. James Potter sa che hanno quattro mesi per vedere il mondo insieme. Dopo averci riflettuto per meno di dieci secondi, i due partono per un viaggio dalle destinazioni incerte, che li porterà più lontano di quanto avessero previsto. Perché alla fine è davvero così cruciale trovare se stessi?
Una storia raccontata da alcuni occhi.
Dal testo: “Sei uno che pianifica molto, eh?” La verità era che non lo sapeva, era cresciuto con l’idea che leggere gli altri servisse solo a sfruttarli successivamente. Era nuovo a questo gioco.
“Mh, un sacco.”
“È molto grave, fa male alla salute.” Inclinò il viso su un lato, lo guardò ancora, le palpebre di colpo pesanti rispondevano più al torpore che al sonno. Un altro paradosso di quel paese. Le ciglia di Remus si piegavano sulle guance, la pelle era segnata da qualcosa che sembrava vento. “Dove hai detto che vai?”
Genere: Commedia, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: James Potter, Lily Evans, Peter Minus, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Il tag "tematiche delicate" è qui. Una cosa leggera, giuro.




Quando Sirius aprì gli occhi non vide nulla. Buio pesto. Al punto che sembrava disegnare ghirigori su se stesso ed estinguerli nella fosforescenza istantanea di un battito di ciglia.
Prese un respiro profondo. Fallì.
Ci riprovò, questa volta espirò piano, così lento che tremò. Batté le palpebre un paio di volte ma non distinse niente.
Avrebbe potuto voltarsi, la finestra era alle spalle del letto, ma non riusciva a muoversi. Il suono delle onde che si abbattevano sulla spiaggia portava una pace beffarda.
Provò a respirare a fondo e fallì ancora. Stavolta il danno era irreparabile. Era esausto, era stanco, era sfinito, aveva corso come un matto forse, perché non riusciva a smettere di respirare. Si portò una mano al petto, distinse il battito accelerare sotto il palmo, assieme al respiro che aumentava.
Era troppo presto. Non aveva senso. Aveva ancora qualche mese.
Un’onda di terrore rotolò dalla spiaggia fino alla base della sua schiena. Non c’era più niente di pacifico in quell’accavallarsi di suoni periodici. Lo perseguitavano, lo avvelenavano, le stesse parole dei suoi pensieri si spezzavano in linee rigide e sempre più piccole.
“Sirius…” la voce di Remus, accanto a lui, era un filamento di realtà e per questo suonava priva di sostanza. Se avesse avuto appena più consistenza si sarebbe accorto che in due sillabe era passata dall’assonnato al preoccupato andante. “Non riesci a…”
Si schiarì la voce, acquisì concretezza. Non abbastanza, però, perché la Terra fece cadere il suo asse e il mondo cominciò a girare. Non sapeva come, visto che era tutto buio, ma lo sentiva.
Un fruscio, poi vide gli occhi stanchi di Remus guardarlo da sotto le ciglia.
“Stai bene?”
Sirius prese la boccata che aveva rincorso per gli ultimi minuti, il mare smise di strillare e la risacca tornò a muoversi discreta come una brezza tra i capelli. Con le giunture miracolosamente oleate, riuscì a portarsi una mano al viso e a esalare forte contro il palmo.
Remus era più consistente, più di una voce che veniva da lontano. Aveva una mano ancora appoggiata sull’interruttore della lampada. Il problema della sua consistenza era che a quel punto voleva una risposta.
“Sto bene,” disse Sirius o almeno avrebbe voluto, se non avesse avuto la voce fatta di ruggine. Tossì e annuì. “Sto bene.”
Remus poggiò una mano sopra la sua, quella che aveva ancora incollata al petto. “Vuoi che chiami James? Forse avrei dovuto dormire io con Peter.”
“No, non sarebbe stato a suo agio.” Non aveva idea di cosa stesse dicendo, a dire il vero. Si alzò a sedere, la schiena contro la spalliera del letto. Rischiò uno sguardo alla finestra. Le imposte lasciavano entrare una luce sottile e indipendente, forse il risultato di riflessi di luna e di lampioni e di barche al largo. “Sto bene, davvero.”
Remus scrollò le spalle e lo indicò con un cenno del capo. “Sei tutto sudato.”
Con un sospiro, Sirius si sfilò la maglietta e la lanciò di lato. Guardò Remus guardarlo un secondo, poi far ruotare gli occhi e concentrarsi sulla lampada. Sirius sorrise, una cosa piccola.
“Se hai paura del buio lasciamo la luce accesa.”
Sirius sbuffò una risata. “Non ho paura del buio.”
“E allora…”
“Per seguirti abbiamo voluto sapere solo fino a quanto volevi restare perché è vero che viaggiamo con una data di scadenza.” Sirius cercò i suoi occhi. Fu un legame intenso e fragile, erano un po’ più rossi del solito, un po’ più bagnati. Il ricordo del buio passò da spaventoso a struggente. “Entro la fine del viaggio avrò perso la vista.”
Remus esitò, trattenne uno sbadiglio. “Come…”
“Puoi spegnere la luce, era solo buio.”
Lui si morse un labbro, gli occhi danzarono dalla lampada alla finestra. Poi annuì, gli sfilò il cuscino da dietro la schiena e lo posizionò all’altro capo del letto. Fece lo stesso col suo.
Sirius lo guardò come se fosse impazzito.
“Me la farai spegnere a forza, la lampada. Se dormiamo al contrario vedi la luce dalla finestra,” spiegò soltanto Remus. Prima che Sirius potesse protestare, spense la luce e si sdraiò. “Non ha molto senso.”
“Scusa?” Sirius si ribaltò e tornò disteso. Pareva che così il mare parlasse a loro. 
“Questo è il motivo per cui viaggiate?”
“Cosa pensavi che fosse?”
“Non lo so, ti ho visto scrivere. Quindi che…”
Sirius si lasciò cadere un braccio sugli occhi. “Non scrivo per me. Ma comunque la persona a cui scrivo non leggerà.”
Sentì Remus muoversi accanto a lui. Sapeva che lo stava guardando con lo stesso grado di sicurezza con cui aveva creduto di aver perso la vista e questo significava che, per quanto veri sembrino, certi trucchi non si possono svelare a luci spente. Era un potenziale sguardo molto pesante, aveva la sensazione che superasse l’osservazione e diventasse uno studio, un’analisi di fremiti, una calibrazione di brividi. Nella sua esperienza, era inammissibile che qualcuno avesse l’occasione di guardarlo così.
“Per fortuna, perché faccio schifo a scrivere.”
Remus rise, un’onda là fuori sospirò, poi appoggiò una mano sul suo sterno. Sirius respirò piano, il contatto era ruvido appena perché fosse credibile. “Che ne pensi di quello che hai visto?”
“In tutta la vita?” domandò Sirius. Sollevò il braccio e guardò la finestra, la luce giusto un grado più gialla. Le dita di Remus tamburellarono una sola volta sul suo petto. Più che un ritmo erano una casualità.
“Sì, in tutta la vita.”
Era sarcastico, ma l’idea era terrificante.
Una vita fatta di festività che si mischiavano e festival senza notti, di chitarre rosse fiammanti, di tè nelle ore sbagliate, di gocce di pioggia che si rincorrevano sui finestrini, di auto che sfrecciavano e che guidava lui o James o qualcuno che aveva dimenticato. Un’esistenza intera spalmata su una fetta di pane e su ogni livello un frame cinematografico che si imparava a chiamare ricordo ma che da solo forse diventava incompleto. Una cosa così complessa e dettagliata che si faceva a volte labirinto e a volte domanda e ogni sua cadenza era una strofa di una canzone che oscillava tra metal e ninnananna. Una confusione, una processione di estati e di modi diversi in cui un raggio di sole poteva cadere nelle pieghe di una camicia. E c’era una vita esattamente identica alla sua, una vita che era sua e non stava da nessuna altra parte, in nessun confine universale, ma l’adolescenza lì durava un secondo in più. Perché quel secondo lo guardava. Così come guardava ogni sedia pieghevole aperta male e ogni decolorazione nelle iridi dei suoi amici e il colore del drink del ragazzo che si era portato a letto e di cui aveva dimenticato il nome. Così come guardava James e il modo in cui guardava davvero le guance appena arrossate dal freddo su cui una volta Sirius aveva tirato un pugno e anche lì avrebbe guadagnato un secondo e ne avrebbe fatti guadagnare altri cento milioni a lui. E forse nulla sarebbe cambiato, neanche un singolo battito cardiaco mancato, ma James non avrebbe dovuto guardare l’alba boreale incerto se chiedergli se ci vedeva quello che ci aveva visto anche lui.
E onestamente James ce l’aveva avuto davanti quasi ogni giorno della sua vita e non l’aveva mai visto bene quanto l’aveva visto in quei mesi di viaggio.
“È tutto molto bello.”
La mano di Remus tracciava linee invisibili sul suo petto. In certi punti faceva il solletico. “Hai paura di dimenticarlo?”
“No,” Sirius sospirò, “so che me lo dimenticherò.”
“Più provi a ricordare quello che vedi, più ti ricorderai solo che avevi paura di dimenticarlo.”
“Non mi sforzo granché, la memoria ha priorità insensate. Mi ricordo che la prima macchina di James aveva un’ammaccatura vicino ai fari posteriori, a sinistra, a forma di cazzo, ma non mi ricordo la voce di mia madre.”
Il disegno di Remus si interruppe. “Mi dispiace.”
“A me no, era una stronza.”
Remus si mise a ridere, il ghirigoro ripartì, questa volta faceva giri più larghi, più bassi. “E allora sono priorità sensatissime.”
“Nah.” Sirius si girò a pancia sotto e appoggiò il mento tra le mani giunte. “Continua.” Valutò il buio dell’alba affidabile abbastanza per permettersi di serrare gli occhi ogni volta che le dita di Remus grattavano punti particolarmente piacevoli. “Tu hai paura di dimenticare quello che vedi?”
“Un po’, cioè adesso so esattamente che cosa sta succedendo, ma tra trent’anni avrò completamente dimenticato la lampada, l’armadio, il modo in cui arriva l’alba…”
Sirius si avvicinò per guardarlo. Inarcò la schiena, la mano di Remus scese naturalmente più in basso. Così sembrava quasi un abbraccio o il suo fantasma. Sirius aveva avuto meno familiarità con quello che con qualunque altra forma di contatto fisico in vita sua. Era un po’ imbarazzante. “Scusa ma che te ne fotte della lampada e dell’armadio?”
“Che ne so, pensavo fosse una di quelle conversazioni un po’ indie…”
“Ma che stai dicendo?”
Remus si mise a ridere, l’alba entrò dalle persiane. Sirius ne era sicuro perché vedeva i suoi occhi. Ora, quella era una cosa che gli sarebbe dispiaciuto dimenticare.
“Perché sei qui?”
“Peter e James dovevano dormire insieme.”
Sirius abbassò la testa e sbuffò nel suo collo. “Sai cosa voglio dire,” disse, la voce smorzata.
“Perché ti interessa così tanto?”
Chiuse gli occhi. “Perché mi interessi tu.”
“Sottile.”
Una risata, Sirius fu furbo abbastanza da dosare l’aria. Sorrise, quando vide che Remus aveva la pelle d’oca. “Non hai idea.”
“Che ti devo dire?” Remus mosse la testa. Sirius capì che doveva guardarlo. “Che mi sono ubriacato, a stento so dove mi sono svegliato, ma era tutto diverso?”
“Tipo.”
“Che volevo morire?”
Sirius lo guardò. Aveva visto abbastanza cose brutte da sapere che certe ammissioni non erano mai così delicate come sembravano, che la gentilezza e il riguardo si potevano scambiare per pietà e compatimento, se si marcavano. Annuì. Poi si girò per dare un’occhiata alla finestra. “Hai visto? È giorno.”
Remus lo guardò come se avesse detto la cosa più bella del mondo, come se la sorpresa valesse quanto l’ammirazione. Non farlo, pensò Sirius, perché la fiducia era terrificante e perché accettava quella di James solo perché l’aveva avuta prima di capire che era tutto esplosivi e micce. E che gli altri si facevano male.
Remus batté le palpebre e quel sentimento sparì, come se avesse scottato lui per primo.
 

Era vero che l’uomo che li aveva ospitati era innamorato della donna delle fragole, perché quando era partito con la sua barca, quella mattina, li aveva messi a lavorare nell’orto. Era una cosa piccola e discreta che comunque lasciava posto a un paio d’alberi da frutto e nessuno di questi era un limone.
“Pete, non mangiarla,” disse Remus, quando Peter ispezionò un’erbaccia che aveva appena sradicato.
“Non volevo mangiarla,” ribatté lui, lanciando la piantina in un cesto. Il tono interrogativo era audace, a detta di Sirius, perché sottintendeva che Remus fosse completamente impazzito a pensare che avesse intenzione di mangiare un’erbaccia. Dopo l’episodio della corteccia – e quello della medusa e quello del fiume che sembrava un tubo di scarico, senza contare quello che coinvolgeva un serpente non velenoso e una scatola di sardine – la linea che separava curiosità e follia con Peter non sembrava neanche sfumata, quanto semplicemente inesistente. In sintesi l’erbaccia sarebbe stata il minimo, nel suo caso.
“Va bene,” decretò James di colpo. Si soffiò via un ciuffo di capelli dall’occhio. Fallì e si aiutò con una mano. Gli lasciò una lunga chiazza di terreno sulla guancia. “Inizia a fare troppo caldo. Bagno?”
Sirius seguì il suo sguardo.
Lo perse dove l’oro umido di sabbia si fondeva all’azzurro tenue, fino alla montagna glabra sullo sfondo.
“Bagno,” confermò spogliandosi.
 

Gli occhi del ciclone

Caos e pace.
L’occhio del ciclone non vedeva, ma era affamato.
Aveva preso i suoi venti da lontano. Sottomessi, soggiogati, sedotti, adesso sedevano nel tifone.
Era possibile che qualcuno di loro soffiasse leggero sotto le gonne delle ragazze norvegesi nei giorni di festa. Era possibile che un altro spirasse nelle grotte ancora inesplorate dall’uomo. Era possibile che un altro ancora nascesse dai sospiri degli innamorati che, piangendo allo stesso momento, si facevano fenomeno naturale. Ed era possibile che uno di questi sussurri avesse passato le dita invisibili nei capelli di James Potter.
C’era stato un momento in cui una brezza aveva assistito a una risata, mentre si sporcava di tutto il fumo del fuoco della candela attorno a cui sette ragazzi giocavano a carte. Quattro viaggiavano insieme, gli altri tre non li avrebbero mai più visti, ma in quel momento, in quel frangente, mentre le stelle osservavano tutto questo turbine di respiri diversi e la notte si stendeva come un drappo su una giovane assopita dopo essersi divertita, erano legati.
C’era stato un altro momento in cui un lenzuolo d’aria si era aggrappato controcorrente al corpo di Remus Lupin, mentre conduceva gli altri in moto ai piedi di un’escursione che pareva riservata agli stambecchi. E li aveva accompagnati mentre si inerpicavano su sentieri ripidi solo per lanciarsi nella gola acquosa in cima, mentre da qualche parte brontolava una cascata.
C’era stato un vento che era stato il risultato della loro risata, mentre guardavano giù seduti su una roccia per uno snack. Di sotto uno strapiombo che, se avesse fatto un suono, sarebbe stato quello con cui rimorchiavano le balene.
In qualche modo erano arrivati tutti là, nel ciclone, ogni storia una pagliuzza del suo occhio, ogni attimo soltanto un’eco.
 

Le isole erano quelle delle cartoline, il sole le colorava come un fotografo che amava giocare troppo con la saturazione.
Sirius era seduto a un tavolo da picnic che dava sul mare, come tutto il resto. Ogni cosa dava sul mare, lì, anche la baracca in cui dormivano. Aveva addirittura un’amaca e faceva troppo caldo perché la fregatura fosse che non aveva i riscaldamenti. Scriveva quella stupida lettera.
“Cazzo!”
Quello era James. Sirius si voltò senza preoccuparsi troppo, ma non lo vide. “Che hai fatto?”
La testa di Remus sbucò dalla porta, in basso a destra, all’altezza del suo materasso nella casetta di legno. Aveva i capelli ammaccati su un lato. Guardò Sirius per un attimo, poi strizzò gli occhi per la luce e sbadigliò. Nel caso in cui non fosse chiaro, James aveva proprio strillato. Sirius lo guardò prendere consapevolezza della realtà che lo circondava. Da quando gli aveva fatto i grattini e si erano confessati i segreti come due scolaretti era come se avessero aperto una porta, come se ogni momento fosse stato uno stallo di tensione tra un’occasione di toccarsi e un’altra. “Mi sveglio su un’isola paradisiaca e la prima cosa che vedo la mattina sei tu…” brontolò Remus.
Sirius gli sorrise. “Visto che fortuna? Mare con vista schianto.”
“Non ho ancora la forza mentale per trovare un insulto con cui ribattere. Dimmelo di nuovo tra qualche ora. Tipo sette,” rispose lui, alzandosi e barcollando.
“Credimi, non avrai un insulto neanche tra dieci ore.”
Remus fece schioccare la lingua e non aggiunse altro. Fece per uscire, ma James gli schizzò davanti e afferrò Sirius per le spalle. “Il passaporto!”
Sirius scosse la testa. “Che ha fatto?”
“Non c’è! Non ce l’ho più!”
“Non ci credo,” mormorò Remus. Sirius lo vide solo accasciarsi contro lo stipite della porta prima che James lo scuotesse ancora per le spalle e lo costringesse a concentrarsi su di lui.
“Oh, cazzo.”
 

Il panico del passaporto durò esattamente un’ora e sedici di messa a soqquadro di effetti personali (era stata aperta anche la tenda), alla fine della quale successe l’ultima cosa che Sirius si sarebbe aspettato di vedere in generale, figurarsi su un’isola di cui aveva già dimenticato il nome.
Arrivò Peter.
Questo di per sé non era uno scandalo, perché, riserve personali a parte, ormai viaggiava con loro.
Arrivò Peter con l’incedere tranquillo di chi non aveva un solo pensiero al mondo.
Anche questo di per sé non era uno scandalo, perché Peter si preoccupava per tutte le ragioni sbagliate e, secondo il parere di Sirius, disponeva comunque di meno pensieri della persona media.
Arrivò Peter con l’incedere tranquillo di chi non aveva un solo pensiero al mondo. E non era solo.
Persino Sirius, che teneva al suo atteggiamento imperturbabile a momenti più di quanto tenesse alla sua vista, spalancò la bocca quando vide con chi era Peter. Registrò di striscio la testa di Remus palleggiare tra le reazioni dei suoi amici.
“È carina, non lo nego,” commentò alla fine Remus, “ma non è una reazione un po’ esagerata?”
“Te l’avevo detto,” disse lei, guardando James. Il sole le accarezzava le lentiggini. “Che era destino.”
Sirius si riprese dallo shock. Fischiò. “Destino un cazzo. Questa è proprio una botta di culo.”
Lily reggeva il passaporto di James.
Stop.
Riparti dal principio.
 

Era il tramonto, il cielo una caramella tuttifrutti, la tela di un pittore impressionista. Il mare all’orizzonte luccicava, uno specchio che non puntava al cielo, allora forse agli abissi e oltre, nel paese agli antipodi, lungo le coste del Perù. La spiaggia era una distesa dorata, una promessa del giorno successivo.
Un gruppo di ragazzi con un pallone gli aveva offerto una partita. Non si rifiutava mai un pallone.
“Onestamente, è imbarazzante,” disse James, mentre facevano le squadre. “Non mi mettete con quello che tifa United.”
Quello-che-tifa-United gli lasciò cadere un braccio sulle spalle e alzò gli occhi al cielo. “Ormai è fatta, arrenditi.”
“Se dovete tifare le squadre inglesi almeno fatelo bene!”
Il ragazzo ridacchiò, togliendosi la maglietta. Era effettivamente stato messo nella squadra di James, quella che si riconosceva per la nudità, a quanto pareva. “Tu giochi?” chiese a Peter.
“Sono il vostro goleador,” ribatté lui.
Sirius affondò i piedi nella sabbia, mentre si legava i capelli. “Sicuro.”
Leo, uno che tifava Chelsea, cominciò a piantare ciabatte in giro per la spiaggia, per delimitare le porte.
Remus si spogliò. Sirius tentò di essere discreto. Fallì. Remus aveva la pelle gentile di chi farebbe meglio a non scottarsi e invece era più abbronzato di quanto gli avrebbe dato credito, una spruzzata di lentiggini gli sporcava le spalle spigolose. La luce del tramonto lo sfiorava come a mettere in risalto i toni più caldi. Una cicatrice lunga gli attraversava il fianco destro, partendo dalle scapole. Non era esattamente sbiadita, ma era sulla giusta via per farlo. “Che c’è?” gli chiese Remus, mentre si avvicinava. A Sirius non piacque l’angolo furbo del suo sorriso.
“Raccolgo dati, devo guardare tutto.”
“Certo,” disse Remus, superandolo e affiancandosi a James.
“Perché stai con lui? Ehi, non mi lasciate con Peter!”
“Ha fiutato la vittoria,” disse James. Guardarlo così, gli occhi che brillavano di entusiasmo, i gomiti appena sporchi di sabbia, la pelle scura che spiccava al tramonto nel modo gentile delle cose delicate… pareva un po’ che fossero ancora a casa, quando organizzavano partite all’ultimo minuto e ne mancava sempre uno. Come se fosse ancora il ragazzino disattento che sorrideva così grande che a volte Sirius lo doveva mandare a quel paese. Come se fosse di nuovo tutto semplice, la lealtà così stampata in faccia da non aver bisogno di essere adornata da tutte quelle strutture che la vita e gli eventi le costruiscono attorno. “Quand’è stata l’ultima volta che mi hai battuto?”
Sirius gli sorrise. Forse gli dispiaceva di non essere mai stato in grado di sorridere così sinceramente come faceva lui, forse era per questo che James aveva scelto di non dirgli tutto. “Guarda che l’ultima volta che abbiamo giocato ho vinto io.”
“Balle.”
Il ragazzo che abbracciava ancora James si strinse nelle spalle, trascinando anche lui nell’onda. “Forza United sempre.”
James si voltò a guardarlo. “Tu. Io ti rovino.”
Non lo rovinò solo perché Leo si piantò due dita in bocca e fischiò l’inizio della partita.
 

La squadra di Sirius vinse.
C’era stata una diatriba sul finale, ma l’avevano spuntata. Il pallone del gol della vittoria aveva colpito la ciabatta e l’aveva scagliata via. Era chiaramente entrato a sinistra, ma gli avversari erano così disperati che si erano messi a rintracciare traiettorie inesistenti sulla sabbia per provare il loro punto. Alla fine si erano arresi. E comunque Peter non era nessun bomber.
“È colpa tua, io te l’avevo detto. Ti ispiri a squadre di merda,” aveva iniziato James, quando non aveva più avuto modo di prendersela con gli avversari.
“Io? Tu vieni dall’altra parte del mondo per questa performance deprimente!” ribatté il suo arcinemico.
Si guardarono per qualche secondo, poi il broncio di James si aprì in un sorriso e si risolse in una risata. Il ragazzo lo imitò, gli strinse la mano e gli diede due pacche sulla schiena.
“Ehi, avete da fare stasera?” chiese Leo, palleggiando col pallone e afferrandolo alla fine sottobraccio. “Andiamo a bere una cosa qui vicino, se vi fa piacere.”
Non ebbero bisogno neanche di consultarsi.
 

Dalla proposta alla parte in cui James si era arrampicato su un albero a ridosso della spiaggia e si era lasciato penzolare giù dai polpacci gridando ‘il trapezista migliore del west!’ passarono qualche ora e un più o meno prevedibile susseguirsi di eventi e alcolici.
“Sirius, vieni qua, dammi un bacio come Spider-man,” gli disse mentre Sirius passava sotto di lui per raggiungere il ragazzo con la chitarra. C’era sempre un ragazzo con la chitarra, in quel paese.
“Non sono ancora abbastanza ubriaco per questo,” rispose Sirius, guardando in alto prima di prendere un altro sorso.
Leo, che invece era abbastanza ubriaco, scrollò le spalle e si sporse a baciare James. Gridarono, dopo, e si diedero il cinque.
Sirius appoggiò la bottiglia nella sabbia, seppellendo la base abbastanza perché si reggesse. “Che stai facendo?” chiese. Poco lontano, Peter cantava assieme al ragazzo che suonava. In thailandese. Era uno spettacolo dal quale conveniva distanziarsi, anche se il chitarrista sembrava divertito e di tanto in tanto lo correggeva inutilmente.
Remus alzò la testa dalla felpa che usava come cuscino e si guardò attorno. “Sto prendendo il sole,” disse, lasciandosi ricadere nuovamente sulla sabbia.
“È quello che faccio sempre anch’io di notte.” Sirius appoggiò i gomiti sulle ginocchia e guardò il mare, tentando di distinguere la linea in cui scambiava posto col cielo.
“Non scherzare. Il sole è una stella, no? Io ne vedo almeno… cinque, dieci, tredici…” mormorò altri numeri. Sirius rise. “Se mi spalmi un po’ di crema solare mi fai un favore, con un solo sole mi brucio, figurati…” biascicò altri numeri.
Sirius lo spinse di lato e rubò un po’ del suo cuscino. Fece in tempo a vedere James dondolare sull’albero, librarsi in aria e cadere a faccia a terra. L’urlo di guerra era stato: ‘sono un’altalena!’
“Peter sta evocando un demone.”
Risero, in quell’istante in sottofondo arrivò un’altra supercazzola. Nell’istante dopo qualcosa nell’atmosfera cambiò posizione. Era impercettibile, come tornare nella propria stanza d’infanzia dopo anni, trovare tutto esattamente dove era stato lasciato, ma avere l’incomunicabile sensazione che ogni cosa fosse stata spostata giusto un centimetro più a sinistra.
“Non mi divertivo così tanto bevendo da… non lo so, dall’incidente.”
Sirius si sistemò meglio sul cuscino improvvisato. “Cos’è successo?”
“Non ne so molto, ero svenuto. Un amico di un mio amico, non lo conoscevo così bene, ci stavo…” si interruppe, guardò Sirius, “si era offerto di portarmi a casa. Aveva bevuto anche lui. Mi sono svegliato in ospedale, non so se la parte in cui sanguinavo sull’asfalto me la sono immaginata o se mi sono svegliato per un attimo.”
“L’amico del tuo amico…”
“Sta bene. Il padre che tornava a casa dall’altro lato della strada no. Non l’ho mai visto, non so come si chiami. Hai presente non sapere neanche a che lapide chiedere scusa?”
Sirius gli sfiorò il fianco, dove aveva visto la cicatrice. Era una carezza, era la cosa più maldestra che avesse mai tentato in una vita nonchalante. Poi gli chiese quello che gli aveva chiesto altre tremila volte, da quando si conoscevano: “Perché sei partito?”
Remus inspirò forte. “Perché mi si è rotto un orologio e sono andato a comprarne un altro e ho pensato che fosse inutile spendere soldi per un oggetto che avrei lasciato indietro. Quindi me ne sono andato.”
La bolla scoppiò. La voce di Peter tornò a latrare canti smangiucchiati, James gridò. A giudicare da quanto smorzato fosse il suono era probabile che avesse ancora la faccia nella sabbia e fosse a qualche minuto dal soffocare. Sirius guardò Remus, la luce praticamente un lusso che a stento qualche riflesso riusciva a elargire. “Sono felice che tu sia rimasto.”
Lui ricambiò lo sguardo e gli sorrise. Era una cosa sbilenca e contornata da occhi ubriachi. Era diverso dal vederlo ridere, perché non era una reazione. Qualcosa nel petto di Sirius si compresse e si schiacciò in una parafrasi fisica di disperazione. Davvero non voleva smettere di vedere.
“In fondo adesso non ti serve sapere che ore sono, no?”
Remus si succhiò il labbro inferiore. “No,” sussurrò, gli fece proprio gli occhi dolci. Se fosse stato possibile ricevere un’infografica del cervello di Sirius, si sarebbe potuto vedere che metà non funzionava più e l’altra era in allarme. Remus semplicemente non si lasciava leggere così bene, non era una possibilità neanche da ubriaco. Era un trucco. Non lo realizzò in tempo, metà cervello non bastava.
Fu su di lui, quello era un attacco di solletico. Sirius provò a contrattaccare, ma era in posizione di svantaggio. Sgusciò via e corse verso il bagnasciuga, come se Remus fosse stato un’ape e buttarsi in acqua avesse potuto scacciarlo. Non funzionò. Si misero a correre sulla sabbia bagnata (era più solida, Sirius non era stato integralmente scemo).
“Guarda che ti placco!” gli gridò dietro Remus.
Se dall’altra parte dell’universo c’era una realtà in cui avevano sette anni e giocavano come era giusto che i ragazzini giocassero, Sirius non la invidiò. “Provaci,” gridò alle sue spalle.
Collisero. Sirius se l’aspettava. Lo buttò a terra, rotolarono per un po’, infine guadagnò la vittoria, premendo le mani sui suoi avambracci.
“Hai vinto, hai vinto,” sussurrò Remus, attraverso l’affanno.
Lo guardò, la risacca sussurrava a un passo da loro, la notte era piacevole sulla pelle. Anche il respiro pesante era divertente e il modo in cui l’alcol ricalibrava le sensazioni e le sfumature più blu e ogni singolo pezzo del volto di Remus, dalla lentiggine al taglio delle sopracciglia. Ed era assurdo che avesse visto questo ragazzo imbacuccato dalla testa ai piedi, mentre spalancava la bocca guardando l’aurora ed era folle che ci avesse bevuto una birra insieme, mentre Helsinki brillava di neve e di stelle. Ed era incredibile che avesse incrociato i suoi occhi un secondo soltanto e lui gli avesse chiesto perché sorrideva. Era incredibile davvero, perché se non l’avesse notato, quella sera, Sirius non avrebbe visto proprio niente: niente aurora, niente spiagge, niente Peter addirittura. Volendo andare un po’ più indietro, senza Marlene il loro viaggio sarebbe finito in Scozia, a chilometri dall’ostello provvidenziale. Senza la sua stessa condanna non sarebbe mai partito. E senza James. E senza Regulus.
Quindi era possibile prendere un pennarello indelebile e tracciare una linea tra la scogliera irlandese e Remus Lupin che lo guardava dal basso e voleva qualcosa da lui che oscillava tra un colpo di pistola e un bacio.
Sirius si abbassò, poggiò la fronte contro la sua e chiuse gli occhi.
Un’onda alle sue spalle si impennò e li bagnò dalla testa ai piedi.
 

Sicuramente la storia ha subito qualche deviazione, ma si capisce perché il passaporto fosse andato disperso a un certo punto. In generale penzolare da un albero non aiuta i passaporti a restare nelle tasche.
“Ieri notte sono morto,” biascicò James. Sirius lo capì soltanto perché aveva passato abbastanza tempo con lui in giorni difficili da potersi candidare a interprete. “Sono morto e questo è il paradiso.”
“Con quello che hai fatto nella vita, Jamie,” iniziò Sirius, appoggiando una mano sulla sua spalla, “non puoi essere in paradiso adesso.”
“Potter, quindi?” disse lei, consultando il passaporto che doveva aver trovato abbandonato sulla spiaggia. Sorrideva come se li avesse tutti incastrati, come se avesse comandato lei la giostra del mondo. I capelli rossi erano striati da ciocche schiarite e appuntati solo in parte sulla nuca. Indossava un vestito lungo e bianco, le maniche a sbuffo si arrestavano morbide all’altezza dei gomiti. Anche a Sirius, che di donne non si intendeva, parve un po’ un’apparizione divina.
“Non credi che sia arrivato il momento delle presentazioni?” chiese James. Si vedeva che era cresciuto, perché a scuola sarebbe svenuto.
Lei fece un passo, gli si parò davanti. Sirius si levò tatticamente di mezzo. “Lily Evans,” disse, porgendogli il passaporto.
“James Potter.”
Sirius si inclinò verso Peter e Remus. “Non si è capita questa cosa dei nomi. Quando ci siamo conosciuti, io e Marlene, un’altra ragazza, ci siamo almeno detti i cognomi.”
Remus, a braccia conserte, lo guardò male. “Tu te la tiri tanto, ma non sai proprio cosa sia un flirt, eh?”
“Uh,” disse Peter. Sventolò una mano e poi si succhiò un dito. “Questa brucia!”
Sirius fece schioccare la lingua. “Non mi serve flirtare.”
“Come credi.”
“Ehi, Lily Evans!” gridò Sirius. Ignorò i versi contrariati di Peter e Remus. “Noi giriamo da queste parti un altro paio di giorni, poi andiamo in Cambogia. Sei con noi?”
“In realtà sono diretta lì.”
James era un bambino la mattina di Natale.
Patetico.
Era ora.
“Comunque,” iniziò Peter, se fosse esistita una parola volta a descrivere lo sguardo preciso dei conduttori dei telequiz, non sarebbe bastata solo a descriverlo: ne sarebbe stato definizione. “Se non fossi tornato al bar a prendere la colazione non avreste nè lei nè il passaporto. E neanche la colazione, per quello che vale!”





 
NotEl: oh la laaaa, buonaseeeera. Tutto vero, c'è sempre uno con la chitarra, davvero si tifano le squadre inglesi (per quello che mi è parso obv non vorrei dire baggianate). Grazie come al solito per non aver abbandonato questa nave naufragante e per aver letto anche stavolta <3 <3
A prestooo

El.

 
   
 
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