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Autore: CervodiFuoco    04/10/2023    2 recensioni
Questa è una raccolta di racconti brevi la cui trama è la parola chiave suggerita dall'InkTober di quest'anno 2023!
Non mi attengo ad alcuno stile, atmosfera o genere fisso: entrate a vostro "rischio e pericolo", coscienti che potrebbe capitarvi di tutto sotto gli occhi! Ogni giorno una nuova storia, inventata e scritta sul momento lasciando libera l'immaginazione e la creatività. Spero di avervi numerose/i a leggere! Purtroppo l'introduzione può fare poco per stuzzicare la vostra attenzione, ahinoi; dovrò affidarmi alla mia, e vostra, buona stella.
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Parola chiave d'oggi 4 Ottobre:

Schivare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SOLO AMICHE

 

 

«Pallaaaaa!»

Mi chinai, raccolsi la pallina e la rilanciai al battitore. Quello, là lontano, un po' stizzito allungò il braccio per riceverla col giusto tempismo.

Alle mie spalle, il ricevitore mi bisbigliò: «Devi colpirla quando ti arriva, mica scansarti.» C'era del risentimento nella sua voce, camuffato da amicizia forzata dal momento che chi aveva formato le squadre ci aveva messi assieme.

Io non risposi. Strinsi i denti e gli occhi, mi diedi delle arie sul posto e mi riposizionai.

 

La verità era che nessuno di noi sapeva come diavolo si giocasse a baseball. L'avevamo visto solo sui fumetti, nei film, nelle serie tv e cose simili: adesso che avevamo deciso di provarci, sinceramente ne stava uscendo fuori un disastro. Solo Michael, che era il più bravo di noi nelle ore di ginnastica a scuola, ostentava una certa sicurezza nell'assegnare ruoli e coordinare movimenti, posizioni e punteggi. In modo piuttosto discutibile, comunque. Ma nessuno osava, o aveva voglia di, contraddirlo.

«Tu devi correre in quella base più velocemente che puoi, appena dopo averla colpita» aveva inveito contro il battitore, Simone, dopo che era miracolosamente riuscito a centrare la pallina con la mazza dopo il terzo tentativo, ma poi se ne era rimasto appollaiato sul posto in stato di confusione. «E poi andare là, alla seconda. La terza, la quarta... devi arrivare in casa base, quella lì!» aveva continuato indicando i vari punti del campo a forma di diamante che egli stesso aveva delimitato stendendo una corda sul prato.

La maggior parte di noi aveva annuito consenziente, più che altro per timore di beccarsi una sgridata da lui. Nessuno voleva farsi sgridare da Michael. Ancor meno farsi toccare da lui. Tutto di lui era grosso e forte - tranne il cervello, purtroppo. Eccetto quando si parlava di sport, forse. Ribadisco il forse.

Mentre Luca, che faceva il ricevitore dietro di me, bisbigliava dell'altro e io mi concentravo per ignorarlo, drizzai la schiena e mi preparai.

«Alza la mazza» disse Michael. A disagio, impugnai più forte l'estremità di questa e la sollevai all'altezza delle spalle. Mi sentivo goffa, inesperta, in un ruolo che non mi spettava. Cercai di respirare a fondo, ma qualcosa in mezzo allo stomaco, simile a un sasso, mi impedì di farlo. Deglutii e mi senti le orecchie bollire.

«Vai!» scandì Michael, dando il via a Simone per lanciare. Così quello caricò il lancio; non fu per nulla figo come facevano i lanciatori nel baseball nelle partite vere, o perlomeno nei film sul baseball. Tirò indietro il braccio e mi scaraventò contro la palla.

Lucia ed Elena, le altre due ragazze membri della squadra - anche loro messe a casaccio da qualche parte dentro al diamante - trattennero sonoramente il fiato e dissero qualcosa, probabilmente per incitarmi, ma io non le udii.

Quando la palla fu a un niente da me feci aderire la mazza al corpo, dandomi una botta sulla testa da sola (fortuna che indossavo il caschetto), mi ritrassi a sinistra istintivamente e schivai la palla. Quella finì dritta nel guantone enorme di Luca, che stava già sogghignando.

Michael sospirò affranto. Gli altri mormorarono, non so che cosa; io stavo andando a fuoco.

«Sentite, io non me la sento» trovai il coraggio di dire, fregandomene di quanto fossi rossa in faccia. «Non ci riesco.»

«Ma se non ci stai neanche provando!» mi accusò Michael, coi suoi piccoli occhi scuri, come quelli di un orso, troppo spalancati e rivolti verso di me.

Accusai in silenzio.

«Michi, senti» intervenne Elena, che era la più coraggiosa e spigliata di noi tre ad avere a che fare coi ragazzi, «lasciala stare. C'è chi è più bravo e chi meno, lei non se la sente. Vado io al suo posto.»

Io intanto mi liberai del caschetto, provvedetti subito a riappiattirmi i capelli e sfilai fuori dal campo, non vista. O almeno così credetti.

«Non giochi più?» mi domandò Michael, accusatorio.

Mi voltai a malapena, rigida, e balbettai qualcosa d'incomprensibile. Non m'importava cosa stava dicendo Elena per difendermi di nuovo: avevo soltanto voglia di uscire dal campo e andare al mio zainetto, sotto all'albero dove l'avevo riposto, a stare un po' da sola. Da sola stavo sempre meglio, soprattutto in quei casi.

Il sole era caldo e il vento era tiepido e debole quel giorno. Avrebbe dovuto essere un pomeriggio di fine anno scolastico all'insegna della leggerezza, del divertimento e dello spirito di unione sbocciato dal fatto di condividere, come classe, quel periodo insieme. Invece io non riuscivo a sentire più niente di tutto ciò... come al solito, la mia imbranataggine nelle cose fisiche la faceva da padrona e rovinava il mio umore e anche, per qualche assurdo e stupido motivo, quello di chi avevo intorno. Ero un disastro, niente di più.

Feci sbattere con noncuranza la schiena contro il tronco dell'albero, accovacciandomi sull'erba. Non mi importava se faceva male. Presi a trafficare con lo zaino al mio fianco, anche se non c'era assolutamente nulla con cui trafficare.

«Ehi» fece la voce di Lucia. Di scatto mi voltai e la vidi torreggiare su di me, con un sorriso gentile ma uno sguardo carico di preoccupazione.

Mi trovavo davvero bene con Lucia. A lei non fregava molto dei pettegolezzi o delle cose da ragazze. Le importava semplicemente essere sincera e onesta, e sforzarsi di essere una buona amica; più o meno come me, solo che io invece facevo un po' fatica sull'essere una buona amica.

«Ehi» replicai, fingendomi serena.

Lucia si aiutò con le mani per sedersi e si mise accanto a me. Era un po' più corpulenta di me, e anche delle altre, ma sembrava sempre a posto con se stessa.

«Che palle Michi, eh?» mi bisbigliò.

Non dissi nulla. Abbassai gli occhi sulle mie scarpe da ginnastica. Poi li alzai, pesanti, su Michael, che stava ancora discutendo con Elena sbracciandosi e gonfiandosi come un tacchino.

«Pensa che gli piaci» proseguì Lucia.

Il sangue mi si rigirò nelle vene. Rimasi senza fiato qualche istante. Ero di nuovo rossa in volto?

«Eh?» fu tutto ciò che riuscii a dire, in difficoltà.

«Così dice Elena, a quanto pare. Che l'ha saputo da Martina.»

Tanto a me non importa. E' un idiota, pensai d'improvviso, con fermezza, come una passata di ramazza a spazzar via quella novità indesiderata. Presi a torturare i lacci delle scarpe con le dita, poi mi voltai su Lucia.

«A te piace?»

«Michi? No!» ribatté lei senza un attimo di tentennamento. «E a te?» Lo disse come se rispondere affermativamente fosse qualcosa di vergognoso.

Io scossi il capo, malcelando un sorriso storto. «Neanche se mi pagano.»

Eravamo entrambe evidentemente a disagio, anche se io ero sicura di esserlo di più rispetto a lei. Lucia sembrava sempre così tranquilla, disinvolta, con le parole giuste da dire al momento giusto. Per un lungo istante mi sorpresi a osservarle il piccolo disegnino di una freccia nera avvolta dalle fiamme con un teschio all'estremità, quello che si disegnava sempre, sotto all'orecchio. O glielo disegnava qualcun altro a casa, non l'avevo ancora capito. Sapevo solo che non era un tatuaggio vero e proprio, perché mi aveva detto che i suoi non gliel'avrebbero mai permesso.

Lucia dovette percepire i miei occhi su di lei, perché si girò rapidamente a intercettare il mio sguardo: i suoi occhi erano verde screziato di grigio-azzurro. Calmavano.

«Che c'è?»

«Niente» ribadii incupendomi e, subito dopo, chiedendomi perché mai lo stessi facendo. «Mi faccio un giro.»

«Quindi non giochi più?» mi chiese lei, un po' dispiaciuta.

«No.» Mi stavo già alzando e allontanando.

«Ma dove vai?»

«Resto qui vicino» assicurai, alzando una mano aperta in segno di saluto, senza voltarmi.

 

E così mi feci una passeggiata, a debita distanza dal campo da baseball improvvisato, assicurandomi di ignorare bellamente ogni tentativo di (quasi) chiunque di intercettare la mia attenzione.

Essa era diretta su una sola persona, nei miei pensieri: Lucia. Perché la trovavo... interessante? Cioè… così. Era strano. Per la prima volta da quando la conoscevo, quel giorno mi ero sorpresa assorta sul suo tatuaggio finto e sulla sua presenza accanto a me, in un modo mai provato prima. Come se... come se mi piacesse. Nel senso, più che come amica.

Una parte di me, fuori dal mio controllo, si era immaginata mano nella mano con lei, e poi percepire il suo profumo.

Non solo come amiche.

Deglutii. Cercai di equilibrare quella sensazione nuova e traballante per mezzo di un profondo sospiro, e grossomodo ci riuscii.

 

Di sicuro, avrei schivato Lucia per un po'. Riprovare quelle cose mi spaventava. Non tanto perché fosse sbagliato, assolutamente no. Ma perché… insomma. Dai. Lucia era un’amica. Un’amica e basta!

 

Che dolce ero… quel che non sapevo, era che l’anno dopo ci saremmo messe insieme.

   
 
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