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Autore: May Jeevas    04/10/2023    1 recensioni
Paesi Baltici, XIII secolo.
Dopo la sconfitta contro un ordine che ha invaso le loro terre e che ha preso la vita dei suoi genitori, il giovane Toris Laurinaitis ha un solo obiettivo: difendere la sua gente da qualunque invasore, che siano i Cavalieri Portaspada o che siano i Vichinghi. E' proprio da una delle tribù scanidinave che un giorno salva Feliks, un giovane un po' stravagante con cui Toris si ritroverà a stabire un rapporto forte e solido. Insieme lotteranno per la libertà dei Curi. La storia darà loro ragione, o dovranno piegarsi agli invasori? [LietPol]
[Questa storia partecipa al Writober di FanWriter.it, lista pumpSea]
Genere: Guerra, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Estonia/Eduard von Bock, Lituania/Toris Lorinaitis, Nordici, Polonia/Feliks Łukasiewicz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3: Dubbio

Feliks si sentiva la testa esplodere e le orecchie fischiavano.
Si sentiva vuoto, come se stesse galleggiando all’interno di una bolla.
Non voleva aprire gli occhi. Quello stato di mezza incoscienza gli stava benissimo. Non aveva freddo, anzi, stava bene, era appoggiato su qualcosa di morbido e lui avrebbe voluto stare così ancora per un po’.
Strizzò gli occhi, cercando di allontare il fiume di pensieri che, sapeva, sarebbe arrivato incontrollabile. Tentò almeno di prendere un’informazione per volta
Era stato costretto a salpare su una nave vichinga per andare in battaglia contro i Curi.
In qualche modo era riuscito a evitare il bagno di sangue nascondendosi sulla nave, non partecipando all’attacco.
La nave aveva preso fuoco.
Lui si era trovato in mezzo tra il fuoco e l’acqua gelida del mare, maledicendosi per l’ennesima volta per non aver imparato a nuotare. Si era buttato tra le onde quando l’albero della nave era caduto e una lingua di fuoco aveva mancato i vestiti di un soffio.
Aveva provato a muoversi sott’acqua, e quello era il suo ultimo ricordo concreto. Quello, e il pensiero che sarebbe morto come sua madre.
Aprì gli occhi a fatica. Bruciavano. Inspirò profondamente. Bene, non era morto. Fissò il soffitto della piccola stanza dove si trovava. Gli intrecci di foglie, paglia e legno fecero correre le pupille fino al punto più alto del sottotetto. Provò a muovere le dita e le braccia, portandole alla fronte. Se le ritrovò sporche di sabbia e fango. Le labbra si piegarono in una smorfietta, mentre voltava il viso per guardare l’abitazione in cui era.
Fosse stato in migliori condizioni sarebbe sussultato nel vedere di fianco al letto dove giaceva un giovane per terra. Feliks sbattè le palpebre più volte per metterlo a fuoco. I capelli marrone scuro gli cadevano sulle spalle e gli occhi azzurri erano concentrati sui movimenti delle mani. Seguì lo sguardo di quel ragazzo e vide dita agili e esperte fabbricare quelle che sembravano frecce. L’arco abbandonato vicino al letto gli diede la conferma. Gli occhi tornarono sul giovane. Aveva un volto dai lineamenti gentili ma segnato da rughe di preoccupazione e quasi da un alone di saggezza. Feliks si morse la lingua a quel pensiero, dandosi dello stupido. Il ragazzo doveva essersi sentito osservato perché si girò verso di lui. Subito gli occhi si indurirono, la calma di poco prima sostituita dal sospetto. Feliks ingoiò a vuoto, sentendosi atterrare da quello sguardo. Il ragazzo gli chiese qualcosa in una lingua che non capì. Continuò a fissarlo con quello sguardo duro, aspettando una risposta. Quando non arrivò, ripetè la domanda, avvinandosi al letto. Feliks lo guardò dritto negli occhi, aprì la bocca ma non uscì nessun suono. Scosse piano la testa, cercando di comunicare con gli occhi.
Il ragazzo esclamò quella che Feliks immaginò fosse un’imprecazione e si passò una mano sui capelli. Con gesti capì che il ragazzo voleva che rimanesse all’interno dell’abitazione. Da come si sentiva, il più piccolo non si sarebbe nemmeno alzato dal letto per i prossimi mesi. Vide il suo ospite prendere un mantello con capuccio verde e dirigersi fuori. Prima di uscire si voltò un ultima volta, il volto aveva perso un po’ della durezza. Si indicò il pesso con l’indice. “Toris” disse. L’altro lo guardò un secondo prima di imitarlo e abozzare un sorriso. “Feliks.”

“Tu hai fatto cosa?!” Eduard non provò neanche a mascherare il suo sgomento. Toris ignorò lo sguardo attonito e indagatore dell’amico, non degnandolo di una risposta.
“Noi non facciamo mai prigionieri!” rincarò la dose, e Toris sbuffò, continuando a sostituire l’ancora della nave dopo che si era danneggiata durante l’attacco.
“Lo so. Ma non è un prigioniero… l’ho sentito parlare la nostra lingua.” era una scusa patetica a cui nemmeno lui credeva. Poteva essere che avesse scambiato una parola per un’altra, che non avesse sentito bene…
Ma perché non lo aveva ucciso subito, mannaggia a lui?!
“Toris, mi hai appena detto che non ti ha capito quando si è svegliato!” sottolineò Eduard, il volto carico di rimprovero.
Non seppe come rispondere a quell’accusa, perché era vera. Non seppe nemmeno perché quella parola sussurrata lo avesse fatto agire così d’impulso. I Curi erano una tribù che basava tutto sulla fratellanza e unione fra loro, ma contro i nemici erano spietati, sempre e comunque.
“Ho pensato che potesse essere uno di noi, Eduard.” dichiarò, cercando di convincere più che altro sé stesso. “Se lo fosse stato? Non mi sarei mai perdonato di averlo ucciso o abbandonato al proprio destino.” i pensieri lo riportarono a sette anni prima e alla sconfitta che avevano subito a Riga, il ricordo del padre di Eduard che raccontava al figlio che avevano pianto i caduti gettandoli nel fiume per tre giorni. Il cervello gli fece vedere i suoi genitori sulle sponde del fiume, ancora vivi, che venivano abbandonati a loro stessi. Ebbe un conato di nausea a quel pensiero e lo cacciò via in fretta. Cercò di riprendersi. “Comunque. È un mio problema e lo risolverò io. Va bene?” guardò l’amico negli occhi. “Non lo dirai a nessuno, vero?”
Eduard ricambiò lo sguardo, prima di abbandonare il cipiglio severo.
“Certo che no, Toris. Ma sappi che non hai molto tempo per sistemare la situazione, il villaggio è piccolo e non potrai tenerlo nascosto per molto.”
Il ragazzo si alzò, l’ancora finalmente a posto. Lo sapeva bene. Si chiese se avesse avuto la forza, se fosse stato necessario, di uccidere quel ragazzino che lo aspettava. Sentì come un pugno allo stomaco nel ripensare allo sguardo che gli aveva rivolto quando gli aveva detto il suo nome. Lo sguardo di uno che si affidava e si fidava a lui. Aggrottò le sopracciglia, negando a sé stesso di sapere già la risposta a quel dubbio.
 


Angolino di May
James o non fa nulla o fa il doppio. Va beh, penso che me lo devo prendere così sto suggeritrama da strapazzo.
Riguardo al capitolo, niente da dire, mi sembra di andare a rilento e per questo mi scuso. Vedremo domani come si comporteranno questi personaggi.
Al solito, critiche e pomodori marci sono ben accetti.
Mata ne!

 

 

   
 
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