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Autore: Flying_lotus95    07/10/2023    1 recensioni
Torino, 1944.
L'omicidio di un ufficiale tedesco, un uomo in fuga, una donna che cercherà di proteggerlo. Amore e odio, segreti e bugie, guerra e pace, sia dentro che fuori.
[𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 2023 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵]
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Prompt: Vergogna
 

Capitolo 4
(Vergogna) e silenzio

 
"Hemos hecho por cada huracán una vela"
 
Presente, 1944
Maxime non aveva socializzato molto con i compagni di Alfredo. 
Durante i pasti, le riunioni, anche chiacchierate formali, il giovane soldato si manteneva in disparte, un po' perché capiva poco alcune espressioni del dialetto piemontese, e faticava di conseguenza a rispondere, e un po' perché percepiva troppo vividamente la mancanza di Agnese. Senza la sua aura protettiva, si sentiva talmente scoperto, da arrivare ad intravedere minacce ovunque. Perfino il fantasma di Gabriel tornava costantemente a tormentarlo, non lasciandogli scampo. 
Infatti, trascorreva quasi tutta la notte in riva al fiume, a piangere in silenzio, a tenersi la testa tra le mani perchè aveva come l'impressione che gli sarebbe scoppiata nel giro di pochi minuti. 
Soltanto Romeo provava a parlargli, a portargli notizie del casale, delle sorelle Martini, e di quello che stava succedendo in città. 
I tedeschi avevano messo a ferro e fuoco le case, avevano chiesto di Maxime a chiunque, ma nessuno sapeva niente. E chi sapeva, aveva taciuto volutamente, per proteggerlo. 
Maxime ascoltava in silenzio, comunicava soltanto con gli occhi, non proferiva verbo neanche sotto tortura. Voleva solo rifugiarsi tra le braccia di Agnese, inginocchiarsi ai suoi piedi e chiederle scusa per quel gesto scellerato.
Lo aveva fatto per lei, per liberarla da quella schiavitù in cui quel mostro l'aveva costretta. 
Ma tutte queste cose, in quel momento, non sarebbe riuscito a dirgliele. Avrebbe continuato a fare scena muta, sperando che attraverso lo sguardo riuscisse almeno a comunicare come si sentisse, che quel suo mutismo non rappresentasse un vero e proprio ostacolo.
Il silenzio era sempre stata un'arma a doppio taglio per lui, fin da bambino: stare in silenzio lo aveva protetto, come anche condannato. Probabilmente anche in quella circostanza avrebbe virato in direzione del secondo caso.
«Giovanni mi ha detto che i tuoi documenti saranno pronti fra qualche giorno» gli comunicò una sera Romeo, mentre si puliva le mani e gli avambracci in un secchio d'acqua.
«A Marsiglia c'è una nave che partirà per Montevideo, in Uruguay» continuò, sperando di coinvolgere Maxime nella conversazione. Peccato che il tedesco lo fissasse abbozzando un sorriso che poteva assumere qualsiasi sfumatura o significato. Romeo sbuffò scocciato, ad un certo punto.
«Senti Max» cominciò, «Capisco come tu ti stia sentendo in questi giorni. Certo, non ho mai ucciso nessuno, almeno fino ad ora, ma non pensi che anche solo parlarne ti aiuterebbe?». Romeo fu brusco e anche poco delicato, ma non parlò con cattiveria. Era seriamente preoccupato per lui, e iniziava addirittura a temere per la sua salute fisica e mentale.
«Tanto per la cronaca, se non gli avessi sparato tu, lo avrei fatto io, prima o poi. Non sopportavo come trattava Agnese, anche se non ho mai compreso la sua ostinazione a voler mantenere Anna all'oscuro di tutto… direi che in questo vi somigliate parecchio! Preferite struggervi dentro, piuttosto che chiedere aiuto!» chiosò Romeo, mentre si sistemava le maniche, risentito.
Maxime continuò ad ascoltarlo in silenzio, senza intervenire. Nel sentir pronunciare il nome di Agnese, però, un guizzo di luce spuntò dalle sue iridi grandi e tormentate. 
«Va bene, ho capito che parlo ai muri, come sempre!» esclamò ancora l'italiano, afferrando la sacca di vettovaglie che avrebbe dovuto riportare indietro al casale.
«Hai un messaggio per Agnese? Anche in tedesco, basta che sia facile?» provò poi, fissando insistentemente l'altro, sperando di scucirgli una sillaba, una vocale, qualsiasi cosa.
Per tutta risposta, Maxime si spostò dalla colonna di legno dove era stato appoggiato tutto il tempo e si sedette su di un gradino, voltando le spalle a Romeo.
Quest'ultimo faticò a trattenere la sua indignazione, a quel punto.
«Fai un po' come cazzo ti pare» sbottò, mettendosi la sacca in spalla e lasciando la stanza con la porta spalancata.
Nel frattempo, Maxime iniziò a sfregarsi le mani sempre più velocemente, curvo su sé stesso, affamato d'aria. Se avesse potuto, si sarebbe staccato quelle stesse mani, per poi schiacciarle ripetutamente sotto la suola delle scarpe. Da quel giorno maledetto, l'odore pestilente di sangue lo perseguitata ovunque, persino quando veniva portata della carne dal casale dava di stomaco. La testa continuava a vorticare, a fare dannatamente male, mentre un solo nome oscillava da un orecchio all'altro, costantemente, come una litania.
Agnese.
Agnese.
AGNESE.
«Vergib mir… vergib mir…» iniziò a mormorare, a dondolare su sé stesso, con la testa tra le mani.
Perdonami Agnese.
Perdonami.
 
♧▪︎♧
 
«Alfredo e i suoi hanno molto appetito, noto!».
Il commento bonario di Ismaele Chiodi, padrone del casale e proprietario del vigneto adiacente, colse di sorpresa un indaffarato Romeo mentre liberava la sacca dalle vettovaglie sporche. 
«Da quando si nascondono tra le montagne, non è che mangino chissà quanto… aspettano tutti i piatti di donna Blanca con grande entusiasmo!» rispose il ragazzo, dopo aver ricevuto una forte pacca sulla spalla da parte del signor Ismaele. 
«Ha mangiato anche Max?» chiese poi, poggiando i pugni sulla tavola, e fissando Romeo con i suoi occhi grigioverdi così duri ed espressivi.
Romeo rispose con una smorfia non molto accomodante. Ismaele si trovò a scuotere il capo, con disappunto.
«Come vorrà affrontare un viaggio così lungo se non mangia nulla?» obiettò, incurante del fatto che, proprio in quel momento, Agnese ed Anna stessero scendendo le scale per raggiungere la cucina. 
La prima colse al volo il discorso che i due uomini stavano per affrontare. Man mano che avanzava nel corridoio, si fece più attenta all'ascolto.
«Magari spera di morire prima» commentò Romeo, rimanendo sul vago, tradendo una punta di acidità nella voce.
Quando Agnese entrò nella stanza, guardò entrambi con occhi di fuoco, facendo immediatamente pentire Romeo di aver proferito con noncuranza quella frase.
«Romeo! Avete gradito il pasto?».
La voce allegra e delicata della diciottenne Anna investì la cucina è le orecchie dei due uomini, che le sorrisero di rimando. Romeo la fissò incantato, come se le fosse apparso davanti la Madonna in persona. Non appena Anna si avvicinò ad Ismaele, Romeo notò che aveva gli occhi leggermente gonfi. Probabilmente aveva speso altre lacrime per quella feccia immonda del tenente von Kusserl. S'indignò al solo immaginarla seduta sul letto, con le mani a coprirle il viso, scossa dai singhiozzi…
Almeno lei ha sfogato, pensò Romeo, deglutendo rassegnato.
«Chi è che ha voglia di morire?». Ci pensò Agnese a distoglierlo dagli occhi di Anna e da quei pensieri infelici.
Romeo increspò le labbra prima di risponderle. Non era sicuro che parlare apertamente di Maxime davanti ad Anna fosse la scelta migliore. Tuttavia, non si trattenne dal farlo troppo a lungo. 
«Quel testone del tuo amico» biascicò stizzito. Osservò di sottecchi la reazione della ragazza, ma non notò nulla di insolito. Agnese era una maschera di cera inscalfibile, come sempre. 
Ismaele, intuendo che di lì a poco si sarebbe affrontato un argomento scottante, pensò bene di allontanare la più piccola con una scusa.
«Anna, ascolta, potresti raggiungere tua zia Blanca in cantina? Il vino qui è finito, ne servirebbe ancora» le disse gentilmente, carezzandole una spalla.
La ragazza, sebbene avesse intuito le vere intenzioni dello zio, senza però capirne il motivo, acconsentì alla sua richiesta, lasciando la cucina con il suo passo danzante. Agnese le carezzò la schiena amorevolmente non appena le passò accanto. I suoi capelli biondo miele lasciarono dietro di sè una buona fragranza di sandalo e girasole.
«Penso che tu debba parlargli, Agnese» iniziò inaspettatamente Ismaele, fissando la nipote severamente. Dopotutto era figlia di suo fratello, aveva il diritto di dirle ciò che pensava, senza filtri.
Agnese lo fronteggiò, incrociando le braccia sotto al seno. 
«Non ho nulla da dirgli» dichiarò, torva. Romeo digrignò i denti di fronte a tanta testardaggine.
«Non hai idea di come sta… non parla con nessuno, non mangia, non dorme… Alfredo mi ha detto che lo ha visto per due notti di fila a piangere in riva al fiume. Se solo provassi a parlar-»
«Non spendo il mio tempo con un assassino» fu la risposta concisa di Agnese, mantenendo il mento alto con superbia. A quel punto Romeo faticò a mantenere la calma.
«Ma come puoi essere così dura con lui? Davvero vuoi farmi credere che lo odi per l'omicidio di Kusserl?» e nel nominare il cognome dello sfortunato tenente delle SS, Ismaele lo invitò ad abbassare la voce, zittendolo.
«Dovresti buttarti ai suoi piedi e fargli una statua, piuttosto! Dopo tutto quello che quell'abominio ti ha fatto… se solo penso che ad Anna non hai detto niente-»
«Mia sorella non deve sapere nulla. Gabriel con lei si è sempre comportato bene!»
«Certo! Bastava che tu gli facessi da zerbino ed era contento, quel gran pezzo di-»
«Volete piantarla di discutere?!».
Ismaele cercò di mettere un freno a quella discussione, che nel silenzio della sera, avrebbe sicuramente attirato attenzioni inopportune.
«È stato commesso un atto imperdonabile, e su questo non c'è nulla da ribattere» dichiarò l'uomo, mettendo in chiaro una volta per tutte come stessero realmente le cose.
«Tuttavia, Agnese… non sappiamo quali sono state le motivazioni che hanno spinto Maxime a compiere quel gesto. Magari con te-»
«Io non voglio averci nulla a che fare con quel disgraziato!».
Per la prima volta da quando era scoppiata in sagrestia contro Maxime, inveendogli addosso, Agnese aveva alzato la voce e mostrato turbamento in viso. Romeo ed Ismaele la fissarono come se non la riconoscessero. O forse, in realtà, l'avevano finalmente ritrovata fra tutta quella finta indifferenza che le era cresciuta intorno come edera.
«Se proprio il signorino vuole parlare con qualcuno, andasse a chiedere scusa alla vedova di Gabriel e ai suoi due figli! A quei bambini nessuno restituirà più il loro padre!».
Agnese era adirata oltre ogni dire. Ma Romeo volle giocarsi ugualmente quell'ultima carta, anche se sapeva che la sua sarebbe stata una mossa sleale, infida. Le chiese scusa internamente prima di sganciare quella potente granata.
«E a te chi te lo restituirà tuo figlio?».
Sia Agnese che Ismaele lo guardarono scioccati, senza parole.
Ad Agnese per poco non mancò l'aria dinnanzi a quella dichiarazione. Tornò con la mente a quel giorno terribile, all'ambulatorio, alle grida disperate… alla vergogna che aveva provato durante e dopo. 
«Io non ho mai avuto figli» dichiarò, per poi uscire dalla cucina quasi di corsa. Ismaele fece per seguirla, ma poi si arrestò. Non riusciva a credere alle sue orecchie.
Guardò Romeo con astio, cercando di carpire altre informazioni a riguardo. 
«Cos'è questa storia, Romeo? Di che figlio parli? Agnese è una brava ragazza, illibata! Come ti è venuto di-»
«Mi dispiace, signor Chiodi» dichiarò, ed era mortificato sul serio.
Si era ripromesso che non avrebbe parlato ad anima viva di quel giorno, di quello che aveva visto. Aveva tradito la fiducia di Agnese soltanto per smuoverla, soltanto per farle crollare quell'armatura che si trascinava addosso da troppo tempo, da sola. Gabriel von Kusserl l'aveva talmente caricata di terrore, che non le aveva concesso un solo momento per respirare, neanche uno spiraglio fugace.
Soltanto lui e Maxime erano a conoscenza del demonio che era, soprattutto nei confronti di Agnese. 
«Temo di aver parlato troppo» disse poi in conclusione Romeo, apprestandosi a lasciare a sua volta la cucina. Ma Ismaele lo bloccò per un braccio, con una forza tale che rischiò quasi di spezzarglielo.
«Qualcuno ha osato toccare mia nipote sotto il mio tetto e non ne ero a conoscenza? Chi è stato il bastardo?».
Romeo deglutì, ma non riuscì a dire altro. Non voleva creare ancora più danni di quanti ne avesse già creati con la sua stoltezza.
«State tranquillo, signor Chiodi. Lucifero è tornato negli Inferi». E con questa frase enigmatica, si scostò gentilmente dalla stretta ferrea dell'uomo, raccogliendo la sacca e uscendo dalla cucina con la stessa fretta che aveva avuto Agnese poco prima.
Ismaele si passò una mano sulla faccia, sospirando stanco. Poi alzò gli occhi verso il soffitto, in direzione del piano superiore. Avrebbe dovuto parlare con Agnese, e farsi dire tutto, dall'inizio alla fine. E se fosse stata tanto ostinata da non cedere, avrebbe saputo a chi rivolgersi.
 
Agnese non fece neanche in tempo a chiudersi la porta della stanza dietro le spalle, che un nuovo conato di vomito la colse di sorpresa.
Fece giusto in tempo a raggiungere la bacinella, dove vomitò quei pochi succhi gastrici che aveva prodotto il suo stomaco.
Si sentiva agitata e nervosa, diede la colpa del suo stato a quella situazione complessa in cui Maxime aveva buttato tutti quanti, senza volerlo.
Ripensò ancora una volta alla frase che Romeo le aveva lanciato contro pochi istanti prima.
A te chi ti restituirà tuo figlio?
Nessuno glielo avrebbe mai restituito. Come nessuno le avrebbe mai potuto restituire la sua virtù. Quella virtù che aveva concesso all'uomo di cui era stata innamorata da sempre, ottenendo in cambio solo fiele e sofferenza. 
 
Un giorno mi ringrazierai, Anja. Volevi che tutti sapessero che aspettavi un figlio da un uomo sconosciuto? Come avresti guardato in faccia i tuoi zii? E tuo padre, tua madre? La loro figlia prediletta, incinta e nubile… 
Tu che hai sempre tenuto all'orgoglio della tua famiglia, di te stessa… 
L'ho fatto per te.
 
Agnese si coprì le orecchie e soffocò un urlo nel ricordare il discorso che le fece Gabriel tempo addietro, mentre era ancora seduta su quel lettino in ambulatorio, e un dolore sempre più atroce al bassoventre.
Le perdite di sangue dei mesi successivi erano state un vero incubo da sopportare, senza richiamare l'attenzione di sua zia o sua sorella.
Agnese aveva pensato di essersi meritata quella punizione. Era stato il prezzo per aver desiderato che le cose tra lei e Gabriel tornassero a come erano prima di quel giorno nei boschi in Germania, di quel fatale giorno in cui aveva conosciuto un lato di Gabriel che mai si sarebbe aspettata di scorgere.
Singhiozzante e disperata, Agnese si coricò ancora vestita e con le scarpe ai piedi sul letto, invocando perdono a quel figlio mai nato, lasciandosi annegare in quel mare di vergogna e silenzio, finché il sonno non la colse a sfinimento. 

 
“Hemos visto quemarse los sueños
Y de pronto ver cómo renacen con solo un beso”
 
(Pablo Alborán - Castillos de arena)
   
 
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