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Autore: Flying_lotus95    10/10/2023    1 recensioni
Torino, 1944.
L'omicidio di un ufficiale tedesco, un uomo in fuga, una donna che cercherà di proteggerlo. Amore e odio, segreti e bugie, guerra e pace, sia dentro che fuori.
[𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 2023 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵]
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Prompt: Caccia
 

Capitolo 5
A (caccia) di morte

 
"Hemos hecho con todas las piedras un imperio"
(Pablo Alborán - Castillos de arena)
 

Torino, 1944

«Brünner non può essersi volatilizzato nel nulla senza lasciare alcuna traccia!».
Il capitano Schlütz era su tutte le furie. Tre giorni di ricerca e di quel soldato non si era vista nemmeno l'ombra. Le campagne piemontesi erano riuscite ad essere molto più ostiche della loro tanto decantata Schwarzwald. 
Non era servito a niente corrompere, intimorire i contadini, minacciare di mettere a morte i loro familiari se non avessero collaborato: il tempo del silenzio e del dominio stava per raggiungere il suo culmine massimo, e Schlütz ormai ne era fin troppo consapevole.
Stavano perdendo sempre più potere, e l'omicidio di Gabriel von Kusserl era stata la goccia che fece traboccare il vaso. La sua perdita si era fatta sentire, e non sarebbe passata inosservata.
«Dev'esserci un posto, una buca, un masso, un ponte, dove quel disgraziato avrà trovato rifugio!». Schlütz battè così forte il pugno sulla scrivania, da far saltare i soldati in riga lì davanti a lui. 
«Abbiamo setacciato in lungo e in largo, capitano… Ma di Brünner… di Brünner non abbiamo-»
«Sciocchezze!» tuonò il soldato, zittendo la povera recluta che aveva tentato di spiegare le ragioni del loro fallimento.
«La verità è che vi fa paura affrontare quei quattro bifolchi che si nascondono sulle montagne! Perciò non osate addentrarvi! Temete per il vostro lurido culo!» e fece il giro della scrivania, fronteggiando uno di loro dritto in faccia, «Non siete degni di indossare questa divisa!». Il povero sventurato che si era preso il rimprovero dritto in faccia, chiuse gli occhi e deglutì, cercando di non darlo a vedere. 
«Adesso uscite da quella porta, e mi fate il favore di tornare con una pista in mano, delle informazioni, se proprio non sapete scovare quel traditore! Ma vi giuro sul Führer, che se tornate indietro a mani vuote, vi taglio le palle e le esibisco in pubblica piazza prima di darle in pasto ai porci! Mi sono spiegato?!». Il tono del capitano non ammise alcuna replica.
«Signorsì, capitano!»
«Agli ordini!»
«Jawohl!».
Dopo essersi messi in riga per il saluto militare, i soldati si precipitarono fuori la porta, tradendo una certa fretta.
Lo sguardo di Schlütz li accompagnò con freddezza fino all'uscita dell'ultima schiena.
Giurò a sé stesso che avrebbe trovato quell'omicida traditore, fosse stata l'ultima cosa che sarebbe stato in grado di fare.
Poi, come se un'entità superiore avesse accolto il suo giuramento, il caso volle che l'occhio gli cadde su di una cartina ingiallita, con varie X rosse segnate sopra. 
Si diede mentalmente dell'idiota.
Tra tutti i posti setacciati, ne mancava soltanto uno all'appello. 
Il più scontato.
 
◇ ☆ ◇
 
La visita di Ismaele al rifugio dei partigiani lasciò tutti i presenti di stucco, compreso Alfredo, che aveva fissato l'uomo interdetto. Ricordava ancora forte e chiaro la volontà ferrea del fratello maggiore di non volersi immischiare nella lotta contro la liberazione dell'occupazione nazista. 
Si era voluto mantenere basso per proteggere le figlie dell'altro fratello, quello di mezzo tra lui ed Alfredo, che aveva mandato in Germania per permettergli un futuro e farlo studiare, dopo la morte dei loro genitori. 
Aveva anche accettato la presenza degli uomini di Kusserl nelle sue terre, pur di non mettere a rischio la vita di sua moglie e delle sue nipoti.
«Oggi scenderà giù un fortunale!» dichiarò Alfredo, attirandosi le risate di Dante e gli altri compagni.
«Pensavo non avessi più l'età per venire a caccia nei boschi!».
Ismaele guardò il fratello minore alzando un sopracciglio, con aria divertita nonostante tutto.
Si tolse il cappello con la visiera ampia, sedendosi su di un tronco come se fosse stata una comoda poltrona.
«Non me lo offri un goccio di vino, scansafatiche?» lo beffeggiò l'uomo, piazzando le mani aperte sulle ginocchia, circondato dal gruppo capeggiato dal fratello minore.
«No anzi, aspetta!» fece Ismaele alzando una mano, e dalla bisaccia consunta estrasse una damigiana di vino rosso, di grandezza media. L'uomo stappò via il tappo di sughero senza ulteriori sforzi.
«Mi servo da solo!» dichiarò, e mandò giù un'abbondante sorsata, visibilmente soddisfatto.
Poi la passò ad Alfredo, che non esitò a berne anche lui, come un assetato perso in mezzo al deserto, passandola poi ai compagni, desiderosi di bere del buon vino dopo giorni di astinenza.
«Perchè ti sei scomodato dal tuo casale?» chiese poi Alfredo, sedendosi di fronte al fratello maggiore. Avevano lo stesso sguardo, sebbene quello di Ismaele fosse molto più maturo e forte dell'altro.
Quest'ultimo non tergiversò troppo intorno alla questione.
«Devo parlare con Maxime» disse, rigirandosi il cappello tra le mani. Alfredo sghignazzò divertito.
«Buona fortuna allora! Neanche il tuo sguattero è riuscito a farlo parlare… quello capisce solo Agnese» disse, fregandosi le mani per pulirle dalla terra e la fuliggine.
Ismaele si adombrò in viso nel sentire il nome della nipote più grande.
«È proprio di lei che gli devo parlare» confessò, fissando ancora una volta Alfredo negli occhi. Non sembrava stesse scherzando.
«Lui sa qualcosa che io non so… che Agnese mi ha volutamente tenuto nascosto» continuò Ismaele, cercando di contenere il suo disappunto «qualcosa che se dovesse arrivare alle orecchie di Furio non saprei come guardarlo in faccia».
Alfredo sollevò un sopracciglio nel sentire il nome dell'altro fratello. Non lo sentiva da anni, da quando si erano separati da bambini… aveva sempre detto di detestarlo, che da quando viveva a Dresda si era fatto molto "provinciale", ma nel vedere per la prima volta le figlie, una volta giunte a Torino, il richiamo del sangue lo aveva avvertito tutto, forte e chiaro. 
Quelle volte che aveva avuto a che fare con Agnese, gli era parso di discutere direttamente con Furio, azzerando tutta quella distanza durata anni. 
«E cosa c'entra il tedesco?» domandò Alfredo, sospettoso. Aveva intuito che tra i due ragazzi ci fosse qualcosa che andasse molto più in là di una semplice amicizia, ma l'istinto gli aveva suggerito che quel soldato silenzioso e riservato non fosse il tipo da andare ad importunare fanciulle senza alcun criterio. Al contrario del tenente, che non gli era piaciuto fin da subito…
«Questo me lo deve dire lui» esclamò Ismaele, alzandosi con fatica dal tronco, stirandosi la schiena. «Dove posso trovarlo?» aggiunse poi, fissando il fratello con severità. Alfredo si limitò ad indicare il capanno, contraccambiando il suo sguardo con la stessa intensità.
«Sarà tutto inutile comunque» si sentì in dovere di avvertirlo, serio «L'unica volta che l'ho sentito parlare è stato quando mi ha implorato di nasconderlo tra i miei uomini. Da allora non ha più aperto bocca».
Ismaele soppesò le parole di Alfredo per qualche minuto, ma non si diede per vinto in fretta.
«Magari con un aiutino diverrà più loquace» e tirò la cinta della bisaccia, indicandola col mento. Alfredo sbuffò una risata a labbra chiuse.
«Hai intenzione di farmelo ubriacare?» chiese, tra il serio e il faceto. Ismaele sogghignò tronfio.
«Non sarebbe una cattiva idea!».
 
○●○
 
Maxime era coricato sulla branda con le mani posate sopra all'addome, quando si vide apparire Ismaele Chiodi dal nulla. 
Si alzò di scatto, e il gesto gli fece girare la testa per qualche secondo.
«Stai comodo, figliolo» dichiarò l'uomo, avanzando nella stanza semivuota con innata confidenza. Si guardò velocemente intorno prima di tornare da lui con lo sguardo. 
«Vedo che Alfredo ti fa stare nel lusso!» commentò, sedendosi su di una sedia poco lontano dalla branda su cui Maxime era steso. 
Lo fissò dritto negli occhi per qualche secondo: voleva fargli capire che non veniva né per portare cattive notizie, e né per fargli una ramanzina. Anche se probabilmente se la sarebbe meritata.
Maxime si sistemò meglio sulla branda, portandosi le ginocchia al petto. Le labbra tremarono in un sorriso incerto.
«Hai combinato un bel guaio, eh moccioso?». Ismaele non riuscì ugualmente a tenere per sé quel pensiero, senza però risultare scorbutico o scostante. Maxime gliene fu grato per questo.
«Un'accusa di omicidio non si leva tanto facilmente dalla fedina penale di una persona» continuò Ismaele, incurvandosi in avanti e intrecciando le dita tra loro.
«Eppure sei consapevole del fatto che qui ognuno sta facendo la sua parte per aiutarti? Stiamo tutti ricambiando il favore. E non siamo tenuti a farlo, visto cosa e chi rappresenti». 
Ismaele aveva parlato lentamente, proprio perchè voleva che Maxime capisse e comprendesse il significato che si celava dietro al suo discorso. Poco gli importava, al momento, se lui gli avesse risposto o meno. 
Il ragazzo si limitò ad annuire, abbassando ad intermittenza lo sguardo.
«Come tu non eri tenuto a proteggere Agnese… eppure lo hai fatto. L'hai difesa da quel tenente, e sono venuto a chiederti il motivo». 
Ismaele notò come l'attenzione di Maxime si fosse accentuata nell'udire il nome della nipote dal nulla. Le iridi le si erano mosse, emozionate.
«Ho bisogno di sapere cosa è successo, Maxime. Se lo chiederò a mia nipote non me lo dirà mai, è testarda e caparbia come pochi» Ismaele cercò di mostrarsi calmo, pacifico. Aveva bisogno di togliersi quel tarlo dal cuore e l'unico che poteva aiutarlo ad estrarglielo era proprio quel giovane tedesco che si ostinava a restare zitto. 
«Cosa le ha fatto Kusserl? L'ha forzata a stare con lui?».
Maxime deglutì a quella domanda, improvvisamente timoroso. Gli si leggeva in faccia come un libro aperto. Ismaele avvicinò la propria sedia, accomodandosi più vicino al ragazzo. Adesso lo fissava dritto in faccia, senza filtri.
«Maxime… per favore…».
Una lacrima scese dall'occhio sinistro del giovane. Una lacrima solitaria che gli scese lentamente lungo la guancia sporca, la barba era giusto un po' annunciata. 
Iniziò a tremare, parlare dopo tanto tempo, e per di più in italiano, gli comportò una fatica enorme.
«Il- Il tenente…». Si bloccò.
Ismaele lo fissò torvo, carico di aspettativa.
«Cosa?»
«Il tenente von Kusserl…». Si bloccò nuovamente, avvertiva come granelli di sabbia sulla lingua che gliela faceva incespicare.
«Sì? Avanti figliolo, parla» lo incoraggiò Ismaele, con estrema delicatezza. Lo vedeva terrorizzato e non avrebbe avuto alcun senso inveire contro di lui.
Maxime ispirò profondamente dal naso, nel chiudere gli occhi altre lacrime scivolarono lungo le guance, per andarsi a schiantare contro lo sterno.
«Il tenente von Kusserl non ha fatto niente ad Agnese» dichiarò infine. E un pezzo di sé sprofondò nei meandri della sua anima, in un mare nero.
Ismaele aggrottò la fronte, interdetto. 
«Come?» insistette, facendosi più vicino e più minaccioso.
Maxime ispirò ancora, stavolta dalla bocca.
«Voleva denunciarmi perché aveva scoperto che - che avevo abusato di lei… mi sono sentito perso, e così ho impugnato la pistola-»
«Perchè stai mentendo?».
Se c'era una cosa su cui Ismaele non sbagliava mai era fare affidamento sul suo sesto senso. Quel ragazzo gli era sembrato troppo affranto ed amareggiato, non si stava liberando di alcun peso. Al contrario. Se ne stava caricando uno addosso ben peggiore, talmente opprimente da non lasciarlo respirare. 
«No, io-» provò a difendersi Maxime, ma Ismaele si alzò dalla sedia e lo afferrò per le spalle, scuotendolo con forza.
«Perche continui a difendere quel lurido lestofante? Ti fa così paura anche da morto, eh?».
No, a Maxime non faceva paura, sebbene si sentisse in colpa per quello che aveva fatto. Tutto quello che aveva fatto, tutto quello che aveva detto, lo aveva fatto e detto per Agnese. Solo e soltanto per lei. Perché non voleva che il suo odio verso di lui continuasse a crescere. Si sarebbe buttato addosso tutta quella merda solo per il suo amore e la sua riconoscenza. Non avrebbe rovinato tutto ancora una volta, non l'avrebbe permesso.
«Ti prego Max, ho bisogno di sapere! Perchè mai lo state-»
«Perchè Agnese gli voleva bene! Gli voleva bene e gli avrebbe perdonato qualsiasi cosa!».
Quella frase, urlata in tedesco, Ismaele la capì perfettamente. Fissò Maxime con occhi sgranati, senza agitarlo, ma con le mani ancora strette alle sue spalle.
«Io gliel'ho portato via… merito di finire i miei giorni in carcere! Sono un assassino, invidioso, inetto, traditore! Ogni giorno spero che una pallottola vagante mi prenda al cuore o alla testa, così finirò i miei giorni su questa terra! E voglio morire invocando il suo nome, affinché mi perdoni e preghi per la mia anima…».
Maxime non riuscì più a trattenere il pianto che esplose in tutta la sua vigorosità. Ismaele gli accarezzò il capo, come aveva fatto a suo figlio molti anni prima, quando era ancora un ragazzino. Caso aveva voluto che entrambi avessero un nome simile: Massimo e Maxime. E quest'ultimo glielo aveva ricordato in più occasioni. Persino sua moglie Blanca lo aveva trattato con dolcezza proprio come se fosse stato figlio loro, indipendentemente dalla divisa che indossava e la lingua che parlava.
Gli aveva pulito la divisa, preparato la colazione, incurante del fatto che lo stesse facendo per un nemico. 
Immagino le loro madreli, poverine, quanto stiano in pensiero a saperli in un posto straniero… magari chissà, allo stesso modo Massimino avrà trovato qualcuno laggiù che si prenda cura di lui…
Ismaele aveva ricordato le frasi che Blanca gli aveva riferito, poco dopo la partenza del loro unico figlio al fronte. Le aveva invidiato tutto quell'amore, quella dedizione, che lui aveva mostrato solo per paura di ritorsioni, per paura di rappresaglie e vendette. 
L'aveva invidiata ed ammirata quando l'aveva vista non cambiare atteggiamento verso quei soldati neppure dopo la notizia della morte di Massimo al fronte.
Lo piangeva ogni notte, in silenzio, chiusa nella sua stanza, mentre poi durante il giorno si dedicava alla casa, alla vigna, alle nipoti. La sua cara, dolce e tanto forte Blanca… 
«Tu non sei queste cose» dichiarò Ismaele, sull'orlo del pianto, in preda ai ricordi.
«Tu meriti di vivere, e proprio per questo ti faremo salire su quella nave!». Appoggiò la propria fronte a quella di Maxime, che non aveva smesso di piangere neanche un secondo, finalmente libero di sfogarsi.
«Ti ringrazio di averla difesa, Maxime. Te ne sarò grato finché vivrò». E lo strinse in un abbraccio forte, incoraggiante, caloroso. Maxime si lasciò andare, aumentando il pianto d'intensità, come un bimbo piccolo salvato in extremis dal proprio padre.
Lui, che un padre non lo aveva mai avuto.
E l'altro, che un figlio lo aveva perduto, ma lo aveva ritrovato inaspettatamente dall'altra parte della frontiera, negli occhi di un forestiero.
 
▪︎♤▪︎
 
Agnese stava finendo l'ultimo giro di maglie all'uncinetto, quando Romeo entrò nel salotto, bussando piano alla porta.
Agnese lo fissò con sufficienza, non dedicandogli troppa importanza.
«Se cerchi Anna sarà in camera sua» rispose vaga, continuando a lavorare a maglia. Romeo avanzò nella stanza, infilandosi le mani in tasca.
«Veramente stavo cercando te» dichiarò, con un piccolo colpo di tosse.
Agnese smise di smanettare, guardandolo seria.
«È successo qualcosa a-» si bloccò prima di proferire il nome di Maxime. Lo inghiottì, restando a testa alta.
Romeo trattenne la risata che gli sarebbe esplosa di lì a poco. L'espressione che mise su Agnese, sebbene fosse seria, le risultò buffa a causa delle guance imporporate di viola.
«Che io sappia no, a quanto pare sta sempre nel suo mutismo» commentò, grattandosi la nuca. Agnese poggiò l'uncinetto sul tavolino da tè e si mise seduta meglio tra i cuscini del divano.
«E allora cosa c'è?» chiese, sbrigativa.
Romeo stralunò gli occhi a metà, reprimendo la sua voglia di litigare. 
«Volevo chiederti scusa… per ieri sera» esclamò, e guardò ovunque nella stanza, fuorché la diretta interessata. 
«Non avrei dovuto dire… insomma, non davanti al signor Chiodi! Io, ecco… è che il tuo comportamento mi fa rabbia, ecco!».
Agnese lo fissò corrucciata, come se non avesse colto con chiarezza cosa gli avesse detto, quando in realtà aveva colto benissimo.
«Maxime ha sbagliato, ne siamo tutti consapevoli… però… se penso a quello che ti ha fatto, a come ti ha trattata… Capisco anche che tu abbia voluto tenere Anna lontana da tutto questo, perché quello lì ha avuto almeno la decenza di non commettere schifezze in sua presenza… Ma tu come hai fatto a sopportare tutto da sola, in silenzio? Non so se ammirarti o rimproverarti per questo». Romeo aveva parlato come un fiume in piena, mordendosi le labbra e sfregandosi le mani tra loro con un certo nervosismo. 
Smise soltanto perché Agnese lo stupì con le sue parole, prendendolo in contropiede.
«Sono io che devo chiederti scusa».
Romeo alzò lo sguardo, perplesso. Faticò a credere cosa l'amica gli avesse appena detto.
«In questi giorni ho davvero esagerato… ma quando vi ho visti arrivare in chiesa quel giorno, dopo averlo visto tutto sporco di sangue… sulle prime avevo pensato che lo avessero ferito…». Ad Agnese mancò l'aria nel ricordare la camicia di Maxime sporca del sangue di Gabriel. Quelle camicie che profumavano sempre vagamente di pino selvatico… Maxime le aveva sempre dato l'idea di un sole tiepido d'inverno, che nonostante il gelo intorno, riuscisse ad emanare ugualmente calore. E in più di un'occasione, Agnese quel calore lo aveva percepito, in ogni sorriso che le aveva rivolto, in ogni saluto… Un calore che con Gabriel non aveva mai più ritrovato, neanche andandoci a letto. Di quel calore, ne era rimasta soltanto una lieve eco dell'infanzia.
«Insomma, mi avete fatta preoccupare più del necessario. E ciò non toglie che Maxime ha commesso un omicidio».
Un omicidio che avrei dovuto consumare con le mie stesse mani, ma Agnese quel pensiero preferì non esternarlo. 
«Non so come aiutarlo, Romeo. Ho paura di guardarlo negli occhi e capire che non posso fare niente per lui… perché mi sento piccola ed impotente. Farlo fuggire in Uruguay è l'unica alternativa che abbiamo, e alla stesso tempo… allo stesso tempo non vorrei allontanarmi da lui».
Agnese abbozzò un sorriso, portandosi entrambe le mani all'altezza del ventre, incerta se toccarselo o meno.
Romeo sorrise a sua volta, intenerito. Erano rare le volte in cui Agnese si apriva così a qualcuno senza innalzare mura di cinta attorno a sé. E un po' ci aveva sperato che con Maxime avesse abbassato quelle mura. Internamente, aveva sempre tifato per l'amico tedesco al posto di Gabriel.
«Per cui… puoi perdonarmi se sono stata così acida?» mormorò Agnese, a capo chino, dritta a fissare il bel tappeto persiano che copriva parte del pavimento.
«Uhm, non so… ci devo pensare, guarda!» scherzò Romeo, facendole l'occhiolino.
Agnese incrociò le braccia sotto al petto, fintamente risentita.
«Ah sì? Bene, allora vorrà dire che non approverò il tuo fidanzamento con Anna!» lo minacciò, schernendolo. Romeo divampò nel sentirla parlare a quel modo.
«Ma, ma… Ma per chi mi hai preso?» si difese, cercando di non dare a vedere di essere stato colto in flagrante sui propri sentimenti.
«Non ho mai detto di amarla! Non inventare fesserie!». Il viso di Romeo aveva cambiato diverse tonalità di rosso nel giro di due secondi.
Agnese a quel punto scoppiò a ridere di gusto, scuotendo le spalle e portandosi una mano in viso, coprendosi la bocca.
«Beh, tanto meglio… non avrei mai lasciato la mia sorellina nelle tue mani, sei poco affidabile!» e concluse con una bella linguaccia alla volta del povero Romeo.
«Ha parlato la regina dei simpaticoni!» borbottò, incassando il collo nelle spalle.
Agnese gli si avvicinò e gli allargò le braccia, un muto invitò. Romeo dimenticò presto la presa in giro e abbracciò l'amica con trasporto. L'ultima volta che si erano abbracciati era stato un lontano pomeriggio, poco dopo gli eventi di quel giorno nefasto, in cui Gabriel aveva deciso della sua vita senza neanche farle avere voce in capitolo sulla questione. Agnese, a differenza di Anna, era sempre stata più ritrosa al contatto fisico.
Ma quell'abbraccio venne interrotto bruscamente da un rumore sordo, ripetuto. Un rumore simile a spari in lontananza.
Ad Agnese le mancò un battito. Suo zio non era ancora tornato, e se fosse stata l'ennesima sparatoria che avveniva tra tedeschi e partigiani, non poté fare a meno di pensare a Maxime. 
Si diresse così nell'armeria di Ismaele, dove teneva conservati i fucili per la caccia.
Agnese ne prese uno e un altro lo diede a Romeo.
«Agnese, cosa vuoi-»
«Non dobbiamo permettergli di raggiungere il casale!» decretò, pratica. Romeo la fissò, incredulo.
È proprio nipote di quel pazzo di Alfredo, pensò, ma non lo esternò.
Impugnati i fucili, uscirono dal portone, ben attenti a non farsi scorgere dalla scalinata esterna.
Ad ogni sparo, Agnese pregò per la sorte dei suoi zii e di Maxime. 
Pregò affinché non dovesse piangere nuovamente su di un'altra tomba.
   
 
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