Note
Importanti: sconsiglio la lettura alle lettrici e ai
lettori troppo giovani e/o sensibili. La lettura di questo testo potrebbe
triggerare chi ha vissuto situazioni simili in real
life. Ho cercato di non andarci giù troppo pesante, ma, allo stesso
tempo, non mi sentivo neanche di edulcorare la tematica né mi permetterei mai
di romanticizzarla (al massimo, troverei una maniera catartica per affrontare
il tema nella scrittura, ad esempio usando il CNC e affini). Quindi il
risultato è una OS un po’ pesante, da scrivere e da leggere; soprattutto per
chi ha vissuto dinamiche del genere sulla propria pelle.
Fino all’ultimo sono stato tentato di
cancellare quello che avevo scritto e sviluppare questo prompt (vetro) nella
maniera più letterale. Ad esempio, scrivendo di Bloom che impara l’arte della
soffiatura del vetro dal Maestro Vetraio Sebastian, a Venezia, ma alla fine ho
voluto optare per l’usare questo Writober 2023 anche per raccontare le anime di
coloro che hanno vissuto momenti traumatici come quello che state per leggere.
Spero di aver fatto un buon lavoro, almeno nelle intenzioni. Mi ha abbastanza
svuotato scrivere questa breve OS.
Oltre a darvi il mio conforto virtuale, non
saprei cos’altro aggiungere—che non sia banale.
Sappiate solo che il problema non siete
voi, non lo siete mai state/stati. La responsabilità di quello che vi è
accaduto non è vostra, ma di chi si è approfittata/approfittato del vostro tempo e della
vostra vulnerabilità.
Vi auguro ogni bene.
Lo so che il corretto ordine delle parole
nel titolo dovrebbe essere: Tints, Tones & Shades (mancano anche
altre diciture legate a questo mondo), ma ho arbitrariamente deciso di
assegnare alle parole questo ordine per una pura questione di piacevolezza di
pronuncia consequenziale delle parole. Spero capirete, grazie.
𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵
Prompt giorno 16: vetro
[Stalker!AU]
STALKER
3005 parole
Era tornato a disturbarla
anche durante le ore del giorno. Non bastava aver contaminato i suoi sogni? O
per meglio dire, incubi.
“Puttana” recitava
la scritta in stampatello sul vetro tirato a lucido dello specchio dalla cornice
barocca. Aveva usato un rossetto rosso, probabilmente quello che da giorni Bloom
non trovava più nella sua trousse e pensava di aver perso.
Erano passati tre anni
dal suo ultimo messaggio. Sembrava essersi stufato di lei, perché non le aveva
più mandato né messaggi sessualmente espliciti né fotografie che la ritraevano
mentre dormiva nel suo letto o passeggiava con le sue amiche o, ancora, mentre
faceva la fila da qualche parte. Pensava si fosse arreso, che magari fosse
morto, o, egoisticamente, Bloom aveva sperato che chiunque fosse il suo stalker—dai
messaggi sembrava riferirsi a sé come un uomo—si fosse spostato su un’altra
vittima.
Bloom ci aveva messo un
po’ di tempo a definirsi una vittima. La parola suggeriva impotenza, e a Bloom
non era mai piaciuto sentirsi impotente. Ora più che in passato, dopo quello
che era accaduto quei fatidici tre anni fa.
All’inizio si dava ogni
colpa: di averlo in qualche modo giustificato, di essere stata troppo dura con
lui e questo lo aveva spinto a vendicarsi su di lei, di aver fatto a sua volta
del male a qualcuno vicino a lui e che quello che le stava accadendo fosse un
modo per pareggiare i conti e farle capire come ci si sente. Ma, pensandoci
bene, era giunta alla conclusione che niente di quello che poteva aver fatto
nei suoi miseri sedici anni di vita, potesse giustificare un simile trauma.
Era iniziato tutto il
primo giorno di iscrizione in palestra…
—ooOoo—
Aveva appena finito le
sue due ore e, cambiatasi in fretta solo le scarpe, si rifiutava di condividere
lo spogliatoio con donne adulte che non si facevano problemi a camminare nude
di fronte a delle adolescenti—era bastata l’esperienza avuta quando li aveva
usati due ore prima, per cambiarsi appunto le scarpe e indossare quelle adatte
alla palestra. Avevano la suola immacolata e le usava solo all’interno, per non
sporcare gli attrezzi.
Era arrivata da poco in
Irlanda, aveva iniziato a frequentare la scuola cattolica da alcune settimane.
Non aveva ancora fatto chissà quali conoscenze, figuriamoci amicizie, quindi
aveva chiesto ai suoi genitori adottivi di potersi iscrivere in palestra. Non era mai stata in una professionale, neanche in America, dove era nata, ma aveva
creduto che l’avrebbe distratta dai pensieri e dato una valvola di sfogo per la
frustrazione e rabbia costante che la caratterizzava fin dall’infanzia.
Salutò lo staff della
palestra, il personal trainer che la seguiva, si diresse alla fermata dell’autobus
a cinquanta metri dalla struttura e salì di tutta fretta sull’autobus per
tornare a casa. Scese a qualche fermata prima di quella più vicina a casa sua, era
una misura di sicurezza che era solita prendere, ma evidentemente non
aveva funzionato granché. Si fermò cinque minuti in un piccolo negozio di
alimentari per acquistare un’altra bottiglietta d’acqua e una barretta
proteica.
In resto del tragitto
verso casa se lo fece a piedi. Entrò dalla porta d’ingresso e, dopo aver
salutato tutti con un “sono a casa” ad alta voce, si diresse in camera sua per spogliarsi
e infilarsi sotto il getto dell’acqua calda.
Uscendo dalla doccia,
notò che la finestra della sua camera era aperta e che i vestiti sudati che
aveva lasciato sul parquet erano spariti. Al tempo, non ci prestò troppa attenzione.
Quella sera, litigò con sua madre adottiva perché Bloom l’accusò di essere
entrata, per l’ennesima volta, in camera sua e aver messo mano alle sue cose,
quando invece Bloom aveva ribadito più volte che preferiva farsi la lavatrice
dei suoi vestiti da sola.
«Ero appena uscita dalla
doccia, hai lasciato la finestra aperta e con il vento che tirava rischiavo di
prendermi un accidente!» le disse, visibilmente agitata.
«Ti sto dicendo che io in
camera tua non ci metto piede da anni»
Bloom le aveva dato le
spalle e aveva alzato gli occhi al cielo, non credendole neanche per un
secondo. Perché, crederle, significata ammettere a se stessa la possibilità che
qualcosa di strano le fosse accaduto.
Poi erano iniziati i
messaggi.
Messaggi che davano un
voto a come era vestita quel giorno, che la sgridavano se era vestita “troppo
provocante” per la sua età o le dicevano, neanche suggerivano, come avrebbe dovuto
vestirsi la prossima volta che avesse messo piede fuori di casa. Messaggi che
descrivevano nel dettaglio cosa l’anonimo avrebbe voluto farle quando la
vedeva.
Bloom lo aveva creduto
uno stupido scherzo, all’inizio. Uno scherzo inquietante, certo, ma sempre una
trovata infantile da parte di qualcuno che era riuscito in qualche modo a
ottenere il suo numero di telefono.
Poi si era passati alle
foto.
Foto esplicite,
personali, sue o del suo stalker. Foto che la ritraevano sotto la doccia o
mentre dormiva.
Fu lì che Bloom cominciò ad
aver davvero paura e a capire che non poteva essere solo uno scherzo. Nessuno
che voleva fare solo uno scherzo si sarebbe spinto fino a quel punto, giusto?
Non aveva mai risposto a
nessuno dei suoi messaggi. Sapeva che sarebbe stato inutile, o che comunque
avrebbe mentito.
Per via della natura dei
messaggi e delle foto, Bloom non se l’era sentita di rivolgersi alla polizia.
Avrebbero aggiunto fuoco all’umiliazione, e Bloom non voleva che chiunque altro
venisse a conoscenza di quel suo segreto.
“Con un po’ di fortuna—aveva
pensato, sperando che quella situazione si sarebbe risolta da sola—e vedendo
che non gli do corda, potrebbe stufarsi e smetterla. Capire che questi non sono
i tipi di scherzi che fanno ridere, che mi sta molestando e creando dei traumi...”
—ooOoo—
In effetti, dopo un paio
di mesi il suo stalker aveva smesso le sue giornaliere molestie.
Bloom era stata
sollevata. La sua vita era ritornata quella di prima, seppur con una costante
aura di essere in pericolo a farle venire i brividi ogni qual volta si sentiva
osservata o si svegliava da un incubo in cui il suo stalker si intrufolava di
notte nel suo letto, la drogava e abusava del suo corpo.
Quei pensieri erano
rimasti con lei per tutti quegli anni, ma lentamente stavano venendo sostituiti
da altri più felici.
Aveva avuto un ragazzo per
circa un mese, Sky. Si trovava bene con lui, ma c’era sempre quella sensazione
di potersi trovare in pericolo quando da sola con un uomo.
Si erano lasciati da
qualche giorno.
Quella mattina si era
svegliata e nel suo trilocale, ricevuto in eredità dai suoi genitori adottivi, regnava il silenzio. Tutto sembrava al
suo posto, nulla fuori dall’ordinario aveva attirato la sua attenzione mentre
si dirigeva in cucina. Aveva fatto colazione come al solito, leggendo le
notizie del giorno e sfogliando il carosello di nuove foto dal profilo social di
un ragazzo che aveva attirato la sua attenzione all’Università. Lo aveva visto
per la prima volta solo qualche giorno fa, il suo primo giorno di lezioni, ma
era incredibilmente tentata di presentarsi a lui e chiedergli di fare colazione
insieme. Non voleva “spiarlo” per mesi, nella speranza che fosse lui ad
accorgersi di lei. Le sembrava sbagliato, si sarebbe sentita in qualche modo simile
allo stalker che aveva avuto lei in passato. Non era una bella impressione da
lasciare a qualcuno per cui si ha un innocuo interesse.
Il ragazzo si chiamava
Sebastian e frequentavano alcuni corsi insieme, sapeva solo questo. Non aveva
idea di che età avesse, ma non poteva avere qualche anno più di lei, forse
venticinque o ventisei anni.
Aveva fatto la doccia, si
era vestita, truccata, sistemato i capelli e indossato le scarpe per uscire.
Dopo quello che le era accaduto, aveva cominciato a indossare le scarpe anche
quando era in casa, nel caso dovesse scappare a seguito di un intruso in casa
sua. Se veniva invitata in casa di persone nuove, chiedeva sempre se avrebbe
dovuto rimuovere le scarpe. Se la risposta era sì, Bloom si inventava una scusa
e declinava l’invito. Dopo un paio di rifiuti, quelle stesse persone avevano
smesso di invitarla, probabilmente convinte che la loro compagnia non fosse
gradita a Bloom. Si sentiva in colpa di come faceva sentire le persone, ma allo
stesso era un istinto più forte di lei. Se non si fosse protetta lei, chi lo
avrebbe fatto al posto suo?
Esatto.
Bloom indossò la giacca
che aveva lasciato la sera prima agganciata all’attaccapanni all’entrata e aveva
recuperato le chiavi della sua macchina dal piccolo e sottile mobile all’entrata.
Fu in quel momento che la
scritta sul vetro dello specchio le fu visibile.
Si pietrificò sul posto.
Che fosse la stessa
persona di tre anni fa? La calligrafia sullo specchio sembrava simile a
quella dei bigliettini che aveva trovato ogni mattina sotto il suo cuscino o
dentro lo zaino scolastico.
Afferrò la statuetta decorativa
sul ripiano del mobile e colpì ripetutamente lo specchio davanti a lei. Si frantumò
in mille pezzi, intricandosi in una ragnatela di spaccature incongruenti, fino
a crollare lungo la superficie della parete e raccogliendosi in parte sul
tavolino e in parte sul pavimento. Bloom si era procurata qualche graffio, ma
niente di grave. Gli occhi le si inumidirono e cominciò a mancarle il respiro.
La stanza ruotava e si
stringeva contemporaneamente intorno a lei. Le orecchie le fischiavano e del
sudore freddo le scorreva lungo la schiena. Si abbassò sui talloni, fino a
toccare con il sedere il pavimento freddo in marmo.
Quella mattina non uscì
di casa.
Non uscì di casa neanche
i giorni successivi.
Si era chiusa in se
stessa, aveva abbandonato l’Università e aveva preso a lavorare come babysitter
a tempo pieno. Ogni giorno era in una casa diversa. Meno tempo passava in casa
propria, meglio era per la sua salute mentale.
Non usciva più con le sue
amiche, Stella e Aisha. Non usciva più in generale, non oltre le necessarie
commissioni atte a sopravvivere. Si incappucciava fino alla cima dei capelli,
nascondendo la sua chioma ramata in un cappello di lana. Era inverno, quindi
vestirsi a strati ingombranti non straniva nessuno. Il vento su quella costa
Irlandese non era da sottovalutare.
C’erano delle notti,
quando non lavorava, in cui si recava agli strapiombi. Osservava gli scogli
e le onde create dal mare impetuoso e pensava.
Pensava a cosa sarebbe
successo se si fosse buttata di sotto.
Si chiedeva se sarebbe
morta sul colpo o se avrebbe sofferto a lungo prima che la vita in lei l’abbandonasse
definitivamente.
La voce roca e calda di
un uomo alle sue spalle la distrasse dalla sua disperazione.
Le sembrava di
riconoscerla, ma probabilmente era solo la sua mente che le faceva brutti
scherzi. Non era possibile una coincidenza tale.
Si voltò di scatto, sorpresa
di non essere più da sola con i suoi tormenti.
«Ti conosco?» gli aveva detto,
sull’attenti.
«Ah, mi chiamo Sebastian».
Quindi era davvero chi
Bloom aveva sospettato che fosse. Quell’isola era relativamente piccola, in fondo.
«Io sono Bloom, frequentavamo
la stessa Università» gli rivelò subito. Sarebbe stato imbarazzante fare le
presentazioni ora, senza menzionare che di sfuggita si conoscevano già.
«Ah, non ti avevo
riconosciuta» le disse, avvicinandosi di un passo. La luce della luna gli illuminò
il volto.
Bloom aveva una
cotta per lui, ma sul momento si rese conto che risultava ridicolo focalizzarsi su quell'aspetto, dopo ciò che le stava accadendo.
Fece un passo indietro. Sentiva il vento sferzare sulla sua schiena. Era
pericolosamente vicina al bordo, lo sapeva anche senza voltarsi. Sembrava
averlo notato anche Sebastian, perché cercò di farla ragionare.
«Potremmo andare a
prenderci una cioccolata calda, che dici?» le propose. «Conosco un posticino
tranquillo e confortevole. Fa freddo qui, no?» disse, tentando di riportarla in
una zona sicura.
Bloom apprezzò il gesto.
A quanto pareva, ricevere aiuto era tutto quello di cui aveva bisogno in quel
momento.
Presero quella cioccolata
calda e parlarono del più e del meno, impegnandosi a evitare di parlare del
perché Bloom si trovasse così vicina a quello strapiombo, di notte, da sola.
«Tu cosa ci facevi lì?»
volle sapere comunque Bloom.
«Facevo visita a un
amico» le rispose sorridente.
«Amico o… amica? Se non
sono indiscreta» chiese ridacchiando, fingendo di essere semplicemente una
persona pettegola. Quella cotta che provava per lui non si era assopita del tutto, a
quanto pareva.
«In realtà», disse lui, «è
a malapena una conoscente»
«Ma a te piace, deduco,
da come ne parli» rifletté Bloom, tornando seria. Come aveva potuto pensare di
piacere a qualcuno come lui? Non importava da quanti anni Bloom vivesse lì in
Irlanda, per tutti rimaneva una straniera: l’americana. Neanche i suoi capelli
rossi riuscivano a “ingannare” le persone, appena la sentivano parlare, il suo
accento sporco la portava allo scoperto.
«Mi hai scoperto». Un
sorriso colpevole gli decorò il volto rassicurante, e rivolse il suo sguardo
prima alla tazza di cioccolata calda che aveva in mano e in seguito a lei,
mentre ne consumava il suo contenuto. «Lei non mi vede in quel modo» rivelò.
«Te lo ha detto lei?» gli
chiese, curiosa della sua insicurezza.
«Non c’è stato bisogno.
Sono invisibile per lei...»
«Questo non puoi saperlo
se non glielo chiedi» lo confortò. Nonostante anche a lei piacesse Sebastian, sarebbe
stato crudele allontanarlo dalla ragazza che, invece, sembrava piacere a lui.
«Dici che anche lei è
interessata a me?» le chiese, gli occhi neri le penetrarono l’anima. Le mani
erano avvolte intorno alla tazza in ceramica, a parte qualche sorso di tanto in
tanto, Sebastian non aveva bevuto granché della bevanda.
Bloom, al contrario, frettolosa
di scaldarsi, l’aveva finita in meno di tre-quattro sorsi sostanziosi.
«Non lo so, non la
conosco, ma chiedere non costa nulla. Al massimo ti dirà di “no” e amici come
prima, giusto?» gli fece presente.
«Giusto…» le
rispose, ma non sembrava troppo convinto.
Sebastian si offrì di
accompagnarla a casa, e Bloom, presa com’era da lui e dalla sua presenza, si
era decisa a fidarsi. Era dovuta andare contro a tutto quello che le stava
urlando la sua mente, c’era anche il rischio che, tornando a casa, il suo
stalker le avesse lasciato qualche altro messaggio o segnale, ma forse era
arrivato il momento giusto di chiedere aiuto. Sebastian sembrava una persona
carina e premurosa, si chiedeva se, conoscendo il passato di Bloom, l’avrebbe
aiutata oppure giudicata, evitata per paura che lo stalker se la prendesse
anche con lui.
Bloom aveva una gran
confusione in testa. Si sentiva improvvisamente stanca, dedusse che fosse l’effetto
dell’adrenalina che piano piano stava scemando.
Arrivarono alla porta di
casa di Bloom e lo invitò a entrare. Sebastian, chiedendole conferma, le disse
che non voleva disturbarla, vista l’ora. La guardava dall’alto, con le palpebre
semi-calate e il mento all’insù.
«Solo per vedere un film»
gli aveva risposto, con una scusa, Bloom, ma in realtà sperava nella compagnia
di un uomo dalla stazza di Sebastian, in modo da sentirsi protetta. In passato,
mai avrebbe permesso a una persona di sesso maschile di rimanere sola con lei,
ma quella sembrava essere la serata dei contrari per lei. Si stava comportando
come mai si sarebbe comportata in presenza di altri. Sebastian aveva un che di
magnetico dalla sua parte, desiderava la sua presenza. Parlare con lui era
stimolante e sembrava quel tipo di persona che non avrebbe fatto del male a una
mosca.
Chiuse la porta alle sue
spalle con uno scatto e sollecitò Sebastian a lasciare il suo cappotto sull’attaccapanni.
«Puttana» sentì
dire alle sue spalle. La voce apparteneva alla stessa persona con cui aveva
parlato fino a quel momento, era solo più roca e consumata, come se stesse
trattenendo una selvaggia offesa.
Il corpo di Bloom si
immobilizzò, collegando finalmente tutti i puntini.
«Sei rimasta la stessa di
anni fa. Anzi, sei peggiorata. Far entrare un estraneo in casa tua… Puttana»
continuò a ripetere con cattiveria Sebastian.
Bloom provò a riaprire la
porta, per scappare, ma un bracciò spuntò da sopra la sua testa e trattenne la
porta chiusa. Il corridoio era troppo piccolo per riuscire a sgusciare via, ma
doveva tentare lo stesso, non poteva dargliela vinta così facilmente.
Pensò di essere stata
abbastanza veloce, ma Sebastian l’agguantò come fosse una bambina che sta
facendo i capricci in mezzo al parco perché non vuole tornare a casa.
Provò a prenderlo a
calci, pugni, urlava di lasciarla andare, ma Sebastian si limitò a portarla in
camera da letto. Era come se conoscesse già la pianta di casa sua; quel pensiero
la inorridì, riportandole alla mente tutto quello che il suo stalker, che ora
aveva un nome, le aveva fatto passare in tutti quegli anni.
Si attaccò con le mani e
poi con le unghie allo stipite della porta, ma venne strappata da esso con facilità
e lanciata come una bambola sul letto matrimoniale.
Sebastian chiuse a chiave
la porta della stanza.
Bloom provò
contemporaneamente a uscire dalla finestra, ma un braccio di ferro l’afferrò
prima che riuscisse a infilare una gamba nella finestra appena aperta. La
strattonò per i capelli e la condusse di nuovo al letto.
Quella sua improvvisa
mutezza la turbava più delle molestie in sé. Lo faceva apparire come un’entità
giudicante, che la sovrastava dall’alto. I capelli neri, la pelle arrossata, se
dal freddo o dall’eccitazione Bloom non voleva saperlo, il maglione e i
pantaloni neri contribuivano a dargli l’aspetto di una creatura ultra-terrena; venuta
a tormentarla.
«Lasciami! Lasciami,
malato del cazzo!» gli urlava contro, mentre tentava di legarle i polsi con
delle fascette già pronte che teneva conservate in tasca. Bloom aveva pensato
che fosse un portachiavi, mai avrebbe sospettato che Sebastian si fosse portato
quelle manette di fortuna in bella vista—sotto il tessuto pesante dei
pantaloni.
Nulla di quello che gli
diceva o faceva sembrava turbarlo, aveva un’espressione seria e concentrata nell’incapacitarla
nei movimenti.
«Perché io? Che cosa
ti ho fatto?» gli chiese, disperata di rabbia e impotenza. «Rispondimi!»
Neanche quella supplica lo
convinse a rivolgerle la parola, fornirle una spiegazione circa quello che le
sarebbe capitato di lì a poco.
Bloom era vittima di un
crimine di cui non conosceva l’origine.
Cosa c’è di più crudele
dell’indifferenza di fronte al dolore impartito ad altri?