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Autore: Iryael    19/10/2023    2 recensioni
6 Giugno 5402-PF, Galassia Solana, Marcadia.
Indigo Blackeye, il vertice della più grande associazione criminale della Federazione, ha un piano che coinvolge Capital City e la sua Accademia della Flotta. Sono mesi che lo progetta e finalmente è ora di metterlo in pratica.
Jack, Linda, Nirmun, Reshan e Ulysses sono allievi come tanti altri, e come tutti gli altri finiscono loro malgrado coinvolti in quello che sarà un battesimo del fuoco brutale e sanguinario. Con una variante, però: quella di finire fra gli ingranaggi del piano di Indigo.
Il giovane Blackeye ha ragione: il 6 giugno aprirà un nuovo capitolo nelle vite di molte persone. Quel che non può prevedere è chi si metterà sulla sua strada.
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[Galassie Unite | Arco I | Schieramento]
[Personaggi: Nuovo Personaggio (Altri, Indigo Blackeye, Nirmun Tetraciel, Reshan Jure, Ulysses Yale)]
Genere: Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ 05 ]
Senza fiato
Sempre 4 giugno 5402-PF, ore 15:30
Accademia, edificio centrale, quinto piano
 
L’ascensore scampanellò nel silenzio. Le ante, dopo un primo scatto e un attimo di incertezza, si aprirono.
«...E menomale! Col puzzo che c’è qui si sviene!» disse Linda, uscendo in corridoio. Con un gesto d’abitudine la kerwaniana cacciò dietro la schiena la folta massa di ricci.
«Il prof ci ha avvisati che è un ascensore poco usato.» le ricordò Jack, spingendo fuori un enorme carrello.
«Ciò non toglie che un profumatore farebbe grandi cose per quel buco.»
Il cazar alzò gli occhi al soffitto. Gliel’aveva sentito dire in così tanti frangenti che non importava più su quale nave avrebbero lavorato; era certo che lei avesse la faccia per deturparla con la scusa di migliorarla.
I due allievi proseguirono fino in fondo, svoltarono e proseguirono fino alla porta contrassegnata come “Magazzino 5/Delta”.
«Dovremmo esserci.» commentò la kerwaniana. Il cazar richiamò il pezzo di carta su cui aveva annotato il nome del magazzino e confermò. Poi le dettò il codice per aprire la porta. Le dita della ragazza danzarono sul tastierino e il battente, alla pressione del tasto invio, scivolò docile lungo la guida.
«Ah!» Dopo un primo momento di sorpresa Linda poggiò le mani sui fianchi. «Per che diamine pagano gli inservienti, me lo spiegano?»
Jack abbandonò il carrello e infilò il naso oltre l’uscio. Era tutto ammonticchiato a casaccio, in bilico, fuori posto. Sconfortato, emise un gemito.
«Dai, facciamoci strada.» disse, cercando di incoraggiare se stesso. «Prima troviamo il tripartitore e prima ce ne andiamo.»
«Io non ce le metto le mani in questo schifo! Come minimo ci sono le blatte!»
Un cambio di idee repentino; anche quello era tipico di Linda. Ci conviveva dal primo giorno d’Accademia, e l’esperienza gli aveva insegnato come reagire. In quel caso materializzò e le porse un paio di guanti in lattice.
«Non ho mai visto blatte qui; ma se ti fa sentire meglio...»
La kerwaniana li fissò con sdegno. «Scherzi, vero? Rovinano la pelle.»
Attimo di silenzio, poi Jack grugnì una sillaba di sconforto. Normalmente avrebbe riposto con pazienza, argomentando fino al dettaglio come la sua affermazione fosse infondata. Ma la pazienza era figlia del sonno e lui aveva dormito tre ore. Per quanto la dottoressa Amheit gli avesse restituito un aspetto sano, non aveva la materia prima per discutere coi capricci della kerwaniana.
«Non ci provare. Non fai queste storie quando si tratta di morchia o di plasma – e quelli sì che sono dannosi.» Le afferrò una mano e la costrinse a prendere i guanti. «Perciò non dire altro. Non farò il lavoro sporco da solo. Insieme o nessuno, e questo è quanto.»
La kerwaniana gli rispose con un’occhiataccia carica di irritazione. Come osava?! Poi però si disse che la causa del suo nervosismo era la carenza di sonno, che non avrebbe patito se non ci fosse stata la fola del faldone; che non sarebbe esistita se lei non avesse pianificato con Yale ai suoi danni.
Pur detestando l’idea, in silenzio, indossò i guanti.
* * * * * *
I due dovettero lavorare di buona lena. All’inizio si disposero come una catena di montaggio: Jack, sprezzando la polvere e l’irritazione, si piazzò nella stanza a passare le scatole alla compagna; Linda, in corridoio, le ammonticchiò contro il muro. Poco a poco s’inoltrarono nella stanza, e quando la catena non fu più sufficiente si alternarono per portare fuori ognuno qualche scatola. In corridoio, il muro vicino alla porta si riempì di cilindri e altri contenitori, alcuni di plastica e altri in cartone, in un mosaico alto fino agli occhi.
Secondo il professore quello che cercavano era in una scatola di plastica alta mezzo metro. Non particolarmente pesante, ma voluminoso.
Ad un certo punto Jack, mentre caricava l’ennesimo contenitore, vide una massa coperta da un telone blu. Adocchiò la fortezza di scatole intorno, la loro disposizione, e allungò un braccio per richiamare l’attenzione di Linda. «Non ti sembra che le scatole lì siano messe in modo strano?»
«Sono solo incasinate.» rispose sbrigativamente lei.
«Guardale bene. Non ti sembra che, per essere confusione, ci sia uno schema?»
La kerwaniana si fermò. Le braccia cariche, volse un’occhiata scocciata prima a lui e poi, rassegnata, al muro di contenitori e al telone che spuntava da dietro. «No, non mi pare. Solo casino.»
Il cazar storse la bocca, deluso dalla risposta. Linda, uscendo dalla stanza, si sentì pungere ancora una volta dal senso di colpa; così rientrando si sforzò di ammorbidire il tono. «Okay, supponiamo che siano incasinate solo per finta, come dici tu. Perché mai gli inservienti dovrebbero farlo?»
Buona domanda. Jack, per controbattere, aveva solo l’esperienza personale. «Tu non hai mai arruffato i vestiti nell’armadio per nasconderci qualcosa in mezzo?»
«Certo che no!» La faccia disgustata della kerwaniana parlava da sola. «Che brutta immagine. Potevi usare il classico albero nella foresta per rispondere.»
Il cazar incassò la predica dicendosi che – forse – certe tattiche funzionavano solo in casa Steel, dove con quattro fratelli per nascondere qualcosa bisognava essere creativi.
Linda si fece largo fino al fianco di Jack. Batté le mani per levare la polvere, poi si girò verso il suo compagno. «Suppongo che una sbirciatina non farà differenza in termini di tempo perso.»
Insieme, i due allargarono la breccia fino a farla arrivare a terra. Quando levarono lo scatolone più basso («Ehi, che culo! Il tripartitore!») scoprirono finalmente l’orlo del telone di plastica blu, che giaceva a venti centimetri dal suolo. Sotto, visibili, c’erano due tubi verdi un po’ scrostati.
I due ingegneri si scambiarono un’occhiata perplessa. Poi, inginocchiatosi, Jack materializzò una penna e bussò contro uno di essi. La nota fu metallica e fonda, come se ci fosse un vuoto. Come se quello fosse un tubo. Il cazar smaterializzò la penna e, con un movimento fluido, afferrò l’orlo del telone e si alzò, scoprendo il contenuto misterioso.
Bombole.
Alte, strette, piene e...
«Cosa?! Le usano ancora?!» gli venne spontaneo guardando l’anno di smaltimento obbligatorio. Era passato da un pezzo.
La kerwaniana cercò subito l’indicatore della carica. Lo adocchiò e storse la bocca. Non solo erano da smaltire per normativa, ma erano state riempite nonostante presentassero chiazzette di ruggine.
«Vado a cercare un’ispettrice.» sentenziò. «Sa il cielo quanto spessore abbia mangiato la ruggine.»
«Sì...» rispose distrattamente lui, prima di udirla allontanarsi. A quel punto passò la mano su un bozzo particolarmente marcato, segno evidente di una caduta. E poi vide il beccuccio graffiato, forse tranciato, lì dove doveva essere la sicurezza principale della bombola.
Oh, merda.
Dove caspita era finita la valvola di non ritorno?
* * * * * *
Linda rientrò meno di un minuto dopo. Al seguito della sua massa di ricci c’era una robot, ma non certo l’ispettrice che Jack si aspettava di vedere. Quella alle spalle della sua compagna recava sul petto la sigla 17-Cl: era Claire, nientemeno che la segretaria del Direttore.
La robot scansionò la stanza con due occhiate, prima di concentrarsi sugli oggetti di cui Linda continuava a parlare.
«Lo vedo, allieva, lo vedo.» disse per rabbonirla.
Jack si fece indietro per permetterle di avvicinarsi. La robot, però, parve di un altro avviso. Materializzò un guanto nero, lo indossò e smaterializzò al suo interno il telone e tutti i recipienti intorno alle bombole. Una dopo l’altra tutte le scatole furono avvolte dal pallore della smaterializzazione e sparirono all’interno del tessuto contenitore.
Guardandola, il cazar sentì stringere lo stomaco. La kerwaniana, invece, avvertì calore sugli zigomi. Il primo desiderò tanto avere uno di quei guanti, la seconda provò una fitta d’invidia. Se solo avessero avuto qualcosa di così capiente!
«Hm...» la voce di Claire spezzò il silenzio. Quando ebbe campo libero scannerizzò il blocco di bombole, rilevando con maggiore precisione quanto le aveva riferito Linda. «Un’infrazione seria.» sentenziò alla fine, prima di voltarsi verso gli allievi. «Avete fatto bene ad avvisarmi. Come premio comporrò la vostra giustificazione per il professor Noges.»
L’affermazione colse di sorpresa i due. Claire, non comprendendo la loro reazione, aggiunse: «Dalle vostre schede risulta che dovreste avere lezione col professor Noges. Spostare i colli vi sarà costato tempo. Ne deduco che il vostro educatore si stia chiedendo dove siete finiti.»
«Ecco, per questo...» cominciò Jack, incerto. «Siamo venuti per il tripartitore di flusso armonizzato. Non voglio essere scortese, ma credo che l’abbia smaterializzato insieme al resto.»
Claire controllò. Grazie alla rete interna impiegò una frazione di secondo a confermare la frase del cazar. «Corretto. Collo F-17965.» Estese la mano guantata e fece comparire il grosso scatolone. Lo portò fuori per loro e lo depositò gentilmente sul carrello, abbandonato da una parte al loro arrivo.
«Allievi.» disse, prima che riprendessero la strada per la classe. «Vi sarei grata se evitaste di diffondere la notizia. Generereste panico inutile; deleterio per questi ultimi giorni di studio.»
«Sissignora.» risposero prontamente. Era un peccato perdere un tale pettegolezzo, ma capivano entrambi la gravità della loro scoperta. E poi, comunque, non aveva vietato di parlarne tra loro.
Mentre si allontanavano parlottando a bassa voce, l’ispettrice appoggiò le mani sui fianchi. Per il momento la faccenda era arginata, ma doveva ragionare bene sul modo per accomodarla. Quando l’ascensore puzzolente si chiuse dietro gli allievi, la robot smaterializzò tutti i contenitori meticolosamente appoggiati contro il muro. Poi richiuse la porta del magazzino e cambiò il codice d’accesso con uno sbloccabile solo dal Direttore.
* * * * * *
Sempre 4 Giugno 5402-PF, mezzo pomeriggio
 
Caldo. La prima percezione di Reshan fu il calore delle piastrelle contro il ventre e la guancia.
Subito dopo provò fastidio. Il ronzio perforante del generatore lo indusse a uscire dallo stato di torpore. Si puntellò sulle braccia, mettendosi carponi e poi in ginocchio. La testa era ovattata; gli occhi lacrimavano e le risposte dei sensi arrivavano in ritardo.
Agh...Non i segnali migliori. – si disse, asciugando gli occhi con la manica.
Andò a tastare la nuca, là dov’era stato colpito. Appena sfiorò la cute ritirò la mano, gemendo per l’intenso bruciore. Un secondo tentativo gli rese la presenza di una crosta piena di asperità.
Questo m’insegna a stare fermo, la prossima volta.
Finite le autoanalisi si guardò intorno per capire dove fosse. Solo allora si accorse dell’innaturale tinta rossa che velava il resto del mondo.
La fissò per qualche istante con aria spaesata, prima di intuirlo. Un...campo di forza?
Vedendo che non emetteva scariche vi poggiò la mano. La superficie era tiepida e rigida, segno che la barriera non aveva difetti. Fare forza sarebbe stato inutile, quindi si guardò intorno alla ricerca di qualche indizio.
Il campo è semisferico... il generatore della barriera dell’Accademia è al centro. Dal corridoio che accerchia il generatore posso presumere che il campo di forza abbia un raggio di due metri, forse qualcosa di meno. Avrà origine dal generatore anche questo?
Si avvicinò al generatore. La canna usciva verticalmente da un bulbo metallico grande quanto un frigorifero. Sulla parte che dava a sud c’era un pannello per i comandi; ma appartenevano alla barriera della scuola, non a quella che lo interessava.
Eppure da qualche parte il campo deve originarsi! Di certo non sta in piedi per caso!
Ripartì daccapo. Si guardò intorno con metodo, e quella volta individuò una nervatura nella barriera rossa. La seguì fino a terra e trovò un dischetto grosso come un tappo di bottiglia.
Lo riconobbe: era parte di un set di cerchioscudi, una dotazione standard di chiunque frequentasse l’Accademia. Insegnavano a usarli già al primo anno: si posizionavano i quattro dischi lungo una circonferenza ideale e quelli originavano una barriera semisferica che poteva essere usata a scopo difensivo o a scopo contenitivo.
Solo che qui ci sono più di quattro dischi... aspetta... uno, due, tre, – e prese a seguire la circonferenza, contando e tastando ciascun disco. – ...Dodici, e neanche uno montato a mio favore.
Quindi era dentro una combinazione di tre set, e chiunque li avesse montati non aveva commesso il classico errore di girarne uno a favore del prigioniero. Gli sarebbe bastato quello per abbattere almeno uno dei tre strati di barriera.
A quel punto una domanda sorse spontanea: com’era possibile che il cuore delle difese dell’Accademia della Flotta sita a Capital City, che tra tutte era la più prestigiosa, fosse protetto da tre banali cerchioscudi?
E poi: perché, prima di svenire, il generatore funzionava a vuoto?
Chi lo aveva colpito a tradimento? E per quale motivo?
 
Accidenti, devo uscire da qui! – pensò indispettito. Stare in una prigione di tre cerchioscudi significava ricambio d’aria minimo ed effetto serra triplicato: se non si fosse sbrigato a uscire... be’, meglio non pensarci.
C’era qualcosa che potesse fare?
Si guardò le mani e, di fronte ai palmi nudi, lo colse un pungente disappunto. Per la prima volta rimpianse d’aver seguito il regolamento. Gli unici abbigliamenti contenitori ammessi erano le polsiere e chiunque l’aveva rinchiuso s’era premurato di levargliele. Non aveva più alcun gadget, né il chatter per chiedere aiuto.
Non mi resta che Lys.
Ma era davvero l’ultima opzione?
Si morse il labbro inferiore. Era vero che l’altro era telepate e che bastava essere nel suo raggio d’azione per conversare con lui, ma in quel momento era impegnato nell’esercitazione di Difesa. Ogni distrazione poteva essere rischiosa; specie se stava pilotando.
Indeciso, temporeggiò facendo un altro giro dei dispositivi. Li studiò attentamente, sperando di trovare una falla, ma niente da fare: erano tutti rigorosamente montati al contrario.
Perciò sì: era davvero l’ultima opzione.
Memore delle lezioni che il lombax gli aveva impartito, sgomberò la mente il più possibile e cominciò a gridare nella testa il nome dell’amico.
* * * * * *
Ulysses maledisse Reshan con una parola decisamente creativa.
Gestire la Comet in modo da evitare i proiettili degli istruttori era fin troppo impegnativo per badare alle grida dello xarthar, che lo pressavano agli angoli della mente.
«Quella checca!» sussurrò ancora tra i denti, virando bruscamente per evitare l’ennesimo proiettile ad antimateria. Per fortuna quel tipo di munizione non montava un sistema di ricerca termica, ma l’avversario aveva comunque il vantaggio dell’esperienza, grazie al quale riusciva a sprecare meno munizioni della Comet manovrata dagli allievi.
«Pilotucolo! Se fai manovre tanto brusche come ti aspetti che riesca a sparare decentemente?!» lo redarguì Nirmun.
«Si è fatto vivo proprio ora! Giuro che gli tarpo le ali quando lo vedo!»
«Missile a ore sei!» gridò allarmata la coniglia, sul cui radar era comparso un puntino rosso che seguiva minacciosamente la loro rotta. Ulysses si fece svelto sulla consolle e portò la Comet sulla verticale per evitare il proiettile.
«Visto e evitato!» replicò secco, cercando di domare le grida di Reshan e i suoi pensieri.
«Vaffanculo! Mettici la testa, Yale!» sbottò la soldata. «Vuoi farci abbattere?!»
«E tu spara anziché urlare!»
«Grido perché non ci sei di testa! E che diavolo, manco alla prima esercitazione pilotavi così male!» sbottò nuovamente, sganciando un missile. Questi volò in linea retta fino a scontrarsi con un altro missile proveniente da una navetta davanti a loro, che dopo aver sganciato la munizione aveva virato a destra per non essere travolta.
Grrr... vorrei vederla se avesse nella mente il casino che ho io!
Dopo quel pensiero decise di mettere al bando dalla sua mente qualunque cosa non fosse inerente all’esercitazione. Pratico delle proprie abilità, si focalizzò sull’obiettivo tacendo per alcuni secondi. Attorno a lui cielo e terra si invertirono per un momento nello schivare un proiettile degli istruttori.
«Okay: abbiamo la Donno in coda, i nemici davanti e i nostri sotto da proteggere. Che si fa?»
Nirmun quasi non si capacitò della sua comunicazione, così diversa rispetto a poco prima.
«Missile a ore tre!» informò, attivando il phaser sulla fiancata per fermare il proiettile. La munizione esplose in una nuvola grigio sporco, sparando frammenti di metallo in ogni dove.
«Che facciamo?» chiese di nuovo Ulysses.
«Se non possiamo abbatterla, almeno sfruttiamola!»
«Cioè?»
«Portala in mezzo ai nemici!»
Ulysses strabuzzò gli occhi. «Cosa?! Ma è pura follia! Ce li troveremo tutti addosso!»
«Ma se continua così ci isolerà dai nostri!» replicò con forza la ragazza.
Il lombax scorse velocemente il radar.
Rispetto alla formazione iniziale, un groviglio di puntini blu sulla destra dello strumento, loro erano parecchio distaccati. E i puntini rossi – gli avversari – sembravano puntare alla rottura dello schieramento blu. Se fosse successo, per l’altra fazione sarebbe stato facile abbattere le navette dello schieramento cui appartenevano Nirmun e Ulysses. Ma se loro avessero portato la Donno in mezzo al cuneo...
«D’accordo, Tetraciel. Facciamolo.» disse, risoluto, digitando la nuova rotta sulla consolle.
«Evvai!» esultò la xarthar, dietro di lui. «Missili ad antimateria caricati. Pronta a fare fuoco.»
«Incrocia anche le dita; sta per scatenarsi un putiferio.»
«Basta che tu non perda la testa come prima. Siamo vivi praticamente per miracolo!»
Quella frase urtò la calma che Ulysses era riuscito a costruire nella sua mente.
«La pianti di frignare? Hai ancora il culo sul sedile o sbaglio?»
«Sì ma vorrei tenercelo!»
«Allora reggiti!»
 
Sull’altra navetta, frattanto, l’istruttrice Donno scrutava con attenzione i movimenti dei suoi allievi di punta.
«Vogliono rientrare nel mezzo dello schieramento nemico. Sperano di sconfiggerci usando gli avversari come arma e scudo.» analizzò.
«Dagli degli imbecilli...» replicò con calma l’altro istruttore.
«Mori! Quella è la tattica più stupida che potessero tirare fuori!» esclamò la donna «Al prossimo giro abbattili, per piacere. E finiscila di difenderli.»
«Okay Rita.» rispose lui. «Ce li ho già nel mirino.»
 
«Ci segue ancora?» chiese Ulysses, notando con la coda dell’occhio un missile esplodere dopo essere stato intercettato da un phaser.
«Sì.» rispose lei alcuni istanti dopo. «E spero vivamente che abbia frainteso la nostra strategia.»
La navetta eseguì un tonneau, ruotando con grazia sul suo asse longitudinale per evitare alcuni phaser, subito prima di tuffarsi tra le navette avversarie. Sul radar quindici puntini rossi si riversarono attorno alla freccetta verde che li contraddistingueva al centro.
Agirono cogliendo di sorpresa gli avversari, irrompendo dall’alto nella loro formazione, e Nirmun ebbe modo di colpire almeno due navette a distanza ravvicinata, costringendole all’atterraggio di fortuna.
Dai prof, facci un favore! – pensò la xarthar, sparando alcuni phaser come difesa.
Uscirono dalla nube di navette portandosene due all’inseguimento, ma queste finirono abbattute dalle testate sparate dagli istruttori.
«Acc, ha migliorato il tiro.» comunicò la ragazza, dopo aver letto sulla sua consolle le traiettorie impiegate dagli istruttori.
«Come stai a munizioni?»
Un altro tonneau. Un phaser schivato, una navetta nemica colpita. Nirmun sentì lo stomaco protestare, ma si sforzò d’ignorarlo: loro non erano stati colpiti e tanto bastava.
«Sono a metà.» dichiarò.
«Reggi il secondo giro?»
Ulysses sapeva che, in quanto di sottospecie terricola, aveva una debolezza nei confronti delle prodezze aeree; ma Nirmun, piuttosto che ammettere di essere quasi in dirittura d’arrivo, sarebbe svenuta.
«Scherzi?» ironizzò con convinzione. «È meglio delle montagne russe!»
Ulysses sorrise. Si beccavano il più delle volte, ma su certe cose c’era un tacito accordo a non tergiversare. Per cui...
«Lys! Missile a ore sei!!!»
Il suo grido allarmato lo riportò con la testa sulla navetta.
Tre occhiate alla consolle: non aveva il tempo si tentare una manovra evasiva. Alzò velocemente gli scudi posteriori e gridò: «Spara!»
Ancor prima di capire Nirmun fece fuoco con i phaser posteriori. Il missile fu fortunosamente intercettato, e le uniche cose che colpirono la Comet furono i resti metallici della testata. Una lieve onda d’urto fece traballare i sedili degli allievi, e le strumentazioni si spensero e si riaccesero in una frazione di secondo.
«Il sistema si è resettato!» esclamò il pilota, realizzando istintivamente tutte le conseguenze di quel che significava reset del sistema.
«Cosa?» chiese Nirmun, avvertendo che il mezzo stava perdendo velocità.
«Cerco di tenere la navetta, tu difendici come puoi!» ordinò lui, sapendo che le armi sarebbero state attive quasi subito, a dispetto dei motori che ci avrebbero impiegato alcuni secondi.
La Donno non attese che la loro navetta riprendesse a funzionare. Vedendo gli allievi in difficoltà, ordinò a Mori di finirli.
Mentre la navetta cominciava la caduta libera, ignorando se le strumentazioni fossero sballate, Nirmun mise il mirino in modalità manuale e si affidò al suo istinto, consapevole di dover guadagnare più tempo possibile.
Vide il missile partire. Fece per alzare gli scudi, ma il sistema non glielo concesse. Allora sparò una testata. Il missile fu colpito, ma dalla nuvola di fumo che generò ne sbucò un altro.
Mori, quel bastardo! – pensò. Con il sistema in reset poteva usare solo i proiettili che aveva in canna, che in quel momento si riducevano a uno solo.
Prese la mira. Fece fuoco.
Mentre premeva il comando di espulsione del missile la navetta ebbe uno scossone, e l’ultimo colpo fu sparato invano. La testata della Donno, invece, li raggiunse prima che il sistema si riprendesse del tutto. L’impatto fu quasi silenzioso, suggellato da uno scossone. Tutte le strumentazioni furono attraversate da piccole scariche elettriche, poco prima che la Comet si spegnesse e finisse la caduta, rimbalzando e ammaccandosi sul terreno del campo d’addestramento.
 
L’istruttrice Donno guardò con disprezzo la navetta che cadeva al suolo. Quando fu definitivamente ferma volse un’occhiata all’orologio: avevano resistito per quasi tre quarti d’ora.
Non male. – pensò. – Ma non è abbastanza.
La riflessione fu interrotta dal suo collega, che la chiamò alcune volte.
«Che c’è?» chiese lei, bruscamente.
«Dobbiamo tornare dagli altri.»
Mori la guardò di sottecchi. Gli occhi dell’umana, di un azzurro chiaro e freddo, erano concentrati sulla navetta appena abbattuta.
«A cosa pensi?»
Lei parve riscuotersi.
«A niente. Andiamo.» replicò, muovendo la Comet in modo da farla tornare dagli altri allievi.
Se continuano a fare cose così sconsiderate, sarà bene che si procurino un buon biomeccanico o si ritroveranno con arti malfatti, si concesse di pensare durante la virata.
* * * * * *
Andata.
Finita.
Morta.
La Comet non si sarebbe riattivata per un bel po’, e questo fu fonte di frustrazione per Ulysses, che nelle simulazioni di reset del sistema in qualche modo era sempre riuscito a cavarsela.
«Aaahh! Mondo infame! Ma una cosa che vada per il verso giusto non mi è concessa oggi?!» sbottò, colpendo la consolle con un pugno rabbioso. Dopodiché sganciò le cinture, smaterializzò manualmente la jumpsuit e uscì dalla navetta. Maledicendo il piano fallito, si guardò intorno per capire dove fossero.
Erano in una specie di radura. L’erba era mista a sassi e tutt’intorno c’erano delle palme e qualche arbusto. Quella combinazione era presente solo nel campo d’addestramento col finto albergo – ricordò – quindi dovevano essere da qualche parte a nord-est dell’accademia.
Nirmun, piuttosto scombussolata, fece capolino dalla navetta col volto colorato da una lieve sfumatura verdognola.
«Ehi, è tutto a posto?» chiese Ulysses, trattenendo a stento il tono aspro.
«Sììì...» pigolò lei, poco convincente. «Credo che lo stomaco abbia fatto una capriola...»
Il lombax le porse una mano e l’aiutò a scendere a terra. Poi, sotto la supervisione del pilota, la xarthar andò a sedersi su un sasso.
«Non reggi proprio di stomaco, eh?»
Nirmun desiderò ardentemente di potergli sparare senza conseguenze.
«Non reggo ruzzoloni in volo, cadute libere e rimbalzi...» lo rimbeccò, sentendo la bocca riempirsi di saliva. «Per fortuna le Comet hanno delle misure d’emergenza...»
Il lombax la prese come un’accusa implicita e abbassò le orecchie, umiliato.
«Non sono riuscito a far ripartire il sistema. Mi dispiace.»
La xarthar sventolò una mano in quel gesto che ormai Ulysses aveva imparato ad interpretare come non fa nulla.
«E io ho avuto sfiga col secondo proiettile. Magari, se fosse andato a segno, avresti avuto il tempo per far ripartire quella carretta.»
«Sicuro.»
«Colpa di entrambi è come dire colpa di nessuno, in questo caso. Ripartiamo da zero e andiamo ad arrostire i culi ai nostri avversari!» propose, entusiasta. Sembrava si fosse ripresa alla svelta, e la cosa fece piacere a Ulysses.
«Sono felice che ti senta già meglio.»
Nirmun rise nervosamente. «Non ci contare. Mi ci vorrà ancora un po’ per quello.»
Passò qualche istante di silenzio prima che la xarthar lo rompesse di nuovo. «Ehi, ti sei accorto che prima ti ho chiamato Lys?»
«No, ma era ora che lo facessi.» disse, sedendosi vicino a lei. Il sasso era abbastanza grande da ospitarli entrambi.
«Hehehe...veramente mi è uscito d’istinto! Però mi piace! Credo che ti chiamerò Lys e basta, d’ora in poi. Posso chiamarti così anche in giro per la scuola o ti imbarazzi?»
«Che? Ma no, fai pure.» rispose lui, conciliante.
«Va bene!» replicò vivacemente la xarthar. «Piuttosto... il tuo amico l’hai più risentito?»
«Chi, Re?»
Sgranò gli occhi, sorpreso da se stesso: come aveva fatto a dimenticarsi così del suo migliore amico?
«Mondo infame! Aspetta un momento!»
E mentre Nirmun se la rideva, lui bussò alla mente del pipistrello.
* * * * * *
Reshan si era diplomaticamente seduto contro il generatore ed aveva chiamato il suo amico per una mezz’ora buona, prima di rassegnarsi.
Dentro la barriera l’aria era diventata quella di un forno. Per non disidratarsi eccessivamente si era tolto la giacca, rimanendo con la maglietta grigia, che in quel momento era scura per il sudore. Aveva cercato di mantenersi calmo, di respirare regolarmente, di non sprecare nessuno dei litri d’aria che il suo assalitore gli aveva lasciato. Però, adesso, fra il caldo e il tempo passato, l’aria s’era fatta cattiva in bocca e dolorosa nei polmoni. Era agli sgoccioli.
 
«Re? Re, mi senti?»
 
Lo xarthar riaprì appena gli occhi e drizzò un poco le orecchie. Istintivamente cercò di guardarsi attorno, ma lo colse un brutto giramento di testa non appena cercò di alzare il mento.
«Lys...» chiamò, sollevato. «Aiuto...»
Silenzio per alcuni secondi. Reshan s’immaginò di vedere la faccia stranita del lombax di fronte alla sua richiesta, ma dalla risposta che ricevette fu preso in contropiede.
«RAZZA DI IDIOTA, MA CE L’HAI UNA VAGA IDEA DELLA PREOCCUPAZIONE CHE C’HO ADDOSSO?! SEI SCAPPATO DALLA MENSA E SEI SPARITO!!! E ADESSO SPERI DI CAVARTELA COSÌ?!»
Le grida aizzarono un secondo, bruttissimo, giramento di testa.
«Hai ragione, ma... non posso... spiegare.» replicò. Per un istante desiderò chiudere gli occhi e cedere a quella vertigine così opprimente, poi percepì come un freno alle sensazioni che l’altro stava trasmettendo con il dialogo. Fu balsamico. Lo spinse a riaprire gli occhi.
«Sì, non puoi adesso, ma lo farai. Dove sei?»
«Sul tetto... dell’accademia...»
«Aspettami lì. Arrivo.»
«Però attento...»
«A cosa?»
«...»
«Re?»
* * * * * *
All’albergo nel campo d’addestramento, Ulysses mostrò una faccia decisamente basita.
«Allora?» chiese Nirmun, il cui stomaco aveva finito di agitarsi.
«È... nei guai.» rispose, non credendo neanche lui all’ultima parola. «Non ho capito bene, ma se non è riuscito a formulare i pensieri la situazione butta malissimo.»
«Cosa vuoi fare?»
«Vado a recuperarlo.»
«Vai dove?» lo redarguì lei. «La Donno ti spellerà vivo se ti allontani!»
«Per quanto ne sa la Donno sono morto dentro la Comet!» sbottò. «Senti: non ti chiedo di venire con me. Se vuoi tornare dagli altri fa’ pure. Dirigiti a nord-ovest, non puoi sbagliare.» disse, indicandole la direzione. «Io devo andare. Farò presto.»
La ragazza si alzò in piedi e si rassettò alla meglio i pantaloni e la maglia.
«Stai scherzando, vero? Se anche li raggiungessi in tempo mi chiederebbero di te. A quel punto cosa dovrei dirgli? Che sei schizzato via per andare dal tuo amico?» provocò. «Siamo precipitati insieme, diremo tutt’al più che abbiamo cercato di far ripartire la Comet, ma muoverci separatamente è da stupidi.»
«Quindi?» la interruppe Ulysses, impaziente di sentire il succo del discorso. Nirmun materializzò un hoverboard dalla polsiera e ne avviò i propulsori.
«Quindi io e te andiamo da Jure, gli diamo una mano e preghiamo di riuscire a tornare indietro prima che la Donno scopra che abbiamo fatto una piccola deviazione
«Ottimo.» assentì, senza fronzoli. «La tua tavola può portarci sul tetto dell’accademia?»
Nirmun lo guardò con aria di sfida e gli fece cenno di salire dietro di lei.
«Per chi mi hai preso, pilotucolo?»
Diede gas, e i due sfrecciarono verso sud-ovest.
* * * * * *
Atterrarono sul tetto quasi silenziosamente, in perfetto equilibrio, come se fosse qualcosa di quotidiano.
«Eccolo!» esclamò quasi subito Ulysses, indicando la semisfera rossastra. Nirmun non gli diede troppa tara: la salita lungo l’edificio aveva dato il colpo di grazia allo stomaco e adesso stava male sul serio.
Il lombax, appena la tavola si spense, schizzò verso la barriera. Lei, nello stesso tempo, raggiunse un grosso sfiato in alluminio, dietro il quale vomitò a più riprese. Ulysses neanche se ne accorse, preso com’era. Studiò rapidamente l’esterno: visti i congegni a terra capì; poi si dedicò all’interno. Reshan sembrava addormentato, appoggiato scompostamente contro il bulbo metallico e col volto reclinato sul petto. La maglia era zuppa di sudore, i ciuffi castani erano appiccicati al volto, le labbra di un pericoloso livido.
«Re! Ehi, Re!» chiamò. Si avvicinò Nirmun, pulendosi la bocca in un fazzoletto che fece svanire nella polsiera.
«Aiutami a spegnere i cerchioscudi!» ordinò il lombax, cominciando a lavorare per disattivarne uno. L’altra lo imitò immediatamente: premettero ai lati dei dischetti, aspettandosi che uscissero le piccole pulsantiere con i tasti on e off, tuttavia non uscì nulla. Incuriositi, riprovarono. Niente da fare.
«Reshan, rispondi! Che razza di cerchioscudi sono?»
Lo xarthar non rispose, così Ulysses cercò di porgli la domanda per via mentale, ma senza riuscire a raggiungerlo. Nirmun fece il giro di tutti i congegni nel tentativo di aprirli. Alla fine del giro fece cenno di no al pilota, che s’alzò in piedi.
«Okay.» disse con risolutezza, sfoderando una delle vipere. La xarthar capì al volo e lo imitò: se quei congegni non si volevano spegnere con le buone, lo avrebbero fatto con le cattive.
I due spararono una serie di colpi, abbattendo uno dopo l’altro i dischetti. Mano a mano che i dispositivi vennero messi fuori uso le barriere andarono dissolvendosi; e quando l’ultima calò Nirmun s’inginocchiò di fianco al suo simile per assicurarsi che il battito cardiaco fosse ancora presente.
«Okay, è con noi.» e gli posò una mano sulla fronte. «Cazzo, scotta!»
Il lombax si guardò intorno. «Portiamolo dallo sbocco delle scale. Almeno c’è dell’ombra.»
Nirmun annuì, si spostò in una posizione più adatta e si passò il braccio di Reshan attorno al collo. Lo stesso fece Ulysses, ed a un segnale comune i due sollevarono il pipistrello. Passo dopo passo raggiunsero la loro meta, e lì adagiarono Reshan a terra.
Nirmun auscultò nuovamente il battito cardiaco e valutò la respirazione.
«Respira a malapena. Che facciamo?» chiese con una punta d’apprensione.
«E che ne so io, è il medico quello da curare!»
«Andiamo, metti in moto il cervello! Con lui ci vivi, ne avrete parlato qualche volta di primo soccorso! Cosa farebbe lui se tu fossi al suo posto?» lo incalzò lei. Ulysses ci pensò un momento, poi corse a prendere la giacca di Reshan. Incerto sul da farsi, l’arrotolò e l’andò a posizionare sotto il collo dell’amico, in modo che la testa risultasse leggermente reclinata all’indietro.
«Ecco... credo che vada messa così per facilitare la respirazione...» spiegò «Ma non mi viene in mente nient’altro. E comunque casi del genere non rientrano nei nostri discorsi abituali!»
Nirmun ignorò la risposta e concentrò lo sguardo su Reshan. La pelle del volto era estremamente pallida, le labbra livide.
«Dobbiamo chiamare qualcuno...»
«Oh bella questa!» rimbeccò il lombax. «Siamo sul tetto dell’accademia, come lo spieghiamo il nostro arrivo qui?»
«Ehi, la nostra parte è comprensibile! È la sua che non ha giustificazioni!» replicò Nirmun, indicando il pipistrello.
«Ehi, non vorrai mica metterci Thallia alle costole più di quel che c’è già!»
«Maledetto murha, noi non siamo medici! Non possiamo prenderci cura di qualcuno se non sappiamo cos’ha!»
«Beh, è immaginabile quello che ha, no? È stato chiuso dentro tre cerchioscudi sotto il sole per ore!»
«Ciò non toglie che dobbiamo chiamare qualcuno!» insisté la coniglia. «Non puoi essere tanto egoista da pensare solo a quello che l’ispettrice ti farà!»
«Io non penso solo a quello!»
«Ah no?»
«No! Pensassi solo a quello non avrei nemmeno messo piede qui sopra!» sbottò Ulysses.
«Ma senti che stronzo! E lo avresti lasciato a morire???»
«Senti chi parla! E ti pare che l’abbia lasciato a morire???»
«Rispondi alla mia domanda!»
 
In quel momento Reshan prese a tossire con forza, interrompendo la discussione dei due che, uno da una parte e una dall’altra, lo fissarono con stupore e apprensione.
Il torace del pipistrello, che prima si muoveva in maniera quasi impercettibile, dopo i colpi di tosse prese a salire e scendere al massimo delle sue capacità, come se lo xarthar avesse avuto il fiatone. Altri colpi di tosse, di nuovo fiatone: il pipistrello ingurgitava tanta aria da sembrare un mantice, a tratti quasi fischiando mentre inspirava, come se la troppa aria gli stesse andando di traverso.
Il cambio improvviso di comportamento mandò nel panico gli altri due.
Per loro fortuna, quella scena non durò più di una quindicina di secondi, allo scadere dei quali il medico riprese a respirare affannosamente.
«Socio?» azzardò Ulysses, senza ottenere risposta.
Osservò intensamente l’amico, combattuto su cosa fare.
«Okay, dobbiamo portarlo in infermeria.» dichiarò infine. «Se gli prendesse un altro attacco potrei sclerare.»
«E cosa dirai quando ti chiederanno spiegazioni?» domandò Nirmun. L’altro spostò lo sguardo negli occhi della xarthar e rispose con una punta di rassegnazione: «Dirò la verità. Prendo quanto resta dei cerchioscudi e spero che bastino come prova. Come accidenti gliela spiego sennò?»
* * * * * *
Ore 18:30
 
Dopo che lo xarthar fu visitato da uno dei medici di turno, Ulysses e Nirmun furono interrogati su quanto fosse successo.
«Tre cerchioscudi, avete detto?»
Il medico che li stava interrogando era un cazar minuto, dal vello scuro e gli occhi di un verde profondo. Indossava l’uniforme come tutti gli studenti, ma il fatto che la base fosse chiara anziché grigio scuro lo collocava tra gli insegnanti.
«Sì. E pure strani, tanto che per tirarlo fuori abbiamo dovuto farli saltare coi phaser. Guardi.» rispose Ulysses, materializzando uno dei tre superstiti.
Il cazar provò subito ad aprire il pannello di comando, e quando non ci riuscì lo avvicinò al volto per studiarlo con attenzione. «Decisamente bizzarro. Quindi cos’avete fatto?»
«Lo abbiamo fatto sdraiare all’ombra dello sbocco delle scale, credendo che bastasse a farlo riprendere. Quando ha cominciato a tossire e respirare come un mantice lo abbiamo portato qui.» rispose ancora il lombax.
«Capisco...»
La porta si aprì di scatto.
«ALLIEVI!!!»
Nirmun e Ulysses sobbalzarono sulle sedie, le pupille grandi per lo spavento.
Quella voce. La Donno era arrivata.
Siamo finiti! fu il pensiero di entrambi, mentre si voltavano. In piedi sulla porta, in mimetica e anfibi, l’istruttrice aveva l’espressione più truce che le avessero mai visto in volto.
«In piedi, idioti!» i due allievi scattarono come molle, presentandosi sull’attenti. Se nel primo pomeriggio avevano osato pensare risposte alle affermazioni dell’istruttrice, in quel momento risultava loro impossibile un’azione del genere.
«Lo sapete come si chiama la vostra azione?! Si chiama diserzione, ed è punibile con il carcere in tempo di pace e con la morte in tempo di guerra!»
Ulysses e Nirmun deglutirono lentamente. Quello era tempo di pace, quindi sarebbero stati incarcerati?
No, molto più probabilmente sarebbero stati espulsi dall’Accademia.
«Avanti a me adesso! Vi voglio nell’ufficio del direttore entro due minuti!»
Ufficio del direttore! Quindi li avrebbero espulsi sul serio!
«Sissignora!» assentirono meccanicamente i due allievi, prima di avviarsi davanti allo sguardo vigile dell’istruttrice. Sull’ingresso, Ulysses lanciò una fugace occhiata al lettino dov’era stato messo Reshan.
Solo perché non sa cosa c’è dietro, prof. Non può buttarci fuori così, pensò, adocchiando poi Nirmun, la quale camminava affianco a lui con l’espressione seria e il mento forzatamente alto.
Orgoglio. Vederlo così palesato diede l’impulso al lombax, che strinse il pugno e fece la sua promessa.
Non si disferà di noi tanto facilmente. Parola di Ulysses Yale.
 

 

 

 

   
 
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