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Autore: Applepagly    22/10/2023    0 recensioni
Si era guardato dentro abbastanza a lungo da accettare il fatto che, sì, certi dolori non hanno mai fine, e tuttavia non ha mai fine nemmeno quella festa di sorrisi e calore, di strani modi che l'affetto ha di sorprenderci di nuovo, ancora e ancora.
Genere: Malinconico, Slice of life, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Aisha, Altri, Nuovo personaggio, Riven
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Face of Melinda

***

#1 - The ghost of you

 
 

By the turnstile beckons a damsel fair
The face of Melinda neath blackened hair
No joy would flicker in her eyes
Brooding sadness came to a rise

Opeth, Face of Melinda

 
 
Quell’autunno si era presentato con una prepotenza inaudita, annunciato dal rombo di un tuono lontano che nulla aveva a che vedere con i temporali estivi.
La prima pioggia di Ottobre aveva preso a correre fittamente per le vetrate spalancate di una delle finestre del locale, lungo le quali le gocce si susseguivano come in dei bisbigli sottili nel mezzo di una nottata altrimenti fatta di silenzi.
Riven aprì gli occhi, svegliato dall’umidità di quell’aria che aveva sentito oltrepassargli la pelle e penetrargli nelle ossa. Un po’ a malincuore si risollevò dal torpore che lo aveva colto e nel quale si era cullato per un tempo interminabile. Si mosse nella penombra che avvolgeva la stanza, riflesso del grigiore opprimente del cielo che si stagliava oltre i tetti del quartiere, e gettò un’occhiata all’orologio appeso accanto alla credenza. Erano le due.
Fece a malapena in tempo a stiracchiarsi che sentì un improvviso rumore sordo, di natura ben diversa rispetto a quella del temporale che imperversava fuori.
Finiva spesso per addormentarsi a un tavolo del bar per la troppa stanchezza, una volta terminato di asciugare i bicchieri e di sistemare le sedie, e non era la prima volta che quel clangore lo svegliava: quella solfa andava avanti ormai da giorni. All'inizio aveva pensato si trattasse di ladri, ma non c'era molto da rubare. Le finestre erano sempre rimaste chiuse in sua assenza e non c’era mai stata ombra di scasso.
Ne aveva parlato con Flora, che sosteneva si trattasse di qualche animale in fuga da Melmamora. Pareva stesse succedendo un putiferio là sotto da prima che lui facesse ritorno a Magix, e cioè, da quando qualche privato aveva ottenuto il permesso di procedere alla bonifica di parte della palude, per edificarvi chissà cosa. La zona della periferia in cui aveva aperto la propria attività era abbastanza vicina, perciò era plausibile che la creatura in questione andasse a rovistare nella sua spazzatura.
Di nuovo, quel suono lo colse impreparato, insieme a una serie di passi. Chiaramente l’ipotesi dell’animale era da escludersi. Furtivo, l’uomo si diresse nella cucina e uscì dalla porta sul retro: se avesse usato l'ingresso principale si sarebbe annunciato a chiunque fosse là fuori. Proprio mentre svoltava l'angolo per sorprendere l’ospite sotto la pioggia battente, ecco che quello sembrava essere sparito; i cassonetti erano ben chiusi, come se nessuno vi avesse frugato dentro.
Lo scricchiolio della solita asse del pavimento lo informò che l'intruso si era introdotto nel bar, nonostante l’ingresso principale fosse chiuso a chiave. Una creatura magica o con ottime capacità di scasso, dunque. Riven scivolò silenziosamente nell’edificio dalla porta da cui era uscito, allungò una mano verso il contatore e fece saltare la corrente. Si udì un sussulto provenire dall’altra stanza; era stato breve, ma gli era parso si trattasse di una voce di bambino. Forse era qualche ragazzino pestifero, o forse qualche altra strana bestia capace di imitare i timbri umani… non c’era più da sorprendersi di nulla, ormai.
Si sfilò le calzature, procedendo in punta di piedi verso l’intruso. Una volta nella stanza, si acquattò in un angolo per un momento, cercando di individuare con chi avesse a che fare; non dovette attendere molto perché, nel buio, qualcuno inciampò in un tavolo cadendo con un tonfo fragoroso. Un’imprecazione – a giudicare dal tono doveva trattarsi di questo, benché fosse in una lingua sconosciuta – volò dalle labbra di quella che l’uomo comprese essere non un bambino né una bestia, ma piuttosto una ragazzina.
Silenzioso com’era entrato, le si avvicinò, afferrandola per le spalle. La ragazzina trasalì nuovamente, questa volta con paura. Nonostante l’oscurità che li avvolgeva, l’uomo riuscì a scrutare con facilità nella purezza degli occhi grandi e limpidi di lei; occhi d’argento, a tratti quasi bianchi. Uno sguardo pulito di un colore che era piuttosto certo di non aver mai visto prima.
-  Chi sei? Cosa vuoi? - le domandò l’uomo bruscamente, scuotendola. Non ottenne nulla più che l’ennesimo sussulto. - Cosa ci fai, qui? - tentò vanamente. La lasciò andare per riaccendere il contatore e, una volta alla luce, ebbe conferma dei suoi sospetti.
Davanti a lui stava a stento in piedi una ragazzina gravemente emaciata in volto, dalla pelle diafana e una zazzera corta, di un colore scuro; sopracciglia sottili e dalla forma bambinesca, corrucciate in una piega ostile. Aveva un viso fresco, un naso dritto e ampio che troneggiava su labbra piccole e incerte. Era infagottata in una felpa logora, maleodorante e troppo grande per la sua figura; si ergeva su ginocchia nodose, sbucciate, e scarpe consumate.
Nell’innocenza del suo sguardo, che la rendeva non poi dissimile da quei dipinti di putti serafici che aveva avuto modo di vedere sulla Terra, si poteva tuttavia scorgere un guizzo di paura, confusione e rabbia. Gli occhi di chi si è smarrito. Di chi è solo.
- Come ti chiami? - chiese, ottenendo come unica risposta la vacuità dell’espressione di lei. Riprovò, senza ottenere un risultato diverso. Sarebbe stato inutile tentare oltre, dal momento che non sembrava capirlo.
Riven sospirò, un po’ esasperato. Cosa doveva fare con lei? Era piuttosto evidente che non avesse dove andare e lasciarla in balia di se stessa sarebbe significato incatenarla a una vita di stenti, o peggio, lasciare che qualcuno la raccogliesse per spedirla in qualche lurido buco di perversioni. Non erano fatti suoi, certo. Nessuno l’aveva mai aiutato quando ne aveva avuto bisogno.
La guardò bene. Non doveva avere più di dieci o undici anni.
Le indicò una sedia, facendole segno di sedersi. Con uno sbuffo corse nella cucina alla ricerca di qualcosa da poter mettere insieme rapidamente. Pane, forse, e magari un po’ di burro. Forse avrebbe avuto più senso lasciare che si servisse da sola e quanto voleva.
Le portò tutto quello che pensava potesse andar bene. - Mangia. - le disse, facendo un cenno verso il cibo. Abbozzò un sorriso, o quel che rimaneva della sua capacità di farlo. Non che avesse la pretesa di risultare chissà quanto confortante. La ragazzina lo guardò di sbieco, sospettosa. - Avanti, non è mica avvelenato. - disse l’uomo, inutilmente. Lei gli restituì un’altra occhiata diffidente, ma afferrò una fetta di pane e la sgranocchiò avidamente, tentando di nascondersi dalla vista di lui.
- Mangia quanto ti pare. - fece l’uomo, alzandosi. Si munì di scopa e straccio per finire di pulire il locale, di quando in quando spiando la ragazzina, per assicurarsi che non si strozzasse per quanto rapidamente stava trangugiando quel che aveva davanti.
Una curiosa amarezza si fece strada su per la sua gola e si scoprì sinceramente sorpreso al pensiero di non aver indugiato in quei ricordi per molto tempo. Quella stessa amarezza che l’aveva accompagnato per larga parte della sua infanzia e dell’adolescenza, fino ai primi anni dell’età adulta. Dopodiché, aveva avuto l’impressione – l’illusione – di rifiorire, o di fiorire per la prima volta nella vita, viaggiando, conoscendo le realtà di chi era stato come lui e di chi, come lui, non sarebbe mai diventato. Ma quell’amarezza non l’aveva mai davvero abbandonato; era solo rimasta assopita in un antro ben nascosto del suo cuore e, di tanto in tanto, tornava a fargli visita, a rammentargli quanto la sua esistenza fosse misera.
Il ricordo di quella vita di solitudine, di stenti e disprezzo; ecco cos’aveva suscitato in lui la vista di una ragazzina tanto gracile e impaurita.
- Avevi fame, vero? - le disse, scoprendo la facilità con la quale la sua voce riusciva dolce nei suoi confronti. - Hai finito? - domandò. Lei spinse in avanti il piatto, distogliendo lo sguardo. Forse era piena, o magari non le piaceva molto quello che aveva a disposizione. Non aveva mangiato molto, in realtà. Non che una persona nelle sue condizioni potesse permettersi di essere schizzinosa, chiaramente.
Riven iniziò a sparecchiare il tavolo, pensando al da farsi. Non c’era altra possibilità, per lui, se non quella di occuparsi della ragazzina, almeno per un po’. Decise che l’indomani avrebbe chiamato Tecna: sicuramente aveva qualche aggeggio per tradurre la lingua che lei parlava, ammesso che fosse effettivamente in grado di mettere insieme qualcosa di più di un’imprecazione. In ogni caso, sarebbe sicuramente riuscita ad escogitare qualcosa.
Forse avrebbe contattato anche Flora ed Helia per metterli al corrente. Flora non faceva che lamentarsi di tutti gli abiti dismessi dalla figlia maggiore, perciò sarebbe stata ben lieta di liberarsene donandoli a qualcuno che ne aveva bisogno. Oltretutto, lui non aveva la benché minima idea di come regolarsi con un’adolescente. Era capitato che badasse ai figli dei suoi amici quando erano un po’ più piccoli, prima di viaggiare, ma era stato diverso e con loro aveva una certa confidenza.
- Domani andiamo a fare un po’ di spesa. Così ti scegli quello che vuoi mangiare. - continuava a parlarle come se lei potesse capirlo, tra l’altro loquace come difficilmente gli riusciva in presenza di altri. Magari prima o poi lei avrebbe imparato qualcosa, o forse lo stava facendo per non sentirsi solo.
Le fece cenno di andare verso la cucina. Sempre con sospetto, lei fece come le era stato indicato. Si guardava intorno. - Come puoi vedere, non è che ci sia molto, in giro. Hai scelto la casa sbagliata. - scherzò, lasciando tutto sul ripiano, vicino al frigorifero. Non aveva le forze di finire di sistemare. Spense le luci e si diresse verso il resto dell’appartamento. - Per di qua. -
La condusse su per le scale e poi nella stanza in cui era solito dormire. Era uno spazio pulito, ma piuttosto arido, che non aveva avuto il tempo – né alcun desiderio – di personalizzare nel poco tempo che era stato lì. L’unico mobilio consisteva in un letto singolo e un armadio dalle ante rotte, che puntualmente dimenticava di riparare.
Prima che potesse dirle qualcosa, la ragazzina lo guardò con un viso verde dalla nausea; l’accompagnò di corsa verso il bagno, appena in tempo per metterla in ginocchio e reggerle la fronte mentre lei si chinava sul gabinetto. Non sapeva se attribuire quel malessere alla velocità con la quale si era strafogata o se ai giorni, o forse settimane, che doveva aver trascorso senza l’ombra di una briciola.
Quando sembrò che avesse finito, la mise a sedere sul bordo della vasca, aprendo il getto dell’acqua. Sparì per qualche istante alla ricerca di una maglietta e dei pantaloni puliti da darle, per poi indicarle il doccino e l’asciugamani appeso lì accanto, una volta tornato. - Ti sentirai meglio. - le disse, uscendo dal bagno.
La ragazzina riemerse dopo una ventina di minuti, scalza e tremante, con un’espressione stremata e, in qualche modo, un po’ più distesa. O così gli parve. Doveva aver usato quell’intruglio che Flora gli aveva lasciato sul bordo vasca, perché la seguiva un sottile profumo di piante. Sì, sicuramente aveva bisogno di vestiti nuovi.
- Beh, buona notte. - abbozzò, facendole strada verso la camera da letto e chiudendosi la porta alle spalle. Raccolse la felpa e le scarpe che lei aveva lasciato dal bagno, promettendosi di cercare di capire se quella roba avesse per lei un qualche valore. Scese nuovamente al piano inferiore, riprendendo da dove aveva lasciato.
Strozzò il sospiro al quale stava per lasciarsi andare, perché in quell’esatto momento ricevette una notifica al cellulare. Era sempre così, quando lei si faceva sentire. Non aveva controllato lo schermo, non ne aveva bisogno: sapeva che era lei dal modo in cui il telefono squillava con stizza, con urgenza.
Prese a rigirarsi il telefonino tra le mani, indeciso sul da farsi, e scoprì di avere una gran paura di quello che avrebbe potuto leggere, come sempre. Ma quella era tutta una messinscena, perché avrebbe fatto quello che faceva sempre.
- Secondo me stai esagerando. – disse una risata sbucata dalla penombra della stanza senza che lui se ne accorgesse. Riven guardò tristemente la donna che stava in piedi accanto al jukebox, tutta intenta a sorridergli; snella e sempre fiera nelle sue spalle sottili e rilassate.
- Sì? E cosa te lo fa pensare? – sorrise sarcasticamente. Notò che aveva smesso di piovere.
- Non devi per forza risponderle, Riven. Lo sai. – gli fece notare, prendendo posto al tavolo dove giaceva il telefono. Nonostante la malagrazia con la quale lei vi si era lasciata andare sopra, notò lui con tristezza, la sedia non aveva accusato alcun tonfo. – Che ne dici di lasciar perdere? –
Non le rispose. Ancora qualche minuto per sistemare il locale e poi salì su per la botola, sistemandosi sulle tegole del tetto; lei lo seguì e fece altrettanto.
“Domani abbiamo le prime prove con il nuovo batterista : )”
Questo era quel che faceva sempre, da quindici anni a quella parte. Ogni parola attentamente soppesata e poi sistemata tra le altre; esitazione, e quello sciocco domandarsi se fosse il modo migliore per costruire la frase, se si intendesse bene il tono, se trasparisse abbastanza interesse perché si sentisse ascoltata, ma non troppo da farle sospettare nulla. Forse avrebbe dovuto aspettare a rispondere?
“Fantastico, fammi sapere poi se è quello giusto”
Quegli scambi amichevoli, fugaci, erano ciò a cui si aggrappava da quasi quindici anni, nel ricordo di una naturalezza che era evaporata nell’esatto momento in cui la realtà di loro due insieme era svanita, ed erano diventati solo lui e lei. Era perfettamente consapevole dell’indifferenza di lei e avrebbe negato fino alla morte che il legame che li univa non fosse sincero. Teneva alla sua amicizia più di ogni altra cosa, senza alcuna pretesa o speranza che le cose potessero cambiare.
Dopotutto lei era ormai una celebrità affermata e certo le attenzioni di ammiratori e ammiratrici non le mancavano, per non parlare delle numerose storie che aveva avuto negli anni; al confronto, pensava ogni tanto aspramente, lui non era che una briciola di passato dalla quale a Musa forse piaceva tornare per avere l’impressione di non aver completamente perso di vista se stessa. Dopotutto, a chi non piace ricevere attenzione incondizionata?
Era anzi stato a dir poco sorpreso nell’appurare quanto spesso si ricordasse di lui e lo cercasse e, al contrario, di quanto rare fossero le interazioni che aveva con quelle che erano state le sue amiche. Innumerevoli ritrovi mancati, qualche messaggio di auguri e poi nemmeno più quelli; perfino Aisha e Tecna, che da sempre avevano un rapporto più stretto con lei, l’avevano vista l’ultima volta l’anno prima, poco dopo la nascita del secondogenito di Flora. Musa era diventata un argomento che tutti preferivano evitare quando capitava di vedersi per qualche ricorrenza, e forse loro riuscivano anche a fingere di averla dimenticata, di averla lasciata andare come evidentemente lei desiderava.
Ma per quanto forte potesse essere la certezza di Riven di essersela lasciata alle spalle in quei momenti in cui tutto pareva andare per il verso giusto, l’amaro pensiero di lei tornava con un’angoscia quasi ciclica, a ricordargli che c’era stato un tempo in cui si erano appartenuti. C’era stato un tempo in cui avevano condiviso quell’aria di estate che tanto bramava e che, puntuale com’erano stati i loro litigi, tornava sempre insieme al caldo delle estati a Magix. Lo spettro di quel ricordo, benché sbiadito dal tempo, era in verità quanto di più caro avesse, quanto di più lieto esistesse nel cuore di un uomo che si sentiva patetico.
Nascose il cellulare nella tasca, con un nodo che sembrava farsi pian piano più stretto attorno alla gola. Desiderò con tutto se stesso di avere con sé una di quelle sigarette terrestri che sapevano di catrame di Melmamora, ma dovette accontentarsi di quelle che aveva. Ne sfilò una dal portasigarette che Flora gli aveva regalato per il suo ultimo compleanno e l’accese, presto diffondendo nell’aria un leggero profumo di muschio.
Con lo sguardo seguì i rami intagliati nel legno lucido del portasigarette, che cambiavano disposizione a ogni movimento della mano. Un lavoro così finemente studiato, nulla di spaventosamente difficile, per una fata del calibro della sua amica, e cionondimeno incredibile, come può essere solo un dono pensato con affetto.
- Perché non provi a lasciarla andare, semplicemente? – chiese a un certo punto la donna, con amarezza.
- Come ho lasciato andare te? – replicò Riven, stringendo la sigaretta tra i denti.
- Dovresti smettere di fumare. –
- Lo so. – sorrise lui. Aspirò, scrutando l’orizzonte; il cielo stava rapidamente cambiando d’aspetto, si stava facendo ancora più chiuso e opprimente, e il vento era mutevole, urlava come un bambino capriccioso. Ancora qualche istante e avrebbe sicuramente ripreso a piovere.
- Ti sembra di avermi lasciata davvero andare? Sono mesi che te lo ripeti, eppure sono qui. –
Quella non era la prima volta – né sarebbe stata l’ultima, probabilmente – che lei andava a fargli visita nei momenti in cui lo sconforto di vivere gli strisciava addosso e prendeva a fargli dolere il cuore, come un’antica ferita di guerra manda fitte dolorose di quando in quando, anche a distanza di anni. Lei era scomparsa da qualche mese, soffrendo in silenzio e da sola come il tempo le aveva insegnato a fare.
Come faccio io.
Era venuto a saperlo perché, strano ma vero, Tecna aveva mantenuto qualche contatto con una delle sorelle, con le quali lei non parlava dal giorno in cui erano state scagionate e avevano ritenuto che fosse meglio prendere ognuna la propria strada. La fata non era riuscita a cavare molto dalla donna, e l’unica informazione che avevano ottenuto era che, alla fine, la sorella non aveva retto tutto quel male, che aveva lasciato che quel male avesse la meglio su di lei.
Quando lo era venuto a sapere gli era sembrato che un refolo di vento gelido si fosse intrufolato nel suo cuore come uno spiffero, e si era scoperto sorpreso nell’apprendere di essere ancora capace di provare dolore per quella donna con cui aveva condiviso un pezzetto di giovinezza, per quanto breve. Inizialmente non era riuscito a capacitarsi di come lei potesse aver lasciato che tutto quel male se ne impossessasse in un vortice di voci che le sussurravano dall’oscurità del passato.
Proprio quell’oscurità che lei aveva sempre saputo dominare e mettere a tacere.
- Vuoi dire che non verrai più a trovarmi? – le domandò, guardandola in quegli occhi d’ambra che non avevano mai perso la capacità di sbeffeggiarlo e avvolgerlo al tempo stesso. Lo sguardo gli cadeva sempre, inevitabilmente, su quella corda che lei aveva attorno al collo sottile, come una collana; non sapeva se le cose fossero andate così, ma la sua mente gli giocava sempre quel brutto scherzo e lo costringeva a vederla come se l’era immaginata nei suoi ultimi istanti. Una donna di una bellezza ipnotica, giovane com’era quando l’aveva conosciuta, con i suoi jeans viola e quegli occhialetti che le scivolavano sul naso dritto e definito.
- Non è così facendo che riuscirai a vivere. – sussurrò lei, enigmatica.
- Lo so. Scusami, se puoi. – ripeté Riven. Il vento sospirò un po’ più forte e gli sembrò che tutta l’aria corresse via, lasciandolo a strozzarsi con tutto quel fumo e con quel dolore nel quale affogava in silenzio da anni, come lei.
Non c’era più nessuno, lassù con lui; non c’era mai stato.
Mentre spegneva il mozzicone su una tegola pensò con amarezza che sarebbe trascorso ancora un tempo infinito, prima che l’estate potesse tornare. – Scusami, Darcy. -

 

And I remember now
At the top of my lungs in my arms she dies
She dies

My Chemical Romance, The Ghost of You

 

 

***

 
- Come sarebbe a dire che non puoi venire questa settimana, Tecna? - sbraitò l’uomo al telefono.
- Sono desolata, ma purtroppo non farò ritorno in città prima di giovedì. - replicò lei. Lui sbirciò il calendario, dato che aveva perso cognizione del tempo. Era solo sabato. - Con possibile posticipo del mio rientro. Non molto probabile, ma non impossibile. Non sono certa che riusciremo a concludere il sopralluogo in tempo. -
Lui sospirò, sconsolato. - Cosa dovrei fare, fino ad allora? Non ho idea nemmeno di come lei si chiami. -
- Non lo so, Riven. Ma di certo non è sciocca, se è riuscita a capirti ugualmente. - rispose Tecna. - Sono sicura che riuscirai a resistere pur senza il mio intervento. Non hai detto che Flora stessa verrà a darti una mano? -
- Sì, dovrebbe essere qui a momenti. D’accordo, allora aggiornami e fammi sapere quando torni. -
- Senz’altro. Ti auguro una buona giornata… fa’ attenzione. - attaccò la donna.
Storse un po’ il naso, interdetto. Aveva cercato di raggiungere Tecna per tutta la mattinata, senza successo; aveva voluto fare un ultimo tentativo nel primo pomeriggio, salvo scoprire di non poter contare su di lei ancora per qualche giorno. Lanciò un’occhiata verso le scale, gli pareva di aver sentito un fruscio provenire dalla stanza in cui dormiva la ragazzina; erano le tre passate e non accennava a scendere, neppure per sbocconcellare qualcosa.
- Riven? Si può? - domandò una voce allegra dall’ingresso principale del locale.
- Entra, Flora. – le andò in contro e aprì la porta abbozzando un sorriso. L’amica gli restituì la stessa espressione e lui notò che le timide goccioline di pioggia, rimasuglio del temporale della notte precedente, sembravano scorrerle addosso come se scivolassero via da lei senza bagnarla, sicuramente grazie a qualche incantesimo.
Negli anni trascorsi, Riven era in qualche modo riuscito ad avvicinarsi molto alla moglie del suo migliore amico. Flora era un po’ quel tipo di figura materna che era sempre mancata nella sua vita e la cui sola presenza sembrava rasserenare anche l’animo più tormentato.
Il tempo era stato clemente con lei e la maturità sembrava averle donato ulteriore bellezza. Era una donna splendida e aveva un gesto di riguardo sempre per tutti, specialmente nei suoi confronti, stringendoglisi intorno in una maniera che gli permetteva di sentirsi a casa.
Le sfilò dalle mani un grosso scatolone che presumibilmente conteneva tutti quegli abiti che la figlia non indossava più. – Scusami, non ti ho sentito arrivare. – le disse, facendo un cenno con la testa verso la vettura parcheggiata di fuori. - Quanta roba. – constatò dopo aver posato la scatola sul bancone ed averla aperta. – Non c’è che dire, non le mancheranno certo vestiti. -
- Eh, già. Alcune cose Chandra non le mette perché le vanno piccole… altre non le piacciono più. Spero che la taglia non sia troppo diversa, anche se possiamo sistemarla. - disse la donna, iniziando a tirare fuori gonne e casacche.
Riven cominciò ad estrarre abiti dallo scatolone a propria volta, sempre più sorpreso della quantità di vestiti della nipotina. Era molto tempo che non si faceva vedere. - Come sta, Chandra? - domandò, simulando un disinteresse che di fatto non gli apparteneva. L’espressione sul viso dell’altra gli lasciò intendere quel che già sospettava.
Helia diceva di non rimanerci male, che adesso era così, un’adolescente piuttosto evasiva e laconica anche con loro. Quando avevano affrontato il discorso si era sforzato di rimanere stoico e a malapena interessato, ma la realtà era che era molto dispiaciuto dell’improvviso distacco che la nipotina putativa gli mostrava. L’aveva lasciata quattro anni prima che ancora gli portava i biscotti che faceva, quando passava da casa sua dopo la scuola per salutarlo e raccontargli com’era andata; ed ora, quattro anni più tardi, non c’era più alcuna traccia di quella bambina dolce e solare che ricordava.
Non era mai stato un mostro d’empatia ma sapeva che, perché Chandra avesse affrontato un cambiamento così radicale, qualcosa doveva esserle successo. In verità, poco prima che lui andasse via, la bambina gli aveva confessato un segreto che aveva intriso i suoi sorrisi di una sottile inquietudine, della quale i suoi genitori non erano stati al corrente per molto tempo.
Crescendo, la figlia di Flora ed Helia si era spesso interrogata sul motivo per il quale tutti i suoi coetanei, all’asilo e poi a scuola, sembrassero riuscire in tutti quei compiti e quegli incantesimi che per lei si risolvevano sempre in un disastro. La sua magia era sempre parsa inspiegabilmente debole e a nulla erano serviti corsi intensivi, campi estivi e attività di ogni sorta; e, mentre le compagne di scuola iniziavano a trasformarsi per la prima volta, lei era rimasta indietro. Finché un giorno, quando aveva dieci anni, Chandra era stata attaccata da un mostro nascosto nel cantiere a pochi metri dalla casa di Riven.
Sentendo le sue urla, l’uomo si era precipitato in soccorso della bambina, constatando subito che non ne aveva affatto bisogno. Doveva essersi avvalsa di un qualche campo magnetico, perché in un baleno aveva generato una prigione con tutto ciò che di minerario c’era nei dintorni; spesse spire di metallo avevano avvolto il mostro, per poi sciogliersi e fondere con sé le carni dell’animale. Riven non ne sapeva moltissimo, ma era piuttosto certo che quel tipo di abilità non fosse cosa di poco conto data l’età della bambina e i suoi trascorsi. Soprattutto, l’esperienza gli aveva insegnato che incantesimi offensivi del genere difficilmente sorgevano così spontanei a una fata.
Così Chandra, in lacrime, gli aveva confessato di aver già avuto esperienze simili e di sospettare che il motivo per il quale riusciva male a scuola, una scuola per fate, fosse che lei era in realtà una strega.
- Direi… laconica come al solito. Ancora qualche giorno e poi… - sorrise Flora, assorta. - E poi inizierà i suoi studi a Torrenuvola. Mi sembra piuttosto entusiasta, a dirla tutta. Spero solo che non incontri le persone sbagliate, se capisci che intendo. –
Riven annuì. – Pensavo che la situazione fosse migliorata, da quando è stata eletta come preside quella… com’è che si chiamava? –
- Lucy. – ricordò Flora. – E sì, così dice Mirta, che insegna ad Alfea, ma sai com’è con le streghe, spesso… - concluse. – Ad ogni modo, dov’è lei? – chiese, guardando in direzione delle scale.
- Non so se stia ancora dormendo. Forse era molto stanca, non posso biasimarla. - fece lui. - Giusto per sicurezza, puoi andare a dare un occhio? Non vorrei piombare lì in un momento inopportuno. -
- Ma certo. - sorrise Flora, allontanandosi.
Lui continuò a tirar fuori i vestiti dagli scatoloni, fino a quando non sentì la voce allarmata dell’amica che lo chiamava. Corse al piano di sopra e fece per entrare nella camera da letto, quando Flora richiamò la sua attenzione dal corridoio. – Per di qua! Penso sia svenuta mentre andava in bagno… povera creatura. – sussurrò, accarezzandole il capo con dolcezza. – Forse dovremmo portarla ai soccorsi… anche se non riesco a percepire alcun male, in lei. –
Solo allora Riven si accorse che dalle dita della donna, che scorrevano tra i capelli della ragazzina, si emanavano gentili serpentelli di luce verde, che avevano preso a scendere per tutto il corpo della poveretta. – Non penso sia malata. – concluse.
- Più probabilmente è stremata. – fece lui, chinandosi sulla bambina. Fece per sollevarla, ma questa aprì piano gli occhi, confusa.
- Si sta svegliando. – constatò Flora, con un sorriso. – Ciao! – fece.
La ragazzina, ormai completamente rinvenuta, indietreggiò con un balzo, farfugliando qualcosa di ostile. Flora non si scopose e continuò a sorriderle. – Buongiorno. – le disse.
L’altra continuò a squadrarla, poi guardò Riven, diffidente. Non sapendo cosa dire, lui si alzò e fece alla bambina cenno di seguirli al piano di sotto. – Dovrei andare a comprare qualcosa ma… non so cosa lei mangi e cosa no. Avevo pensato di portarmela dietro. – fece l’uomo, un po’ in imbarazzo.
- Direi che è una buona idea, potrebbe essere allergica a qualcosa. – fece notare Flora. Lui non ci aveva proprio pensato. – Però non mi sembra nelle condizioni di andare in giro. – continuò, guardando la ragazzina, che si era lasciata andare su una delle sedie intorno al bancone. - Ti accompagnerei io, ma dopo devo andare a prendere Van all’asilo verso le quattro, oggi non fanno il pomeriggio lungo. Ho sentito un po’ Aisha che in questi giorni è qui a Magix, però, e le ho spiegato la situazione. Mi ha detto che avrebbe fatto un salto. -
La ringraziò, un po’ spiazzato. Era da un molto tempo che non vedeva Aisha.
- Allora! – sorrise la donna, rivolgendosi alla ragazzina. – Ecco, questi sono per te. – cercò di spiegare, indicando i vestiti che giacevano sul tavolo. Afferrò una casacca sui toni del violetto e, con delicatezza, l’appoggiò sulle spalle dell’altra, come a prendere le misure. Ricevette uno sguardo un po’ confuso, quasi incredulo.
La bambina si rigirò la maglietta tra le mani, con occhi sgranati. Riven ebbe un moto di qualcosa che avrebbe quasi potuto definire tenerezza; chissà quanto tempo era trascorso, da che aveva avuto abiti puliti. Lei rivolse uno sguardo sospettoso a Flora, che continuò a sorridere, poi si alzò e cominciò a esaminare attentamente ogni capo d’abbigliamento. Di quando in quando guardava di sottecchi i due adulti, forse chiedendosi se quello che stava facendo fosse lecito.
- Hai già sentito Tecna? – chiese Flora, distogliendo lo sguardo dalla ragazzina, con discrezione.
- Sì. Se riesce verrà qui la settimana prossima… già, non guardarmi così, anche secondo me è un sacco di tempo. – rispose lui, anticipando la domanda che aveva visto sorgere insieme allo sguardo sorpreso di lei. – Ho pensato di chiedere a Timmy, ma se non ricordo male ha preso servizio presso un laboratorio di Eraklyon fino alla fine del mese. –
- Mh, è vero. – sospirò Flora, picchettandosi lievemente il mento con un dito, come le capitava di fare quando era pensierosa. – Forse possiamo quanto meno riuscire a farci dire come si chiama. –
Riven stava per dire qualcosa, ma i campanelli all’entrata del locale annunciarono l’ingresso di qualcuno proprio in quel momento. - Ciao! – esclamò la fata, correndo in contro al nuovo venuto. La ragazzina sussultò e alzò rapidamente lo sguardo sulla donna statuaria che stava stringendo Flora in un abbraccio affettuoso.
Aisha era una donna molto alta, quasi quanto lui; era riuscita a mantenersi molto atletica, come quando erano adolescenti che si cimentavano insieme in sfide sportive e lei riusciva a tenere testa a tutti loro. – Ciao, ben arrivata. – le disse, senza muoversi.
Lei di rimando abbozzò un sorriso e i suoi occhi brillanti baluginarono di una luce insolita. – Ciao, Riven. -


 

***

 
Riven non aveva mai avuto ben chiaro come fossero due persone che si amano. Non in un modo che non fosse in una certa misura nocivo, per lo meno.
Aveva amato Musa con tutto se stesso, ma era anche consapevole del fatto che il loro legame non fosse mai stato debitamente stabile e sano come quello che immaginava esistesse tra due persone che realmente si appartengono. L’unico esempio che aveva effettivamente sotto gli occhi era rappresentato dai suoi due amici, Flora ed Helia, da quella loro unione che, almeno da fuori, sembrava ciò su cui molti avevano scritto e cantato, quello che molti inseguivano in vano per tutta la vita e che loro avevano lì, nella dolcezza degli sguardi che si scambiavano.
Sapeva che le responsabilità dell’età adulta prima e della genitorialità dopo dovevano averli certamente messi a dura prova e che il sentimento iniziale, quello di quando erano tutti studenti con la pelle tirata come tamburi, era maturato per lasciare spazio a qualcosa di diverso, forse meno apparente, ma più vero. Razionalmente aveva cognizione di cosa dovesse significare, e tuttavia non sentiva di poter dire di averlo mai sperimentato. Dopo Musa si era cimentato in vicende entusiasmanti, ma senza impegno, che all’alba dei trent’anni lo avevano già stufato.
Sulla Terra si era legato a una donna di lì per circa un anno e ogni tanto si ritrovava a ripensare a quella relazione come all’unica che si fosse mai avvicinata a qualcosa di realmente stabile. Si era però presto reso conto di non amarla e, con una certa amarezza, di non essere in grado di farlo, nemmeno in futuro. Aveva avuto al suo fianco una persona rara che non sarebbe riuscito ad amare e allontanarsi era stata la scelta più giusta, per quanto sofferta.
Poi aveva deciso di fare ritorno a Magix e di sistemarsi lì, in quell’angolo di periferia, discreto e silenzioso come voleva lui. Il giorno in cui aveva iniziato i lavori per risistemare il locale aveva incrociato Aisha per puro caso e avevano parlato, avevano parlato a lungo tra un panino sbocconcellato e una mano di intonaco alle pareti. Avevano trascorso tutta la giornata insieme e Riven non avrebbe saputo dire se per la lontananza e il tempo passato o se per qualcos’altro, ma gli era sembrato che le cose tra loro fossero diventate profondamente diverse rispetto a prima della sua partenza, quando lei era certo una sua amica, ma una tra le altre del Winx Club.
Avevano iniziato a sentirsi un po’ più spesso, soprattutto quando lei riusciva a trovare il modo di delegare i suoi impegni a qualcuno per una chiacchierata al telefono o una rapida passeggiata lungo il lago di Selvafosca e, in poco tempo, aveva iniziato a pensare ad Aisha come alla sua amica più cara. Poi, inaspettatamente come tutto era iniziato, lei aveva preso le distanze o forse, si era detto, era semplicemente stata troppo impegnata.
- Allora, mi spieghi? – iniziò la donna, senza tanti preamboli. La sua schiettezza era una delle cose che apprezzava di lei. – Flora mi ha solo accennato qualcosa. -
- Nulla di che. Ieri si è introdotta in casa mia. – disse Riven, laconico. Sfilò il portasigarette di legno e fece per aprirlo, quando un brontolio di lei catturò la sua attenzione.
- Dovresti evitare quella roba, non ti fa bene. Per di più puzza. – gli fece notare infatti lei, sbuffando sonoramente. – Non capisco perché ti ostini, dovresti smettere. –
- Mai sentito parlare dei vizi? E poi non sono dannose come quelle che vendono sulla Terra. – replicò, infilando una sigaretta tra i denti. – Quando avrò un motivo valido per smettere lo farò. –
- Sia come vuoi. Tutto qui? – continuò la donna, guardandolo negli occhi.
- Come sarebbe “tutto qui”? – rispose lui, fingendo di non capire. In realtà aveva capito benissimo che cosa lei intendesse. Aggirare le domande di Aisha era sempre molto semplice, forse perché più che altro lei glielo lasciava fare; era abbastanza riservata e discreta lei stessa, e tuttavia sufficientemente intuitiva, da comprendere quando qualcuno voleva tenersi certe cose per sé. Probabilmente in quel caso riusciva anche ad immaginare di cosa si trattasse.
Camminarono qualche istante in silenzio, lui con la sua sigaretta e lei con quell’aria un po’ assorta che aveva ogni tanto. Sapeva che le sue responsabilità da futura regina di Andros gravavano sulle sue spalle in ogni momento e che, nonostante lei si sforzasse di non darlo a vedere, il fatto di non avere nessuno al proprio fianco con cui condividere i propri oneri aveva iniziato a pesarle più di quanto preventivato. Non che le mancassero pretendenti, ma non aveva mai voluto prendere marito e quei legami che aveva avuto in gioventù restavano ora solo un ricordo al quale guardava con tenera nostalgia.
Una volta ne avevano parlato e ora che entrambi si avvicinavano silenziosamente ai quaranta, lei aveva sempre meno voglia di pensare all’eventualità di trovare un consorte.
- Cosa c’è? – le chiese, a un certo punto. La guardò e lei gli restituì uno sguardo di una certa intensità. Aveva zigomi alti e aggressivi, sui quali si stagliavano due occhi affusolati e pacifici, di un blu brillante; ancora una volta, com’era già capitato in passato, si ritrovò a pensare che la statura di lei, unita alla fierezza del suo sguardo, gli faceva un certo effetto.
- Nulla. – sorrise Aisha, forse con amarezza. – Come stai, a parte questo? –
Aveva sempre la capacità di prenderlo in contropiede con le sue domande, che sembrava formulare sulla base dei pensieri che lo tormentavano. Di fronte a lei, si ritrovò a notare, non aveva quasi mai alcuno schermo se non quello che lei stessa gli offriva quando decideva di permettergli di sviare; e, cionondimeno, nelle occasioni in cui sentiva di volersi lasciare andare a una confidenza con lei, gli riusciva estremamente semplice. Essere vulnerabile era in generale più facile ora di quanto non lo fosse stato in passato e questo con chiunque, ma qualcosa di Aisha sembrava sempre facilitarlo ulteriormente.
- Non lo so. – ammise con onestà, mentre aspirava. – Alle volte mi sembra che non sia trascorso neppure un giorno. Certe altre, invece, mi sembra sia passata un’infinità di tempo. So che è così anche per te. – aggiunse, accarezzando per un attimo il ricordo di Nabu e della sua amicizia.
Lei sospirò, dicendo qualcosa che lì per lì lui non comprese.
- Beh, comunque. – cambiò discorso lui. – Come mai sei qui? È da un po’ che non ci si vede. –
E che non ti fai sentire, pensò con una punta di fastidio. Aisha sembrò soppesare le parole giuste per qualche istante. – Non avevo impegni particolari e a corte iniziavano ad assillarmi con la questione del ballo che si terrà in onore dell’anniversario dei sovrani di Espero. Non me ne vogliano, ma è proprio l’ultima cosa alla quale ho voglia di pensare ora. –
Lui annuì. – Immaginavo fossi molto impegnata, negli ultimi mesi. – fece, quasi a volerla provocare, con scarsi risultati. Infatti Aisha rimase impassibile e continuò a guardare dritto davanti a sé. – Se ti va potresti restare a cena, stasera. – le propose un po’ impulsivamente.
- Ti sono proprio mancata, eh? – commentò la donna, con uno strano tono. Lui annuì senza quasi rendersene conto, e gli sembrò che si fosse irrigidita. - Comunque, è stato un bel gesto, da parte tua. La faccenda della bambina, intendo. – riprese lei dopo un po’.
- Ne sei sorpresa? –
- Affatto. – gli rispose, sorpassandolo. Il supermercato era di lì a pochi metri.
Riven annuì, calpestò la sigaretta e la seguì nell’edificio. All’improvviso le cose sembravano essersi intrise di un vago imbarazzo e, per tutto il tempo in cui girarono per le corsie, evitarono di guardarsi, a stento rivolgendosi l’uno all’altra nel decidere che cosa fosse opportuno comprare.

 

I can't always just forget her
But she could try

My Chemical Romance, The Ghost of You

 

***

 
 
Un ultimo riverbero di tramonto attraversò la finestra e si riversò sul tavolo della cucina, annunciando il buio della sera che, come a ogni principio d’autunno, correva affamato e rubava sempre più ore di luce. Riven si rabbuiò a sua volta mentre tagliava in fette sottili il petto di pollo di Solaria che avevano comprato in grandi quantità quella mattina.
Aisha stava in piedi poco distante da lui, si era offerta di aiutarlo a cucinare e ora tritava minuziosamente delle verdure, assorta nei suoi pensieri tanto quanto lo era lui. Un paio di volte si erano sorrisi seppur con quella timidezza che c’era stata tra loro per tutta quanta la giornata. Di tanto in tanto lui gettava un’occhiata oltre la porta della cucina, per accertarsi che la ragazzina fosse ancora viva. Stava seduta a un tavolino del locale, che l’uomo aveva deciso di tenere chiuso almeno per qualche giorno, fino a che la situazione non si fosse stabilizzata. Si era versata un grosso bicchiere di quella caraffa di succo di alga rossa che troneggiava davanti a lei e lo sorseggiava piano, facendo qualche bolla con la cannuccia con uno sguardo vacuo, distante.
Era sicuramente stato un giorno impegnativo per lei, ma gli sembrava un po’ più serena e forse meno diffidente; mentre lui e Aisha erano via, Flora era rimasta con la ragazzina ed era riuscita a convincerla a provarsi i vestiti. Era stato contento di rientrare e di vederla con indosso qualcosa di pulito e adatto a lei.
- Come vuoi che le cucini? – chiese l’amica, ridestandolo dai suoi pensieri. – Non so se il palato debole di voi provinciali sia capace di reggere cibo particolarmente speziato. – lo punzecchiò.
- Non sapevo che voi triglie di Andros mangiaste cibo particolarmente speziato. – replicò con un ghigno, ottenendo in risposta uno sguardo a metà tra il divertito e l’infastidito. – Ma fai pure, stupiscimi. Sappi solo che ho trascorso qualche mese in un continente terrestre nel quale ogni pietanza naviga nelle spezie più nauseanti. –
- In effetti, ora che mi ci fai pensare, quando eravamo a Gardenia una volta siamo andati tutti in un… come si chiamava? – cercò di ricordare Aisha, scaldando una padella.
- Era un ristorante indiano. – fece lui, laconico. Ricordava quel giorno come uno che era culminato in uno dei tanti litigi tra lui e Musa. Giusto per cambiare.
- Spero che alla ragazzina piaccia. – sospirò la donna, assorta. – Cosa intendi fare, con lei? –
- Vedremo. Per ora voglio solo fare chiarezza sulla sua identità. – le si avvicinò per gettare nella padella i bocconcini di pollo tritati. Cercò di spostarla prendendola per un braccio e la sentì sussultare. - Non sapevo fossi un ortaggio. Stai per andare a fuoco anche tu. – le disse Riven. Lei ridacchiò forse un po’ imbarazzata, con perplessità di lui, che era stato serio. Non accennò a muoversi.
- Attenta! – fece l’uomo, prima che una delle lunghe treccine di lei scivolasse sulla fiamma e prendesse fuoco.
- Oh. – fece lei, senza scomporsi. Agitò un po’ la mano e il fumo corse veloce verso il palmo della sua mano, fino a sparire completamente, in un gesto che tanti anni addietro aveva visto compiere da Bloom. Dopotutto, ricordò, tutte loro avevano ricevuto un frammento di Fiamma del Drago.
- Pesce e carne non vanno molto bene insieme, mia cara triglia. – sorrise Riven, lavandosi le mani e ghignando quando la sentì emettere un verso di protesta. - È tutto a posto? – le chiese, facendo un cenno verso la treccina andata a fuoco. Lei annuì ma, senza pensare, Riven le si avvicinò di nuovo e prese la ciocca e se la rigirò tra le dita, esaminandola. – Sembrerebbe tutto a posto. –
- Era quello che avevo cercato di dirti. – fece notare lei, allontanandosi.
Prima che se ne rendessero conto era arrivato il momento di sedersi a tavola, loro due insieme alla bambina. Mangiarono, ogni tanto commentando qualche notizia o ricordando cose successe in passato; la ragazzina mangiava con calma, guardando un po’ di sottecchi quei due adulti che le rivolgevano sorrisi di quando in quando. A un certo punto Aisha disse qualcosa che la fece scoppiare a ridere, e Riven si ritrovò a sperare che quella risata così musicale risuonasse di nuovo tra le pareti della stanza.
Volò così quella serata tanto strana, tanto nuova. Qualcosa, di quei momenti, sembrava esserglisi aggrappato al cuore, inaspettatamente.
- Senti, per oggi…- esordì l’uomo, socchiudendo la porta. – Volevo ringraziarti. –
Aisha scosse appena la testa, sorridendo. – Non devi. Mi ha fatto piacere darti una mano con la ragazzina. –
- Non intendevo solo questo. – fece lui, non nascondendo una punta di imbarazzo. Le si avvicinò, incerto; la strinse a sé in un abbraccio che avrebbe voluto fosse come quello che si era scambiato con Flora quando era andata via e, cionondimeno, nell’atto di affondare il naso nella cascata di treccine sottili di Aisha, si rese conto che quel profumo di mare e ibisco lo rendeva incapace di ragionare con chiarezza.
La guardò negli occhi per istanti che parvero interminabili a entrambi; poi, con una naturalezza che nessuno dei due avrebbe mai ritenuto possibile, si scambiarono un rapidissimo bacio a fior di labbra, timido, quasi più simile a una carezza. La donna gli restituì la stessa espressione sorpresa che lui era sicuro di aver assunto.
- Mi dispiace. – si affrettò a dire, sciogliendo l’abbraccio con più calma di quanto avrebbe voluto. – Dev’essere la stanchezza. Scusami, mi dispiace. – ripeté.
La vide distogliere lo sguardo e annuire quasi meccanicamente. – Hai ragione, è proprio tardi. – aggiunse lei, rovistando furiosamente nello zainetto che si era portata dietro. – Vado, ci sentiamo presto. – agitò la mano cercando di ricomporsi e gli volse le spalle, allontanandosi rapidamente dall’edificio. Riven la seguì con lo sguardo e, quando ormai era poco più che un puntino sotto la luce fioca dei lampioni, la vide sprigionare una girandola di luci di un altro mondo; doveva essersi trasformata. Presto la scia che lasciava librandosi nel cielo scomparve, e lui fu di nuovo solo con i propri pensieri.
Rientrò e salì al piano superiore per accertarsi che la ragazzina stesse dormendo. Con discrezione scostò la porta della camera da letto e non fu poi troppo sorpreso quando la vide seduta sul bordo del materasso, a guardare fuori dalla finestra socchiusa. Forse aveva assistito alla scena, dato che da lì aveva una buona visuale sull’ingresso. – Non riesci a prendere sonno, vero? – fece, palesandosi. Lì per lì lei sussultò, ma sembrò calmarsi quasi subito. Lo guardò con quei suoi occhi d’argento, forse un po’ tristi, sempre sperduti. – Già…- masticò lui, zittendosi subito una volta resosi conto di averlo pensato ad alta voce.
- Senti… so che non capisci mezza parola di quello che ti sto dicendo. – cominciò Riven, avendo cura di sedersi sul letto abbastanza lontano perché lei non si sentisse a disagio. – Per un po’ rimarrai qui, almeno fino a quando riusciremo a capire chi sei e da dove vieni. Vorrei solo… -
Si zittì, pensando al da farsi. – Io sono Riven. – disse, indicandosi. – Riven. – ripeté.
- Riven. – fece lei, annuendo. Lui sorrise nel sentire la voce timida e acuta di lei ripetere il suo nome con uno strano accento, un po’ incredulo di quanto fosse stato semplice; ma, dopotutto, sicuramente stupida non era. – E tu? – chiese, questa volta puntando l’indice su di lei.
La ragazzina lo guardò negli occhi, forse ponderando se fidarsi o meno di quell’uomo grande e grosso dall’espressione un po’ burbera e dalle innumerevoli cicatrici che correvano sul suo volto. – Melinda. – disse in un soffio. Riven continuò a sorridere, trionfante. – Melinda. – fece lui. – Va bene. Adesso è meglio che cerchi di dormire. Io vado di sotto. – concluse, indicando il pavimento.
Lei continuò a guardarlo e gli sembrò avesse capito. – Buona notte, Melinda. – le disse poco prima di chiudere la porta. Sicuramente lei avrebbe impiegato ancora qualche ora prima di riuscire ad addormentarsi, presa come doveva essere dai suoi pensieri. Riven li aveva visti inseguirsi nel baluginio metallico dei suoi occhi appena qualche istante prima.
Si accese una sigaretta, scendendo con tutta calma per le scale; prese un portacenere dalla cucina e andò a sedersi sul divanetto nel corridoio, che aveva deciso di usare come giaciglio in cui dormire almeno temporaneamente. Si stravaccò sui cuscini molto poco finemente e con riluttanza sfilò il cellulare dalla tasca. C’era una notifica da parte di Aisha, informazione che registrò con non poca sorpresa, dato che non si era nemmeno accorto di averla ricevuta.
“In tutta onestà a me non è dispiaciuto. Notte x”
Per qualche motivo che non era sicuro di volersi spiegare, non riuscì a trattenere il sorriso che sentì formarglisi sulle labbra. Una strana sensazione gli pervase il petto, qualcosa che aveva un che di pace e di festa al tempo stesso. Rimase a fissare quel messaggio fino a che la sigaretta non fu ridotta a mozzicone; poi appoggiò il cellulare e il posacenere per terra e prese a guardare il soffitto. Non sapeva spiegarsi quello che era successo, sembrava anzi che il mondo vorticasse molto rapidamente attorno a lui, confondendolo.
Non trovava modo di cancellare dalla mente il ricordo del profumo dei capelli di Aisha, di Aisha che tagliava le verdure, di Aisha che tentava di smacchiare il vestito della ragazzina con una pezza quando si erano accorte della macchia di sugo sulla manica. Si convinse, per quanto possibile, che si fosse trattato solo della sua solitudine che gli giocava brutti scherzi, un po’ come quando Darcy andava a trovarlo. Indubbiamente gli era mancata e, altrettanto indubbiamente, gli mancavano la presenza calorosa e il tocco gentile di una donna.
Tuttavia, non poteva fare a meno di ripercorrere quella serata, quel momento di pace attorno al tavolo, loro tre, spensierati. Aisha che rideva.
Sentì le palpebre farsi sempre più pesanti e si domandò se Melinda stesse dormendo. Melinda.
Sorrise e, nell’ultimo barlume di lucidità che gli rimaneva, si rese conto, senza alcun dispiacere, di non aver nemmeno letto quella notifica che aveva ricevuto da Musa mentre cenavano.

 

Still I plotted to have her back
The contentment that would fill the crack
My soul released a fluttering sigh
This day fell, the darkness nigh

Opeth, Face of Melinda

 
 
 
 
 

  
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