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Autore: ChiiCat92    22/12/2023    0 recensioni
"Ganondorf strinse i denti, le spalle gli facevano male ma si rialzò, come gli era stato ordinato. « Lasciala. » la maestra indicò con un gesto del mento la lancia. Lui ubbidì. La guardò fare un solco sulla sabbia morbida, apertasi intorno ad essa come fosse semiliquida. Avrebbe voluto sprofondare in quella sabbia anche lui, sparire per non essere più percepito. La maestra schioccò le dita, Ganondorf strinse i pugni e pensò solo a difendere la testa, il volto, poco l’addome, mentre le compagne di allenamento si accanivano su di lui. Ogni colpo che incassava risuonava sulla carne e sulle ossa. Portavano tutti lo stesso messaggio: tu non diventerai mai Re delle Gerudo."
Genere: Angst, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Ganondorf, Ghirahim, Link, Princess Zelda
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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--- DISCLAIMER ---

Questa storia NON è un sequel di Tears of the Kingdom (o Breath of the Wild), NON è legato alla serie principale; mi sono rifatta alla mappa dei titoli sopracitati perché è la più approfondita ed esplorabile e mi dava accesso a tutti i luoghi di Hyrule nel dettaglio; alcuni luoghi torneranno, alcuni no, altri sono diversi, altri ancora non esistono proprio: la scelta è stata fatta secondo le necessità della storia. Alcune delle meccaniche del gioco sono state eliminate, per motivi di verosimiglianza.
Ipotizzo questa storia come, semplicemente, un altro giro di reincarnazione di Ganondorf, Link e Zelda, dal momento che non saranno mai davvero liberi dalla maledizione di Demise...
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Era una notte chiara, senza luna. Le stelle brillavano di un bianco tanto intenso da far male, tremolanti come fossero torce accese; si riuscivano a vedere e contare anche le più minute. L’insonnia gli aveva permesso di contare fino a quattromiladuecentosei e sarebbe andato avanti a farlo se non fosse stato per gli occhi, che a furia di rimanere sbarrati a fissare il cielo erano gonfi, pesanti, lacrimavano a ogni battuto di ciglia. Non conosceva altre storie sulle stelle da potersi raccontare nella speranza di riuscire a prendere sonno, e in ogni caso erano storie che non gli davano neanche conforto. Parlavano di grandi guerrieri morti in battaglia, di epici scontri con creature titaniche, di spade affilate e fiotti di sangue. Tutte le storie della sua gente parlavano di qualcosa di “grande”: grandi erano gli scontri, grandi erano i mostri, grandi erano le armi, grandi erano i condottieri. Tenevano così tanto a quella parola (grande) che non si risparmiavano di usarla con lui ogni volta che potevano. Farai grandi cose, si sentiva dire ogni giorno, ti aspettano grandi conquiste, diventerai un grande sovrano. Lui non si sentiva grande, in nessun senso, e non credeva che lo sarebbe mai diventato. Alcune delle ragazze della sua età erano più grosse e forti di lui; in combattimento, e anche nelle prove di resistenza, era uno dei peggiori, tanto che non gli sfuggivano le occhiate delle maestre, gli scuotimenti del capo, le parole sussurrate che si rivolgevano tra loro. Erano preoccupate? Confuse? 

Erano passati cento anni dall’ultima volta che era nato qualcuno come lui; nessuna Gerudo ancora in vita ne aveva memoria, nessuna poteva raccontargli com’era… essere lui, come sarebbe dovuto essere. Tutto quello che aveva era scritto nelle cronache, apparteneva alle leggende. Lui era il Prescelto, il Primo, l’Unico, il Condottiero: quanti nomi si era sentito affibbiare sin da quando era nato. Intanto le sciabole erano troppo grandi per le sue mani, gli scudi troppo pesanti, l’armatura inutile sul corpo magro.  

Il soffitto della sua stanza era dello stesso colore della sabbia del deserto, e forse di sabbia proprio si trattava, impastata con acqua e lasciata essiccare al sole come il fango delle formiche che costruiscono il formicaio. Ritagliato in quel fangoso impasto c’era il rettangolo scuro da cui poteva vedere il cielo. Se avesse stretto gli occhi e si fosse concentrato avrebbe visto la zona di blu più scuro in cui si trovava la luna, voltata di spalle proprio come la sorte, proprio come la Dea. Perché Hylia l’aveva messo al mondo con quel terribile scopo addosso, tanto pesante che le armi delle Gerudo al confronto non erano che ramoscelli, per poi dimenticarsi di lui? 

Ganondorf voltò la schiena alla finestra. Se la luna, e la Dea, potevano permettersi di voltargli le spalle allora poteva farlo anche lui. 

 

Il caldo, nel deserto, non arrivava all’improvviso, ma nonostante questo sorprendeva con sferzate di vento e veli di sabbia sollevati dalle dune. Il respiro si faceva più lento, la pelle si faceva più dura, tutto il corpo si impegnava a sopportare il calore. 

Il sudore scendeva copioso sulle tempie, sulla schiena, sulle braccia, sul petto e l’addome, Ganondorf inalava appena aroma di terra asciutta, la lingua era gonfia contro i denti, piagata dal continuo sfregare dei molari. La lancia Gerudo che stringeva tra le mani sudate era più leggera delle scimitarre e riusciva a maneggiarla appena meglio; aveva una punta affilata, e intorno dei barbigli d’oro, come decorazione, che da lontano la facevano apparire come un tridente. Niente a che vedere con le armi degli Zora, in ogni caso: quelle Gerudo erano pensate per uccidere, non per decorare le sale dei palazzi. 

La donna davanti a lui, la sua maestra, lo sovrastava di due teste, le spalle larghe, i capelli rossi stretti in una treccia che le pendeva morbida sulla schiena, lo sguardo affilato e scuro come una profonda pozza di catrame. Inutile, sembravano dire quegli occhi, non sarai mai il mio Re, non sei degno. Ganondorf strinse i denti, le dita si aggrapparono alla lancia. Capì subito di aver fatto la mossa sbagliata, di aver aperto la difesa, nell’istante in cui mosse il primo passo in avanti. Si diede dello stupido, ma era troppo tardi. La maestra, con un movimento leggero dei piedi, si fece da parte, la sabbia si mosse appena sotto di lei nonostante la massa di muscoli in movimento, sollevò la mano destra che stringeva la scimitarra e la fece calare, con il pomolo e la pietà, su di lui, tra le sue scapole. Il colpo percorse tutto il suo corpo doloroso e veloce come un fulmine, paralizzandolo per un istante e, soprattutto, mandandolo a terra, di faccia. La sabbia gli graffiò le guance, gli riempì naso e bocca. 

« Alzati. » ma lui non avrebbe voluto. Le compagne di allenamento si erano fermate, sapeva che lo stavano guardando. Non ridevano solo perché avevano paura e rispetto delle punizioni corporali della maestra, ma l’avrebbero fatto. « Alzati ho detto. » Ganondorf strinse i denti, le spalle gli facevano male ma si rialzò, come gli era stato ordinato. « Lasciala. » la maestra indicò con un gesto del mento la lancia. Lui ubbidì. La guardò fare un solco sulla sabbia morbida, apertasi intorno ad essa come fosse semiliquida. Avrebbe voluto sprofondare in quella sabbia anche lui, sparire per non essere più percepito. La maestra schioccò le dita, Ganondorf strinse i pugni e pensò solo a difendere la testa, il volto, poco l’addome, mentre le compagne di allenamento si accanivano su di lui. Ogni colpo che incassava risuonava sulla carne e sulle ossa. Portavano tutti lo stesso messaggio: tu non diventerai mai Re delle Gerudo. 

Ganondorf si trascinò nelle sue stanze, a palazzo, tenendosi l’addome con un braccio. Ogni passo lo faceva gemere, ma inghiottiva quel suono perché non gli sfuggisse dalle labbra: non avrebbe dato la soddisfazione a nessuno di sentirlo. Le guardie davanti alla porta batterono i tacchi guardandolo passare, ma non ebbero il coraggio di guardarlo in faccia. Le voci alla Cittadella Gerudo correvano veloci, era sicuro che tutte sapessero della punizione che gli aveva inflitto la maestra, della pessima figura che aveva fatto durante l’allenamento, e del modo patetico in cui l’avevano ridotto. Si chiuse la porta alle spalle e solo allora si permise di essere debole, di cedere al dolore. Avrebbe urlato se avesse potuto. Affondò le dita tra i capelli rossi, le unghie scavarono solchi nel cuoio capelluto, i denti scricchiolarono e il sapore del sangue andò a lenire la sete che gli aveva seccato la bocca. Viveva nelle stanze della Matriarca da quando era nato, coperto d’oro, circondato da pietre preziose, sete pregiate, materassi e cuscini di piume, ma mai come in quel momento sentiva di non meritarsi niente di tutto quello. Non meritava una singola pietra, neanche la più piccola tra quelle cucite sui suoi vestiti. Scivolò con la schiena contro la parete, affondò il viso tra le ginocchia e lì rimase, finché la caligola del giorno non stemperò in un tiepido pomeriggio e poi in una fredda notte, finché non sentì più nulla contro il corpo irrigidito e freddo, come morto, finché non gli riuscì di immaginare di essere nato altrove, in un altro tempo, in un altro corpo, senza provare senso di colpa. 

Si svegliò l’indomani mattina, le gambe strette al petto, arricciato come un fiore secco, i capelli rossi annodati e spettinati come quelli di un bambino selvaggio, ancora nella sua tenuta da allenamento, indurita dal gelo della notte. Il dolore che provò al primo tentativo di mettersi seduto gli mozzò il fiato ma fu per questo che si costrinse a farlo, tricipiti e deltoidi in fiamme per quel piccolo movimento. A svegliarlo era stato il bussare della sua attendente. « Un attimo. » sputò fuori, la voce rauca ma non per questo più bassa o adulta. Si alzò in piedi, con i palmi delle mani si scrollò di dosso la sabbia che gli era rimasta attaccata sui vestiti, si passò quindi una mano tra i capelli nella speranza di domarli. Aprì la porta e dovette alzare il mento per incrociare lo sguardo di Evon. Il verde brillante che si era messa sulle labbra le faceva sembrare più carnose e vibranti, le illuminava il viso dall’incarnato scuro dal momento che gli occhi neri risucchiavano ogni forma di luce; la Gerudo aveva capelli rosso fuoco rasati ai lati e lunghi al centro, tirati indietro e intrecciati in una treccia spessa come una corda che le pendeva sulla schiena muscolosa; armatura leggera che copriva petto e spalle, scoperta sull’addome muscoloso bastava a proteggerla anche senza che portasse con sé un’arma: chi avrebbe mai avuto il coraggio di aggredire una donna così, alta due metri, con l’omicidio negli occhi? Aveva con sé una catino pieno d’acqua, e un panno pulito. Evon era repentina, come il clima nel deserto: caldo torrido di giorno, freddo e ghiacciato di notte. Il modo in cui piegò di lato la testa chiedendo, solo con quel gesto, di entrare, fece capire al ragazzo che lei sapeva tutto. Si sarebbe risparmiato di raccontarle la figura patetica che aveva fatto il giorno prima all’allenamento. Ganondorf si fece da parte, quando lei entrò nella stanza chiuse la porta. In silenzio le permise di prepararlo, di pettinargli i capelli, di togliergli di dosso i vestiti sudici, di cancellare con il panno pulito le tracce di vergogna, sudore e sangue. Lui la stimava, ma non era certo che fosse lo stesso per lei. Chi poteva stimare un ragazzino debole e ridicolo come lui? 

Trattenne una smorfia quando Evon passò su quello che sarebbe diventato un grosso livido sul fianco destro, ancora nascosto sotto la pelle scura, questione di tempo. 

« Ci sono andate giù pesanti. » disse, risparmiandolo dal guardarlo, dal rivolgergli lo sguardo tipico che le madri avevano con le loro bambine. 

« Ci vanno sempre giù pesanti. » commentò lui, sottovoce, per poi sopprimere uno strillo, acuto e perforante, che stava per lasciare le sue labbra quando Evon passò il panno bagnato più in alto sul costato.

« Temo tu abbia una costola rotta. »

« Perfetto. » sibilò lui, tra i denti stretti per tenere per sé tutto quel dolore. Perfetto. Voleva dire soltanto che gli allenamenti sarebbero stati più difficili, più lunghi e più dolorosi. Non gli avrebbero mai permesso di fermarsi. Evon si tirò indietro. Gli poggiò una mano sulla spalla e lo spinse indietro, per costringerlo a guardarla in viso. Lui ci riuscì solo per un istante, poi la vergogna lo costrinse a riabbassare gli occhi. 

« Non intendi dirlo a Neturi? » la smorfia di Ganondorf rispose a quella domanda. Evon strizzò il panno nel catino, poi continuò a pulire la pelle congestionata e gonfia intorno ai lividi. Il silenzio si protrasse finché la Gerudo non finì il suo lavoro, poi gettò il panno nel catino e prese il pettine. Il fruscio dei suoi vestiti e delle sue dita tra le ciocche rosse accompagnato dai suoi respiri erano tutto ciò di cui Ganondorf aveva bisogno. 

Gli acconciò i capelli, tirati stretti sulla testa e annodati e raccolti appena sopra la nuca, con due spilloni d’oro a fare da ornamento. Da che riusciva a ricordare Evon c’era sempre stata, tanto era stata prepotente la sua presenza che a volte il ragazzo non riusciva a distinguere il volto di sua madre da quello di lei. A volte era meglio così, era utile per allontanare il dolore della perdita, lo metteva in prospettiva, gli faceva credere che sua madre, in fondo, non se n’era mai andata. Tra le Gerudo, Evon era l’unica che, seppur a porte chiuse, gli rivolgeva gesti di gentilezza, nel modo in cui lo toccava, lo lavava e lo vestiva, nei modi in cui gli acconciava i capelli: non gli serviva altro. Fuori da quella stanza, oltre quei momenti, non esisteva niente di tutto quello, né parole né gesti. 

« Sei pronto. » il ragazzo non rispose. Era troppo concentrato a muoversi, a testare il suo corpo con il nuovo dolore. Gli mozzava il fiato a tratti ma… poteva farcela.

« Notizie della delegazione Hylian? » chiese. Intanto Evon gli porse uno specchio rotondo, tempestato di zaffiri grosso come tuorli d’uovo. Il volto duro, asciugato dal sole del deserto, dal dolore, dall’allenamento, sembrava comunque troppo infantile. Quindici anni e sembrava ancora un bambino. Non importava quanto si allenasse, quanto duro fosse con se stesso riguardo l’alimentazione, niente sembrava scacciare la morbidezza sulle sue guance. Non aveva l’aspetto di un futuro sovrano. 

« Un’ambasciatrice è arrivata questa mattina poco prima dell’alba. Il Re e la sua scorta raggiungeranno il bazar di Arsur prima che il Sole nasconda le ombre. » 

« Il Re? » Evon non ebbe bisogno di rispondere, il tendersi stretto delle labbra tinte di verde era già una risposta. « La scorta? » 

« Tutti soldati maschi. » 

Ganondorf si alzò, le labbra tirate indietro sulle gengive in un ringhio di rabbia. « È quello che vogliono, vero? Causare un incidente diplomatico! Loro non possono… » il solo voltarsi verso Evon, troppo in fretta troppo fluido, lo fece gemere. Una mano andò a reggere il fianco, la costola rotta urlava e lui non riusciva a tenere per sé quell’urlo, non a lungo almeno. 

La Gerudo gli fu accanto, senza toccarlo o sorreggerlo, lui avvertì il calore del suo corpo vicino, per questo la allontanò con il palmo della mano aperta. « Sto bene. » drizzò la schiena, anche se il dolore gli annebbiò la vista per un attimo. « Dov’è alloggiata l’ambasciatrice? » 

« Alla locanda nella Cittadella. » silenzio, solo occhi neri che scavavano e scavavano, togliendo tutti gli strati di terra che Ganondorf aveva gettato nella fossa delle sue menzogne. 

« Voglio parlarle. » disse il ragazzo.

« La Matriarca crede che non sia necessario. Ha già avuto udienza con lei. »

« La Matriarca non si rende conto… » non finì la frase perché colse la rigidità nel corpo di Evon. Si stava spingendo troppo oltre. Essere il futuro erede al trono non lo autorizzava comunque a mancare di rispetto alla Matriarca. Il fatto che lei non vedesse di buon occhio né Ganondorf né la sua defunta madre era un’altra storia, così come lo era il fatto che non lo riteneva degno di essere un sovrano dal momento che non aveva sangue reale che gli scorreva nelle vene. Solo perché era il figlio della profezia non voleva dire che l’avrebbe trattato in modo diverso. Per certi versi stimava la sua presunzione, quantomeno non lo trattava come fosse uno scarto della società, come se avessero fatto un errore a lasciarlo in vita subito dopo la sua nascita. Ganondorf prese un profondo respiro, per quanto la costola rotta gli permise di farlo. « Vado dalla Matriarca. » 

Evon non disse niente, e il ragazzo sperò che quel silenzio volesse dire che era d’accordo con lui. 

 

La sala del trono un giorno sarebbe stata sua, avrebbe salito i quattro scalini che portavano all’alto scranno e si sarebbe seduto tra cuscini di velluto, nappe e gioielli, con le mani inanellate e una scimitarra al suo fianco. Ma per il momento tutto quello che poteva fare, che gli era permesso di fare, era entrare e uscire senza essere annunciato ed evitare le pompose cerimonie per essere ricevuto dalla Matriarca. 

Ibara era giovane, ma non mancava per questo di esperienza; l’incarnato scuro, simile a sabbia bruciata, teso sui muscoli delle braccia, era costellato di segni più chiari: cicatrici di scontri di cui non parlava ma che il suo corpo portava come testimonianza; i capelli rossi erano rasati quasi fino al cuoio capelluto in ghirigori e linee fluide che le attraversavano tutta la testa; alta appena sopra i due metri, indossava i paramenti delle Gerudo con la fierezza di una belva. Sedeva sul trono rigida, le dita sempre tese verso lo spadone a due mani che le riposa a di fianco. Le iridi, circondate da ciglia folte e nerissime, erano color grigio ferro. Discendeva da una lunga stirpe di Matriarche, il sangue più puro di tutta la Cittadella; sua madre era stata Matriarca, sua nonna era stata Matriarca, forse la sovranità della sua famiglia arrivava fino all’ultima volta che… beh, che era nato qualcuno come lui, l’uomo Gerudo che portava il suo stesso nome, Ganondorf.

Come voleva il protocollo -a questo non poteva sottrarsi- il ragazzo si inginocchiò davanti al trono con il pugno davanti a sé, poi si rialzò e batté lo stesso pugno sul petto, proprio sul cuore. La Matriarca lo degnò appena di un’occhiata, cosa che mise in evidente disagio le due guardie armate di lancia che presidiavano il trono, in piedi una a destra e una a sinistra: pur con il velo che nascondeva la parte inferiore del loro viso, Ganondorf poté scorgere incredulità.

« Ho saputo della vostra decisione riguardo l’ambasciatrice hylian. » disse il ragazzo, cercando di mostrarsi saldo e non capriccioso, come il bambino che si sentiva in mezzo alle gigantesse della sua gente. 

« Sì. » rispose la Matriarca. Nessun tono di voce strano, nessuno sguardo, le mani sempre poggiate sui poggiabraccio dello scranno, immobili. 

Il ragazzo respirò a fondo ma piano, far entrare e uscire l’aria nei polmoni con la costola rotta era difficile, soprattutto senza far trapelare il suo dolore. « Ho saputo anche che la delegazione hylian è composta da soldati uomini, compreso il Re. » 

« Sì. » ancora una volta, la stessa risposta con la stessa impersonalità. Ganondorf riusciva quasi a sentire, in quelle uniche due lettere, un: “Hai finito? Ho altro a cui pensare”. Ma forse era solo un’impressione. 

« Credo che dovremmo parlare nuovamente con l’ambasciatrice. Mi sembra palese. » anche se si pentì quasi subito di aver usato quella parola, “palese”, perché la Matriarca si drizzò un po’ di più sullo scranno, piegando la testa di lato. « Che sia un espediente per causare un incidente diplomatico. Il Re di Hyrule si presenta con una delegazione, e una scorta, di soli uomini, pur sapendo che nella Cittadella non sono ammessi. Come si può iniziare le trattative se loro non possono neanche entrare a Palazzo? Il Re pretende che siamo noi ad andare da loro, o peggio, che pieghiamo le nostre tradizioni a lui. » 

Le due guardie al fianco del trono si scambiarono uno sguardo, un unico cenno di approvazione, Ganondorf se ne sentì rincuorato, tanto che spinse il petto in fuori, la schiena più dritta. 

« Considerati i tuoi ultimi risultati agli addestramenti. » disse la Matriarca, e il ragazzo sentì un brivido di gelo percorrerlo da capo a piedi, nonostante il caldo del deserto che cominciava, a ondate costanti, ad aggredire la Cittadella. « Ero convinta che la Dea Hylia ci avesse punito con un Prescelto difettoso. » il respiro era doloroso contro la costola, così come il sangue che gli scorreva nelle vene più denso. « Mi ero addirittura convinta che Kotake fosse morta invano per permettere a un tale fallimento di vivere. » il nome della madre, pronunciato con tanto sdegno, era più doloroso delle percosse che gli avevano rotto le ossa. La rabbia l’avrebbe spinto a lanciarsi sulla Matriarca, ma il buon senso gli consigliò di rimanere immobile: se l’avesse fatto, lei gli avrebbe tagliato le mani così velocemente che non avrebbe sentito dolore, né colto il suo movimento. « Invece sono felice di constatare che avevo torto e che non sei il patetico esemplare di maschio che pensavo. » Ganondorf aveva da poco compiuto quindici anni, un'età in cui le cose si fanno difficili e guardare in faccia gli adulti diventa impossibile. Forse erano loro che scappavano a sguardi tanto giovani e irrequieti o forse era lui che non si trovava mai alla loro altezza, nel più fisico dei sensi. Con la Matriarca non aveva che scambiato poche parole, sdegnose e secche, quasi tutte sotto forma di ordini e, soprattutto, prive di qualunque tipo di contatto. Lei non aveva mai voluto neanche percepire la sua esistenza. Adesso, invece, per la prima volta, aveva i suoi occhi su di sé. Avvertì un bruciore intenso all'altezza del petto, quasi lei l'avesse colpito, ma sopportò, il mento alto e i pugni stretti. « Bravo. » gli disse, una parola che non sentiva spesso e che ancora meno spesso gli veniva rivolta. « Hai ragione: le intenzioni del Re sono ambigue, e non accetto che sia venuto alla Cittadella con una delegazione di soli uomini. Lo trovo oltraggioso. » 

Ma allora perché non l'avete detto all'ambasciatrice? Perché non li avete mandati indietro? Perché non avete fatto qualcosa?

Oh. Ganondorf avvertì il peso della consapevolezza schiacciargli le giunture. La Matriarca stava mettendo alla prova lui. Non le importava nulla del Re o della delegazione, neanche delle trattative diplomatiche tra Gerudo e Hylian, quello che voleva era vedere cosa avrebbe fatto lui, se si sarebbe di dimostrato degno del titolo che aleggiava sopra le sue spalle. Avrebbe mandato a monte la possibilità di un trattato di non belligeranza tra i due popoli pur di mostrare la sua inettitudine alle Gerudo. Non osò neanche immaginare cosa sarebbe successo se non fosse corso da lei quella mattina.

« Noi non andremo da loro. Né tantomeno li lasceremo entrare. » continuò la Matriarca, adesso sportasi in avanti, i gomiti sulle cosce e le mani tese verso Ganondorf, i palmi più chiari verso l'alto. « Pensano di poterci mancare di rispetto per via di quanto dicono le loro leggende, per via della storia. Puah! » La donna si trattenne dallo sputare a terra solo perché non voleva sprecare una goccia d'acqua del suo corpo per gli Hylian. « La storia che scrivono i deboli non è storia, è una favola per bambini. » Ibara tornò ad appoggiare la schiena allo scranno, il suo corpo ne conosceva la forma, ma stava già abituandosi al pensiero di abbandonarlo. Se si fosse comportata con rispetto nei suoi confronti, pensò il ragazzo, forse una volta preso il comando le avrebbe dato la possibilità di rimanergli a fianco. « So, però, che insieme al Re c'è la principessa. » disse. « Ed è lei che faremo entrare alla Cittadella, con l'ambasciatrice e qualunque altra donna abbiano portato con loro. Ammesso che ce ne siano. » tutti, nella stanza, Ganondorf compreso, arricciarono le labbra per il disgusto: gli Hylian non erano soliti trattare le loro donne come ci si sarebbe aspettati, anzi, spesso le consideravano deboli e inferiori. « Sarai tu ad accoglierla. La principessa ha la tua età, se vogliono un futuro di pace tra i nostri popoli sarà meglio che comincino a pensare alla vostra unione. » 

Ganondorf non annuì, rispose tornando in ginocchio con il pugno a terra in segno di commiato. Non aveva alcuna intenzione di sottostare a un matrimonio combinato, ma avrebbe conosciuto volentieri la principessa di Hyrule. 

 

Ganondorf aspettava poco oltre il grande portone di ingresso della Cittadella. A portare avanti le trattative erano stati alti funzionari tra le Gerudo, portavoci della Matriarca, ma nessun membro della famiglia reale né tantomeno lui. Il messaggio che volevano portare al Re di Hyrule era che non avrebbero dato spiegazioni per volere il rispetto delle tradizioni millenarie delle Gerudo e che le condizioni per cui l'incontro sarebbe avvenuto non erano discutibili. Nonostante questa chiarezza di intenti il Re si rifiutò per ore di sottostare alle loro più che ragionevoli richieste; così rimase fuori, sotto il sole fulgido del deserto, mentre l'aria si faceva irrespirabile e le armature dei soldati roventi. “Con i presuntuo­si e i potenti non si può parlare proprio come con i bambini”, una delle massime di Evon. Finalmente, dopo quella che ai soldati di Hyrule sembrò un' eternità, il Re si convinse a lasciar entrare la Principessa da sola, un cerimoniale lungo e tedioso per tutti. 

Ganondorf non sapeva bene cosa aspettarsi; i suoi dubbi erano più per gli uomini, ma in qualche modo, quando la principessa Zelda varcò la soglia della Cittadella riuscì comunque a rimanere deluso. Non fu perché le coetanee Gerudo lo superavano in altezza e forza e quindi era naturale che la Principessa risultasse più minuta e bassa della media delle donne che lui aveva incontrato nella sua vita, né fu perché lei era bionda come le spighe di grano che arrivavano talvolta con le carovane di mercanti, né furono i suoi occhi verdi smeraldo il problema. C'era qualcosa in lei che non riusciva a decifrare, un' aura che l'avvolgeva come un velo insieme al sudore caldo della pelle candida congestio­nata dal deserto. "Lei sa qualcosa", fu il pensiero che gli attraversò la mente, ingiusto. La delusione era sapere di essere solo, così solo, l'unico a non avere idea di come esi­stere al mondo e perché mentre tutti gli altri intorno a lui, persino quella minuscola Principessa, lo sapevano alla perfezione.

La Principessa avanzò senza paura verso di lui, due, tre passi distante dalla scorta, l'ambasciatrice quasi inciampò nei suoi stessi piedi per raggiungerla.

« Salute a voi, Principe dei Gerudo. » disse, non un inchino, non un movimento, lo sguardo verde come una pietra e altrettanto duro, le mani giunte in grembo. « Perdonate il ritardo e l'attesa. Mio padre può essere... intollerante. » la Principessa parlava come parlano gli adulti, i burocrati, i nobili coperti d'oro e raso ma il suo sguardo lasciava intendere che niente del lusso che la circondava fin dalla nascita aveva intaccato la sua anima, un'anima che, poteva intravedere Ganondorf, era troppo antica, anacronistica. Che razza di ragaz­zina era?

« Non c' è alcun bisogno di scusarsi, siamo abitua­ti ad incontrare le incomprensioni degli stranieri, le nostre usanze possono sembrare bizzarre.» Ganondorf si aspettava che la Principessa avesse da ridire sul fatto che tradizioni che volevano gli uomi­ni fuori dalla Cittadella non si applicassero a lui ma solo, pareva, alla nobiltà di Hyrule. Invece non disse nulla, si limitò ad abbassare il capo, cortese, comprensiva, un incredibile esempio di rispetto Gli piacque, in un modo che non riuscì a spiegare neanche a se stesso, ma gli piacque. La delusione che aveva provato poco prima si affievolì, soffusa. 

« Prego, seguitemi da questa parte. » Ganondorf precedette la Principessa, camminando a testa alta verso la scalina­ta sbozzata nella sabbia compatta che portava alla sala del trono: la prima prova, arrampicarsi su quelle ripide, sconnesse scale che avevano tutte forme diverse, fatte per stancare e piegare i nobili molli e, in gene­rale, gli inetti e gli impreparati ad affrontare il deserto. Il ragazzo lanciò giusto un'occhiata indietro per vedere come le affrontava la Principessa. Eretta e fiera non incespicò né abbassò la testa, i piedi calzavano le giuste scarpe, niente fronzoli né orpelli. 

A stupirlo in positivo e a spegnere del tutto la delusione fu il suo inginocchiarsi con il pugno a terra trai portato al petto, al modo delle Gerudo, quando arrivarono davanti al trono dov’era seduta la Matriarca: la Principessa aveva studiato. 

Ibara si era fatta preparare con tutti i paramenti del caso: la pelle brunita era stata cosparsa di olio che la faceva sembrare un metallo appena temprato; aveva scelto di non indossare gioielli a parte la corona a raggi solari che adagiata sulla testa dai capelli rossi che la faceva sembrare il sole adagiato sulla linea dell'orizzonte; per scongiura­re la possibilità che la Principessa si sentisse mi­nacciata da lei avevano fatto sparire il suo spadone, ma Ganondorf era sicuro che fosse dietro il trono e che le guardie al fianco di Ibara lo avrebbero preso in un attimo se lei ne avesse avuto bisogno.

« Salute a voi Principessa Zelda. » disse la Matriar­ca, rivolgendo il palmo della mano destra teso in avanti e verso l'alto e poi portandolo alle labbra: la seconda pro­va, se la Principessa rispettava davvero le Gerudo e le loro tradizioni allora avrebbe saputo rispon­dere a quel saluto. C'era una sorta di eccitazione nella stanza, tale da trasformare il sudore che copriva la schiena in un velo freddo fonte di bri­vidi pungenti. Ganondorf tenne la testa, gli occhi e tutto il corpo compresa l'anima lontani dalla Principes­sa, concentrato sul non comunicarle la giusta risposta a quel saluto (a quel punto voleva davvero che lei riuscisse) e sul non lasciarsi assalire dal dolore alle costole. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter essere nelle sue stanze, sdraiato immobile sul letto cercando di non respirare o esistere. La Principessa Zelda, contro ogni pronostico, portò la mano destra alle labbra ("accolgo il tuo saluto") e rivolse a Ibara il palmo verso l' alto ("te lo restituisco"). La Matriarca non ebbe un tremito, ma le Gerudo intorno a lei, Ganondorf compreso, non poterono che apprezzare.

« Credevo che la nobiltà di Hyrule fosse composta da soli cani ignoranti. » la terza prova, forse la più difficile: accogliere gli insulti della Matriarca con dignità e non insultarla a propria volta. La Principessa abbassò il capo, cordiale come un'ancella e altrettanto ubbidiente. Eppure quella non era sottomissione.

« Voi non mentite. » disse solo, in risposta, la Principessa. Una risposta che non lo era: a Ganondorf quella ragazza piaceva sempre di più.

L'incontro proseguì con la Matriarca sempre più sciolta e propensa al dialogo, non perché la Prin­cipessa abbassava il capo e la assecondava dandole spesso ragione (quello sarebbe stato un atteggiamen­to da deboli) ma perché non cercava di mettere il suo regno in buona luce ai suoi occhi: sapeva che si trattava di un'impresa impossibile e non era lì per far cambiare idea alla Matriarca. 

Alla fine la conversazione sembrava quasi sullo stesso piano tra le due nobildonne. La Principessa era colta, saggia, sapeva pesare le sue parole come se tenesse una bilancia sulla punta della lingua. Ibara né fu soddisfatta. Offrì alla Principessa una stanza a Palazzo se avesse voluto fermarsi quella notte e lei accettò, mostrando sdegno sottinteso per la scelta del padre di presentarsi alla Cittadella con una scorta di soli uomini: che si arrangiassero accampandosi nel deserto per quella notte. 

Ganondorf, la Principessa e l’ambasciatrice furono congedati. Liberi dal controllo della Matriarca, fuori dalla sala del Trono, lungo i corridoi sabbiosi del palazzo, il ragazzo poté avvicinare Zelda, anche se sarebbe stato solo per qualche istante. « Ho apprezzato il vostro modo di parlare, Principessa. » le disse. Era stato addestrato a riconoscere il valore di un buon avversario quando se ne trovava davanti uno, non c’era disonore nel complimentarsi per una vittoria con il proprio opponente, per quanto profonda fosse la sconfitta subita. 

La Principessa aveva abbandonato quel fare pomposo, pieno di sottintesi, che aveva tenuto con la Matriarca, apparve più spontanea nel modo in cui rivolse lo sguardo verde verso di lui, sebbene i suoi occhi fossero ancora così distanti, così profondi, provenienti da un altro mondo. Di nuovo, Ganondorf non poté fare a meno di chiedersi che cosa sapesse che a lui sfuggisse. 

« Possiamo abbandonare il “voi”? Lo trovo troppo ossequioso. » 

Il ragazzo si lasciò sfuggire uno sbuffo che sarebbe stato un risolino se solo non avesse avvertito una stilettata di dolore al fianco. « Strano chiedermi una cosa del genere usando la parola “ossequioso”. » la Principessa si esibì in un bel sorriso, sebbene spaiato sul suo viso con gli occhi antichi. « In ogni caso, sì, credo sia il caso. A parte il Principe degli Zora, che non lascerà mai il Dominio, siamo gli unici nobili della nostra età. »

« Che tedio. »

Ganondorf soffocò un’altra risata, stavolta però dovette portarsi una mano al fianco quando il respiro gli si mozzò in gola. La vista gli si riempì di macchie nere, il pavimento si confuse con le pareti e il soffitto, gli sembrò di ondeggiare sulle sabbie mobili del deserto.

« Ganon, stai bene? » la mano della Principessa, fresca, gli si poggiò sulla spalla. Piccolo, chiaro, elettrico, quel contatto lo fece tornare in sé. Batté le ciglia più e più volte, finché il viso della Principessa smise di muoversi come l’aria rovente che si alza dal terreno. Per un attimo le era sembrata… diversa? I capelli più corti, poi più scuri, poi gli occhi blu invece di verdi, un viso più maturo. Ma alla fine i lineamenti tornarono al loro posto, così come il resto di ciò che avevano intorno. Ganondorf non fece neanche caso a come lei l’aveva chiamato. Nessuno però gli aveva mai dato un diminutivo, figurarsi qualcuno che conosceva da un giorno. 

« S-sì. » disse lui, cercando di respirare piano, anche se avrebbe voluto riempirsi i polmoni fino in fondo, fino ad annegare d’aria. « C’è stato un… piccolo incidente durante un allenamento, ho una costola rotta. »

Le parole fuggirono dalle sue labbra in un'ammissione di debolezza che non si sarebbe sognato di dimostrare davanti a nessuno… tranne la Principessa Zelda, che era lì, era reale, e lo vedeva, sapeva che era così.

« Hai bisogno di un cerusico che… » 

« No, no. » la interruppe subito. Si raddrizzò, allontanandosi da lei e dal suo tocco (fino a quel momento non aveva tolto la mano dalla sua spalla). « Sto bene, davvero. Guarirà da solo. »

La ragazza sospirò. Rimise le mani in grembo come se si fosse accorta troppo tardi del contatto che gli aveva riservato e se ne fosse pentita. « D’accordo. »

« Stavamo dicendo… che hai tenuto testa alla grande alla Matriarca. » continuò lui, come se non si fossero mai interrotti. 

Zelda gli diede un’ultima occhiata preoccupata, poi torno a nascondersi nelle pieghe del suo tempo nascosto. « Sono abituata a parlare con gli adulti, mettiamola così. E soprattutto so cosa si aspettano da me quando parlo con loro. È quasi più importante di sapere cosa dire, non trovi? » 

« Mi spiace quasi che tu sia così lontana dalla Cittadella, con te si può parlare. » 

« Potresti venirmi a trovare, ad Hyrule intendo. » 

Ganondorf sollevò le sopracciglia rosse. « Mi stupisco, Principessa, dovresti sapere che alle Gerudo non è concesso lasciare la Cittadella fino alla maggiore età. » 

« Credevo valesse solo per le donne Gerudo che devono lasciare il deserto per trovare un compagno. Vale anche per il Prescelto, quindi? »

Ganondorf strinse i denti, avvertì il corpo tendersi e contorcersi tutto in un nodo. Anche se era consapevole che la stupida Profezia che pendeva su di lui dalla sua nascita doveva aver raggiunto i quattro angoli di Hyrule, in qualche modo sperava che lei non lo sapesse, che fosse scevra dal pregiudizio che accompagnava chiunque lo guardasse, sin da quando era solo un bambino. Forse era questo che vedeva nel suo sguardo, questa conoscenza che non riusciva a separare il ragazzo dal vaticinio.

« Preferirei non parlarne. » disse lui, la voce più bassa e cupa di quanto volesse. 

« Cosa ti hanno detto sulla Profezia…? »

Ganondorf stava per provocare un incidente diplomatico, rispondendo in modo aggressivo alla Principessa, forse sguainando la spada d’ordinanza che teneva al fianco e puntandogliela alla gola, tanto per sfatare il mito che le Gerudo fossero impulsive e crudeli, e tanto veloci a rivoltarsi contro chiunque da non poter essere affidabili alleate. Per fortuna l'ambasciatrice, che era rimasta indietro e che non aveva assistito alla loro conversazione, sbucò da dietro l’angolo chiamando la Principessa a gran voce: era desiderata altrove. Lei schiuse le labbra per dirgli ancora qualcosa, ma scosse la testa e decise di lasciarlo in compagnia del suo silenzio. 

 

Il Re e la sua scorta furono sistemati in un accampamento di tende tirato su alla bell’e meglio appena fuori dalle porte della Cittadella. Al mattino, quando Ganondorf passeggiava sulle mura, poteva scorgere più e più occhi sollevarsi nella sua direzione, e anche se il vento del deserto soffiava basso e portava via le parole, riusciva a immaginare i mormorii che si scambiavano i soldati. In ogni caso, a parte la picca con lo stendardo di Hyrule piantato nella sabbia di fronte alla tenda più grande, il ragazzo non vide mai il Re. Non sapeva se fosse perché non voleva farsi vedere congestionato e unto di sudore nei suoi inadatti paramenti o perché volesse mancare di rispetto alle Gerudo, fatto sta che non mise mai il suo naso adunco fuori dalla tenda e che a Ganondorf andava benissimo così. 

Ad avere gli oneri maggiori era l’ambasciatrice i cui nuovi compiti comprendevano il correre su e giù per la Cittadella per portare i messaggi sempre più serrati tra la Matriarca e il Re di Hyrule. Era divertente vederla correre sbuffando con rotoli di pergamene tra le braccia che a volte le saltavano via. 

Era stato deciso che la Principessa sarebbe rimasta una settimana alla Cittadella, così come la sua scorta accampata all’esterno. 

Quando i due ragazzi si trovavano insieme erano (troppo spesso) accompagnati da qualcuno le cui orecchie e bocche non erano fedeli. Non riuscirono più a parlare della Profezia, e del resto non era l’argomento preferito di Ganondorf. In compenso parlarono di Hyrule, della sconfinata pianura d’erba verde, degli alberi da frutto, dei fiori, cose che il Principe conosceva solo sulla carta e attraverso i racconti dei mercanti e delle loro cianfrusaglie. Discussioni innocue che venivano osservate e resocontate come se fossero state fatte a un tavolo rotondo. Era frustrante, ma nessuno dei due poteva dirlo. 

Quel pomeriggio Ganondorf si sentiva abbastanza in forma da potersi allenare con il bastone. Il dolore era ancora sordo e presente, come fosse un piccolo tamburo che batteva contro il fianco, ma era gestibile. Per di più, la presenza dei reali di Hyrule avevano sospeso il normale svolgimento degli allenamenti, consentendogli di guarire… almeno un po’. A petto nudo, il sudore che colava sulla schiena, i muscoli tesi ma scattanti, agitava il bastone da una parte all’altra, tenendolo al centro con due mani. Era appesantito alle due estremità con due sacchi pieni di sabbia che imitavano il peso delle lame. Un giorno avrebbe maneggiato l’arma vera, ma per adesso doveva accontentarsi. Scattò in avanti e calò la parte destra del bastone contro la spalla del manichino d’addestramento. Lo colpì tra il collo e la spalla, una lama si sarebbe conficcata a fondo nella carne, poi ruotò il busto e il bastone per colpirlo anche con l’altra estremità, in basso tra le costole. Espirò forte l’aria che stava trattenendo. Troppo teso, poco sciolto. Inspirò, saltò indietro, schivò un colpo immaginario abbassandosi sulle cosce e poi, da quella posizione acquattata, caricò un un affondo all’addome del manichino. Nonostante fosse ben piantato a terra, ondeggiò sulla sua asta. 

« Impressionante. » ancora carico di adrenalina, appena sentì quella voce scattò, ruotando il corpo, e il bastone, nella sua direzione. Fu solo per l’incredibile velocità di reazione del suo corpo che non colpì la Principessa Zelda, l’estremità del bastone si fermò a pochi centimetri dal suo viso. Lei non aveva neanche battuto le ciglia.

« Scusa. » si affrettò a dire il Principe, abbassando il bastone. Perché non aveva avuto paura? Avrebbe potuto farle male. 

« Non è presto per allenarti? » 

« Presto? » per un attimo lui credette che si stesse riferendo all’ora del giorno, poi intercettò il suo sguardo, che accarezzava i lividi sul petto e l’addome. Se fosse corso a vestirsi sarebbe sembrato sospetto, per cui rimase fermo dov’era. « Non è niente, non mi fanno male. » la sua voce suonò come quella di un bambino piagnucolante mentre cerca di non farsi punire dalla mamma. Provò una vergogna infinita, ma non osò abbassare lo sguardo.

« Gli allenamenti sono sempre… così cruenti? » 

« Non direi che sono cruenti. » rispose lui, alzando un po' il mento, che vedesse bene i suoi lividi allora. Zelda sospirò, scuotendo appena la testa. L'aveva offesa? All'improvviso appariva… delusa, addirittura triste. Stava per chiederle se andasse tutto bene, quando lei tornò raggiante, come il sole dietro le nuvole temporalesche. 

« Sono stanca di parlare con la Matriarca, e stanca di fare rapporto a mio padre. » piegò appena la testa e in quel movimento, nel modo in cui le scivolarono i capelli sul viso facendole ombra, sembrò avere l'età che aveva, quattordici anni e nulla più. « Dove vai quando sei stanco di queste cose? Portami lì. » 

Ganondorf sentì un bruciore intenso percorrergli il corpo, mani, piedi, volto, tutto bruciava, come dopo una lunga giornata nel deserto. Sapeva esattamente dove portare la principessa. Alzò il capo verso l'alto, osservando il lucore candido del cielo senza nuvole. 

« Farà caldo, principessa. »

« Sopporto bene il caldo. » 

Il ragazzo non poté trattenere un risolino, poi le fece cenno di seguirlo.

Saper lasciare il palazzo di nascosto era un'abilità necessaria a un principe, e Ganondorf aveva imparato da bambino quanto complessi fossero i passaggi segreti che si srotolavano sotto la Cittadella, usati non solo come via di fuga d'emergenza per la popolazione quanto per la famiglia reale. Non avrebbe raccontato a Zelda che sotto la Cittadella ce n'era un'altra altrettanto viva e pullulante di attività, ma poteva mostrarle il suo passaggio segreto preferito per uscire dalle mura. Si ritrovarono quindi, dopo aver attraversato due corridoi bui scavati nella sabbia dura, a sbucare fuori da una stretta botola in cima a una rampa di scalini minuscoli; potevano vedere l'uscita ovest della Cittadella e le due guardie che la presidiavano, ma da quella posizione, coperta dalla duna di sabbia, loro non avrebbero potuto vederli. Ganondorf tese la mano alla principessa per aiutarla a uscire dalla botola ma lei rifiutò e si tirò su da sola. Non aveva paura di sporcarsi, né le importava avere il corpo coperto di sudore, i capelli appiccicati alla nuca, si muoveva agile e senza paura… proprio come una Gerudo. Non aveva mai trovato in un Hylian qualità del genere, ed era stupito di trovarle proprio in lei.

Di fronte a loro si scorgevano tra le dune i pilastri delle Rovine di Gerudo Nord, il sole cadeva dritto sul deserto facendo brillare la sabbia fino a farla sembrare bianca. Zelda si schermò il viso con una mano, le orecchie a punta erano già arrossate, così come le gote, l'abbigliamento Gerudo per quanto fresco non avrebbe potuto difendere la sua pelle bianca, aveva legato i capelli in una treccia poi arrotolata sulla testa, come si usava spesso portare nel deserto. Ganondorf la trovò bella, e subito dopo trovò strano averla trovata bella. C'erano centinaia di donne Gerudo e decine di ragazze della sua età, sapeva che le usanze incoraggiavano (e preparavano) le Gerudo a lasciare la Cittadella per trovare un partner, dato che non esistevano uomini, ma lui avrebbe anche potuto scegliere tra loro, niente glielo impediva: il suo era un caso eccezionale. Per di più non amava il pensiero di mischiarsi agli Hylian, per quanto senza di loro, nel tempo, non sarebbe stato possibile generare nuove Gerudo: qualsiasi unione tra Hylian e Gerudo generava donne Gerudo, che poi venivano portate alla Cittadella per essere cresciute alla maniera del deserto. Ganondorf sapeva che con tutta probabilità anche lui avrebbe generato una figlia e che prima o poi l'avrebbe vista andare via alla ricerca del suo partner, a sua volta anche la figlia avrebbe generato una figlia e se avesse vissuto abbastanza avrebbe visto un'altra figlia nascere e così fino al successivo Prescelto. Ma sarebbe passata una quantità di tempo che per lui non era quantificabile, per cui non aveva importanza. L'importante era che adesso per la prima volta sentiva di poter provare qualcosa che non fosse avviluppato alle Gerudo, qualcosa che fosse solo suo e che poteva lasciare la Cittadella. Erano tante le Gerudo che decidevano di viaggiare per Hyrule e di non tornare affatto nel deserto, mentre guardava la principessa cominciava a intuire il perché. 

« Dobbiamo camminare un po'. » le disse, indicando i resti delle rovine che avevano davanti. « Dieci minuti. Pensi di farcela? » 

« Per chi mi hai preso. » disse lei. Lo toccò sulla spalla e, mentre diceva “chi arriva ultimo è Goron sassoso” come una bambina, Ganondorf ebbe di nuovo l'impressione che il suo corpo si sovrapponesse a quello di un'altra principessa e poi un'altra ancora e ancora. Nel deserto il caldo poteva giocare brutti scherzi.

Le Rovine di Gerudo Nord erano i resti di quello che sembrava un tempio, sfarzoso e pieno di colonne che in passato doveva essere servito per cerimonie e feste. Adesso, a parte le altissime colonne e gli archi di pietra bianca e dorata e qualche lastra di pavimento non era rimasto nulla. L'aria arroventata dal sole vibrava intorno alle colonne facendole sembrare alte chilometri, dritte linee bianche contro il cielo; qualche macchia di erba saetta si agitava all'aria calda tendendo le foglie asciutte. Il silenzio era assoluto, come si confà a un mausoleo, rotto dal ritmico passo dei due principi mentre avanzavano tra le rovine.

« Che posto è questo? » chiese Zelda, sottovoce. L'aria era tanto densa per via del caldo che il suo tono risuonò ovattato.

« Non lo so. » disse Ganondorf. « Le cronache non arrivano così indietro nel tempo. » il ragazzo si arrampicò su un quarto di colonna spezzato, il resto della quale giaceva in frammenti mezza coperta dalla sabbia, per sedersi in cima. Zelda guardò la sua sagoma incoronata da capelli rossi mentre il sole scuriva i suoi tratti. Ebbe quasi un capogiro e dovette ingoiare bile amara. « Alcune sacerdotesse dicono che fosse un tempio dedicato a Hylia, ma non sono state trovate statue o manufatti che lo provano. Ho letto alcuni documenti che raccontano che qui un tempo fosse coperto da un oceano, forse questo era un tempio Zora, oppure di una civiltà ancora precedente. Chissà perché l'oceano è scomparso… a volte provo a immaginare tutta quell'acqua, i pesci, le creature enormi che dovevano abitarlo e… » la principessa lo stava guardando dal basso, una mano a coprire gli occhi, il viso accaldato. Saltò giù dalla colonna e abbozzò un sorriso. « Scusa. Stupidaggini. Lascia stare. » 

« Non credo siano stupidaggini. » le disse lei. Lo prese sotto braccio, sebbene entrambi avrebbero preferito non far aderire la pelle accaldata contro l'altro per non rimanere fusi insieme per sempre. Anche se, a dirla tutta, forse a Ganondorf non sarebbe dispiaciuto. Lei lo accompagnò all'ombra di un’enorme colonna quadrata. La Cittadella non era lontana, la si poteva vedere nell'aria tremolante, ma pensare di raggiungerla adesso le toglieva ogni briciola di energia rimasta. Era meglio rimanere lì, all'ombra, dove faceva appena appena più fresco. « È importante conoscere la storia della nostra terra, le nostre usanze, le nostre radici, per non… sai… fare gli stessi errori. » 

Ganondorf sbuffò. « Si può evitare davvero? Di fare gli stessi errori? Le persone sono stupide. » 

« Diventerai… Patriarca un giorno. » 

« È quello che dicono, quindi immagino che succederà. » voleva essere una battuta ma lei non sorrise, e lui sentì di diversi ritrarre: aveva di nuovo davanti qualcosa di più antico della principessa. 

« Tu vuoi fare gli stessi errori… degli altri Patriarchi? »

Ganondorf alzò gli occhi verso la Cittadella. Una mano con le dita aperte andò ad affondare nella sabbia, fino al polso. Per quanto a fondo andasse poteva sempre tirarla fuori. La sabbia era sottile, granello dopo granello gli scivolava tra le dita. « Non parlano degli altri Patriarchi. » raccolse una manciata di sabbia, la strinse ma non si compattò nel palmo, invece prese a scorrere tra le fessure, sfuggendo da ogni parte. « Non credo che dovrei parlarne neanche con te. » 

« Perché? Perché sono una Hylian? » Zelda gli prese la mano. Per un po' la sabbia si trattenne nel suo palmo, ma filtrò anche tra le sue dita. « Non sono tua nemica. » 

« Sai che vogliono che ci sposiamo un giorno, vero? » 

« Sì, me lo dicono sin da quando ero bambina. » la principessa lasciò andare la mano di Ganondorf. Si sistemò con le gambe e le braccia aperte, la schiena poggiata contro la pietra fredda come per permettere a ogni centimetro del suo corpo di raccogliere più aria possibile. « Non è mai stata fatta una cosa del genere prima. » il ragazzo piegò un po' la testa con fare interrogativo. Zelda batté le palpebre come si fosse appena risvegliata da un sogno. « Intendo che non hanno mai dato in sposa una principessa di Hyrule al Patriarca delle Gerudo, i tempi… non sono mai combaciati, o se è successo non è stato trascritto nelle cronache. Sai, o lui era troppo giovane o lei già sposata, cose del genere. » 

« Forte? » fece lui, un sopracciglio sollevato. 

« Forte, sì! » 

Rimasero in silenzio ad ascoltare il deserto. A differenza dei boschi, dei laghi, delle foreste, persino dei ghiacciai, il deserto pretendeva attenzione. Non c'erano molti animali, i pochi uccelli volavano talmente in alto che erano solo sagome nere sfocate; non c'erano alberi o arbusti che potessero scuotere le foglie al vento; non c'erano insetti che ronzavano sui fiori. Eppure la vita c'era, si nascondeva ovunque. C'erano le lucertole che saettavano, una zampa alla volta, sulle dune, serpenti che guizzavano a tratti le loro lingue verso l'alto, libellule dai corpi rossi che erano come lampi nel campo visivo, e poi…

« Guarda! » Ganondorf scosse Zelda e le indicò un punto nel cielo. Il profilo elegante e sinuoso di un drago solcava quell’azzurro senza nuvole. Sembrava vicinissimo eppure doveva trovarsi da qualche parte sopra il Grande Altopiano Gerudo, dove esistevano il freddo e la neve.

« È bellissimo. » disse lei, i grandi occhi verdi sgranati.

« Credo sia Firodra. » 

Zelda non rispose. Firodra solcava i cieli sopra il Lago Hylia e il Canyon Gerudo: quello era tutto un altro drago, ma non l'avrebbe detto al principe.

Tornarono alla Cittadella quando il caldo aveva abbandonato il deserto e la sabbia aveva smesso di essere rovente sotto i piedi, usando lo stesso passaggio che avevano usato all'andata. Nessuno osò chiedere dov'erano stati e loro non dovevano spiegazioni a nessuno. Avevano vagato per le Rovine saltando tra le colonne, giocando a inseguirsi come due bambini, privi di responsabilità, passato e futuro, vivi in quel momento incollato dal caldo. La principessa aveva catturato una lucertola, Ganondorf due, avevano stabilito che quella era solo la prima di tante gare tra Gerudo e Hylian e che l'aveva vinta lui. Lei vinse la successiva, arrivando per prima alla botola del passaggio segreto. Prima di lasciarsi Ganondorf la invitò ad andare all’Oasi Sud l'indomani, fare il bagno in una pozza d'acqua limpida in mezzo al deserto era un'esperienza che andava fatta. Lei accettò, e lui non pensò ad altro per tutta la notte.

 

Alla fine della settimana Ganondorf capì di avere un'amica. Un’amica che non avrebbe più rivisto fino alla sua maggiore età. Avrebbe anche potuto discutere con la Matriarca sulla contraddizione di certe usanze, ma sarebbe andato contro i suoi stessi princìpi.

Il Re di Hyrule, la Principessa Zelda e la scorta di soldati Hylian partì all’alba, quando il sole indugiava ancora, assonnato, sulla linea dell’orizzonte. Andati via loro, andata via la principessa, la vita di Ganondorf sarebbe tornata dura, violenta e difficile come sempre. Le sue ferite avrebbero avuto a malapena il tempo di guarire prima di essere riaperte e avrebbe vomitato sangue sul campo di addestramento fino al tramonto. “Cruenti” li aveva definiti Zelda, quella parola non si avvicinava nemmeno a ciò che lo aspettava. 

Ganondorf era alla destra di Ibara, sulle mura della Cittadella. La Matriarca aveva deciso di salutare i reali di Hyrule dall’alto, per mostrare loro che, sebbene le trattative erano andate a buon fine ed era stato stipulata la pace tra i due popoli, le Gerudo non sarebbero mai state al livello degli Hylian. Il Re non si volse a guardarli, né tantomeno rivolse loro un saluto. L’unica fu la Principessa, che rimase a lungo mentre la carovana si inoltrava nel deserto, a guardare in su, verso Ganondorf. 

« La Principessa ti darà una figlia. » disse Ibara, le mani intrecciate dietro la schiena, strette tra loro come se temesse che, lasciandole libere, avrebbero potuto commettere qualche follia oltre il suo controllo. Il ragazzo si concentrò sul mantenere il respiro costante e guardare Zelda che si voltava sul suo cavallo bianco con la criniera bionda e avanzava nel deserto, circondata da soldati armati che cominciavano a diventare puntini brillanti alla luce dell’alba. « E quella figlia sarà una Gerudo. » anche Ibara guardava la principessa. « Dovrai far rispettare le nostre tradizioni e riportarla alla Cittadella quando sarà il momento. Alla fine, ci sarà una Gerudo sul trono di Hyrule. Il potere, Ganondorf, è l’unica cosa che devi ricercare. » se la Matriarca avesse saputo di cosa avevano parlato lui e la principessa in quella settimana l’avrebbe ritenuto patetico. Si era lasciato andare con lei nei momenti di reale solitudine, sguazzando nell’acqua dell’oasi, rincorrendosi tra le rovine, esplorando il ventre della Cittadella. L’aveva fatta entrare dove non avrebbe dovuto, ma non se ne pentiva. « Giovane, hai capito? » 

Lui annuì, poi abbassò il capo in segno di rispetto. La Matriarca tornò allora a guardare la carovana hylian che si allontanava. 

« Com’è? » la prima domanda che il padre le rivolgeva da quando si erano separati perché lei entrasse alla Cittadella. Zelda tenne il cavallo vicino a quello del padre. Le guardie erano fedeli, ma erano anche pettegole, per fortuna la difficoltà di affrontare il deserto le aveva rese meno curiose ai discorsi tra il Re e la Principessa. 

« È solo un ragazzo. » disse lei. Avevano davanti una lunga giornata di viaggio, sarebbero arrivati al castello l’indomani, dopo una breve sosta per il pasto alla Locanda della Porta. 

« È solo un ragazzo adesso, non lo sarà ancora per molto. » 

« Potrebbe essere diverso, padre. Dovremmo concedergli di esserlo. » 

Gli occhi del Re erano cisposi, coperti quasi dalle rughe e dalle sopracciglia bianche; nascoste, le iridi erano verdi, come quelle della principessa. Era vecchio per avere una figlia di quell’età, ma lei non era mai stata una bambina normale. A lei Hylia non aveva concesso di essere “solo una bambina”, perché avrebbe dovuto concedere il lusso al male incarnato? 

« Tu sai meglio di me, figlia. » e rimarcò bene quella parola, perché sapeva che non aveva alcun potere su di lei, non per quello che rappresentava e che era, non se avesse deciso di fare davvero ciò che voleva. « Che non è possibile. La storia non può essere cambiata. » 

« Ma dalla storia possiamo imparare. » 

« E abbiamo imparato, Zelda. » più duro, tanto che lei si sentì quasi colpita da quel tono. « Abbiamo imparato che Ganon torna e torna e torna, e ogni volta distrugge. Avremmo dovuto ucciderlo quando era ancora in culla, non l’abbiamo fatto perché avrebbe significato cominciare una guerra che sarebbe finita in genocidio. Le Gerudo non devono pagare per colpa sua. » 

Zelda si morse la lingua, trattenne per sé non solo le parole ma anche i pensieri. Se la Dea Hylia poteva sentirla era meglio che non le giungesse quell’impulso tutto umano e, soprattutto, tutto suo, solo suo. 

« Intratterrò con lui un rapporto epistolare. Tra tre anni, al compimento della maggiore età, l’ho invitato a presentarsi a palazzo. Voglio che passi del tempo ad Hyrule. » 

« Credi che servirà a qualcosa? A cambiarlo? » 

“Sì” avrebbe risposto la Zelda, la ragazza di quattordici anni che vedeva il buono in Ganondorf, che capiva in che condizioni lo stavano crescendo, con che crudeltà veniva trattato, che vedeva anche il male, ma non in lui, no, imposto su di lui, la durezza del deserto, della sua casa, della sua gente, della sua diversità. 

“No” avrebbero risposto invece le altre Zelda, le altre Principesse, quelle che venivano dal suo passato, i cui ricordi vedeva quando teneva gli occhi chiusi anche quando non voleva, che la svegliavano nel cuore della notte con immagini di guerre, morte o orrori ben peggiori, con immagini di lui trucidato e ucciso in centinaia, migliaia di modi diversi. Doveva convivere con quelle due nature, doveva essere se stessa e loro, ma fare qualcosa che loro non avevano mai fatto era impossibile, ogni passo che muoveva su una strada già tracciata da qualcuno che non era lei, che poteva portare in egual modo alla vittoria o alla sconfitta ma in entrambi i casi inevitabile. La storia avrebbe parlato di lei, e lei avrebbe parlato alla prossima Zelda. 

Non rispose alle domande del padre, tenne lo sguardo fisso in avanti, sul vago sentiero battuto sulla sabbia che portava fino al bazar Arsur che si intravedeva, in lontananza, con le palme tremolanti nell’aria, come un miraggio. E poi ancora più avanti, alla porta del deserto, l’imboccatura del Canyon Gerudo che li avrebbe portati, alla fine, alla piana di Hyrule. C’era un monte a est dell’accesso al Canyon, dedicato alla Dea Hylia. Lei aveva voluto essere lì, ma non aveva mai messo piede nel deserto. 

 
   
 
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