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Autore: ChiiCat92    26/12/2023    0 recensioni
"Ganondorf strinse i denti, le spalle gli facevano male ma si rialzò, come gli era stato ordinato. « Lasciala. » la maestra indicò con un gesto del mento la lancia. Lui ubbidì. La guardò fare un solco sulla sabbia morbida, apertasi intorno ad essa come fosse semiliquida. Avrebbe voluto sprofondare in quella sabbia anche lui, sparire per non essere più percepito. La maestra schioccò le dita, Ganondorf strinse i pugni e pensò solo a difendere la testa, il volto, poco l’addome, mentre le compagne di allenamento si accanivano su di lui. Ogni colpo che incassava risuonava sulla carne e sulle ossa. Portavano tutti lo stesso messaggio: tu non diventerai mai Re delle Gerudo."
Genere: Angst, Fantasy, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi | Personaggi: Ganondorf, Ghirahim, Link, Princess Zelda
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ganondorf respirò, aria calda dentro il naso e poi nei polmoni, si piegò sulle cosce e scartò di lato così accovacciato, evitando il fendente della scimitarra di Neturi. Avvertì un formicolio nell'aria e torse il busto appena in tempo per bloccare la lama della maestra che si abbatteva su di lui. Gli occhi di lei, azzurro cielo, circondati da un reticolo di rughe come letti asciutti di fiumi, non esitavano. Avrebbe colpito con tutte le sue forze e se lui fosse stato ferito o ucciso la colpa sarebbe stata solo sua. La donna impose più forza nei polsi in un gesto che, un tempo, gli avrebbe fatto tremare le braccia. Ma stavolta Ganondorf non tremava; ringhiò come un animale mentre caricava tutto il suo peso contro di lei per rialzarsi e sbilanciarla. Le spalle possenti del ragazzo ressero lo sforzo e la donna indietreggiò, senza abbassare la guardia. Intorno a loro le altre Gerudo li guardavano trattenendo il fiato. La danza delle loro lame produceva sibili e scintille quando si incontravano, a tratti i due si lasciavano andare in sospiri e sbuffi mentre i passi sul terreno si trasformavano in schemi leggibili grazie all’abitudine e all’addestramento. Ganondorf conosceva la maestra e conosceva il modo in cui combatteva, ma non l'aveva mai vista desiderare di uccidere come fossero in battaglia. Lo onorava mostrandogli che non aveva intenzione di trattenersi con lui, lo riteneva degno, per cui doveva dimostrarsi tale. Arretrò, ora ritto sulle gambe che sentiva bruciare per lo sforzo, il piede destro indietro, il sinistro in avanti, la lama della lancia dritta davanti a sé, le mani chiuse salde contro l'asta umida di sudore. La punta della lama era rossa del sangue di Neturi, sangue che le aveva stillato dal braccio, una ferita profonda che però non la rallentava. Il ragazzo si chiese se si sarebbe fermata se avesse perso un braccio, ma dubitava anche di quello, e comunque non poté pensarci a lungo perché la maestra si gettò contro di lui, respirando a fondo per non lasciarsi scappare un urlo di sforzo: cominciava a essere stanca. Neturi era brava, era la migliore, ma cominciava a invecchiare e lui… lui era nel pieno delle sue forze. Saltò indietro così l’attacco di Neturi andò a vuoto, nel brevissimo istante che seguì il recuperare l’equilibrio per tornare in piedi, Ganondorf attaccò. Aveva imparato sulla sua pelle che la pietà era per i deboli e che l’avversario non deve essere risparmiato, ogni scontro può essere l’ultimo e bisogna combattere di conseguenza. Ma portava grande rispetto per Neturi, per la sua vita, per ciò che rappresentava, e non intendeva uccidere le migliori tra loro quando poteva, invece, averle al suo fianco. Per cui l’affondo che avrebbe dovuto ucciderla e che lei non vide arrivare si conficcò nel suo fianco evitando gli organi vitali e riversò abbondante sangue sul terreno polveroso. Neturi si accasciò su un ginocchio, lasciando cadere la scimitarra. Ganondorf le stava sopra, la lama ora sudicia e calda di lei, vicina alla sua gola e alla sua fine. Gli occhi azzurri della maestra si alzarono un’ultima volta su di lui per non avere mai più il coraggio, né il diritto di farlo. 

« Mio signore. » disse la donna. Portò un pugno a toccare il terreno, poi se lo batté al petto. Le Gerudo che stavano assistendo allo scontro, le compagne con cui Ganondorf si era addestrato per tutta l’infanzia e poi l’adolescenza, quelle che l’avevano sbeffeggiato, ferito, lasciato gonfio e dolorante, si inginocchiarono. Sulle loro labbra si rincorrevano le stesse parole pronunciate dalla maestra. Mio signore. Mio signore. Mio signore. Un sussurro che sembrava un tamburo di guerra. Sussultò quando una mano gli si poggiò sulla spalla, ancora carico di adrenalina per lo scontro. 

« Sei pronto adesso. Vieni con me. » Ibara aveva assistito allo scontro. A differenza della maestra e delle compagne lei non si era inginocchiata, ma bastarono quelle parole per riempire il ragazzo di orgoglio.

Erano passati tre anni da quando la delegazione hylian era stata alla Cittadella. Sebbene Ganondorf ricevesse continue lettere dalla Principessa non averla accanto rendeva le sue parole sterili e lontane. Lei viveva nel suo bel castello immerso nel verde e nel lusso, a lui toccava un palazzo di sabbia. Lei aveva le mani morbide fatte per toccare i libri, le sue si erano riempite di calli ed escoriazioni. Non le raccontava mai di quella sofferenza per timore che le lettere potessero essere intercettate, mentre lei gli apriva il suo cuore e gli scriveva pagine e pagine di speranze e paure a malapena contraccambiate. Se lei si era accorta del suo cambiamento non ne aveva mai fatto menzione. 

La vita gli chiedeva di essere duro e ostile e lui aveva cercato di diventarlo, in cambio aveva ottenuto un corpo forte, teso verso l'alto, con spalle larghe e braccia muscolose, gambe tornite, un petto ampio; aveva deciso di tenere i capelli lunghi che si erano infoltiti tanto da sembrare la criniera di un lynel, come quelli che abitavano sull’Altopiano. Non era più un ragazzino debole e fragile. Eppure ogni volta che qualcuno lo additava o mormorava il suo nome, ogni volta che gli stranieri hylian arrivavano alla Cittadella e incrociavano il suo sguardo, ogni volta che le bambine scappavano via da lui e andavano a nascondersi tra le gambe di madri e nutrici, lui si sentiva fuori posto. Non c'era stato spazio per lui quando non era all'altezza del suo ruolo, e non c'era spazio adesso che lo soddisfaceva a pieno. Sembrava che le Dee non gli dessero requie. Perlomeno adesso la Matriarca lo rispettava, chiedeva sempre più spesso la sua presenza, voleva che facesse parte della delegazione Gerudo. Era giunto il tempo di lasciare la Cittadella.

Ganondorf seguì Ibara fino alla sala del trono. La donna gli dava le spalle ma adesso l'aveva raggiunta in altezza, la sua stazza la sovrastava, niente gli impediva di aggredirla, tagliarle la gola e salire al trono tranne… tranne il fatto che lei avrebbe abdicato a suo favore quando sarebbe stato il momento. Strinse gli occhi per un attimo, respirando piano; quei pensieri si facevano sempre più presenti, sempre più osceni e violenti. Lo coglievano all'improvviso, lampi bianchi e rossi che venivano dal nulla e tornavano al nulla, il desiderio di versare sangue e banchettare con le interiora dei suoi nemici, come una bestia. Neanche di questo aveva parlato con la Principessa Zelda, a dirla tutta non ne aveva parlato con nessuno. Il più delle volte quei lampi si limitavano a riempirgli la bocca di acquolina, a fargli prudere le mani, o a fargli immaginare cose come quella, uccidere la Matriarca, il suo corpo sventrato sul tappeto verde ricamato d'oro che terminava alla base del trono. Se chiudeva gli occhi e respirava sparivano, e poteva tornare a pensare con lucidità.

« Ringrazio le Dee per la pazienza che mi hanno dato con te. » disse la Matriarca. Forse intuiva che c'era qualcosa di violento e imprevedibile  in lui, perché da qualche tempo aveva cominciato a girare sempre armata, un pugnale Gerudo legato alla cintura, di facile estrazione. Si sentiva minacciata da lui? Bene. Ganondorf inspirò ed espirò, la schiena zuppa di sudore gelido sebbene il sole battesse a picco sul palazzo, alto allo zenit. « Solo loro sanno quanto temessi che non saresti stato all'altezza. » e per tutta la sua vita ci aveva tenuto a dirglielo, ancora e ancora, ricordandogli quanto fosse inutile continuare a tenerlo vivo. Inspirò ed espirò. « Ma ora sei un uomo, anzi, sei l'uomo. Hai superato la prova con risultati oltre ogni aspettativa. Voglio farti un regalo. » il ragazzo raddrizzò la schiena, più attento. Ibara andò a sedersi sul trono e fece un cenno alle attendenti perché andassero a prendere qualcosa in un'altra stanza. « Anche se… non dovrei chiamarlo “regalo”. » una giovane Gerudo con il viso coperto da un velo tornò nella stanza stringendo un fagotto avvolto in un lungo drappo di seta rossa. Lo porse alla Matriarca inginocchiandosi e lei lo prese. « Vieni, avvicinati. » Ganondorf si fece avanti. Si sentiva ancora rigido per lo scontro con Neturi, ancora su di giri, le mani pronte a stringersi intorno a qualsiasi cosa Ibara gli avrebbe donato. Non appena prese il fagotto avvertì come un fremito, un respiro a lungo trattenuto che veniva rilasciato. Si affrettò a svolgere il drappo. Era una spada, una spada che non aveva mai visto prima ma che percepì subito come sua; la lama, l’impugnatura, l’elsa erano nere, il filo (ben tenuto e lucido) era più chiaro, grigio scuro contro il nero, e la lama emanava riflessi rossastri insieme con il gioiello romboidale incastonato appena sopra l’elsa; alla base della lama c’era una triforza capovolta, incisa con una decorazione che sembrava quasi un piedistallo. C’era qualcosa di blasfemo e insieme affascinante in quella spada, qualcosa che gli fece venire la nausea quando osservò il proprio riflesso sulla lama. Sapeva di aver ucciso con quella spada, lo sapeva, poteva sentire tutto il sangue di cui si era abbeverata la lama. « Questa spada è tua. » la voce di Ibara era lontana, avrebbe voluto dirle di stare zitta, sentiva la testa piena di insetti, un ronzare di voci. Toccò la superficie fredda della lama. Perché me la stai dando? Non la voglio! Strinse una mano intorno all’elsa, gli sembrò di ritrovare i solchi delle dita dove li aveva lasciati. « È sempre stata tua, lo è dalla notte dei tempi. Appartiene a ogni Gerudo uomo mai vissuto. Si tramanda da secoli, e noi ce ne prendiamo cura da secoli. Riprenditi, lava via la stanchezza di oggi, Ganondorf. Domani ti racconterò la tua storia. » 

Era una forma di congedo. Il ragazzo sentì il corpo reagire a quelle parole, inchinarsi come dovuto mentre riavvolgeva la spada nel drappo di seta rossa. Vide se stesso mentre arretrava e poi voltava le spalle a Ibara, diretto verso la propria stanza. 

Scacciò Evon quando gli chiese se stava bene e se poteva fare qualcosa per lui. Avrebbe voluto chiudere fuori anche se stesso. Invece si trovò solo con quella spada. La poggiò a terra, con cura come fosse una creatura viva, e aprì i lembi del tessuto. Vide il suo riflesso sulla lama, di nuovo, ma stavolta colse qualcos’altro, un movimento estraneo, un altro viso dietro al suo che si agitava nel metallo. Saltò indietro, la nausea così soffocante che sentì l’acido in bocca, la testa piena di vespe impazzite. Non poteva neanche guardare quella spada, figurarsi impugnarla. L’avvolse di nuovo nel tessuto e la lasciò sul pavimento. 

 

Ganondorf cavalcava lungo la piana di Hyrule, il suo stallone mandava fuoco dalle narici: era la cavalcatura adatta al Re dei Demoni. Davanti a lui, in groppa a una cavalla dal manto marrone, c’era giovane che doveva avere non più di diciassette anni. Il giovane aveva il cielo per occhi, sapeva di stare per morire ma non aveva paura: ne sembrava immune. Stringeva nella mano sinistra una spada che emanava uno schifoso bagliore bianco, puro come una cascata di stelle; non indossava armatura ma solo una ridicola tunica verde; aveva un arco sulla schiena, e una faretra al fianco. Lo voleva morto, e di solito otteneva quello che voleva. 

Lo stallone impennò lanciando un nitrito acuto, poi Ganondorf lo spronò al galoppo. Il ragazzo fece altrettanto e le spade si incrociarono, lo scontro furioso di continenti che si inarcano, si fratturano, e poi si sbriciolano. 

 

Ganondorf si svegliò, senza fiato. Singhiozzava, così forte che gli faceva male il petto. In realtà gli faceva male tutto. Il ragazzo l'aveva ucciso, quella volta l'aveva ucciso. La sua lama candida l'aveva trapassato e il suo cuore aveva avuto un sussulto prima di fermarsi, giusto il tempo di tendere l'anima verso l'inferno. Non conosceva quel ragazzo, né la sua spada, ma entrambe le immagini erano impresse a fuoco dietro le palpebre, tanto che non se ne andavano se chiudeva gli occhi. A un certo punto durante quell'incubo si era artigliato alle lenzuola, strappandole. Si prese la testa tra le mani, le trecce si erano sciolte e i capelli gli ricadevano a ciocche sul viso, spettinati. Le lenzuola erano bagnate, e aveva il terrore di controllare di cosa lo fossero. Un bambino nel gigantesco corpo di un un giovane adulto.

« Era solo un incubo, Padrone. » Ganondorf sollevò lo sguardo di scatto. Nel buio della stanza, illuminata appena dalla luce della luna e delle stelle che ammiccavano oltre le tende socchiuse, cercò la sagoma dell’intruso. Saltò in piedi, cercando un'arma, una qualsiasi, chiedendosi perché non dormisse con un pugnale sotto il cuscino come di certo faceva Ibara. « Non ho intenzione di farvi del male, Padrone. Io sono qui per servirvi. » 

« Qui? » la voce del ragazzo era rauca. Aveva pianto a lungo nel sonno, ma non poteva neanche pensare di averlo fatto. « Dove sei? Fatti vedere. » sentiva le tempie pulsare. La voce che aveva parlato sembrava maschile, e in quel momento, per quanto assurdo, era più arrabbiato che un uomo si fosse introdotto nella Cittadella che nella sua stanza. 

« Come desiderate, Padrone. » 

Smettila con questo “Padrone”, avrebbe voluto urlare, invece gli morì la voce in gola quando, dal pavimento, dal punto in cui aveva lasciato la spada nera per la precisione, si sollevò un bagliore. All'interno di quel bagliore, avvolto da un alone rosso, c'era un… 

« Cosa diamine sei? » 

« Sono il vostro umile servitore. » l'essere fluttuò a terra, i piedi uniti che fece battere tallone contro tallone; la mano sinistra dietro la schiena, la destra in avanti si esibì in un inchino. « Il mio nome è Ghirahim, ma risponderò a voi in qualunque modo vorrete chiamarmi. » Ganondorf non vedeva molto di quell'essere se non che aveva le fattezze di un giovane uomo, forse sulla ventina; l'incarnato era quasi grigio, i capelli bianco lattei tirati indietro da un lato e lasciati lunghi a coprire il viso dall'altro; non aveva sopracciglia e gli occhi erano rotondi, grandi, neri come perle; indossava un mantello rosso, che sembrava dello stesso colore del gioiello romboidale che si trovava sull'elsa della spada, chiuso con una catenella di metallo le cui maglie erano romboidali a loro volta, anche l'orecchino azzurro che pendeva dall'unico orecchio a punta visibile era un rombo. La creatura mosse un passo in avanti, Ganondorf si tese e strinse i pugni come per difendersi, cosa che la fece arretrare. « Non sono una minaccia per voi. » 

« Cosa ci fai qui? Come sei entrato? » 

« Sono sempre stato qui, Padrone. » Ghirahim, la creatura aveva detto di chiamarsi così, no?, piegò la testa con fare ossequioso, entrambe le mani al petto. « Sono lo spirito che dimora la vostra spada. È da cento anni che vi aspetto. » 

« La Matriarca non ha parlato di nessuno spirito. » 

« La vostra Matriarca non ha idea della mia esistenza, Padrone. » quegli occhi neri, privi di luce, privi di riflessi, sembravano quelli di una bambola. « Mi avete ordinato di mostrarmi solo a voi. » 

« Io… io non ti ho mai ordinato nulla. Non ti ho mai visto prima. » 

La creatura sorrise, aveva labbra bianche che svettavano nell'incarnato grigio. « Oh, sì, l'avete fatto, Padrone, l'avete fatto sin dal momento della mia creazione. E io ho risposto a voi, ubbidito a voi, servito voi. Solo a voi. » 

« Basta. » Ganondorf si portò una mano alla testa, le vespe erano tornate e gli sembravano più aggressive di prima. Aveva di nuovo la nausea e guardare… Ghirahim la alimentava. Gli sembrava che quella creatura fosse sovrapposta, l'immagine intangibile di un miraggio, guardarla troppo a lungo gli attorcigliava le interiora. « Sta’ zitto. Non voglio sentirti parlare adesso. Torna… torna da dove sei venuto. Sparisci. » 

« Come desiderate, Padrone. » la creatura si inchinò di nuovo, poi sparì, un bagliore rosso che tornò alla spada.

Ganondorf rimase immobile a lungo prima di trovare il coraggio di avvicinarsi spada. Era lì, non più avvolta dal drappo, con il gioiello rosso che emanava un debole lucore. Il ragazzo si lasciò cadere a terra, il pavimento era freddo contro la pelle accaldata, piacevole. Voleva che la sua vita fosse semplice, lo desiderò come lo desiderano i bambini, in silenzio mentre la notte finiva. 

 

« Ganondorf? » il ragazzo ebbe l'impressione di dover sollevare un macigno mentre apriva le palpebre. Evon lo scuoteva appena, aveva l'espressione preoccupata. Trovò la forza di sollevarsi, anche se sentiva un braccio insensibile e la schiena gli doleva. Aveva passato il resto della notte sul pavimento. Quantomeno non aveva avuto altri incubi. Lo sguardo saettò verso la spada, che era inerme, lì dove l'aveva lasciata. Alla luce del sole era… solo una spada, e gli faceva ancora provare un senso di sporcizia che lo faceva fremere. 

Evon fu così gentile da non chiedergli perché dormisse sul pavimento, perché le lenzuola fossero bagnate, perchè avesse quell’espressione sconvolta, anche se era chiaro che avrebbe voluto farlo. 

« Per favore… porta via quella spada. » 

Evon si volse a guardare l'arma, fu solo un'impressione o anche lei rabbrividì? « Perché? È la spada che ti ha affidato la Matriarca, no? Quella dei tuoi antenati. » 

« Non… » come poteva dirle senza sembrare pazzo che aveva visto una strana creatura saltare fuori dalla spada, che ci aveva parlato, e che, soprattutto, guardarla gli faceva venire la nausea? « Per favore Evon. Almeno… mettila dove non posso vederla. » 

Lei non disse nulla, si limitò ad ubbidire. Fu cauta nell’avvolgerla bene nel drappo di seta, in modo da non toccarla troppo, e solo quando fu lontana dalla sua vista Ganondorf poté tornare a respirare. 

« La ferita di Neturi è precisa. Sei stato bravo. » per un attimo il ragazzo non ebbe la minima idea di quello che stava dicendo; lo scontro con la maestra, la sua vittoria, gli sembravano entrambe cose lontanissime. Poi le sorrise, annuendo. « Ibara vuole vederti stamattina. » 

« Lo so. Forse sono io che non voglio vederla. » 

« Principe Ganondorf, non è da te brontolare così. » lui rispose sbuffando dal naso. Allora lei giocò la carta vincente. Da una piega del vestito tirò fuori una piccola busta con il sigillo di Hyrule a chiusura. « È arrivata questa stamattina. » lui avrebbe voluto strappargliela di mano, ma invece la raccolse con delicatezza, non era colpa di Evon se era di cattivo umore. Aveva dormito male, per metà della notte sul pavimento, aveva avuto gli incubi: la sua nutrice non doveva pagare lo scotto di tutto quello.

« Grazie. » 

Evon fece un inchino e si ritrasse per lasciarlo solo, in modo che potesse leggere la lettera di Zelda.

La carta aveva la solita, confortante consistenza, tiepida e crespa. Ganondorf ruppe il sigillo senza strappare la carta e annusò a fondo l'aroma di fiori che, come sempre, si sollevava dal biglietto. Zelda infilava i petali di fiori sempre diversi nelle buste, per mostrargli la varietà delle piante di Hyrule. A volte il ragazzo pensava che fosse un pensiero carino, altre, quando era arrabbiato e stanco, che fosse un insulto verso le Gerudo e la loro terra arida. Estrasse il biglietto dalla busta e cominciò a leggere, la scrittura della principessa era minuta ma comprensibile, doveva prendersi molto tempo per scrivergli quelle lettere, dava l'impressione di dedicargli un momento che fosse suo e solo suo, non era mai sintetica, mai svogliata, mai disordinata.

Caro Ganondorf, 

quando questa lettera ti raggiungerà, se ho fatto bene i miei calcoli, sarà arrivato il momento che aspettavamo da tre anni. Finalmente potrò mostrarti le bellezze di Hyrule, non solo la sua gente, ma anche il suo cibo, le sue feste! Insieme a questa lettera mio padre recapiterà un invito ufficiale alla Matriarca per recarsi alla corte di Hyrule, così arriverai in tempo per la festa di primavera e potrò mostrarti il posto dove mi piace andare quando sono stanca di tutto questo.

Non ti disturbare a rispondermi, il tuo arrivo con la delegazione Gerudo è l’unica risposta di cui ho bisogno. 

I petali dei fiori dentro la busta erano rosa, un colore così delicato ed effimero da sembrare quasi bianco, odoravano di fresco.

« Buone notizie da Hyrule? » Evon aveva fatto un mucchietto delle sue lenzuole e le aveva già fatte sparire; le linee severe del suo corpo, scolpite nella roccia come quelle di tutte le Gerudo, per la prima volta apparvero banali agli occhi di Ganondorf. Aveva visto tante Gerudo e, a parte qualche piccola variazione, erano tutte uguali. Gli stessi capelli rossi, le stesse labbra carnose, gli stessi nasi dritti, le stesse spalle massicce. Ora aveva l’occasione di vedere qualcosa di diverso, di nuovo, di fuggire da tutto quello che lo stava soffocando.

« La principessa mi ha invitato alla festa di primavera. » perché nasconderlo? Era la prima cosa che lo faceva sorridere da… non sapeva neanche quanto.

Evon lo abbracciò di slancio. Il contatto fu rapido, tanto che Ganondorf non poté allontanarla né ritrarsi. Lo faceva spesso quand’era un bambino, almeno finché si trovavano al sicuro nelle sue stanze, ma quando era cresciuto qualcosa di non detto tra di loro le aveva impedito di farlo. Sarebbe stato imbarazzante per entrambi. Però adesso quell’abbraccio aveva un sapore diverso; nonostante i loro corpi fossero stretti l’uno all’altro, nonostante le mani di lei andarono ad affondare tra i capelli di lui, era una cesura. Di solito i suoi abbraccio lo confortavano non lo facevano sentire così… perso. Ganondorf ebbe la consapevolezza che Evon non l’avrebbe più toccato, così come aveva capito che Neturi non l’avrebbe più guardato negli occhi. Si aggrappò a lei sentendo gli occhi gonfiarsi di lacrime che non sarebbe riuscito a versare. Voleva che gli rimanesse accanto, aveva già le parole sulle labbra da dirle per questo. Era stata la sua tutrice e balia, gli aveva insegnato a camminare e parlare, a ricucire le ferite. Non poteva abbandonarlo adesso, non era giusto. Il distacco gli fece male, ma aveva imparato da lei come si sopportava il dolore. 

« Preparo il tuo bagaglio per il viaggio. Adesso va’ a parlare con Ibara. »

Se lei aveva lacrime sulle guance lui non riuscì a vederle.

 

Ibara non lo aspettava nella sala del trono, ma all’archivio. Ganondorf si era tirato a lucido, sia per nascondere la sozzeria immonda che si sentiva addosso dalla notte prima, sia per apparire più adulto di quanto non si sentisse. All’ultimo momento, anche se non avrebbe voluto, decise di portare con sé la ributtante spada. Ghirahim, se esisteva davvero, non disse una parola. Non aveva un fodero, la sua lama zigrinata, fatta di avvallamenti in cui doveva essere un piacere vedere il sangue accumularsi, non sembrava adatta a niente che esistesse nelle fucine Gerudo. Ganondorf avrebbe dovuto farne fare uno su misura.

Tenere la spada vicino faceva tornare il brusio di voci nella sua mente, così come la nausea, però lo faceva anche sentire al sicuro. 

Mentre camminava verso le scale che portavano al piano interrato avere quella spada a fianco lo faceva sentire davvero un uomo. L'uomo, come aveva detto la Matriarca. L'uomo. I passi erano sicuri, la sua ombra massiccia e scura dietro di lui, come un mantello dagli oscuri barbigli. 

Le Gerudo non conoscevano metafore o similitudini, non avrebbero chiamato l'archivio “archivio” se fosse stato qualcosa di diverso da quello. Era un luogo dall'aria secca, scavato nella roccia al piano interrato del palazzo, con lunghi scaffali pieni di libri e pergamene. Ganondorf sapeva, grazie ai racconti della principessa, che c'era un posto del genere anche al castello di Hyrule: la biblioteca. La principessa, però, raccontava di lunghi tavoli e sedie, di leggii per la consultazione, di giornate passate sotto raggi di sole dorati a consultare manoscritti antichi. L'archivio della Cittadella non era un luogo di consultazione, era più uno stoccaggio di documenti utili alla preservazione della storia Gerudo. Poche mani toccavano quei documenti e pochi occhi li leggevano, la maggior parte delle storie erano trasmesse oralmente, come da tradizione.

Per l'occasione Ibara aveva fatto portare un tavolaccio e l'aveva fatto sistemare in uno slargo tra gli scaffali, tanto avulso dal contesto che Ganondorf si sentì nel posto sbagliato. Sul tavolo la Matriarca aveva sistemato alcuni rotoli dall'aria fragile, ma ad attirare l'attenzione era un libraccio dalla copertina di pelle nera, grosso abbastanza da sembrare impossibile da sollevare, inciso sul davanti c'era la stessa triforza capovolta che si trovava sulla spada di Ganondorf. Nessuno gliene aveva mai parlato, né l'aveva mai visto in giro.  

Erano soli nell'archivio, il Principe e la Matriarca, e il pensiero di poterla uccidere tra quegli spazi così stretti, poter spargere i suoi resti sui documenti e lasciare il sangue a seccare e scurire sulle pergamene lo attraversò come un brivido. L'elsa della spada, tra le dita, gli sembrò farsi più calda.

« Vieni. » gli disse Ibara. Avrebbe dovuto sentirla più vicina adesso che lei lo considerava adulto, invece la vedeva lontana e tremula, finita, l'ultimo mozzicone di candela che va spegnendosi. Le si avvicinò deglutendo bile, la nausea non gli lasciava tregua. « Hai avuto la missiva della Principessa Zelda? » lui annuì. Non lo sorprese che la Matriarca sapesse, d'altronde Zelda stessa aveva detto che avrebbero invitato in modo ufficiale la delegazione Gerudo. « Crescendo ti abbiamo raccontato il tuo futuro. Adesso è giusto che tu scopra il tuo passato. È giusto che tu sia preparato a combattere i nemici che verranno. Ti abbiamo cresciuto più duramente di chiunque altro perché fossi il guerriero di cui le Gerudo avevano bisogno, e oggi tu sei quel guerriero. » Ibara sollevò la copertina del grosso libro con la triforza rovesciata. 

Dentro la scrittura era fitta, sottile, gerudo antico misto a hylian in alcuni tratti, una lingua a lui sconosciuta in altre. Le pagine erano miniate, grandi caporali con spirali e ghirigori, rombi e triangoli. Nei, pochi, passaggi che Ganondorf riusciva a leggere coglieva sempre il suo nome, affiancato più spesso di quanto gli piacesse a quello della Principessa Zelda. Ibara sfogliò le pagine con fare quasi distratto finché non arrivò al punto che le interessava: l'illustrazione di una gigantesca creatura umanoide con la testa da cinghiale, circondata da una criniera di capelli rossi, che brandiva la spada nera che adesso era tra le sue mani contro la minuscola figurina di un ragazzo biondo con una spada dalla lama bianca. Conosceva quel ragazzo e conosceva quella spada, le vertigini gli presero lo stomaco e dovette inghiottire il vomito prima di rovinare per sempre un documento antico. « La tua storia è la storia del mondo, Ganondorf. Comincia così lontano nel tempo che non ci è possibile risalire alle sue origini. Quello che sappiamo è che segue sempre lo stesso schema: un uomo Gerudo nasce una volta ogni cento anni, un uomo destinato a ottenere un grande potere, a governare su tutta Hyrule. Un uomo che, ci raccontano le cronache, a volte perisce in battaglia. » Ibara voltò le pagine, le illustrazioni si susseguivano con minuscole variazioni sul tema. A volte il ragazzo era vestito di blu, a volte di verde, a volte aveva capelli cortissimi altre lunghi e biondi a scendere sulla schiena, e a volte il cinghiale umanoide diventava un’enorme bestia che caricava sulle quattro zampe, a volte un drago con le fauci spalancate; a volte i due avversari erano a cavallo, a volte si scontravano a terra. In ogni caso, quando non c'erano strane forme animaloidi coinvolte, i due guerrieri impugnavano le loro spade: una nera e rossa, l'altra bianca e azzurra. « Insieme all'uomo Gerudo, ogni cento anni nascono anche un Avversario e… una Principessa. I due combattono contro il Re dei Gerudo per impedirgli di ottenere il potere che gli spetta di diritto. » Ibara conosceva quel volume, l'aveva sfogliato tante e tante volte, perché sapeva alla perfezione dove andare per trovare le illustrazioni che le servivano. Davanti a Ganondorf, adesso, c'era la Principessa Zelda, le braccia aperte, gli occhi chiusi come in preghiera, la Triforza tracciata in oro proprio davanti a lei. « Non sappiamo perché succede, ma succede, sempre. Siete destinati a scontrarvi. » 

Ganondorf si appoggiò al tavolaccio, lo sentì scricchiolare sotto il suo peso. Ecco cosa Zelda sapeva che lui invece ignorava. Gli aveva mentito, per tutto quel tempo. Non era mai stata davvero sua amica. Pensò alle lettere, alle parole che si erano scambiati, alle confidenze, alle storielle di vita vissuta, all'ultimo invito che gli aveva fatto: potrò mostrarti il posto dove mi piace andare quando sono stanca di tutto questo. 

« Perché… perché volete che la sposi, allora. » riuscì a dire, anche se le labbra gli sembravano incollate e le parole dense. 

« Perché non è mai stato fatto prima. » Ganondorf sentì una fitta di dolore al fianco, la costola che gli avevano rotto a volte gli doleva quando respirava in fretta. Le stesse parole che aveva usato la Principessa Zelda. « Non vogliamo che loro vincano, che ti rubino il potere ancora una volta. » Loro. Certo, l’Avversario, il ragazzo con gli occhi di cielo, e la Principessa. « Devono pensare che un'alleanza sia possibile, che i nostri regni possono coesistere. » 

« E non è… possibile? » 

« Non si può scendere a patti bugiardi e traditori. » Ibara voltò la pagina. Il ragazzo aveva colpito il Re dei Gerudo alla schiena con la sua spada bianca, ma c'erano anche frecce d'oro conficcate ovunque nel suo corpo, scoccate da un arco di luce imbracciato dalla Principessa. « Hyrule ti appartiene, lo dice la Profezia. Ti è già appartenuta, centinaia di volte. Finché non sono arrivati loro a toglierti il trono che ti spetta di diritto. Questa volta non glielo permetteremo. » 

Ganondorf riusciva a malapena a respirare. L'aria secca dell'archivio gli bruciava gli occhi, le costole sembravano pulsare, la nausea era sempre più difficile da trattenere. Io sono io. Ma sulla carta vedeva se stesso, ricordava se stesso, l'aveva visto nel suo incubo la notte prima, e lo vedeva adesso tra le pagine di quel libro. È solo un libro, non significa niente. La spada aveva avuto un fremito quando l'aveva toccata, le dita si erano adattate alla perfezione sull'elsa.

« La Dea Hylia vuole che tu sieda sopra questo mondo, Ganondorf. » disse la Matriarca. Non le aveva mai sentito usare quel tono così pesante, maestoso e allo stesso tempo servile. « Altrimenti perché ti avrebbe donato una vita che torna dai morti? » 

« Io… non mi ricordo, non mi ricordo niente di tutto questo. » ma era una bugia. Ibara sfogliava le pagine e lui coglieva lampi di immagini che gli erano familiari, sentiva nel naso odori di battaglie che aveva combattuto, il sapore di vittorie che aveva gustato. Il terreno sotto i piedi gli sembrava mobile, gonfio come un ventre che si espande e dilata durante la gravidanza, pregno di liquido amniotico nero. 

« La tua anima ricorda. Tu sei antico, sei il Re, l'unico Re. »

No! Non lo sono, ho solo diciott'anni! Gli faceva male l'addome, la spalla, la schiena, le gambe, sentiva i fendenti di quella spada bianca. La spada che esorcizza il male. Brucia, brucia ancora. 

« Non posso. » 

« Puoi! La storia ci dice che l'hai già fatto! » 

« Io non ho fatto niente! »

« Guarda! Guarda le imprese che hai compiuto e che di nuovo compirai! » Sta’ zitta, sta’ zitta! La spada pulsava tra le sue mani, sembrava mormorare un canto di vittoria. « E dopo Hyrule, la Triforza sarà tua. » 

« BASTA! » 

Le braccia si mossero contro il suo volere, oppure proprio come lui desiderava. La spada si era fatta più leggera, assecondò il movimento, tagliò l'aria insieme alla testa di Ibara. Aveva penetrato con tanta facilità carne e ossa che persino il sangue si trovò sorpreso per un attimo, non abituato alla brusca interruzione di vene e arterie. Sospesa per un attimo in aria, la testa della Matriarca aveva ancora uno sguardo ammirato e solenne. Poi il rosso irruppe con violenza, la testa rotolò a terra, il corpo di Ibara si accasciò in avanti sul tavolo coprendo con un velo di rubino il libro e la sua storia. 

Ganondorf rimane immobile, il respiro fermo, solo il cuore e il rombo nella sua mente a renderlo diverso dalle statue delle Sette Paladine che popolavano il deserto, con le spade tese verso l'alto come dopo un fendente. 

« Ghirahim. » chiamò, sottovoce. Non sapeva neanche da dove venisse quel richiamo, ma era l'unica cosa che sentisse di poter fare adesso. Lo spirito della spada accorse: il bagliore rosso si manifestò in forma umana. Come la notte prima si inchinò davanti a lui. Aveva sul viso schizzi di sangue, così come se ne trovavano sulla lama rossa. Li raccolse con la lingua lunga il doppio del normale. I grossi occhi neri, che nonostante l'assenza di pupilla sembravano quelli di un rettile, rotolarono verso il tavolo e il corpo della Matriarca. Con un piede toccò la testa che gli stava vicino. Poi sollevò il viso e gli sorrise. Aveva tatuato un piccolo rombo nero sulla guancia sinistra, la notte prima non se n'era accorto.

« Mio signore, abbassate la spada. » 

Ganondorf ubbidì. Sul libro non c'erano immagini di Ghirahim, ma l’arma era sempre presente, quasi in ogni pagina. La creatura sapeva tutto.

« L'ho uccisa. »  

Lo spirito gli venne vicino, prese la mano libera dalla spada tra le sue. Anche attraverso i guanti bianchi che indossava sentì il gelido spessore della sua pelle grigia, come metallo in forma umana. « Avete mosso il primo passo verso la grandezza. Era un’inetta e una stupida. Da qui in poi vi guiderò io. » 

Ganondorf girò lo sguardo e chiuse gli occhi. La nausea si era placata, il ronzio era scomparso. Aver soddisfatto la compulsione aveva… finalmente placato le voci. 

L’interno di Ibara si svuotò lentamente sul tavolo, coprì ogni cosa come il drappo di seta rossa che aveva avvolto la spada, poi cominciò a gocciolare pian piano tra le fessure del tavolo, oltre i bordi. Ganondorf lasciò cadere la spada. Il clangore metallico risultò attutito in quell'aria secca. Arretrò finché non trovò uno scaffale contro la schiena, si volse, si sentiva in trappola. Ghirahim lo guardava con quegli enormi occhi vuoti, la testa piegata da un lato, le mani adesso dietro la schiena, in attesa di ordini. Che cosa ho fatto. Le gambe non ressero e lui crollò a terra. 

Fu Evon a trovarlo, quando il sangue si era coagulato abbastanza da non colare più, da rimanere ammassato in grumi. Gli occhi di Ibara, ancora aperti, erano coperti da un velo opaco, ma aveva ancora quell’espressione. La donna rimase sulla soglia a osservare lo scempio del corpo della Matriarca, la spada nera a terra, e Ganondorf rannicchiato contro uno scaffale, le mani tra i capelli. Per un momento pensò di voltarsi e andarsene, finché era ancora in tempo, all'improvviso terrorizzata che lui avrebbe potuto uccidere anche lei, chiamare le guardie, denunciare l'omicidio della Matriarca. Poi lui sollevò la testa, il volto era rigato di lacrime, le labbra contratte in un urlo mai rilasciato e le ricordò il bambino. Il bambino che, a quattro o cinque anni, era corso da lei piangendo con un topo delle sabbie tra le manine. Il topo era ferito, respirava velocissimo, gli occhi chiusi, il ventre schiacciato. Il bambino si era aggrappato a lei, l'aveva pregato di aiutarlo, e lei cosa gli aveva detto? “Uccidilo.” Non per pietà, non per porre fine alle sue sofferenze, ma perché non poteva permettergli di avere debolezze. Quella creatura gli era inferiore e doveva capirlo, in quel momento. “Non posso.” Aveva piagnucolato il bambino e lei gli aveva dato uno schiaffo che aveva lasciato cinque tracce rosse sul suo visino. “Se non puoi uccidere un topo come ucciderai i tuoi avversari in battaglia?” Ganondorf aveva pianto per tutto il tempo, prima in silenzio, poi a singhiozzi che gli mozzavano il fiato, mentre stringeva le manine intorno al topo e lo uccideva. Aveva squittito solo una volta, e lui non aveva esitato. Quando poi aveva gettato il suo corpicino senza vita sul terreno, Evon aveva poggiato una mano sulla testolina rossa di Ganondorf e gli aveva detto: “Bravo.” 

Evon era responsabile della morte della Matriarca tanto quanto lui. Tutte loro erano responsabili, per aver trasformato quel bambino nell'uomo che aveva davanti adesso. La sua espressione si fece rigida, le labbra strette in una linea severa che cercava di nascondere il tremore della rabbia. « Alzati. » gli disse, avvicinandosi a lui, passi controllati, due in avanti e un terzo indietro se avesse percepito il pericolo. « Alzati da lì, forza. » 

« Evon… » chiamò Ganondorf, come tante volte quand'era bambino aveva fatto. Perso, solo. 

« Alzati! » 

Lui sussultò ma ubbidì.

« Lasciate che vi tratti così, Padrone? » mormorò Ghirahim. Era evidente che lei non riusciva a vederlo, e in quel momento Ganondorf desiderava lo stesso. Una volta in piedi gli sembrò di essere troppo alto, troppo grosso, o forse era l’intero archivio intorno a lui a essere troppo piccolo, i soffitti bassi e i corridoi asfittici. 

« Non voglio sapere cos'è successo. Hai avuto le tue ragioni. Ibara non ti ha mai trattato con il rispetto che ti era dovuto e ha pagato le conseguenze delle sue azioni. » 

« Evon… » chiamò ancora il ragazzo. Cosa sperava, che continuare a pronunciare così il suo nome l'avrebbe resa in grado di resuscitare i morti? Che tutto si potesse cancellare con un gesto della mano? 

Lei, in risposta, si inchinò, il pugno destro a terra e poi sul petto. « Mio Patriarca. » 

« Ti prego, no… » 

La mano chiusa a pugno si strinse tanto che Evon temette di sentire le unghie perforare la pelle. Non poteva fare in altro modo. Se il popolo avesse sentito un'esitazione, da parte sua come dal ragazzo, niente gli avrebbe impedito di incarcerarlo e processarlo per l'omicidio della Matriarca. « Se me lo permettete rimarrò al vostro fianco. » 

« Ci sono già io al vostro fianco, Padrone. » lo spirito gli fluttuò vicino. Era alto ma non gli arrivava comunque oltre la spalla. « Ma questa donna potrà tornarvi utile se vi è fedele. Asciugatevi il viso, Padrone, un Re non dovrebbe piangere. »

Ganondorf si asciugò le lacrime, non perché glielo aveva detto Ghirahim, ma perché Evon non lo vedesse in quel modo una volta che si fosse alzata.

« In piedi, Evon. » lei non l'avrebbe considerato un debole, lei l'avrebbe capito, lei avrebbe condiviso il peso della verità dietro la morte di Ibara. « Le Gerudo devono conoscere il loro nuovo Re. » 

Evon si alzò. I documenti erano ormai tutti rovinati, illeggibili. Se solo qualcosa fosse stato risparmiato forse lei avrebbe potuto trovare il modo di salvare Ganondorf, ma alcune cose erano troppo fragili per essere salvate. 

 

Ganondorf non andò alla festa di primavera, né venne recapitata risposta al Re di Hyrule riguardo l’invito ufficiale della delegazione Gerudo. Dopo la morte di Ibara le cose da fare alla Cittadella erano aumentate a dismisura e lui non aveva avuto tempo di scrivere una missiva di spiegazione. Prima di tutto doveva alla sua gente stabilità e sicurezza, non poteva di certo partire per un viaggio verso Hyrule proprio adesso. Questo si disse anche quando gli vennero recapitate le successive lettere della Principessa, tutte sigillate con lo stemma della famiglia reale, tutte con la stessa, confortante carta di pergamena e di certo tutte contenenti petali di fiori. Ganondorf non ne lesse neanche una. 

Grazie al sostegno di Evon l’omicidio di Ibara sembrò quasi giusto, qualcosa che lei stessa aveva scatenato mettendosi contro il legittimo Re delle Gerudo, l’uomo della Profezia pronto a ergersi su di loro per guidarle alla grandezza. C’era anche chi non la pensava così, le più giovani, alcune delle guerriere con cui Ganondorf era cresciuto ad esempio, ma erano sacche di malcontento destinate a sparire: nulla potevano contro il Prescelto. 

All’inizio dell’autunno la Cittadella apparteneva al nuovo Re. Ganondorf camminava per il palazzo indisturbato, le teste si chinavano al suo passaggio, il suono dei suoi passi e il continuo rimbalzare della spada contro il suo fianco, ora assicurata con una cinghia di cuoio al cinturone, erano le uniche cose che si potevano sentire, le Gerudo trattenevano persino il respiro. L’unico a sembrare del tutto immune alla sua magnificenza ma allo stesso tempo ubriaco di essa era Ghirahim. Lo spirito della spada, invisibile agli occhi di tutti, abitava le sue stanze e riempiva i suoi silenzi. Conosceva tutto, vedeva tutto, e ubbidiva a tutto. Grazie a lui Ganondorf aveva potuto ricostruire la storia che aveva perso, quella che Ibara gli aveva taciuto per troppo tempo. Quando alzava gli occhi al cielo, Ganondorf non vedeva più l’azzurro terso del suo deserto, la sabbia che si muoveva a sciami come minuscoli insetti, le sagome degli uccelli predatori che cacciavano, no, vedeva il tradimento della Dea Hylia. 

Da una delle finestre del palazzo, Ganondorf riusciva a vedere la piazza centrale della Cittadella. Solo poco tempo prima avrebbe potuto uscire e camminare per le strade come uno di loro, un Principe, certo, un voy, ma non più esotico dei mercanti Goron o Hylian arrivavano a fiotti nelle prime, fresche ore del giorno. Adesso il suo incedere si era fatto pesante, portava con sé un sentore di sangue e morte che si trascinava dietro da eoni, il corpo e la mente sentivano il peso di ciò che era stato e ciò che avrebbe dovuto essere. Non era ancora quell’uomo, il Ganondorf che popolava le miniature del libro che gli aveva mostrato Ibara, ma la sua gente ne sentiva l’odore, come le prede avvertono la presenza del predatore.

« A cosa pensate, Padrone? » Ghirahim aveva la cattiva abitudine di manifestarsi quando pensava di essere solo, anche se così gli evitava l’imbarazzo di doverlo ignorare o di dovergli rispondere sottovoce, per non dare l’impressione di parlare con un fantasma. Non sobbalzava neanche più quando compariva, si era abituato alla sua forma, al rosso acceso del suo mantello, al suo corpo dalla pelle grigia fasciato nell’abito bianco aderente come un guanto. Ghirahim aveva un senso dell’estetica tutto suo, e Ganondorf non ne sapeva abbastanza di spiriti per sapere se fosse una cosa comune o meno, e lui non parlava volentieri degli altri spiriti, anzi, dell’altro spirito, quello che abitava la spada dalla lama bianca destinata all’Eroe. Erano simili, lui e Ganondorf, la differenza stava solo nel modo in cui la storia avrebbe parlato di loro. 

« Pensavo che la Cittadella è bellissima. » gli disse, senza menzogna. In quella mattina tiepida la piazza si stava animando di mercanti. C’era sempre un viavai continuo, un flusso di beni che portava rigoglio alla Cittadella quanto ad Hyrule, ma quel giorno gli sembrava più brillante che mai. Ghirahim si sporse. A volte sembrava senza peso, il corpo tanto leggero e intangibile da farlo fluttuare, si appoggiò al davanzale della finestra con entrambe le mani, il busto in fuori oltre il suo baricentro, poi si voltò a guardarlo. 

« È vostra, Padrone. » 

« Non è per questo che è bellissima. » 

Lo spirito lo guardò, l’espressione corrucciata anche senza bisogno di sopracciglia, bastavano quei due grandi occhi profondi come pozzi. 

« Tu puoi… essere reale? » 

« Sono reale, Padrone. » 

Ganondorf alzò gli occhi al cielo. « Intendo dire… tangibile, come una persona. Puoi esserlo? » 

« Posso essere tutto quello che desiderate, Padrone. » 

« Puoi anche smettere di essere così servile? » a giudicare dalla sua espressione, l’ironia non era qualcosa di conosciuto agli spiriti. « Allora, puoi? Essere come una persona. » 

« Se lo facessi mi vedrebbero tutti, Padrone. » 

« E se io volessi che ti vedessero? Come mio servitore e ambasciatore? » 

La sensazione di malessere che Ganondorf aveva provato vicino alla spada non era sparito, si presentava solo in altri momenti, come quando le labbra bianche di Ghirahim si stiravano in un sorriso. Lo spirito poggiò i piedi a terra, la sabbia sotto i suoi piedi scricchiolò, persino i capelli, prima immobili, adesso apparivano più soffici, inclini a spostarsi con il movimento del suo capo. 

Ganondorf allungò una mano per toccarlo. Anche se Ghirahim l’aveva fatto, innumerevoli volte, lui non ci aveva mai provato. Poggiò la mano sul suo viso, la pelle era fredda, liscia, come la lama della spada, ma allo stesso tempo vibrava di calore. Lo spirito assecondò quel tocco come un animaletto, strusciandosi quasi contro le sue dita, un sospiro appena trattenuto. Poi Ganondorf si ritrasse. Quello era il primo contatto che aveva avuto da quando aveva ucciso Ibara, neanche Evon lo toccava più. Per fortuna nel corridoio non c’era nessuno, Ghirahim appariva comunque come un voy e non voleva dover giustificare la sua presenza o peggio, imporla. 

« Voglio andare al Castello di Hyrule. » disse, lo sguardo di nuovo sulla piazza della Cittadella. Amava sentir ridere le bambine mentre si rincorrevano e giocavano, ancora lontane dal momento in cui gli avrebbero insegnato l’arte del combattimento e la legge del più forte. A lui avevano negato anche quei momenti. « La Principessa conosce le tue sembianze? »

« Una di loro sì, Padrone. » “una di loro”, Ganondorf sentì prudere tutto il corpo. Quante ne aveva uccise e quante avevano ucciso lui? 

« Rimarrai nascosto allora, come hai fatto finora. » 

Lo spirito si inchinò. Il cambiamento fu impercettibile, ma Ganondorf che adesso lo stava guardando riuscì comunque a coglierlo. La Principessa l’aveva illuso con la sua amicizia, lui l’avrebbe illusa con la sua ignoranza.

 
   
 
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