IX.
ARRENDERSI AL PRINCIPE
AZZURRO.
Nel corso dei miei trent’anni di vita ho affrontato
diverse crisi esistenziali e alcune di queste, com’è normale, mi hanno davvero
segnata nel profondo. Hanno forgiato inevitabilmente il mio carattere,
contribuendo alla mia crescita personale. Ad esempio ricordo ancora la prima
volta che mi è venuto il ciclo, quando ho creduto di morire dissanguata e ho
passato un intero pomeriggio a piangere con disperazione rannicchiata sul mio
letto. Ricordo la prima volta che ho preso un’insufficienza a scuola e volevo sparire
a causa della vergogna, ma alla fine mi sono rassegnata al fatto di non essere
perfetta. Ricordo quando ho dovuto accettare che la mia prima cotta non era
contraccambiata, perché a lui piaceva un’altra ed io ero soltanto io. Oppure la
prima volta che ho considerato il mio peso un problema e le parole di mia madre
mi hanno ferita, perché invece di trovare una consolazione ho avuto solo la
conferma di non essere normale. Almeno secondo i suoi assurdi parametri e i
suoi standard inarrivabili. Ricordo la prima volta che ho pensato di mollare il
lavoro dopo una terribile sfuriata di Mr Micols, quando mi ero demoralizzata
talmente tanto da credere di essere una nullità.
Ogni singola esperienza che ho metabolizzato e
fatto mia, incidendola sotto la mia pelle, mi ha indubbiamente insegnato a non
credere più nelle favole e nella bontà del mondo. Mi ha permesso di adattarmi
alla realtà, di aprire gli occhi ed essere meno ingenua. Ho anche capito che in
fondo le delusioni, i rimpianti e le sofferenze servono. Ho compreso che la
vita non è tutta rose e fiori. Non posso negare che sotto certi punti di vista,
proprio per merito di certe situazioni, sono maturata. Sono cambiata, diventando
più forte e cinica. Più disillusa, sulla difensiva, meno fiduciosa.
Eppure, in tutte le occasioni in cui mi sono
trovata in difficoltà o mi sono sentita persa, alla fine mi sono sempre rivolta
ad una sola persona: mio padre. La mia unica certezza, il mio punto fermo e il
mio più grande sostenitore. Quando mi sentivo sconvolta, triste, incapace, sbagliata… lui c’era. Era lì, proprio al mio fianco. A
dirmi le parole giuste, a consolarmi, ad abbracciarmi, a rimboccarmi le
coperte, a farmi sentire perfetta, a sostenere le mie scelte, ad asciugare le
mie lacrime. Non mi ha mai lasciata da sola e perfino oggi, nonostante abbia
trent’anni e sia più che consapevole delle brutture nascoste in giro per il
mondo, lui c’è ancora. È la mia ombra, il mio angelo custode e il mio migliore
amico. Se non è problemi di autostima, se sono così determinata, se ho portato
a termine gran parte dei miei obiettivi lo devo soltanto a mio padre.
Io ed Henry abbiamo un rapporto particolare, basato
sull’assoluta sincerità e l’incondizionata accettazione. Lui mi dice sempre la
verità, mi permette di sbagliare e non giudica le mie decisioni. Mai. È sempre
disposto ad ascoltarmi, a darmi consigli e a condividere le mie idee. Prova
spesso a farmi ragionare, senza dirmi tuttavia cosa è giusto o cosa è sbagliato
per lui, e non insiste più del necessario. Non mi soffoca, non tappa le mie ali
e mi lascia sempre libera. Libera di pensare a modo mio, libera di essere me
stessa. Con i miei pregi e difetti. Soltanto Christine.
Mio padre interviene quando è davvero necessario,
quando la situazione sfugge del tutto al mio controllo oppure quando glielo
chiedo in maniera esplicita. Perché quando io lo chiamo, lui accorre. Dovunque
sia. Qualsiasi cosa stia facendo. Lascia tutto e viene. In fondo sono la sua
priorità. Per questo cerca sempre di proteggermi, di riparare come può ai miei
errori e non farmi mancare niente.
Ha stretto la mia piccola mano tra le sue quando
ero una bambinetta capricciosa, ha allentato leggermente la presa quando mi
sono trasformata in un’adolescente introversa e l’ha lasciata del tutto quando
sono cresciuta. Quando sono diventata un’adulta indipendente, autonoma e
matura. Ma lui non mi ha mai abbandonata del tutto. Magari non tiene più la mia
mano, ma so che è costantemente dietro di me. Per darmi una spinta quando mi
blocco, per sorreggermi quando inciampo, per incoraggiarmi a superare i miei ostacoli,
per sussurrarmi parole dolci, per condividere con un semplice sorriso e
un’affettuosa pacca sulla spalla le mie vittorie.
Perciò questa mattina, che sono terribilmente
confusa e mi sento davvero depressa a causa del mio ultimo incontro con
Richard, non posso fare a meno di andare a trovarlo. Voglio uno dei suoi
abbracci stritolanti, voglio confessargli le mie paure e voglio strafogarmi di
cioccolata insieme a lui.
La mia casa si trova a Forest Hill, un quartiere prevalentemente residenziale situato
nella parte centrale del distretto più grande di New York: il Queens. La
villetta dei miei genitori, quella in cui ho trascorso la mia infanzia, si
trova nella zona meridionale. È una casa modesta, distribuita su due piani, con
un grazioso giardino interno. I pannelli esterni sono dipinti con una
particolare sfumatura di beige, tendente al verdastro, mentre le rifiniture
delle enormi finestre rettangolari sono bianche. La porta è in legno di noce,
mentre il tetto è composto da tegole grigio scure. L’ingresso è delimitato da
un arco semicircolare e si raggiunge tramite un gradino di pietra, accanto al
quale è collocata la cassetta della posta e un’asta di metallo su cui svolazza
la patriottica bandiera americana.
All’interno la villa conta due camere da letto,
un’ampia cucina, un salotto e due bagni. Il primo piano ospita ovviamente la
cucina – il regno di mia madre – e il salone, arredato in sostanza con un
enorme divano marrone e una vecchia TV. Un angolo è occupato da una piccola
libreria, che racchiude essenzialmente volumi di calcolo ed economia, mentre un
intero lato della stanza è riservato ad un tavolo che può ospitare circa una
decina di persone. Quello che si usa per le grandi occasioni, tipo al Ringraziamento
e a Natale. Quando c’è tutta la famiglia, compresi parenti quasi sconosciuti e
zii di gradi inesistenti. Il soggiorno è il rifugio di mio padre. Lui passa
interi pomeriggi seduto sul sofà, al punto che ormai la parte sinistra ha preso
la sua forma, leggendo manuali di statistica e guardando la televisione.
Rigorosamente il baseball, mentre la domenica è dedicata al football. Henry è
il classico americano pigro e sedentario, che ama bere birra mentre si gode lo
sport. Un vero stereotipo, nonché un personaggio irrinunciabile delle sitcom
statunitensi. Il grassottello simpatico e autoironico, che con il suo sorriso
gentile e le sue guanciotte paffute conquista tutti i telespettatori. Mio padre
tuttavia non solo consuma un numero spropositato di lattine di birra e altre
bibite gassate contenenti dosi illegali di zucchero, ma mangia anche cibo
tutt’altro che salutare: alette di pollo piccanti, costine di maiale in salsa
barbecue, pizza ai peperoni, hamburger con doppio formaggio, un’intera
confezione di bacon fedelmente caramellato e servito con almeno due uova
strapazzate, vaschette da un chilo di gelato alla vaniglia, bagels alla crema e
ciambelle al cioccolato. Sì, è da lui che ho ereditato il mio amore per i
donuts. Ma questa è un’altra storia. Ad
ogni modo, prima che iniziassero i suoi problemi di cuore, era mia madre a
preparargli da mangiare. Faceva marinare la carne, riforniva settimanalmente la
dispensa, sfornava dozzine di torte e dava libero sfogo al suo estro culinario.
Poi però, arrivati ad un certo punto, le coronarie di papà non hanno più retto
il suo folle ritmo e hanno deciso di mollarlo. Adesso quindi Henry deve
accontentarsi di insalate scondite, verdure bollite, petti di pollo alla
piastra, zuppette, minestroni e dolcetti dietetici. È stato il dottore a
prescrivergli questa dieta, a proibirgli categoricamente la birra e a
convertirlo alla semplice acqua. Ogni tanto fa comunque qualche strappo alla
regola, soprattutto per colpa mia. Il problema è che non sopporto vedere Henry
depresso per colpa della rigida alimentazione che gli è stata imposta e quindi,
quando vado a trovarlo, gli porto sempre una ciambella. Quella al cioccolato,
farcita con caramello salato e decorata con granella di pancetta dolce. Una
bomba calorica, che però lo fa felice. Certo, mio padre prova spesso ad
approfittarsi della situazione e cerca puntualmente di intenerirmi. Ma io non
cedo tanto di frequente ai suoi capricci, nonostante i finti occhi lucidi e i
bronci infantili che mi propina ogni volta che ci incontriamo con il solo scopo
di ammorbidirmi. Tuttavia, anche se ho ereditato molto da lui e sotto alcuni
punti di vista siamo praticamente identici, devo ammettere che la mia
determinazione è un regalo di mia madre. In effetti da Samantha ho preso la
testardaggine e la fermezza, ma devo ammettere che sono aspetti del suo
carattere che in realtà ho sempre odiato. Almeno quando li usa contro di me,
oppure quando li porta all’esasperazione. E mia madre è una maestra nell’essere
melodrammatica.
In ogni caso Forest Hill è stato un bel quartiere
in cui crescere. Qui ci sono molti negozi, diverse scuole, una grande
biblioteca, bar e ristoranti. A livello architettonico contiene una miscela
particolarmente variegata di alloggi: appartamenti lussuosi, ville
unifamiliari, grattacieli, casette a schiera. Ma la cosa davvero incredibile è
che questa parte del Queens è famosa soprattutto per aver dato i natali a Peter
Parker, ovvero il mitico Spiderman.
Noi ci siamo trasferiti in questa zona quando ho
compiuto sette anni. Dopo anni di sacrifici i miei genitori hanno raccolto un
piccolo gruzzoletto, che ci ha permesso di aprire un mutuo ed acquistare la
nostra attuale casa. Mia madre si è innamorata subito di Forest Hill, con i
suoi circoli esclusivi e la sua vivacità. Appena ci siamo trasferiti,
nonostante le nostre limitazioni economiche, si è iscritta al club di tennis e
ha fatto di tutto per integrarsi con le altre signore del quartiere. Le signore
benestanti, ovviamente, che possedevano case più grandi delle nostre – munite
come minimo di piscine, patii, giardini all’inglese, doppi saloni – e
indossavano tute di puro cashmere color pastello. Samantha allora ha iniziato
ad acconciarsi i capelli come loro, usando lo stile vaporoso che andava tanto
di moda negli anni Ottanta e che oggi rappresenta l’incubo di ogni
parrucchiere. Ha cominciato a bere tè nel pomeriggio, a giocare a tennis con
completini dal gusto discutibile, a partecipare a brunch domenicali anche senza
la sua famiglia e a discutere con le sue pseudo-amiche di argomenti
assolutamente frivoli: chi ha sposato chi, quanto è imbarazzante che Mrs
Vattelappesca indossi lo stesso gioiello dell’ultima amante del marito, perché
è preferibile lo scollo a barca invece che quello tradizionale, com’è
ingrassata la moglie del vicino, eccetera eccetera. Forse è stato proprio in
quel periodo che mia madre ha cominciato a preoccuparsi in maniera eccessiva del
parere altrui e a lasciarsi condizionare così tanto dai pettegolezzi,
permettendo ad un’idea utopistica di perfezione di ossessionarla.
Aveva realizzato il suo sogno di vivere in un
quartiere benestante, di possedere una casa ben più che modesta, di essere
finalmente ammessa a quei circoli che prima le erano stati preclusi e di
potersi vantare con orgoglio della sua nuova posizione in società. È triste
pensare che mia madre avesse ambizioni del genere, che le interessassero
soltanto il prestigio e la possibilità di far parte di un’élite di
privilegiati. Di snob. Di ricconi egocentrici. Così com’è altrettanto
deprimente sapere che oggi la sua più grande aspirazione è quella di vedermi
sposata con un uomo facoltoso, farmi indossare un vestito da sposa due taglie
in meno rispetto alla mia e rilegarmi al ruolo di mogliettina devota. Sfornare
un paio di marmocchi, lasciare il mio lavoro e dedicarmi totalmente alla
famiglia. In realtà non ci sarebbe niente di sbagliato in tutto questo, ma
semplicemente non è la vita che fa per me. Io adoro il mio lavoro, amo
follemente l’ebbrezza che mi pervade quando i miei clienti mi permettono di
gestire i loro soldi. Milioni e milioni
di dollari. Vivo per questa adrenalina. Sono fiera dunque di sapere che dai
miei consigli dipendono gli investimenti di imprenditori famosi e stimati,
disposti a pagare cifre assurde soltanto per una mia consulenza.
È umiliante quindi essere consapevole che per
Samantha rappresento soltanto una donna che deve limitarsi ad occuparsi della
casa e venerare il marito, donandogli necessariamente qualche figlio e
aspettandolo a casa con la cena in caldo.
Per Henry invece posso essere quello che voglio:
una maniaca del lavoro, una casalinga incapace, un’amante dei numeri, una
cicciottella ingorda. Lui evita di pormi dei limiti e non mi impone standard
assurdi, ma preferisce lasciarmi libera e permettermi di infrangere tutti gli
schemi. È per questo che con mio padre sono sempre me stessa, sono sempre
sincera. È per questo che quando ho qualche dubbio o qualche problema vado da
lui, come oggi.
È domenica mattina, sono passati appena un paio di
giorni dal galà a cui ho partecipato con Richard, ed io ho trascorso tutto
questo tempo interrogandomi sulle mie prossime azioni. Senza arrivare a nulla.
Non so cosa fare, come comportarmi e come reagire. Perché in fondo non capisco
quello che provo, a parte confusione e paura. Le mie emozioni contrastanti mi
hanno impedito di dormire e perfino di mangiare, quindi è da più di quarantotto
ore che non mangio una ciambella. Non l’ho nemmeno portata a mio padre e
sicuramente lui mi diserederà per questo, oppure terrà il broncio per tutta la
durata del nostro incontro. Ma… non mi interessa. Ora ho solo bisogno di
parlargli, rimettere di nuovo ordine nella mia quotidianità ed andare avanti.
Appena arrivo a casa perciò mi fiondo
immediatamente in soggiorno e, come mi aspettavo, vedo Henry seduto al suo
solito posto sul divano. Indossa un pantalone blu e una camicia a quadri che si
tende sul suo stomaco abbondante, mentre ai piedi calza un paio di ciabatte a
forma di orso. Quelle che gli ho regalato il Natale precedente. I suoi capelli
castani sono tagliati corti, mentre la barba brizzolata gli copre la parte
inferiore del viso. I suoi occhi azzurri sono puntanti verso la televisione, in
modo da non perdersi nemmeno un minuto della partita, e ha le mani occupate: la
destra tiene il telecomando, la sinistra invece stringe un grande bicchiere di
vetro contenente un qualche centrifugato di frutta. Forse papaya, arancia, mela
e carota. Almeno penso, basandomi sul suo sgargiante colore arancione e sui
possibili ingredienti selezionati accuratamente da mia madre.
«Ciao, papà» lo saluto, palesando la mia presenza e
prendendo poi posto accanto a lui.
Mi siedo quindi sul sofà con uno slancio energico,
rannicchiandomi vicino alla sua figura e assorbendone il calore. Mi sembra di
essere appena tornata bambina, quando trascorrevo i pomeriggi guardando il
football con Henry e mangiando i dolci preparati da Samantha. Adoravo i suoi
biscotti al burro di arachidi, adoravo essere avvolta dalle braccia di mio
padre e sentirlo parlare di statistiche sui giocatori o sulle squadre.
«Ciao, cupcake» mi saluta il diretto interessato,
dandomi un bacio sulla fronte. «Dov’è la mia ciambella? Tua madre l’ha
intercettata?» mi domanda successivamente, notando l’assenza del suo donut.
Samantha in effetti, da quando mio padre è finito
in ospedale con un principio di infarto, sta molto attenta al cibo. Non
permette ad Henry di compromettere la sua dieta, dunque conta le calorie di
ogni singolo alimento ed è diventata una sorta di generale dell’esercito.
Organizza ispezioni a sorpresa, stabilisce strategie di attacco contro
eventuali tentazioni e si preoccupa di far rispettare le regole. Nessuno
sgarri, nessuna violazioni del nuovo regime alimentare e nessuno spuntino di
nascosto. Ultimamente sta anche imponendo al mio povero papà di eseguire alcuni
esercizi di ginnastica, che comprendono in sostanza stretching e a seguire
lunghe camminate all’aperto.
«Mamma non mi ha sequestrato niente» lo rassicuro,
distruggendo subito dopo le sue speranze. «In realtà non te l’ho proprio
portata, scusa» ammetto allora con tono esitante, aspettando di vedere la
delusione inasprire i lineamenti del suo volto e sostituire il suo dolce
sorriso. Devo ammettere comunque che se anche gli avessi portato il dolce non
sarei mai riuscita questa volta a consegnarglielo, perché quando sono entrata
in casa mia madre mi ha praticamente perquisita dalla testa ai piedi. Non sarei
mai riuscita a nasconderle la ciambella, nemmeno se me la fossi infilata nel
reggiseno.
«Oh» sussurra lui, rattristandosi. In seguito
studia attentamente il mio viso: nota le mie occhiaie, il mio pallore, il mio
sguardo afflitto. Si accorge che non sono pimpante e allegra come sempre, ma
un’ombra oscura la mia serenità. «Stai indossando una tuta» aggiunge alla fine,
analizzando addirittura il mio abbigliamento. Allora si posiziona meglio sul
divano, girandosi dalla mia parte e prestandomi tutta la sua attenzione. Perché
Henry sa che quando vado a trovarlo mi vesto sempre in modo accurato, in modo
da superare l’esame di Samantha. Metto pantaloni eleganti o in alternative
gonne a campana lunghe fino al ginocchio, per nascondere le mie cosce
abbondanti e far credere a mia madre di essere dimagrita. Inoltre porto sempre
camicette di seta e scarpe con il tacco, così da slanciare la mia figura e
sembrare più alta. Mi trucco, mi sistemo i capelli e scelgo accessori
luccicanti per distrarre Sam da possibili imperfezioni. Sì, praticamente mi
preparo come se dovessi andare in ufficio. Però oggi indosso una semplice tuta
grigia, quella che di solito prediligo nei miei momenti liberi, e la mia pelle
è libera dal fondotinta. Le mie ciocche castane sono legate in una comoda coda,
ma qualche ciuffo sfugge dall’acconciatura e appare tremendamente crespo.
Credo che a mia madre sia quasi venuto un colpo
quando mi ha vista conciata in questo stato. Di sicuro ha perso momentaneamente
l’uso della parola, perché non ha fatto alcun commento e si limitata a sgranare
gli occhi. Forse apparivo tanto abbattuta da farle pena, per questo è rimasta
in silenzio e non ha infierito su di me.
«Sì» mi limito a replicare, sospirando.
«Cosa c’è che non va?» mi chiede quindi mio padre,
posando il suo succo e perfino il telecomando sul tavolino. Però non ho il
tempo di prendere coraggio e confessargli la verità, visto che veniamo
interrotti dall’entrata di Samantha.
«Il problema, mio caro, è che le manca un uomo»
interviene quest’ultima, prendendo posto sulla poltrona libera di fronte a noi.
Mia madre è una donna magra, alta e snella. Ha i
capelli castani, gli occhi nocciola incorniciati da una montatura tonda e la
bocca sottile. Nel complesso i suoi lineamenti la rendono delicata, graziosa ed
elegante. Tutto il mio opposto. Dove lei è spigolosa, io sono morbida. Dove lei
è piatta, io sono abbondantemente in carne. Non ci assomigliamo affatto:
Samantha è raffinata, aggraziata e composta. Io sono disordinata, insicura e
impacciata. Essere paragonata a mia mamma mi mette in imbarazzo e mi fa sentire
a disagio, perché per me è sempre stata irraggiungibile. Questa mattina indossa
morbidi pantaloni marroni, un maglioncino color panna e ballerine nere. Le
ciocche corte le scivolano ai lati del viso, le labbra sono truccate con un
rossetto neutro e sulle guance ha applicato una spolverata di blush.
È sobria, sofisticata e signorile. Come sempre.
«Questa è la tua risposta a tutto» borbotto,
incrociando le braccia sotto al seno e sbuffando. Le nostre discussioni in
effetti si concludono puntualmente con la proposta di mia mamma di trovarmi un
compagno, perché secondo il suo modesto parere avere un uomo al mio fianco
sarebbe il giusto rimedio ad ogni mia problematica.
«Sai che ho ragione, Christine» continua mia madre,
ignorando il mio malumore. «A quest’ora dovresti già essere sposata ed avere
almeno un bambino, come hanno fatto le tue amiche del liceo» afferma,
rinfacciandomi per l’ennesima volta le mie mancanze. Almeno a suo dire.
Sì, le mie amiche del liceo. Parliamone: Clarissa
Jhonson e Annabeth Taylor hanno reso gli anni della mia adolescenza un vero
inferno, perché erano delle bulle. Le classiche cheerleader popolari,
bellissime e adorate da tutti. Ma in fondo si divertivano a prendermi in giro
per il mio peso, per la mia voglia di studiare e per la mia inesperienza con i
ragazzi. Dicevano che ero goffa, socialmente imbranata e troppo sfigata per
poter anche solo pensare di avvicinarmi a loro. All’inizio fingevano di essere mie
amiche semplicemente per ottenere appunti e ripetizioni gratuite, ma io
purtroppo l’ho capito troppo tardi. Perché in fondo volevo credere nella loro
bontà, volevo averle vicine per non essere emarginata e sentirmi parte di un
gruppo. Anche se loro non mi rivolgevano nemmeno un cenno di saluto quando mi
incrociavano nei corridoi della scuola, anche se loro intanto mi sparlavano
alle spalle ed erano le prime a ridere di me.
Clarissa dopo il liceo si è iscritta all’università
di Boston, dove ha capito di non essere portata per lo studio e dove ha
incontrato l’uomo che poi è diventato suo marito: Fabian Myers, un aspirante
avvocato penalista. Oggi Clara è mamma a tempo pieno di tre pestiferi bambini,
nel suo corpo scorre più botulino che sangue e recentemente si trova sulla
bocca di tutti a causa della relazione del marito con la sua segretaria
storica. Che cliché.
Annabeth invece ha conseguito la laurea in Scienza
della Comunicazione, lavora nel reparto delle risorse umane di una grande
azienda specializzata nell’ambito tecnologico e si è sposata con uno degli
ingegneri informatici che si occupa della programmazione di alcuni software. Un
cervellone con grandi occhiali rotondi, il fisico scheletrico e il fascino di
un’ameba. Paul è indubbiamente un uomo molto premuroso e intelligente, ma di
certo non si può definire bello e nemmeno attraente. Insomma ha tante qualità,
ma il suo aspetto lascia a desiderare. E per una donna come Beth, che dava
importanza soprattutto all’apparenza, dev’essere stato un vero smacco
innamorarsi di un tipo come lui. Sarà stato il karma. Adesso i due sono
diventati genitori di una piccola bambina di nome Winifred Lisanne, come sua
nonna paterna, e vivono in un modesto appartamento nella periferia meridionale
di Brooklyn.
«Non tutte le donne per sentirsi realizzate hanno
bisogno necessariamente di un marito e figli a carico, mamma» la correggo in
maniera irritata, pensando alle mie conquiste e a quanto lei le consideri
inutili.
«La famiglia è molto di più che un progetto da
portare a termine per sentirsi soddisfatte» mi rimprovera Samantha con
severità, disapprovando le mie parole.
«Allora perché, se la pensi davvero in questo modo,
continui a spingermi tra le braccia di uomini sconosciuti e assolutamente
inadatti a me?» la provoco, facendole notare che ormai da anni il suo unico
obiettivo è quello di trovarmi qualcuno da sposare.
«Perché non voglio che resti sola» confessa,
mostrandomi la sua preoccupazione. «Ma a quanto pare tu sei troppo occupata per
trovarti un compagno e troppo distratta per tenertene uno quando sei in grado
di accalappiarlo» prosegue, rimarcando la mia scarsa collaborazione. Pensare
che per un momento mi sono quasi commossa, illudendomi che lei tenesse davvero
al mio benessere e al mio futuro. Un futuro pieno di incognite e rischi, ma che
insieme ad un’altra persona potrebbe comunque fare meno paura. «Se continui
così finirai per diventare una zitella acida, sovrappeso e maniaca del lavoro»
conclude, insultandomi e inducendomi ad alzare gli occhi al cielo.
«Secondo i tuoi calcoli mi restano al massimo una
decina di anni, allora» ironizzo con apparente leggerezza, provando a non dare
peso al suo parere e alla sua accurata descrizione.
«Non scherzare, Christine» mi ammonisce lei
nuovamente, rabbrividendo con orrore alla prospettiva di vedermi ridotta
davvero come il suo peggiore incubo.
«Amore, perché non vai a prepararmi una buona tazza
di tè?» suggerisce Henry, cercando di interrompere la nostra discussione. «Sai,
in questo momento avrei proprio voglia di qualcosa da bere» continua, provando
a convincerla a lasciarci soli.
«Ok» concorda mia madre, sospirando e alzandosi
dalla poltrona. «Ma solo una tazza» lo avverte con immediatezza, lanciandomi
un’ultima occhiata di disapprovazione prima di abbandonare il salotto.
«Grazie, tesoro» risponde lui con dolcezza,
rivolgendole anche un sorriso.
«Come fai a sopportarla?» chiedo a mio padre appena
Samantha scompare in cucina, comportandomi come una bambina capricciosa.
«Tua madre vuole soltanto proteggerti» la difende,
fingendo di non aver sentito la mia domanda o ignorandola intenzionalmente.
«Certo, è innegabile che usa metodi particolari e alquanto discutibili. Capisco
quindi che la maggior parte delle volte possa darti fastidio» ammette,
scuotendo le spalle con rassegnazione. «Però ti garantisco che tutto ciò che
fa, compresa la sua assurda selezione di potenziali mariti da presentarti, è
per il tuo bene».
«Lo spero» borbotto, lasciandomi convincere.
«Ma adesso, invece di lamentarti ancora della mamma
e sfogare la tua frustrazione su di me, potresti spiegarmi come mai sembri
tanto sconvolta» afferma con apparente calma, cambiando argomento e tornando al
punto principale. Tuttavia percepisco la sua apprensione e smetto di esitare,
iniziando a parlare e giocherellando nel frattempo con l’orlo della mia
maglietta.
«Ricordi quando ti ho detto che nell’ultimo periodo
sto lavorando con un importante imprenditore di Manhattan? Quell’egocentrico
miliardario che mi tortura da mesi con le sue assurde proposte di
investimento?» inizio con titubanza, mantenendomi sul vago. «Beh, si tratta di
Richard Reyes» confesso, svelandogli l’identità del mio cliente.
«Oh» si limita a replicare Henry, mostrandomi la
sua sorpresa. «È fantastico, piccola» dichiara subito dopo con palese orgoglio,
complimentandosi per la mia conquista professionale. Lui è consapevole
dell’impero che ha costruito Richard e capisce alla perfezione cosa può
significare per me rappresentare un uomo del genere, averlo come assistito e
gestire i suoi soldi. Probabilmente mio padre è perfino a conoscenza del suo
patrimonio netto, del numero di aziende in suo possesso e. D’altronde Henry è
un economista e personaggi dal calibro di Mr Reyes hanno sempre attirato il suo
interesse, portandolo ad indagare sul loro reddito pro capite e sulle loro
mosse finanziarie.
«Sì» sussurro, fissando con ostinazione il
pavimento.
«Tu però non ne sembri tanto entusiasta» nota,
aggrottando le sopracciglia. «Per caso è successo qualcosa?» mi domanda,
irrigidendosi e immaginandosi probabilmente gli scenari peggiori.
«Richard ha detto che…» comincio con esitazione,
pesando all’assurdità di tutta questa faccenda. «Sai, lui ha detto che gli
piaccio!» esclamo, palesando la mia incredulità.
«E perché lo trovi strano?» mi chiede di nuovo mio
padre, non capendo sinceramente l’origine della mia frustrazione. «Sei una
donna eccezionale, per quale motivo non dovresti piacergli?» continua,
considerando la situazione più semplice del normale.
«Perché io sono la sua promoter finanziaria» gli
faccio notare, usando un tono ovvio. «Sono una sua dipendente» ribadisco,
spiegandogli il rapporto che attualmente mi lega a Mr Reyes.
«Non capisco ancora quale sia il problema» ammette
di nuovo Henry, apparendo fin troppo ingenuo per i miei gusti. «Da quando gli
interessi lavorativi tendono ad ostacolare una relazione?» mi interpella,
sembrano genuinamente confuso. Sì, è vero, le storie d’amore tra colleghi sono
all’ordine del giorno. Alcuni pur di stare insieme infrangono senza alcuna
esitazione regole e norme aziendali, andando contro perfino a codici etici e
morali. Però questa situazione è diversa. Non posso mettere a rischio la mia
carriera e tutte le mie conquiste per stare con Richard, anche perché non so
nemmeno cosa desidera veramente. Vuole una relazione? Vuole una semplice
avventura? Vuole un’amicizia con benefici?
Lui ha solo detto che gli piaccio, ma non ha
parlato di progetti a lungo termine o di ipotetici piani futuri da condividere.
È anche vero che io non gliene ho dato nemmeno il tempo, considerato che sono
scappata via subito dopo la sua dichiarazione. Però Mr Reyes ha commesso un
errore di valutazione quando mi ha rivelato con così tanta tranquillità i suoi
sentimenti e ha preteso che potessi accettarli senza fare nessuna domanda.
Senza avere dubbi, paure e tentennamenti. Insomma, si aspettava forse che una volta
concluso il suo discorso mi sarei buttata tra le sue braccia per esprimergli la
mia immensa gratitudine? Si aspettava che cadessi ai suoi piedi proclamandogli
la mia assoluta adorazione e la mia più completa fiducia?
Richard mi ha indubbiamente sconvolta e mi ha
destabilizzata con la sua confessione, ma non tanto da sopraffare la mia
razionalità e da non farmi pensare alle possibili conseguenze che potrebbero
derivare da tutta questa storia. Poi – ammettiamo la verità – la sua audacia e
la sua intraprendenza saranno anche da premiare, però non è stato minimamente
romantico. Mi ha scaraventato addosso le sue sensazioni senza alcuna dolcezza,
anzi mi è sembrato quasi stesse concludendo una transazione di affari. Ha messo
le carte sul tavolo e fatto la sua proposta, aspettando la replica della
controparte. Io invece bramo ardentemente il romanticismo, voglio sentirmi
desiderata e percepire il mio corpo pervaso dalla passione. Come accade nei
romanzi. Non posso accontentarmi di niente di meno, soprattutto da Mr Reyes.
Lui mi invia le giuste vibrazioni, i giusti brividi. Al suo fianco mi sento una
donna desiderabile, forse per la prima volta nella mia vita.
«In realtà sarebbe meglio non mischiare il dovere
con il piacere» affermo, esponendo la mia filosofia.
«Sì, tesoro, ma pensarla in questo modo non
risolverà le cose» commenta mio padre, suggerendomi di ignorare certe frasi
fatte e certi preconcetti. «Adesso devi lasciarti guidare solo dalle tue
emozioni».
«Sembra facile, ma in realtà è tutto il contrario»
mormoro, considerando la confusione che ho in testa. Come se non bastasse anche
il mio cuore è in preda al caos più totale, infatti non mi sta per nulla
aiutando a prendere una decisione e anzi mi disturba con il suo martellare
impazzito nel mio petto.
«Ma almeno quest’uomo lo trovi attraente?» mi
chiede Henry, indagando su un mio possibile coinvolgimento a livello fisico.
«Richard è assolutamente meraviglioso» ammetto,
pensando alle mille sfumature di biondo che caratterizzano i suoi capelli e ai
suoi magnetici occhi grigi. «Inoltre è carismatico, affascinante e determinato»
proseguo, elencando gli aspetti del suo carattere che preferisco. «La mamma lo
adorerebbe» mi rendo conto, evitando perfino di nominare il suo patrimonio.
Senza dubbio non posso evitare di considerare la sua ricchezza, in fin dei
conti fa parte del pacchetto, ma non desidero soffermarmici troppo sopra. Non è
il punto fondamentale, infatti la mia scelta non dipenderà dal suo conto in
banca. Per quanto sia consistente.
«Allora cosa ti frena?» domanda papà, tentando di
capire l’origine della mia indecisione. «È forse stupido?» continua, facendomi
ridere.
«Stiamo parlando di Richard Reyes» gli faccio
notare, usando un tono divertito.
«E quindi?» asserisce Henry, chiarendosi in seguito
il suo ragionamento. «Sai quante persone famose e potenti sono dei perfetti
idioti?».
«Sì, ma non è il suo caso» lo rassicuro,
trattenendo il mio divertimento e descrivendogli poi una parte della sua
personalità. «Lui è intelligente, perspicace e anche più furbo del dovuto».
«Sembra un compagno potenzialmente perfetto»
commenta mio padre, parlando con eccessiva enfasi e con una punta di sarcasmo.
«Dov’è la fregatura?» aggiunge successivamente, inducendomi a sospirare.
«Vorrei tanto saperlo anch’io» dichiaro infatti,
considerando Richard troppo dotato. È un uomo brillante, bello, ricco e
simpatico. Rappresenta in pratica il sogno di ogni donna e non sembra non avere
punti deboli, ma ci deve essere per forza un qualcosa di negativo in lui. Mi
rifiuto di credere che sia davvero così fantastico. «Papà, ma tu credi davvero
che io possa piacere a Mr Reyes?» chiedo alla fine al mio personale confidente,
mostrandogli tutta la mia insicurezza.
In fin dei conti quello che mi blocca in tutta
questa storia non sono le possibili conseguenze a cui andrei incontro o gli
indiscussi risvolti lavorativi da affrontare, ma la mia mancanza di fiducia. La
mia insicurezza. Perché a volte, quando dubito delle mie capacità e attraverso
i miei periodi di depressione esistenziale, mi sembra ancora di essere quella
cicciona sfigata del liceo che elemosinava attenzioni da amiche false. Quella
stagista imbranata che passava ore chiusa in bagno a piangere. Quella donna
poco interessante che ha fatto scappare tutti i suoi fidanzati.
«Perché mi fai questa domanda?» mi interroga mio
padre, aggrottando le sopracciglia con confusione.
«Beh, lui è il mitico Richard Reyes» chiarisco in
un sussurro, dando voce ai miei ragionamenti. «Invece io… insomma, guardami!»
esclamo dopo un attimo di esitazione, indicando la mia figura.
«Io ti vedo, Chris» afferma Henry, prendendomi le
mani tra le sue. «Vedo un’attraente donna in carriera, che nonostante finga di
essere una dura alla fine è rimasta la ragazza buona e gentile di sempre»
inizia con dolcezza, riempiendomi di complimenti. «Vedo una donna determinata,
che è arrivata dov’è adesso con le sue sole forze» continua, palesando la sua
fierezza. «E, da qualche parte sotto l’armatura che ti sei costruita con tanta fatica,
vedo ancora la mia bambina. Timida e insicura. Quella stessa bambina a cui
darei il mondo intero se soltanto potessi, semplicemente per regalarle un
sorriso» aggiunge, facendomi commuovere. «Ma la questione è: tu cosa vedi?».
Il quesito di mio padre mi perseguita per tutto il
resto della giornata, portandomi a rinchiudermi nel mio appartamento dopo aver
bevuto il tè rigorosamente senza zucchero preparato da mia madre, e quando vado
a letto non ho ancora trovato una risposta che mi soddisfa appieno. Io vedo
tante cose positive in me, molti aspetti che mi piacciono. Però, come una
medaglia con più facce, non posso ignorare anche i miei difetti. Quando penso
al mio percorso, a chi sono veramente, vedo i miei sacrifici e le mie vittorie.
I miei errori, le mie conquiste, le occasioni perse, i sogni che devo ancora
realizzare.
Tuttavia nell’insieme… ecco, nell’insieme vedo una Christine che in
fondo deve accettarsi davvero. Una Christine che finge di essere forte. Una
Christine che in alcune occasioni ha ancora paura. Paura di sbagliare, di
essere fraintesa, di non essere abbastanza. Vedo una Christine che non ha
superato davvero il suo passato, che in determinate occasioni si sente
inevitabilmente a disagio e che vuole dare l’impressione di non avere più
complessi.
In sostanza vedo una Christine che amo e che odio.
Affrontare la mattina di lunedì dunque non è
affatto facile, perché non ho affatto risolto i miei dubbi e anzi sono
addirittura più confusa di prima. Certo, l’inizio di una nuova settimana
solitamente rappresenta a prescindere un incubo senza doverci aggiungere anche
ulteriori complicazioni. Ma oggi, come se già non bastassero i miei pensieri a
rovinare l’inizio di questa giornata, le cose sembrano davvero andare per il
peggio. Il peggio assoluto. Infatti per l’ennesima volta sono in ritardo a
lavoro, ho finito la mia scorta di ciambelle al cioccolato – quelle gelosamente
custodite nel secondo armadietto della mia cucina – e un diluvio universale si
è abbattuto sulla città.
Manhattan sotto la pioggia, in base a quello che si
vede nei film, può apparire alquanto poetica. Ad ogni angolo della strada ci si
aspetta di vedere due innamorati rincorrersi per poi scambiarsi un bacio
mozzafiato in mezza alla folla, oppure da un momento all’altro ci si illude di
poter intravedere tra la gente ammassata sul marciapiedi il mitico Ted Mosby
mentre si ripara con il suo sgargiante ombrello giallo e continua la sua pazza
ricerca di una moglie. Ma quando il diluvio si abbatte sulla megalopoli posso
assicurarvi che in realtà non c’è niente di romantico o sensazionale, al
contrario si scatena il caos: si formano code chilometriche, gli autisti
perdono la pazienza anche per i motivi più futili, centinaia di clacson
cominciano a suonare simultaneamente fino a provocare un esaurimento collettivo
e la metropolitana viene presa d’assalto da migliaia di cittadini stressati per
colpa del trambusto generale.
Eppure non è stata la metro affollata, la strada
impraticabile, la pioggia insistente, il mio ritardo o la mancanza dei miei
donuts a farmi considerare questo giorno un completo disastro. No, la mia
mattinata ha toccato il fondo quando ho fatto il mio ingresso in ufficio.
Quando ho notato che Mr Micols non mi stava aspettando per rimproverarmi con la
sua solita soddisfazione, quando la mia segretaria mi ha rivolto un sorriso a
trentadue denti nonostante tutto presagisse che questo sarebbe stato un pessimo
inizio di settimana e quando alla fine ho varcato le porte del mio studio
trovandomi Richard seduto dietro la mia scrivania.
Ecco, è stato in quel preciso istante che ho capito
di stare andando incontro ad una vera catastrofe. Perché io non ero ancora
pronta ad affrontarlo, ma come sempre Mr Reyes non ha tenuto conto dei miei
bisogni. Lui era lì, seduto sulla mia sedia, perfettamente a suo agio e
tranquillo.
«Buongiorno, Christine».
Resto imbambolata sull’uscio per un paio di minuti,
studiando ancora la sua figura, e mi decido ad entrare nel mio ufficio nel
momento in cui mi accorgo di aver attirato l’attenzione dei miei colleghi. Non
voglio che questa discussione si trasformi in un succulento pettegolezzo tra
stagiste, perciò mi chiudo velocemente la porta alle spalle e torno a
concentrarmi sul mio ospite con rinnovato sbigottimento. Cerco comunque di
riprendere almeno un minimo di controllo e allora comincio a togliermi il
giubbotto con apparente calma, sistemandolo al suo posto, mentre appoggio la
mia borsa accanto all’attaccapanni. Subito dopo prendo un respiro profondo e mi
volto verso Richard, preparandomi a gestire questa spinosa situazione. Una
volta per tutte.
«Buongiorno, Mr Reyes» rispondo intanto con
malcelato nervosismo, mantenendo tuttavia un tono professionale. «Come mai si
trova qui a quest’ora?» gli domando con finto interesse, valutando per un
secondo tutte le mie possibili vie di fuga.
Sì, voglio concludere in fretta questa faccenda. Ma
la verità è che sono una vigliacca e non ho nemmeno il coraggio di guardarlo
negli occhi, inoltre il cuore mi batte talmente forte che credo possa uscirmi
dal petto e non riesco a capire i motivi di questa mia eccessiva agitazione.
«Perché dobbiamo parlare» replica lui, alzandosi
dalla mia poltrona. Si aggiusta la giacca e successivamente fa un passo in
avanti, girando intorno alla scrivania per poi raggiungermi. «E questo è
l’unico posto in cui possiamo farlo senza essere interrotti» aggiunge,
fissandomi con intensità.
«Potremmo andare a pranzo insieme più tardi» gli
suggerisco, provando a rimandare il nostro confronto. «Dovrei essere libera,
posso chiedere ad Holga di prenotare un tavolo a…».
«Stai cercando di nuovo di scappare, Christine?» mi
interrompe Richard, apparendo lievemente infastidito e ricordandomi la mia
reazione di quella fatidica sera. «L’ultima volta è stato davvero divertente
assistere alla tua fuga» afferma con ironia, incrociando le braccia sul petto.
«Mi dispiace» sussurro, arrossendo a causa
dell’imbarazzo.
«Non pensavo che l’idea di uscire insieme potesse
risultarti così spaventosa» ammette, ribadendo le sue intenzioni con assoluta
tranquillità.
«Mi hai colta di sorpresa» lo correggo,
giustificando il mio comportamento.
«Per quale motivo?» si interessa lui, aggrottando
le sopracciglia in preda alla confusione.
«Perché la tua proposta mi è sembrata assurda» gli
confesso, guardandolo finalmente negli occhi per trasmettergli tutti i miei
dubbi. «Tanto per iniziare sono la tua promoter finanziaria» comincio,
elencandogli le ragioni che mi hanno fatto dubitare della sua serietà. «Un
nostro coinvolgimento emotivo potrebbe risultare alquanto… inopportuno,
considerato che sei un mio cliente e tecnicamente parte del mio stipendio
dipende anche dalla nostra collaborazione» dichiaro, facendo valere la mia
parte logica e razionale. «Perciò, se andassimo davvero a cena insieme,
finiremmo per infrangere almeno una dozzina di regole ed io tengo molto alla
politica aziendale».
«È una scusa, Christine?» mi domanda Richard con
palese scetticismo, condividendo probabilmente una parte del mio ragionamento
ma disapprovandone la conclusione.
«Sì» mormoro dopo un attimo di esitazione,
rendendomi conto di non essere del tutto sincera. Né con lui, né con me stessa.
«Perché hai paura?» mi chiede quindi il mio
interlocutore, capendo da cosa deriva la mia reticenza a lasciarmi andare. Ad
accettare la realtà.
«Perché tu sei Richard Reyes» asserisco, pensando
al discorso avuto con mio padre.
«Ed è un problema?» si informa, continuando la sua
indagine e invitandomi a confessargli ogni mia singola incertezza. «Non pensavo
detestassi così tanto il mio nome».
«Non fare lo stupido, sai benissimo a cosa mi
riferisco» lo rimprovero, sbuffando. «Tu sei un uomo ricco e importante, mentre
io sono solo una donna grassottella che ci sa fare con i numeri» proseguo,
descrivendogli in sintesi le nostre evidenti differenze. «Ma va bene così»
affermo, facendogli capire che ormai ho accettato la situazione e non mi
vergogno di me stessa.
«Invece è proprio per questo che mi piaci» dichiara
Richard, stupendomi. «Perché sei rotondetta, intelligente e testarda».
«Questi non sono complimenti» gli facci notare,
mentre le mie guance diventano scarlatte. «Stai forse provando a farmi
arrabbiare?» continuo, imponendomi di non emozionarmi per le sue parole.
«No, Chris» mi risponde con decisione, tornando
subito dopo tremendamente serio. «Sei tu che mi fai arrabbiare, perché mi stai
rifiutando soltanto per il mio conto in banca e per il mio successo» mi
provoca, non lasciandomi comunque il tempo di ribattere. «Questi dovrebbero
essere i motivi per cui mi vuoi, non quelli per i quali mi tieni lontano».
«Io non ti vorrò mai per i soldi o per la fama» lo
informo, oltraggiandomi.
«Allora per quale motivo mi rifiuti?» mi chiede,
provando a strapparmi una replica sensata o almeno una ragione comprensibile
per il mio rifiuto categorico. «Mi trovi brutto?» si interessa allora,
indicando il suo aspetto.
«No» borbotto, pensando che è anche fin troppo
attraente.
«Sono antipatico?» continua, passando al suo
carattere.
«A volte» ammetto, facendolo meravigliare.
«Dovevi rispondere no» mi corregge infatti,
fingendosi offeso. Io trattengo una risata, ma l’intensità del suo sguardo mi
fa di nuovo ammutolire. «Forza, Christine, accetta» mormora successivamente
Richard, facendo un altro passo avanti e sfiorandomi una guancia con le dita.
Mi tocca con delicatezza, spaventandosi forse di potermi spaventare e
infrangere la mia immobilità. «So che lo desideri» dichiara con sicurezza,
percependo forse le vibrazioni del mio corpo. «Io sono qui, davanti a te. Devi
solo allungare una mano e prendermi».
Già, devo solo
allungare una mano.
Allora, mentre mi lascio stregare dal suo tocco e
mi perdo nei suoi occhi grigi, cedo. Mi lascio catturare dal Principe Azzurro,
diventando l’ennesima donzella incapace di opporsi al suo destino. Ma alla fine
ho capito cosa accade a tutte le fanciulle smielate dei romanzetti e delle
favole. Ho capito perché si arrendono, perché non si ribellano e vanno incontro
al loro futuro incerto con un sorriso sereno stampato sul volto. La verità è
che iniziano ad innamorarsi e tutti i dubbi, le paure, le incertezze… semplicemente
scompaiono.