Storie originali > Drammatico
Segui la storia  |       
Autore: Flying_lotus95    25/12/2023    1 recensioni
Torino, 1944.
L'omicidio di un ufficiale tedesco, un uomo in fuga, una donna che cercherà di proteggerlo. Amore e odio, segreti e bugie, guerra e pace, sia dentro che fuori.
[𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 2023 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵]
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Prompt: Tradimento
TW: violenza fisica di un uomo su una donna. Non si tratta di stupro, però potrebbe disturbare ugualmente. Pensieri riguardo al suicidio.

 
 

Capitolo 8
Le conseguenze di un (tradimento)




Torino, 1944

Le pareti della caserma sembrarono talmente opprimenti che ad Agnese vorticò leggermente la testa mentre avanzava nel corridoio a passo svelto, con suo zio alla sua sinistra. 
Erano stati convocati durante la mattinata, Schlütz aveva richiesto la presenza di Ismaele nel suo ufficio. Agnese aveva voluto accompagnarlo, nonostante le proteste di Blanca e dello stesso Ismaele, poco propenso a farla entrare in quel posto lugubre. Ma Agnese era stata irremovibile: avrebbe accompagnato suo zio, e nessuno glielo avrebbe impedito. Avrebbero dovuto legarla alla testiera del letto in caso estremo.
Ismaele non lo aveva ammesso ad alta voce, ma avere qualcuno vicino in quel frangente, anche se si trattava di sua nipote, lo faceva sentire più tranquillo e con l'animo in pace.
Il giovane soldato che li stava precedendo, Gustaf, li invitò ad entrare nello studio del capitano delle SS. 
La stanza era ancora vuota, e per tutti e tre si rivelò un sollievo.
Agnese si scrutò intorno, guardinga, temendo che da un momento all'altro potessero essere vittime di un agguato imminente. 
Sussultò, infatti, non appena il giovane Gustaf proferì parola.
«Maxime geht's gut, ja?» mormorò il giovane soldato, guardandosi attorno, non appena avvertiva rumori molesti o passi in avvicinamento.
«Ja, er geht's gut» confermò Agnese, anche lei a bassa voce. 
Gustaf sembrò piacevolmente sorpreso di esserne stato a conoscenza.
«Es tut mir leid» continuò il giovane soldato, a testa bassa.
«Ich wollte ihm nicht verraten».
Non avrei voluto tradirlo.
«Ich hatte keine Wahl».
Agnese annuì, dispiaciuta. Sapeva perfettamente che non aveva potuto avere scelta. Gabriel a suo tempo lo aveva messo con le spalle al muro, se non avesse ubbidito agli ordini avrebbe pagato con la sua stessa vita. E per quanto l'indottrinamento era stato forte, molte di quelle giovani reclute continuavano a tenersi stretta la vita come fosse stato il bene più prezioso del mondo. E se questo significava vendere anche i propri amici, quel modo di agire non poteva essere giudicato o sminuito. Non in quel periodo.
«Ah! Che gradita sorpresa!».
Il capitano Schlütz irruppe nella stanza a passo di marcia, senza bussare o avvertire della propria presenza imminente.
Fissò per un attimo Gustaf con sguardo glaciale, e dopo essere scattato nel saluto militare, uscì dalla stanza con una certa fretta, non prima di essersi richiuso la porta alle spalle. 
Schlütz fece segno ad Agnese e suo zio di accomodarsi sulle sedie accanto alla scrivania, cosa che eseguirono senza replicare.
Agnese aveva la nausea da quando si era svegliata, quel posto le metteva agitazione. 
«Va tutto bene?» sussurrò Ismaele, stringendole una mano, preoccupato. Agnese si limitò ad annuire, portandosi una mano tremante alla fronte. Tutta quell'agitazione accumulata le si stava riversando nel fisico, e l'ultima cosa che avrebbe desiderato era di cadere malata proprio nel momento peggiore della sua esistenza. 
«Gradisce un bicchiere d'acqua, Fraulein Martini? La vedo piuttosto pallida…» sottolineò Schlütz, fintamente preoccupato.
«Sto bene, capitano» sentenziò Agnese, con la sua solita faccia tosta «e starei ancora meglio se ci spiegaste il motivo della vostra convocazione» parlò, senza peli sulla lingua.
«Devo dare man forte a mia nipote, sa com'è, ho una tenuta da mandare avanti…».
Ismaele decise di appoggiare Agnese, preoccupato di vederla tanto stravolta, nonostante cercasse di nasconderlo alla bene e meglio.
Schlütz li accontentò subito, senza girare troppo intorno alla questione.
«Bene, signori, in parte già sapete il motivo della vostra convocazione» il capitano incrociò le dita delle mani sullo stomaco, distendendosi sullo schienale della poltroncina. 
«Smettiamola con i trucchetti e i sotterfugi, e consegnatemi quel sovversivo».
Ismaele stralunò gli occhi, sbuffando impercettibilmente dal naso.
«Non vi basta aver messo a soqquadro il casale, la chiesa sulla collina, il paese… continuate a pensare che lo nascondiamo in casa nostra, è incredibile! Il Führer sarebbe orgoglioso della vostra perseveranza!».
Schlütz scattò in avanti nel sentire quell'alta carica pronunciata con un certo sprezzo da parte di quella mocciosa irriverente.
Le puntò un dito contro, minaccioso.
«Ringraziate di essere cittadina del Terzo Reich, altrimenti vi avrei già arrestata per molto meno» sibilò Schlütz, con occhi spiritati. 
Mentre Agnese continuava a sfidarlo, a muso duro, Ismaele si mise dritto sulla sedia, in allerta.
«La perdoni capitano, mia nipote ha la lingua lunga» intervenne l'uomo, fulminandola con lo sguardo. Avrebbe preferito di gran lunga vederla come un attimo prima, provata e bianca in volto. Agnese aveva una capacità di ripresa alquanto fenomenale.
«Ad ogni modo» tornò sui suoi passi Schlütz «sapete cosa vi aspetta se verrete denunciati per alto tradimento?». Un sorriso inquietante prese vita sul volto del tedesco. 
«La pena capitale». Pausa d'effetto.
«Ho già chiuso un occhio riguardo alla situazione di Alfredo e compagni» e Schlütz fissò minaccioso Ismaele, tentando di trarlo in trappola, incutendogli terrore.
«Poi ne ho chiuso un altro, per intercessione del tenente von Kusserl» e stavolta fissò Agnese con insistenza, sorridendole mellifluo.
Sebbene la nausea montasse, Agnese non gli diede soddisfazione, sfidandolo senza timore.
«Come potete notare voi stessi, non ho un terzo occhio da chiudere» e rise della sua stessa battuta, che non arrivò a coinvolgere Ismaele ed Agnese, che lo guardarono esterrefatti.
«Ragion per cui» e il tono cambiò, tornando minaccioso «sarebbe opportuno che collaboraste, e mi consegnaste Brünner in tempi celeri».
Agnese si morse il labbro inferiore nervosamente, le mani stringevano i manici della sedia convulsamente. 
«Per l'ennesima volta, capitano, noi non sappiamo dove si sia cacciato quel ragazzo, e nemmeno c'interessa».
Ismaele ringhiò quasi alla volta del tedesco, che non sembrò preoccuparsi minimamente della sua reazione.
«Molto bene» si limitò a rispondere il capitano Schlütz, alzandosi dalla scrivania, poggiando le mani guantate su di essa.
«Voi davvero pensate di avere a che fare con degli idioti?». Schlütz si era pericolosamente avvicinato ad Ismaele, lo sguardo di ghiaccio lo inchiodò alla sedia, accigliato.
Ismaele fece per replicare, ma Agnese lo precedette.
«Volete che vi ripeta le parole di mio zio in tedesco, capitano? Magari capite meglio ciò che vi ha detto!»
«Basta con questa insolenza!» gridò l'uomo, battendo il pugno sulla scrivania, che nell'urto rovesciò le penne sulla superficie, alcune caddero al suolo, tentennando come pioggerella leggera. 
«Forse vi sta sfuggendo il punto della situazione» Schlütz aveva gli occhi fuori dalle orbite. Sia Ismaele che Agnese lo fissarono allibiti. 
«State dando asilo ad un omicida, all'uomo che ha ucciso il suo stesso superiore, un traditore. Meriterebbe la fucilazione seduta stante, e voi invece di consegnarlo, lo proteggete senza alcuna remora!».
Agnese si alzò di scatto a quelle accuse, guadagnandosi l'occhiata sorpresa di suo zio e del capitano delle SS.
«Non avete alcun diritto di trattarci come degli emeriti imbecilli! La mia famiglia non ha nulla a che vedere con quest'uomo, non proteggiamo nessun assassino, traditore o chi per esso!» anche Agnese alzò la voce, il petto che le si alzava ed abbassava da sotto al cappotto color crema in feltro. Tremava vistosamente, e Ismaele temette il peggio.
«Vi ricordo che ce lo avete messo voi in casa nostra, assieme ad altri soldati, e nessuno si è potuto opporre… pensate davvero che lo avremmo protetto fino a tal punto?».
Schlütz fissò per qualche secondo la ragazza, e decise di giocarsi un'altra carta, la più subdola e meschina.
«Sa cosa stavo pensando, Fraulein Martini?» e un sorrisetto sghembo gli apparve in volto, nefasto.
«No, cosa?». Agnese senti il cuore in gola, senza apparente motivo.
«Che dietro l'omicidio di von Kusserl potrebbe nascondersi un movente… passionale».
Anche Ismaele si alzò dalla sedia, con meno veemenza rispetto alla nipote, fronteggiando l'ufficiale.
«Il giovane Brünner si sarà lasciato ammaliare dalle grazie di una donna per compiere un gesto così avventato…».
Agnese scosse il capo, al limite della sopportazione.
«Lei davvero non ha un briciolo di-»
«Si era stufata di essere l'amante di von Kusserl? Avrete avuto voglia di cambiare aria, o semplicemente di testare un letto diverso-»
«Ma come osate?!» Ismaele dovette contenersi, per non afferrare il bavero di quel tedesco così manchevole di rispetto e di umanità.
«State forse accusando mia nipote di essere la mandante dell'omicidio? Non vi permetto di avanzare tali insinuazioni a cuor leggero!». La stretta al braccio che Agnese gli diede lo aiutò a contenersi, Ismaele era già sul punto di arrivare alle mani.
«Agnese è una ragazza per bene, non una donnaccia di strada! Non vi permetto di offenderla in questi termini!».
Schlütz proruppe in una risata fragorosa, talmente forte da disorientare zio e nipote in un solo secondo. 
«Suvvia, signor Chiodi… qui lo sapevano tutti che sua nipote era l'amante ufficiale del tenente!». Agnese lo guardò con occhi infuocati, la nausea che montava in gola con insistenza. 
«Mi fate pena, herr Chiodi. Eravate l'unico a non sapere di avere in casa una puttana!».
Ismaele fece per replicare, ma il gesto che compì Agnese sbalordì sia lui che Schlütz, realizzando con fatica ciò che stava per succedere.
Agnese aveva afferrato un tagliacarte, e lo aveva puntato dritto alla gola del tedesco, che con la lama tanto vicina, perse molta della sua baldanza. Nell'impeto, gli cadde perfino il cappello dalla testa.
«Ve la dico io una cosa, capitano» Agnese era sconvolta, ma la voce le uscì così profonda, che ai due uomini presenti sembrò quasi di assistere ad una scena irreale, onirica.
«Gabriel von Kusserl lo avrei ammazzato volentieri io stessa con le mie mani, senza intermediari tra i piedi! Il coraggio non mi sarebbe mancato, il movente neppure!». Dovette lottare con i conati di vomito che le stavano scuotendo lo stomaco. I ricordi di tutto quello che era successo in quegli anni, dal suo rincontro con Gabriel fino al suo assassinio, gli passarono davanti agli occhi velocemente, ferendola inesorabilmente.
«Non avrei avuto bisogno di sedurre nessuno, né tantomeno un tizio a caso come Brünner… mi ha soltanto preceduta, ma vi assicuro, capitano Schlütz, che il vostro tenente non sarebbe campato ancora a lungo, perché prima o poi, lo avrei ucciso io con le mie stesse mani, e non sarei scappata! Mi sarei consegnata a voi con il sorriso sulle labbra!». 
Buttò a terra il tagliacarte, col fiatone. Quelle ultime parole, Agnese le aveva urlate con profonda indignazione, mortificata dalle parole che, purtroppo, non avrebbe potuto smentire. Perché era tutto terribilmente vero.
«Credo sia il momento di andare… Capitano, le diamo la nostra parola» ed Ismaele fissò Agnese con eloquenza, sperando che gli reggesse il gioco «che se dovessimo avere notizie del ragazzo, ve lo faremo sapere».
Ancora impietrito dall'aggressione di Agnese, Schlütz deglutì attonito, portandosi una mano sul collo, nel punto esatto dove la lama aveva toccato la pelle.
«Sparite dalla mia vista, per ora» dichiarò, e fissò Agnese con aria di sfida, tagliente.
Agnese non aspettò il suo permesso, si precipitò verso la porta come una furia, arrabbiata con sè stessa e tutto ciò che la circondava. Sentì un forte bisogno di vomitare, di rigettare la bile che le si era depositata nello stomaco.
Giunta alle scale, però, si bloccò improvvisamente, con sguardo vuoto. Le scale aumentarono di numero, di volume, occuparono tutto il suo spazio visivo. 
La voce lontana di Ismaele stava chiamando il suo nome, ma lei non ebbe la forza di voltarsi. Si portò una mano sul ventre, istintivamente.
Poi il buio coprì ogni cosa.

 
 
》◇《
 
 
Tre mesi prima…

«Non l'hai fatto davvero!».
Agnese aveva raggiunto l'ufficio di Gabriel stravolta, stringendo una cartellina gialla, sembrava che le scottasse tra le mani.
«Dimmi che non l'hai fatto davvero, Gabriel!».
Il tenente la fissò interdetto, togliendo l'attenzione alle carte che stava consultando assieme al capitano Schlütz.
«Capitano, può darmi un momento?». La voce di Gabriel suonò distratta, mentre lo sguardo era puntato dritto in quello focoso dell'italiana, pronta ad uno scontro imminente.
Il capitano si congedò chinando il capo, uscendo dalla stanza con le mani incrociate dietro la schiena.
Una volta soli, Gabriel si avvicinò ad Agnese, afferrandola poco gentilmente per un braccio.
«Che diavolo ti sei messa in testa eh, Anja? Come ti viene in mente di venire qui come una furia e trattarmi come un tuo lacchè? Vuoi farti deridere da tutta la caserma?».
Agnese lo fissò sprezzante, le labbra accartocciate dal disgusto, i loro visi pericolosamente vicini.
«Spiegami questo» e gli sbatté in faccia la cartellina gialla, con disprezzo.
Gabriel la afferrò e nel rigirarsela tra le mani, la riconobbe subito.
«Scheiße…» mormorò, mollando il braccio di Agnese e dandole successivamente le spalle, concentrato a guardare i fogli all'interno della cartellina.
«Li riconosci quei nomi, vero? O hai la memoria corta, tenente?». Agnese era sul punto di piangere, ma si trattenne dal farlo.
In quella lista quei due nomi erano scritti nero su bianco, neanche fossero stati marchiati a fuoco.
Furio e Levda Martini.
Gabriel inspirò socchiudendo gli occhi.
«Dove l'hai trovata?» ringhiò a bassa voce, stringendo sempre più i fogli tra le dita.
«Per puro caso, nel cassetto della scrivania in camera tua». Agnese si era leggermente placata, ma la voce e la postura non promettevano nulla di pacifico.
Si sentiva tradita, offesa oltre ogni limite.
«L'ha visto qualcun altro oltre te?» le chiese il tedesco, non cambiando espressione. Come se non volesse dare adito alla rabbia che Agnese stava provando. O ne fosse addirittura disinteressato.
«No, sono uscita appena ho letto il nome dei miei genitori su quella lista!» dichiarò Agnese, gli occhi accecati dalla delusione e dal dolore.
«Mi avevi promesso che avresti fatto di tutto per proteggerli…»
«Non ho potuto fare nulla» si giustificò placido Gabriel, impassibile. Quella freddezza urtò maggiormente il già precario autocontrollo della ragazza.
«Potevi cancellare i loro nomi! Potevi evitare loro l'arresto! Me lo avevi promesso!»
«Sie sind Jüden, Anja!» alzò la voce, usando lo stesso tono che rivolgeva ai suoi sottoposti, con astio e disprezzo. Agnese sgranò gli occhi, atterrita.
La famiglia Chiodi non era di religione ebraica praticante, solo di origine. Quando Furio giunse ragazzino a Dresda, fu adottato da una famiglia di italiani emigrati, acquisendo il loro cognome, Martini. Di tutto questo Agnese ed Anna ne erano sempre state a conoscenza, e la stessa Agnese lo aveva confidato a Gabriel in quei mesi in cui si erano riavvicinati, in preda alla passione che li aveva travolti. Avrebbe capito solo successivamente che, in realtà, l’unica davvero coinvolta in quella relazione era solo lei.
Quella fu una delle prove evidenti di quel suo tradimento.
«Già ho evitato che Ismaele e sua moglie venissero inseriti nella lista qui… in Germania è diverso, non ho avuto scelta!»
«Certo che ce l'avevi una scelta! Tu sì!».
Agnese non aveva avuto nessuna intenzione di dargliela vinta. Gabriel l’aveva giocata con la sua solita dialettica, con i suoi soliti modi di fare melliflui, girandosela a suo piacimento come una bambola senza vita a cui avrebbe potuto far fare tutto ciò che voleva.
«Avrei dovuto immaginarlo… l'ennesima promessa infranta… io stupida che ho pensato-»
«Tu forse non ti rendi conto della carica che ho, Anja» la interruppe con veemenza Gabriel, strattonandola. Ad Agnese scappò un verso di dolore, tra i denti.
«Sono un tenente della Schutz-Staffel, è il mio Paese a chiedermi la testa di-»
«La testa di chi? Di gente innocente a cui il vostro amato Führer ha dato la colpa del tracollo economico? E cosa avete risolto, togliendogli la casa, la dignità? Cosa, Gabriel, cosa?»
«Abbiamo ripulito il nostro Paese dalla melma che si era sedimentata dopo la guerra! Ti sembra poco?».
Agnese tutta questa gloria non l'aveva vista neanche di sfuggita. Fino all'istante prima di lasciare la sua amata Dresda, si era vista circondata soltanto di odio insulso e violenza gratuita.
«Oltre al fatto che tuo padre fosse ebreo, si è unito il fatto che fosse un sovversivo. Hanno trovato nel suo ufficio le prove degli articoli scritti da un giornale che andava contro il regime, contro il Führer… non sai il sollievo che ho avuto quando non ti ho trovata in casa il giorno in cui-»
«Li hai arrestati tu?».
Per tutto il tempo che Gabriel aveva inveito contro di lei, Agnese era rimasta a capo chino, sorbendosi tutto serrando le palpebre. Ma quando aveva realizzato quel particolare angosciante, aveva alzato la testa di scatto, fronteggiando l'amico d'infanzia che si era illusa di conoscere, e di avergli perdonato qualsiasi mancanza, anche quell'atto orribile compiuto nel bosco in Germania. Agnese aveva creduto ingenuamente che l'amore avrebbe potuto sanare tutto, avrebbe potuto sanare anche Gabriel, e farlo tornare il ragazzino che conosceva da sempre, l'amico d'infanzia con cui aveva condiviso tutto, persino sé stessa, per la prima volta.
«Se potevo passare sopra al fatto che fosse di razza inferiore, non ho potuto farlo sulla sua posizione politica. Se l'è cercata, mettendosi contro il Führer, contro la Germania».
Ma da quelle parole, Agnese comprese amaramente che non ci sarebbe stato più nulla da salvare. Gabriel ormai era marcio anche dentro, nel cuore, nelle viscere, nell'anima.
Si pentì amaramente di avergli dato una seconda possibilità, sebbene fosse sposato, sebbene ormai si fosse fuso addosso quella divisa come una seconda pelle.
«Se l'è cercata…» ripeté Agnese, in trance. La coltellata l'aveva sentita ovunque, al cuore, alla pancia, alla testa.
Si passò una mano sul ventre, e per la prima volta si sentì sollevata di non aver portato fino in fondo quella gravidanza. Non fu più così sicura che sarebbe riuscita ad amare il figlio del carnefice della sua famiglia.
«Dove sono adesso?» ebbe solo la forza di chiedere, devastata.
Gabriel sollevò il mento, non troppo propenso a continuare quel discorso.
«Dove sono, Gabriel, dove sono?!» si agitò la ragazza, colpendo il petto del tenente, a pugni chiusi e con una certa violenza.
Gabriel cercò di bloccarla, ma Agnese era una furia, era diventata ingestibile.
La spinse così al muro, dandole due pugni fortissimi all'altezza del ventre, togliendole il respiro.
Non contento, poi, seguì uno schiaffo in pieno viso, afferrandole successivamente il mento con forza, sbattendole il capo contro il muro senza troppi complimenti.
«Se non vuoi fare la loro stessa fine» sibilò al suo orecchio, bloccandola con la sua mole «ti conviene darti una regolata e finirla con queste scenate. Dio non voglia che succeda qualcosa alla piccola Anna…»
Agnese sgranò gli occhi nel sentire pronunciare così impunemente il nome di sua sorella. Un moto di paura le si propagò nel petto, soffocandola.
«Continua a fare la brava, come hai fatto finora…» e una mano scivolò lungo i fianchi, afferrandole la gonna di satin verde «tanto non corri più il rischio di incidenti indesiderati. Continua a scaldarmi il letto come hai fatto fino ad adesso, e Ismaele e la sua famiglia non finiranno su nessuna lista».
Le si avvinghiò al collo, e Agnese provò un male indicibile. Sentì i denti affondare nella pelle del collo, un risucchio che le tirò talmente la pelle da lasciarla priva d'aria.
«Vai via, lasciami!» implorò tra le lacrime. Il sapore ferroso del sangue le arrivò alla lingua, provocato dal taglio al labbro.
Gabriel la spinse a terra, lasciandola in ginocchio a piangere. Aprì la porta e chiamò uno dei suoi commilitoni.
«Accompagnate la signorina Martini al casale dei Chiodi» ordinò, serafico, incurante del pianto sommesso di Agnese, in ginocchio ai suoi piedi, stremata.
Le dedicò solo uno sguardo, glaciale.
«Appena si sarà calmata» sentenziò, e si avvicinò a lei soltanto per prenderla per un braccio, alzandola da terra senza alcuna gentilezza nei modi.
La spinse fuori dalla stanza e intimò il soldato di scortarla, senza fare domande inutili.
Agnese attraversò quel corridoio come se fosse stata diretta al patibolo. Qualcosa dentro di lei morì per sempre quel giorno.
Se l'è cercata.
Furio Martini se l'era cercata di mettere a repentaglio la propria famiglia e la propria vita.
Se l'era cercata di aver osato sperare in un cambiamento, in un domani diverso.
Se l'era cercata di aver creduto che una parte di mondo avesse ancora la bellezza intrinseca nelle cose, nelle persone, nella natura.
Così come Goethe aveva decantato quei limoni gialli e ricchi di succo, pensando di essere approdato in paradiso.
Invece era solo la Sicilia. Era solo un miraggio.
Lo stesso miraggio che aveva accecato Agnese su Gabriel per tantissimo tempo, non mostrandole il vero volto di quel paradiso artificiale.
Affaticata e in lacrime, la ragazza uscì dalla caserma, con la vergogna in mano e gli occhi bassi, rassegnati.
 
Quando Maxime si vide arrivare Anna trafelata, in cuor suo aveva sentito che c'era stato qualcosa che non andava. L'aria era elettrica da quella mattina, da quando aveva intravisto Agnese uscire di casa e mettersi in sella alla sua bicicletta, in lacrime. 
Non l'aveva sentita rientrare, perché il suo turno in caserma era cominciato subito dopo pranzo, ma aveva sentito i mormorii riguardo una lite che aveva coinvolto il tenente von Kusserl e la sua amante italiana.
Amante… quella parola Maxime la odiava con tutto sé stesso. Gli riaffiorava in mente sua madre e il suo sorriso dolce e triste, rigato di lacrime. 
Agnese gli aveva sempre dato l'aria di una ragazza forte, determinata… non capiva perché si lasciasse manipolare da quel demonio, si lasciasse calpestare a tal punto da annientarsi in quanto persona capace di intendere e di volere.
Era sera inoltrata, e Anna lo aveva raggiunto nel capannone dove lui e altri commilitoni dormivano o si rilassavano dopo cena.
«Non riusciamo a trovare Agnese da nessuna parte» dichiarò Anna, le mani strette al petto e il bel viso infantile provato.
«Tu l'hai vista Maxime? Qualcuno l'ha vista? Ti prego, io e la zia siamo molto preoccupate… Zio Ismaele e Romeo sono ancora fuori città, non sappiamo a chi chiedere aiuto…».
Maxime non se lo fece ripetere due volte.
Salì di sopra al casale, aveva ancora i pantaloni della divisa addosso e la camicia bianca sbottonata sulla canottiera giallina. Entrò nella stanza di Agnese, ma non trovò nulla fuori posto. Il letto era integro, i libri che solitamente leggeva erano tutti riposti sul comodino. Controllò per scrupolo l'armadio, chiedendo ovviamente il permesso ad Anna prima di aprire le ante.
I vestiti erano tutti al loro posto, non mancava nulla. 
«Non ti ha detto nulla su dove andava, se aveva qualche commissione da sbrigare…» provò ad indagare Maxime, cercando di tenere a bada l'ansia crescente.
Anna scosse il capo frettolosamente.
«No, e questo mi preoccupa… non si allontana mai senza motivo. Ho paura che le sia successo qualcosa. Se qualcuno le ha fatto del male…» e si portò le mani giunte sul viso, scacciando via quel pensiero orribile che le si stava formulando in testa.
«Credi che dovremmo avvisare Gabriel? Magari lui saprà cosa fare…» provò a proporre la ragazzina, in procinto di sfociare in un attacco d'ansia piuttosto potente.
Maxime le strinse le spalle caloroso, invitandola a calmarsi e a non pensare al peggio.
«Provo a cercarla qui in giro, non sarà andata troppo lontano. Tu e frau Blanca restate qui, magari nel frattempo ritorna a casa prima di me. Su, non scoraggiarti!».
Quelle ultime parole, in realtà, Maxime le pronunciò più a sé stesso che rivolto ad Anna.
Col cuore in mano, uscì dal casale, cercando di non pensare al più tragico degli scenari che stava prendendo vita nella sua testa.
 
Aveva gridato il suo nome con tanta grinta che i polmoni e la gola gli sarebbero collassati di lì a poco. Si era addentrato nel bosco, oltre il vigneto, faceva freddo ma Maxime era talmente accaldato che non percepì neanche un solo brivido addosso.
Senza accorgersene, si avvicinò alle rive del fiume, cercando di stare attento a non inciampare sui ciottoli e a non incappare in tagliole lasciate lì dai cacciatori.
Chiamò ancora una volta il nome di Agnese, ma senza successo. Si era fermato solo un attimo per riprendere fiato, quando, piegato in avanti con le mani poggiate sulle ginocchia, notò un paio di scarpe da donna abbandonate sui ciottoli della piccola spiaggia.
Si avvicinò con cautela, studiando attentamente quelle scarpe con sguardo torvo. Vi erano appallottolate al suo interno delle calze di nylon. 
A qualche centimetro di distanza, trovò anche degli indumenti, una camicetta bianca e una gonna di satin verde, abbandonate lì senza la minima cura. Maxime li toccò con mani tremanti, ipotizzando il peggio. Fortunatamente non erano strappati o sporchi di sangue, ma questo dettaglio non servì a tranquillizzare l'agitazione del giovane soldato. Il cuore gli balzò in gola, guardandosi convulsamente intorno. La luna quella sera rischiava tutto il circondario, permettendo a Maxime di osservare tutto senza l'ausilio di lumi o torce. 
Nella sua ricerca disperata, poggiò lo sguardo su una figura esile, accovacciata su di uno scoglio. Era in sottoveste, di spalle, e i capelli castani le ricadevano lunghi e ribelli lungo le spalle sottili.
Maxime ebbe un terribile deja vu.
La vasca da bagno che sgorgava acqua rosata dalle piastrelle bianche, il corpo di Edina privo di vita che vi galleggiava al suo interno…
Qualche lacrima non riuscì a bloccarla, gli fuoriuscì dalle palpebre senza permesso.
Si avvicinò piano, cercando di non fare rumore. Man mano che raggiungeva quella ragazza, notò che era scossa dai singhiozzi, sebbene silenziosi e moderati. 
Maxime le si accovacciò dietro le spalle, non osò toccarla, non se ne sentì degno.
«Agnese?» chiese, la voce gli tremava per il freddo e la paura.
La ragazza si voltò e due occhi grandi e spaventati lo fissarono attoniti, pregni di paura e vergogna. Aveva la pelle d'oca e tremava vistosamente. Maxime notò il labbro spaccato e s'irrigidì all'istante.
«Cosa ti hanno fatto? È successo qualcosa? Qualcuno ti ha-» Maxime prese a parlare in tedesco, come un fiume in piena. Gli si bloccarono le parole in gola, le lacrime pungevano come spine tra le palpebre.
Agnese lo fissò dritto negli occhi, perdendo lentamente espressione.
«Volevo farla finita» confessò in tedesco, con voce rotta, affranta.
Maxime rimase di ghiaccio nel sentirla dire quelle parole.
«Ma non ce l'ho fatta… non sono buona neanche a prendere coraggio per buttarmi nel fiume!». Il bel viso, sempre elegante anche senza trucco - eredità di Levda - serio e altezzoso, in quel momento si accartocciò fino a diventare miseramente triste e sconsolato. Maxime non l'aveva mai vista così, e qualcosa nel cuore gli si torse fino a fargli un male assurdo.
«Magari muoio assiderata… è la punizione che merito» Agnese non voleva scoppiare a piangere, voleva finire quell'agonia nella sua dignità, restando impassibile e sfrontata anche in faccia alla morte. Ma dopo aver appreso dell'arresto dei suoi genitori e del tradimento di Gabriel, si era sentita improvvisamente fragile, inutile. Si era ritrovata bambina, e sola, tanto sola.
Maxime provò ad allungarle una mano, non aveva niente con sé per scaldarla, nella fretta aveva lasciato la giacca della divisa nella sua stanza.
«Vieni con me» le disse con dolcezza, cercando di non spaventarla. Agnese però la sua mano non la prese, anzi si ritrasse maggiormente, portandosi le ginocchia al petto. Voltò il viso dall'altra parte, stanca, rivolto verso lo scrosciare insistente dell'acqua.
«Mi ha chiesto Anna di venirti a cercare. Era preoccupata per te».
Nel sentire il nome della sorella minore, Agnese non riuscì più a trattenersi. Scoppiò a piangere definitivamente, distrutta dal dolore. Non avrebbe mai avuto cuore di confessarle della sorte dei loro genitori. Le gravava addosso una responsabilità enorme, asfissiante. Farla finita era stata decisamente la scelta più facile, ma non la più giusta. Non per Anna, che adesso era diventata il suo tutto, la sua ragione di vita.
«Non voglio che mi vedano così… non voglio far preoccupare nessuno» dichiarò singhiozzando, ormai senza più argini.
Maxime avanzò lentamente, in ginocchio, provò a poggiarle una mano sulla spalla, Agnese sussultò al tocco.
«Ti aiuto a rivestirti, ci inventeremo qualcosa» propose, e quel ci sorprese anche lui nel momento esatto in cui lo pronunciò.
Aveva incluso un noi che non sapeva con certezza se Agnese avesse gradito o meno.
La ragazza nel frattempo si asciugò le guance bagnate e provò ad alzarsi, a fatica, sia per i brividi di freddo, che per il dolore all'addome dovuto ai pugni di Gabriel.
«Potresti, ecco..?» chiese, allungando un braccio verso le spalle del giovane tedesco.
Maxime accolse la sua tiepida richiesta, lasciandosi cingere il collo dal braccio infreddolito della ragazza.
Agnese si mise in piedi a fatica, stava da ore accovacciata lì su quello scoglio, indecisa su cosa sarebbe stato meglio se gettarsi tra i flutti e sparire, oppure lasciare che il freddo le fermasse il cuore, rendendola un pezzo di ghiaccio.
Non riuscì a muovere un passo, si teneva la pancia, poco sotto le costole.
«Riesci a camminare?» chiese Maxime, accortosi dell'evidente difficoltà che stava provando la giovane.
Agnese si scostò delicatamente da lui, camminando a scatti, diretta verso i suoi vestiti. Una volta presi, se li strinse al petto, sperando di potersi riscaldare, almeno con quelli. Ma la stoffa era gelata, bagnata di brina.
Si sentì qualcosa sulle spalle, un panno leggero coprirle le spalle nude. Qualcosa di bianco che le ricadde addosso come una carezza. Non fece in tempo a voltarsi, che due braccia l'avvolsero in un caldo abbraccio, prendendole le mani e facendole strofinare tra loro.
«È tutto quello che ho… es tut mir leid» disse sommessamente Maxime, poggiandole la guancia sulla spalla. Si sentiva fortemente in imbarazzo, ma avrebbe preferito quello al doverla riaccompagnare a casa senza neanche un indumento addosso.
In un altro momento, Agnese se lo sarebbe scrollato di dosso, regalandogli una delle migliori occhiatacce del suo repertorio, ma quella sera non aveva forze a sufficienza per combattere contro il mondo, come faceva sempre. Crollò svenuta tra le braccia di Maxime, reclinando il capo all'indietro.
Seppur infreddolito, Maxime continuò a farle calore per qualche altro minuto, per poi caricarsela in braccio, e portarla via da lì, da quel luogo ostile.
Avrebbe pensato in seguito a cosa dire ai Chiodi, una volta che avrebbero visto la nipote in quelle condizioni.
 
Agnese si era ripresa sul divano, vicino al camino acceso. Il viso di sua zia fu la prima cosa che vide aprendo gli occhi. Aveva le lacrime incastrate tra le ciglia, ma non le chiese nulla, le diede solo una carezza sulla guancia gelata.
Anna poi l'aveva aiutata a farsi un bagno caldo, non lasciandola sola neanche un minuto. Restò in silenzio, con lo sguardo basso, e Agnese provò vergogna di averle fatto questo, di averla fatta soffrire così tanto in quelle ore.
Una volta a letto, Agnese si nascose sotto le coperte, incapace di prendere sonno. Si ritenne fortunata che suo zio e Romeo non fossero in casa quella notte, che si trovassero a Torino per affari. Il freddo fisico era passato, ma non quello che, da lì in poi, si sarebbe portata dentro. Per sempre.
 

 
~☆~
 
 
Presente
 
«Cos'ha avuto Agnese?» chiese Maxime a Romeo, con aria concitata. Il vassoio che gli aveva preparato Blanca era rimasto intoccato, appoggiato lì sulla botte più piccola.
«Vedo che ti è tornata la voglia di parlare!» sottolineò Romeo, sistemando una delle corde che servivano per legare le botti tra loro.
«Cosa le è successo?» domandò di nuovo Maxime, e non vi era traccia di gentilezza nella voce, era nervoso all'idea che Schlütz avesse potuto farle qualcosa.
«Non lo so, Max. Avevano appena chiamato il medico quando sono sceso per portarti il pranzo. Sicuramente sarà stata stanchezza o tensione accumulata» chiosò Romeo, spiccio.
Maxime non insistette oltre, ma si alzò dal divanetto, diretto verso la porta.
«Ma cosa fai?» lo bloccò Romeo per un braccio, prima che potesse uscire fuori dal retro della cantina, attirando così l'attenzione indesiderata di mezzo mondo.
«Voglio salire di sopra per vederla!» decretò il tedesco, deciso.
«No, tu non fai un bel niente! Stiamo parlando di Agnese, quella ha la pellaccia più resistente della tua!» lo rimproverò l'italiano, guardandolo storto.
«Inoltre… devo darti una cosa» aggiunse poi Romeo, rovistando nelle tasche del marsupio di cuoio che si portava sempre legato alla cintura.
Cacciò fuori delle carte, un documento d'identità, biglietto del treno e della nave e in più un passaporto con un timbro americano, fasullo ovviamente.
«Me li ha dati Giovanni stamattina. Lunedì prenderai il treno per Genova, e da lì t'imbarcherai per una nave che ti porterà a Barcellona. Da lì, partirà il transatlantico che ti porterà a Montevideo. È tutto pronto» gli comunicò, consegnandoglieli soddisfatto.
Maxime prese quei documenti con titubanza, non li controllò neppure al suo interno, la testa era da tutt'altra parte, al piano di sopra per la precisione.
«Ti lascio mangiare adesso. Mi raccomando, cerca di tenerti pronto per lunedì. Di sopra stiamo tutti preparando il viaggio» spiegò Romeo, congelando con una sonora pacca sulla spalla.
Rimasto solo, Maxime si sedette nuovamente sul divanetto, come intontito.
Quei documenti li sentiva scottare sotto le dita, erano il lasciapassare per la sua libertà, eppure non gli diedero chissà quanto sollievo o felicità. 
Non aveva deciso lui di scappare, in tutta quella faccenda, nessuno gli aveva chiesto cosa davvero volesse fare e come avesse intenzione di porsi a riguardo.
Non aveva avuto il tempo di reagire, pensare al dopo. La soluzione, adesso, era nelle sue mani, eppure…
Eppure c'era qualcosa che non gli permetteva di essere soddisfatto. 
Un qualcosa che somigliava sempre più a qualcuno.
E quel qualcuno aveva un nome che aveva messo radici tra le sue labbra, indissolubilmente.



 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: Flying_lotus95