Serie TV > Star Trek
Segui la storia  |       
Autore: Parmandil    30/12/2023    1 recensioni
Tra tutti gli avventurieri della Destiny, nessuno quanto Irvik brama di tornare a casa, dove lo attendono i figli. Ma anche se tornasse oggi stesso, chi gli restituirebbe gli anni perduti? Chi mai potrebbe evitare che la sua famiglia si disgreghi e i figli lo guardino come un estraneo?
Giunto da oltre lo spazio-tempo, un essere trascendente gli offre proprio questo. Riporterà Irvik nel passato, al momento delle sue scelte cruciali, permettendogli d’agire altrimenti, nella speranza d’evitare la rovina familiare. Quale mortale potrebbe mai rifiutare quest’opportunità? Scopo dell’esperimento è appurare se esista il libero arbitrio, e tutto dipenda dalle nostre scelte, o se viceversa siamo schiavi di un Fato ineluttabile.
Accettato il patto, l’Ingegnere Capo scatena inavvertitamente una serie d’eventi che potrebbero condannare la Destiny, e non solo quella. Riuscirà il povero sauro a salvare sia la sua famiglia che l’astronave? E come sfuggirà poi allo sdegno dell’entità che gli aveva concesso tanto? Volontà e necessità si scontrano come non mai, mentre Irvik apprende che per aggiustare qualcosa, bisogna scombinarne un’altra.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
-Capitolo 1: Rompicapo
Data Stellare 2614.37
Luogo: USS Destiny, in rotta verso Tarn Vedra
 
   «Capitano Rivera a tutti i ponti. Un momento d’attenzione, prego». La voce del Capitano risuonò in ogni sala e corridoio della Destiny, e persino negli alloggi privati. «Oggi è un giorno particolare, come molti di voi avranno notato. Questo è infatti il quarto anniversario dall’inizio della nostra odissea nel Multiverso. Sono stati anni difficili e pericolosi, densi di battaglie, e purtroppo abbiamo perso degli amici strada facendo. Capisco perfettamente la vostra nostalgia di casa: ma proprio per questo, vi esorto a non perdere la speranza.
   In questi anni, infatti, abbiamo compiuto enormi progressi. Abbiamo scoperto nuove realtà, che ci hanno spalancato orizzonti inimmaginabili. Abbiamo messo a segno duri colpi contro gli Undine, distruggendo prima la biosfera in cui ci davano la caccia, poi l’Harvester con cui razziavano interi mondi. Cosa ancora più importante, abbiamo avvertito decine di popoli della minaccia, facendoci parecchi alleati. Ora possiamo spostarci da un cosmo all’altro, godendo di porti sicuri e facendo gli affari più redditizi che ci siano mai capitati!».
   In molti ambienti della nave, gli avventurieri levarono grida d’entusiasmo. In effetti gli affari non erano mai andati così bene, dato che alcune merci di scarso valore in certi Universi erano preziosissime in altri. Così le ampie stive della Destiny si erano riempite di preziose mercanzie, e altro ancora era stato lasciato in depositi segreti, qua e là nel Multiverso.
   «In aggiunta a questo, lasciate che vi dica una cosa» proseguì il Capitano. «Da quando incontrai il Viaggiatore, sono sempre stato convinto che prima o poi lo rivedremo. Quell’individuo, e altri come lui, possono spostarsi agevolmente da una realtà all’altra e certo conoscono le coordinate della nostra. Perciò, se... no, quando li rivedremo... la nostra odissea avrà fine e torneremo a casa. Anche la Federazione dovrà darci l’amnistia, dopo tutto quel che abbiamo fatto per proteggerla. Quindi dobbiamo solo resistere fino ad allora. Resistete, fratelli miei, e saremo a posto per il resto della vita!» esclamò.
   In sala mensa, gli avventurieri brindarono e fecero gazzarra. Anche in altri ambienti fecero udire le loro voci d’approvazione. Malgrado il lungo viaggio, il morale era alto. In particolare nell’ultimo anno avevano vinto sfide così dure, nell’Universo dello Specchio e poi nello Spazio Fluido, da fargli pensare che potevano superare ogni ostacolo. Ora che si spostavano agevolmente da un porto sicuro all’altro, arricchendosi sempre più, trovare le coordinate quantiche di casa sembrava solo questione di tempo.
   Ma c’era qualcuno, a bordo, che non condivideva il diffuso ottimismo. Qualcuno che, anzi, lo trovava insopportabile, come se al danno si aggiungesse la beffa. Quell’individuo era Irvik, l’Ingegnere Capo. Da quando si era unito agli avventurieri, infatti, la sua vita – già abbastanza disastrata – era andata totalmente a rotoli. Tutto era cominciato quando il trasporto turistico che doveva condurlo alla Terra aveva avuto un guasto, ai confini dello spazio federale, che l’aveva costretto a una lunga sosta. Deciso a non sottrarre tempo al suo pellegrinaggio, Irvik aveva chiesto un passaggio a quello che sembrava un comune mercantile. Non poteva immaginare che quegli “onesti mercanti” fossero in realtà degli avventurieri pronti a tutto, dal contrabbando alla pirateria. Né immaginava che avrebbero trovato la Destiny alla deriva, che vi si sarebbero trasferiti dopo la perdita del mercantile, e che sarebbero stati risucchiati con essa in un’altra realtà, iniziando quell’interminabile viaggio nel Multiverso.
   Più ci pensava, più Irvik si convinceva che il pellegrinaggio alla Terra fosse stata la peggior decisione della sua vita. La Terra infatti non l’aveva mai vista, a eccezione della sua versione post-apocalittica, nell’Universo dello Specchio, dove gli abitanti avevano cercato d’ucciderlo. E lungi dal trovare ispirazione nel viaggio, il Voth aveva passato tanti di quei guai da portarlo sull’orlo del collasso nervoso. Ma il peggio era che, se prima poteva vedere i suoi figli almeno un paio di volte al mese, adesso non li vedeva da...
   «Quattro anni, maledizione!» si disse Irvik, battendo il pugno sul tavolino. In quel momento si trovava nel suo alloggio, e faceva colazione prima di prendere servizio. Ficcò la mano tridattila nella ciotola di larve molli e succose, per sbocconcellarle distrattamente. Se quattro anni parevano tanti a lui, figurarsi per i ragazzi. Dryos aveva otto anni quando si erano visti per l’ultima volta, quindi ora ne aveva dodici. E la piccola Psitta, che allora ne aveva appena cinque, ora doveva averne nove. Si era perso la loro infanzia, e se continuava così, si sarebbe perso anche la loro adolescenza. E nessun profitto, nessuna meraviglia del Multiverso poteva ripagarlo di quelle perdite.
   «Se solo ci fosse un modo di tornare indietro, evitando quell’errore...» vagheggiò il Voth, ma era pura follia. La Destiny aveva una tecnologia avanzatissima, ma non era un’astronave temporale. E anche se fossero tornati nel loro Universo d’origine, era assurdo pensare d’impadronirsi di una crono-navetta. No, doveva rassegnarsi a scontare le conseguenze dei suoi errori... come ogni altro mortale. Solo gli dèi, se ce n’erano nel Multiverso, potevano sfuggire a questa regola ferrea; e non concedevano seconde occasioni ai mortali.
 
   Terminata la colazione, Irvik restò per qualche minuto al tavolo, giocherellando con un oggettino sfizioso che gli aveva dato il Capitano. Un rompicapo, così gli aveva detto, inventato proprio sulla Terra. Aveva forma cubica, e infatti si chiamava Cubo di Rubik. Ogni faccia era divisa in nove quadratini colorati, per un totale di 54 riquadri in tutto. Erano divisi in sei colori (rosso, arancio, giallo, verde, blu e bianco), e quando il Cubo era risolto, ogni faccia era di tinta uniforme. Ma il Cubo al momento era scombinato, così che su ogni faccia si mischiavano colori diversi. Scopo del gioco era per l’appunto far sì che ogni faccia tornasse uniforme, grazie a un meccanismo interno che permetteva a ogni segmento quadrato di ruotare in modo indipendente dagli altri.
   Il problema era che spostare un tassello colorato ne spostava inevitabilmente anche altri, posti sullo stesso segmento rotante, e quindi era maledettamente difficile arrivare a uniformare le facce. C’era sempre qualche tassello fuori posto, e quando Irvik provava a correggerlo, finiva per guastare gli altri allineamenti, perdendo i progressi precedenti. Una volta, spazientito, aveva calcolato il numero di configurazioni possibili del Cubo. Era saltata fuori una cifra spropositata: 43.252.003.274.489.856.000. Quindi c’erano oltre 43 trilioni di configurazioni sbagliate, a fronte di una sola corretta. Non c’era da stupirsi se non riusciva a venirne a capo! La stranezza era che certi Umani ci perdessero del tempo, e alcuni – se doveva credere al Capitano – riuscissero persino a risolverlo.
   L’Ingegnere Capo pensò che dovevano esserci dei metodi logici, matematici per affrontare il problema, scomponendolo in operazioni più semplici, fino a raggiungere la soluzione. Ma al momento non ci aveva ancora pensato, e non era certo di volerlo fare. Dopotutto aveva cose più importanti che scervellarsi dietro un astruso gioco terrestre. Così lasciò il Cubo scombinato sul tavolo, per tornare a ragionarci solo se ne avesse avuto il tempo e la voglia. Infine lasciò il suo alloggio, diretto in sala macchine per un altro lungo e noioso turno.
   Era strano: quand’erano in battaglia il Voth agognava alla quiete, e ora che si trovavano in un periodo quieto (per quanto potesse esserlo viaggiare nel Multiverso), avrebbe voluto che qualcosa rompesse la monotonia. Qualcosa d’inaspettato, magari d’emozionante. Fu accontentato ancor prima di giungere in sala macchine.
   «Irvik a rapporto in plancia, abbiamo un’anomalia» lo chiamò il Capitano.
   «Qui Irvik, sto arrivando» sospirò il sauro, premendosi il comunicatore. Giunto al turboascensore, salì invece di scendere. Strada facendo, si fece un appunto mentale: mai desiderare i guai. Secondo un vecchio proverbio Voth, erano gli unici desideri che gli dèi si divertivano a esaudire...
 
   Giunto in plancia, Irvik guardò subito lo schermo principale. E vide il Nulla... che era diverso dal non vedere nulla. Lo spazio era punteggiato di stelle, ma proprio al centro dell’inquadratura si apriva una sorta di squarcio informe, dai contorni bluastri, entro cui c’era un’oscurità assoluta, senza stelle.
   «E quello cos’è?» chiese istintivamente il Voth.
   «Spero che possa spiegarlo lei a noi» rispose il Capitano. «Ci è apparso davanti, sebbene non sia segnato sulle mappe stellari che ci siamo procurati. Dev’essere un’anomalia recente».
   «Somiglia a un’interfase di spazio» notò Talyn, l’addetto a sensori e comunicazioni.
   «Oh, no! Ancora gli Undine?!» chiese Irvik, precipitandosi al suo fianco per verificare le letture dei sensori.
   «Non credo... quello non somiglia allo Spazio Fluido» rispose l’El-Auriano, proseguendo le scansioni. «E non sembra nemmeno il Vuoto» aggiunse, riferendosi al cosmo senza stelle in cui si erano spesso rifugiati in quegli anni. «Voglio dire, il Vuoto è appunto vuoto, cioè privo di materia, ma ha comunque delle dimensioni misurabili. In questo caso, però, i sensori non rilevano proprio nulla... nemmeno lo spazio vuoto. È come se l’anomalia davanti a noi non esistesse».
   «Se non esiste, perché non vediamo le stelle dall’altra parte? Se qualcosa le oscura, significa che qualcosa c’è!» obiettò Shati, la timoniera. «E qualunque cosa sia, suggerisco d’aggirarla. Traccio la rotta per girarci intorno...».
   «Un momento, adesso capto qualcosa all’interno dell’anomalia» avvertì Talyn. «Si direbbe un’astronave».
   «Uhm, di chiunque si tratti, potrebbe non essere salutare stare lì dentro. Forse ci sono finiti accidentalmente...» mormorò Irvik, cercando di dare un senso alle letture dei sensori.
   «Che astronave è? Aumentate la risoluzione, dobbiamo identificarla» disse il Capitano. Da questo dipendeva la decisione d’aiutarla o meno. Al momento si trovavano in un cosmo in cui gran parte della Via Lattea era unificata da un unico governo, il Commonwealth, con cui erano in buoni rapporti, tanto da essere in rotta per la capitale Tarn Vedra. Se la nave dispersa era del Commonwealth, valeva la pena soccorrerla, o almeno avvisare le autorità del problema. Se invece apparteneva a uno dei pochi sistemi indipendenti, o peggio ancora a qualche banda pirata, era meglio allontanarsi.
   «Risoluzione al massimo» disse Talyn, inquadrando una piccola porzione di quello spazio nero. Allora gli avventurieri trattennero il fiato. Quello davanti a loro non era uno dei sinuosi vascelli del Commonwealth. No, per la prima volta da quattro anni, gli avventurieri si trovarono a guardare un’altra astronave della Flotta Stellare.
 
   Era un piccolo vascello scientifico di classe Nautilus, una delle più diffuse nella Federazione. La sua forma ricordava quella del mollusco da cui prendeva il nome, in quanto la sezione a disco era più sviluppata in verticale che in orizzontale, somigliando a una conchiglia. Era anche semifusa con la sezione motori, dalla quale si distaccavano solo le due piccole gondole quantiche. La nave tuttavia era statica, quasi fosse alla deriva, nel cuore dell’anomalia. Osservando attentamente lo scafo curvilineo, gli avventurieri riuscirono a leggere il nome: USS Empirical.
   «Empirical... non è nel database. Forse è stata varata negli ultimi anni» notò Talyn.
   «Beh, ma è magnifico! È quel che aspettavamo... una nave federale pronta a riportarci a casa!» esclamò Irvik. D’un tratto la giornata gli pareva assai più rosea. Anche se nessuno gli avrebbe restituito gli anni perduti, tornare ora era pur sempre meglio che non tornare affatto. «Basta che ci forniscano le coordinate quantiche ed è fatta. Apri un canale, presto!» lo pressò.
   «Un momento!» fece il Capitano, insospettito. «Questo è ciò che abbiamo sempre sperato, certo. Ma ora che è successo... non posso fare a meno di chiedermi come ha fatto la Flotta Stellare a trovarci. In primo luogo, come sapevano che ci troviamo in questo cosmo, che è uno di quelli sconosciuti alla Flotta? E poi, anche sapendoci qui, come ci hanno localizzati con precisione? E cosa diavolo è quell’anomalia?!».
   «Beh, chiediamolo a loro!» obiettò Irvik, sorpreso da quella mancanza d’entusiasmo.
   «Già, sempre che non sia una trappola» mugugnò Rivera, ormai avvezzo agli inganni.
   «È possibile, Capitano» intervenne Naskeel, l’Ufficiale Tattico. La voce del Tholiano, resa dal traduttore istantaneo, risuonò fredda e metallica. «Vorrei ricordare che durante il nostro unico contatto con la Flotta, durante l’attacco all’Harvester, avevamo scambiato il numero di registro con la Destiny dello Specchio per ingannare gli Undine. E poiché l’altra Destiny fu distrutta in quella battaglia, la Flotta ne avrà dedotto erroneamente che siamo stati noi a perire. Quindi non ha motivo di cercarci».
   «Ehi, piano, uccellaccio del malaugurio!» si oppose Irvik. «La Flotta può benissimo aver scoperto come stanno le cose. Basta che abbia contattato una delle tante fazioni con cui abbiamo avuto a che fare negli ultimi mesi. Quanto alle altre domande... ribadisco che dobbiamo porle a loro» disse, indicando l’Empirical, che manteneva la posizione al centro dell’anomalia.
   «Uhm, se solo uscissero da lì...» mormorò Rivera, fissando con sospetto il piccolo vascello scientifico.
   Irvik si sentì urtato da quell’atteggiamento paranoico. Aveva la sgradevole sensazione che il Capitano, malgrado i proclami, non volesse porre fine alla loro odissea. Dopotutto, finché erano in viaggio, lui aveva un’autorità indiscussa. Ma se fossero tornati alla Federazione, avrebbe dovuto restituire la Destiny alla Flotta e affrontare il processo per i suoi passati crimini. Davanti a questa scelta, molti avrebbero preferito la prima opzione. Del resto, una volta Rivera gli aveva confidato di aver già rinunciato alla possibilità di tornare, proprio all’inizio del loro viaggio, perché non si fidava degli Undine e della loro proposta. Possibile che, dopo quattro anni d’avversità, rinunciasse a quest’altra occasione, ancora più ghiotta...?
   «Va bene, aprire un canale con l’Empirical» decise l’Umano, tornando a sedersi in poltrona. «Qui è il Capitano Rivera della Destiny. È bello trovare dei compatrioti così lontano da casa... possiamo sperare che siate qui per ricondurci alla Federazione?» chiese.
   La risposta non si fece attendere. La plancia dell’Empirical riempì lo schermo, con gli ufficiali in uniforme alle loro postazioni. Il Capitano era una donna Umana, sulla quarantina, dai capelli biondo malto raccolti in una coda di cavallo.
   «Qui è il Capitano Shaw, dell’Empirical» rispose l’Umana con un lieve sorriso. «Sorpreso di vedermi, Armando?» chiese in tono più familiare.
   «Debora! Hanno mandato te a cercarci?!» sobbalzò Rivera. Debora era stata la sua fidanzata ai tempi dell’Accademia, sebbene studiassero in sezioni diverse: lui nella Sicurezza, lei in Comando e Navigazione. Una volta diplomati, i loro incarichi li avevano divisi, e così anche la loro storia era finita. Rivera si era spesso chiesto se l’ex fidanzata avesse fatto carriera, fino a coronare il suo sogno di comandare un’astronave. Evidentemente c’era riuscita, e anche in fretta. «E con metodi più leciti dei miei» si disse con rimpianto.
   «La mia nave è stata modificata per seguirvi» confermò Debora... no, il Capitano Shaw. «E sì, siamo qui per riportarvi alla Federazione. Vi abbiamo cercati per mesi, contattando i popoli con cui siete stati in affari, per farci un’idea di dove potevate essere. Anche così, è stata una fortuna beccarvi».
   «Come risolvere un Cubo di Rubik in pochi secondi, e per giunta bendati» si trovò a pensare Irvik, con la parte più analitica della sua mente.
   «Quindi... è fatta? Si torna a casa?» chiese Rivera, incredulo.
   «Appena riusciremo a tirarci fuori da quest’anomalia, sì» disse Shaw con una traccia di nervosismo. «La cavitazione quantica non funziona qui dentro, e non riusciamo nemmeno ad aprire una fenditura per tornare nel nostro cosmo».
   «I motori a impulso?» suggerì Shati dal timone.
   «Morti anche quelli. Per quanto sia inappropriato, da parte di presunti soccorritori, devo chiedervi di aiutarci, prima che noi possiamo aiutare voi» rispose l’Umana. «Se poteste avvicinarvi un po’ e agganciarci col raggio traente, tirandoci fuori di qui, ecco che torneremo tutti alla Federazione in men che non si dica».
   «Uhm, che garanzie ci offre la Flotta? Che ne sarà del mio equipaggio?» chiese Rivera, accigliato.
   «Come, è questo che ti preoccupa? Oh, non devi farlo!» fece Shaw, agitando la mano, come per spazzar via dubbi e timori. «La Flotta ha ricevuto il vostro messaggio, l’ultima volta che avete affrontato gli Undine, quindi conosce i vostri meriti. Del resto la battaglia è stata osservata in diretta da Ferasa, prima che l’interfase si chiudesse. Quindi abbiamo le prove del vostro eroismo. Per questa ragione, vi comunico che il Comando di Flotta, in accordo con la Corte di Giustizia Federale, ha promulgato l’amnistia per tutti voi. La vostra fedina penale è pulita, signori. E questo vale anche per te, Armando. Una volta tornati, tu e i tuoi ufficiali non avrete nulla da temere. Anzi, credo proprio che chi lo desidera potrà rientrare nella Flotta Stellare» disse, alludendo chiaramente a lui.
   «Questa è... un’ottima notizia» disse il Capitano, che fin dall’inizio del viaggio si arrovellava al pensiero di cosa ne sarebbe stato di loro, qualora fossero tornati.
   «Allora, se non ci sono altre domande, vi chiedo d’attivare il raggio traente e farci uscire di qui» ripeté Shaw.
   «Aspettate un attimo» disse Rivera, e segnalò a Talyn d’interrompere la comunicazione. «Le vostre impressioni?» chiese a tutti gli ufficiali.
   «Per quanto le anomalie siano imprevedibili, è strano che questa gli abbia bloccato anche i motori a impulso» notò Shati.
   «Amnistia per tutti... sembra troppo bello per essere vero» disse la Comandante Losira, che era tra quelli con la fedina penale più lercia.
   «Stai insinuando che non sia vero? Che sia una trappola?» chiese Rivera.
   «Beh, dico solo di stare attenti alle nostre mosse» rispose la Risiana.
   «Di mosse per ora ce n’è una sola: tirare quell’astronave fuori dall’anomalia!» obiettò Irvik. «A quel punto vedremo se ci riportano alla Federazione oppure no. Ma finché non li tiriamo fuori, è una situazione di stallo».
   «Uhm... Talyn, hai qualche premonizione?» domandò il Capitano, che aveva imparato a fidarsi del sesto senso del giovane El-Auriano.
   «Non saprei... quel Nulla m’inquieta» rispose l’interpellato, osservando l’anomalia. «Ho quasi la sensazione che siamo osservati. Prima ce ne andiamo, meglio è».
   «Capitano... dopo quattro anni di ricerche, ora che finalmente abbiamo di fronte una nave federale, non possiamo ritirarci senza fare almeno un tentativo...» implorò Irvik.
   «No, non possiamo» sospirò Rivera, prendendo quella che in fondo era una decisione obbligata. «Shati, portaci a distanza di raggio traente, ma sta’ attenta a non entrare nell’anomalia!» raccomandò.
   «Non ci entrerei neanche per tutto il latinum del Grande Nagus» assicurò la timoniera. Diresse la Destiny in avanti a un quarto d’impulso, fermandosi a un migliaio di chilometri dall’orlo dell’anomalia. Gli avventurieri attesero, sudando freddo.
   «Siamo a distanza utile per il raggio traente» riferì l’addetto, un Ferengi.
   «Allora... agganciamo l’Empirical e tiriamola fuori» ordinò il Capitano, intrecciando le dita. «Tutti all’erta, se qualcosa andasse storto» raccomandò.
   La Destiny attivò il raggio traente, agganciando il vascello più piccolo e trascinandolo verso di sé. Nei primi momenti tutto procedette regolarmente, anche se la considerevole distanza dell’Empirical faceva sì che l’operazione fosse lunga. Ma a un tratto ci fu uno scossone e le stelle svanirono dallo schermo, che si riempì di una foschia bluastra.
   «Caramba, che scherzo è questo?! Dove sono finite le stelle?!» esclamò Rivera, sobbalzando sulla poltroncina.
   «Suppongo che siano ancora al loro posto» rispose Talyn, con aria tesa. «Siamo noi che non le vediamo più. Questa dannata anomalia si è appena espansa. Vale a dire che ci ha inglobati... come se non aspettasse altro».
 
   Ci fu un breve silenzio, mentre gli avventurieri osservavano l’inquietante foschia bluastra. Si sentivano come topi presi in trappola... e avevano la netta sensazione che l’Empirical fosse il formaggio.
   «Basta col raggio traente» ordinò il Capitano, dato che ormai era inutile. «Talyn, pensi che quest’anomalia sia in qualche modo senziente? O controllata da esseri senzienti?».
   «Beh, la sua pronta reazione denota un certo grado d’intenzionalità» rispose l’El-Auriano. «Consiglio di uscirne subito, se i motori a impulso rispondono ancora».
   «Rispondono, sì!» confermò Shati, attivandoli.
   «Allora facciamo inversione di rotta, e via di qui! Il salvataggio dell’Empirical dovrà aspettare» decise Rivera. Per quanto detestasse lasciare Debora nei guai, riteneva che l’avrebbero aiutata maggiormente uscendo da lì e chiedendo aiuto al Commonwealth, anziché restando bloccati a loro volta.
   Shati eseguì una rapida inversione e diresse la Destiny a massimo impulso, sempre più lontano dall’Empirical. Trascorsero i minuti, mentre gli avventurieri fissavano nervosamente la foschia bluastra, aspettandosi di veder riapparire le stelle. Ma il tempo passava e gli astri non sembravano in vena di mostrarsi.
   «Che distanza abbiamo percorso?» chiese a un tratto il Capitano.
   «Cinquanta milioni di chilometri in linea retta» rispose Shati.
   «E non siamo ancora fuori? Si può sapere quant’è grande adesso l’anomalia?».
   «Questo lo chieda ai sensori» fece la timoniera, innervosita.
   «Allora?» fece Rivera, rivolto a Talyn.
   «Difficile a dirsi, Capitano» rispose il giovane, in difficoltà. «I sensori non vedono oltre l’anomalia, quindi non ci sono punti di riferimento esterni che permettano di stabilire la sua attuale estensione. L’unico riferimento che abbiamo è l’Empirical, che resta sempre più indietro».
   «Proviamo a balzare a cavitazione quantica, se sembra sicura» decise il Capitano, rivolto a Irvik. «Quest’anomalia non può aver fagocitato l’intera Galassia».
   L’Ingegnere Capo era già alla sua postazione, in comunicazione con la sala macchine. Dopo aver ricevuto una sfilza di «Go!» dai capi-reparto, stabilì che anche la cavitazione era sicura.
   «Allora io procedo...» fece Shati, dando piena potenza alle gondole. La Destiny balzò a cavitazione, viaggiando assai più veloce della luce. Di lì a pochi attimi i sensori rilevarono qualcosa.
   «Capitano, c’è un’altra nave proprio davanti a noi» avvertì Talyn.
   «Altri dispersi in quest’anomalia?» fece Rivera, corrucciato. «Okay, vediamo di chi si tratta. Arresto totale».
   La Destiny scese a velocità subluce e si arrestò. Il Capitano si alzò dalla poltrona, stropicciandosi gli occhi, mentre gli altri avventurieri borbottavano imprecazioni. Davanti a loro, infatti, campeggiava un’altra astronave di classe Nautilus, identica alla precedente.
   «Ma che scherzo è questo? Una nave gemella?!» fece Rivera.
   «È peggio di così, Capitano» fece Talyn, inquadrando una sezione dello scafo. Tutti poterono leggerne il nome: USS Empirical. «È proprio quella di prima, identica in ogni dettaglio» confermò l’El-Auriano.
   «Quindi abbiamo girato in tondo?!» fece Rivera, esterrefatto, rivolgendosi a Shati.
   «Ehi, non guardi me! Io ho pilotato sempre dritto!» si difese la timoniera.
   «Se fossimo andati dritti, non saremmo tornati al punto di partenza...» insisté il Capitano, spazientito.
   «Sì invece, se ci troviamo in una pocket dimension» intervenne Irvik. «Intendo un continuum spazio-temporale di piccole dimensioni, come l’interno di un buco nero. In questo caso lo spazio è così piccolo che, allontanandosi di un certo tratto, ci si ritrova al punto di partenza. È un po’ come fare il giro del mondo, muovendosi sulla superficie fino a tracciare un cerchio completo».
   «E come ci siamo finiti? Quest’anomalia non è un buco nero, non ha un orizzonte degli eventi...» obiettò Rivera.
   «No, ma è comunque uno spazio curvo, chiuso in se stesso, non più grande di un sistema stellare» precisò l’Ingegnere Capo. «Se è così, non possiamo uscire... salvo forse passando a un’altra realtà» suggerì.
   «Procedere. Torniamo nel Vuoto... e tiriamoci dietro l’Empirical» ordinò il Capitano, risedendo in poltrona.
   Gli ingegneri cercarono d’eseguire la procedura, già fatta cento volte, per aprire una fenditura interdimensionale che li portasse in un’altra realtà. Ma a metà del procedimento, il nucleo quantico perse energia. Il deflettore secondario brillò e si spense, senza aver raggiunto il potenziale d’accensione.
   «E adesso che succede?!» fece Rivera, esasperato.
   «No-non riesco a s-spiegarmelo» balbettò Irvik, consultando affannosamente i dati sulla consolle. «Sembra tutto in ordine, ma a un tratto l’energia è sparita. Forse è successa la stessa cosa sull’Empirical» ipotizzò.
   «Già, l’Empirical è sempre al centro di questo rompicapo...» rimuginò il Capitano, osservando la nave scientifica. «Beh, io mi sono stancato di girarci attorno. Talyn, contatta quella nave e di’ che sto per trasferirmi a bordo. Voglio verificare la situazione coi miei occhi».
   «Sei sicuro che sia prudente?» chiese Losira. «Temevamo una trappola, ed è ciò che si è verificato. Non sappiamo nemmeno se quella sia realmente una nave federale. Se ora vai a bordo, potrebbero catturarti o peggio...».
   «Siamo già tutti prigionieri di questo Nulla» ribatté l’Umano. «Se vado su quella nave, forse comincerò a capirci qualcosa. Per sicurezza terremo sempre aperto il canale dei comunicatori. Voi tenete i sensori su di me e state pronti a riprendermi a bordo, al primo segno di pericolo» raccomandò a tutti gli avventurieri.
   «Beh, almeno prenda con sé una squadra della Sicurezza!» consigliò Irvik.
   «Farò di meglio: prenderò il nostro miglior ingegnere. Mi segua, signor Irvik. Andiamo in esplorazione» ordinò il Capitano. Lasciò la sua poltroncina e si diresse verso la sala teletrasporto, adiacente alla plancia.
   «Io? Ma – ehm – perché proprio io?!» fece il Voth, allargandosi il colletto per respirare meglio.
   «Perché è l’unico che potrebbe capirci qualcosa, di questo Nulla in cui siamo intrappolati. Se i suoi colleghi dell’Empirical hanno fatto qualche analisi, qualche scoperta, voglio che lei ci dia un’occhiata. Forza, non perdiamo tutto il giorno!» lo esortò l’Umano.
   «Vengo anch’io! Passo a prendere le armi pesanti nel mio alloggio...» si offrì Shati.
   «No, tu resta qui al timone. Ho la sensazione che, qualunque sia la natura del problema, non lo risolveremo sparando. Se in qualunque momento scorgete la possibilità di fuggite, fatelo!» ordinò il Capitano, rivolgendosi di nuovo a tutti i presenti.
   «Dopo averci ripresi a bordo, s’intende!» aggiunse Irvik.
   Malgrado l’affermazione di Rivera, entrambi si munirono di phaser, più per ragioni di sicurezza psicologica che per altro. Se sull’Empirical li aspettavano guai, non sarebbero state quelle due armi a salvarli. Il Capitano e l’Ingegnere Capo salirono sulla pedana di teletrasporto e furono trasferiti sul vascello scientifico. Appena tornarono a vedere si guardarono attorno, pronti a impugnare i phaser alla prima dimostrazione d’ostilità. Ma si accorsero con sgomento che la sala teletrasporto dell’altra nave era vuota; non c’era nessuno ad accoglierli.
 
   «Beh, che maniere sono?! Non mi aspettavo trombe e grancassa, ma almeno uno straccio di ufficiale ad accoglierci... dopotutto avevamo avvertito del nostro arrivo...» commentò Irvik, guardandosi attorno deluso.
   «Uhm, molto strano...» fece Rivera, guardandosi attorno con circospezione. Impugnò il phaser e scese dalla pedana, inducendo il Voth a fare altrettanto.
   «Rivera a Shaw, mi senti? Rivera a plancia, mi sentite? Rivera a chiunque sia in ascolto... rispondete, per favore!» disse il Capitano. Ottenne solo un silenzio di tomba. «Dovrebbero esserci un centinaio di persone su questa nave, non possono essere tutte occupate» mormorò.
   «Forse hanno dei problemi alle comunicazioni. Magari non hanno captato neanche il nostro avviso d’arrivo» suggerì Irvik.
   «Può darsi... comunque non mi piace. Andiamo in plancia, lì ci sarà per forza qualcuno» borbottò Rivera.
   I due lasciarono la saletta teletrasporto, ritrovandosi direttamente in plancia. I loro sguardi spaziarono sulla sala vuota. «Questa, poi! Dove sono finiti tutti? Possibile che si siano volatilizzati negli ultimi minuti?!» sbottò Irvik.
   «Comincio a credere che non ci siano mai stati» disse il Capitano, sentendo un brivido lungo la schiena. Si accostò alla poltroncina del Capitano e del Primo Ufficiale, tastandone le superfici d’appoggio. «Come temevo, sono fredde. Nessuno è stato seduto qui, almeno negli ultimi minuti» constatò.
   «Ma li abbiamo visti coi nostri occhi...» fece Irvik, bloccandosi a metà frase. «No, come non detto. Abbiamo visto solo una trasmissione inviata da questa nave. Chiunque sia a dirigere i giochi, può farci vedere quel che vuole. Fortuna che non è altrettanto bravo con le illusioni in presenza».
   «Chissà... forse si è solo stancato del gioco. Io temo che sia un illusionista ancora più bravo di quel che credi» disse Rivera, sempre guardandosi nervosamente attorno.
   «Perché?».
   «Perché mi sono appena ricordato di una cosa. Sulle navi di questa classe, la sala teletrasporto non è adiacente alla plancia. Per salire qui avremmo dovuto prendere un turboascensore» rispose il Capitano.
 
   Ci fu un lungo, spaventoso silenzio. Infine l’Ingegnere Capo si riscosse. «Beh, allora non restano molte opzioni. La prima è che siamo impazziti...».
   «Non la compro. Dammene un’altra» fece Rivera.
   «La seconda è che ci troviamo in un ponte ologrammi...».
   «Già meglio, ma ancora non mi convince».
   «La terza è che in questa pocket dimension le leggi della fisica sono diverse dalle nostre, o comunque possono essere manipolate da chiunque diriga la baracca» concluse Irvik.
   «Ecco, temevo che ci saremmo arrivati» sospirò il Capitano. «Abbiamo affrontato nemici d’ogni risma, ma le entità sovrannaturali ancora ci mancavano».
   «Non parlo di dèi o demoni, ma di alieni basati su una fisica per noi incomprensibile» chiarì il Voth. «A questo punto potremmo davvero trovarci in un’interfase di spazio con un’altra realtà, in cui questi contorcimenti sono possibili».
   «E l’Empirical che ci sta a fare?» obiettò Rivera. «Se è una vera nave federale, che fine ha fatto l’equipaggio? E se è tutta un’illusione... chi la sta generando, e perché?».
   «Non conosco la risposta, ma credo che faremmo meglio a tornare sulla Destiny» propose Irvik.
   «Aspetta, voglio andare nell’ufficio del Capitano e vedere se ci sono dei diari» decise l’Umano. Se mai Debora era stata su quella nave, voleva capire che fine aveva fatto. Varcò la porta che portava dalla plancia all’ufficio... e si ritrovò di nuovo in plancia. Stavolta però era sull’altro lato, come se fosse appena uscito dalla sala tattica.
   «Beh?!» fece Irvik, girandosi verso di lui. «Ma come ha fatto a...».
   «Non chiedermelo. Ho varcato la soglia e mi sono ritrovato qui» disse Rivera. Attraversò in fretta la plancia, finché fu nuovamente accanto al sauro. Insieme, i due si accostarono alla porta dell’ufficio. Questa si aprì... e li introdusse a un’altra plancia. O forse era sempre la stessa?
   «Fantastico, una nave fatta solo di plance» commentò l’Umano.
   «Bello, così ciascuno può giocare a fare il Capitano» lo canzonò il Voth, meritandosi un’occhiataccia.
   «Chiunque stia facendo questo, ha un perverso senso dell’umorismo» borbottò Rivera. Si avvicinò a un’altra porta, lasciando che si aprisse, ma senza varcarla. Vide di nuovo la plancia... e anche se stesso, di schiena, che guardava attraverso la porta. Sentendosi osservato, si girò di scatto... e vide un altro se stesso che lo spiava da dietro, salvo girarsi a sua volta, e così via all’infinito. La vista era così disturbante che dovette arretrare, lasciando che l’ingresso si richiudesse, ponendo fine a quel gioco di specchi.
   «Okay, lo ammetto... adesso ho la pelle d’oca» confessò il Capitano. «Rivera a Destiny, teletrasporto immediato per due!» ordinò. Non ebbe risposta, né il raggio teletrasporto li trasse da quella nave spettrale. «Caramba, abbiamo perso i contatti» mormorò, sempre più angosciato.
   «Vuol dire che siamo bloccati qui? No, mi rifiuto di crederlo! Dev’esserci un modo per tornare in sala teletrasporto!» gridò Irvik, in preda al panico. Si guardò attorno, finché riconobbe la porta che avevano varcato quand’erano entrati per la prima volta in plancia, provenendo appunto dal teletrasporto. Si avvicinò, fece per varcarla... e barcollò sulla soglia.
   Rivera gli si precipitò accanto, e capì cosa lo aveva sconvolto. Davanti a loro si stendeva un ambiente che pareva uscito dai disegni surreali di Escher. Alto e basso non avevano senso, tanto che non si riusciva a decidere da che parte guardarlo. Era un intrico di scale che salivano e scendevano, svoltavano a destra e sinistra, si dividevano, senza che si capisse da dove venivano e dove conducevano. C’erano porte e finestre su quello che avrebbe dovuto essere il soffitto, e anche sul presunto pavimento. Alcune porte erano persino disposte orizzontalmente lungo le pareti, costringendo a scavalcare quello che appariva come un cornicione e a piegare la schiena per oltrepassarle. Quanto alle finestre, davano su analoghi ambienti labirintici. Si sarebbe detto che quel posto assurdo si estendeva all’infinito, a dispetto delle piccole dimensioni dell’Empirical.
   «Ho letto qualcosa sulle torsioni spaziali, ma questo... questo è troppo» fece Rivera, provando un senso di vertigini. In quella vide una figura umanoide che si muoveva con apparente naturalezza in quell’ambiente assurdo. Era Debora, sempre con l’uniforme da Capitano e i capelli biondi raccolti da un fermaglio in una coda di cavallo. Alzò brevemente gli occhi, guardandolo con calma surreale, e riprese a camminare lentamente, senza proferir parola. Dove mai poteva essere diretta, in quell’ambiente fatto solo di scale, porte e finestre?
   «Ehi, Debora! Dove vai... mi devi una spiegazione!» gridò il Capitano, sul punto d’oltrepassare la soglia per gettarsi in quel luogo delirante.
   «Fermo, Capitano! Se ci perdiamo laggiù, potremmo non tornare mai indietro!» lo ammonì Irvik. Poiché le parole non bastavano, lo agguantò e lo trattenne fisicamente, impedendogli di varcare la soglia. «Crede che quella sia la sua Debora? L’ha ammesso anche lei che siamo in balìa di qualche fenomeno – probabilmente di qualche entità – sovrannaturale. Sono pronto a scommettere che la sua vecchia fiamma è ancora nella Federazione, e quella è solo un’illusione!».
   «Sì, hai ragione» ammise Rivera, ricomponendosi. «Ma non posso fare a meno di chiedermi... se questa fosse davvero l’Empirical, alterata dalla lunga permanenza nell’anomalia? Se Debora e il suo equipaggio ne fossero stati in qualche modo... assorbiti? E se lo stesso capitasse, alla lunga, anche alla Destiny e a noi?!».
   Così dicendo, il Capitano osservò Debora che scendeva una lunga scalinata. Un altro ufficiale stava salendo lungo la stessa scala, così che si sarebbero incrociati pressappoco a metà. Il secondo individuo però calcava i gradini lungo l’altro lato, così che il suo corpo era inclinato a un angolo di 90º rispetto a Debora. Morbosamente affascinato, Rivera osservò i due che si passavano accanto, assurdamente inclinati ad angoli diversi. Non rallentarono il passo, non si guardarono, non parlarono; insomma non entrarono minimamente in contatto. Chissà se s’ignoravano volutamente, o se erano prigionieri ciascuno della propria sfaccettatura di realtà, incapaci di vedere il quadro completo? Entrambe le possibilità erano disturbanti.
   L’Umano e il Voth indugiarono sul ciglio di quel mondo surreale e infinito, che pareva sul punto d’avvolgerli e assorbirli nel suo nonsense. Poi, come un’ancora di salvezza, il comunicatore del Capitano si attivò. «Bzzzt... ci riceve, signore? Abbiamo superato le interferenze gravimetriche» risuonò la voce di Talyn. «Va tutto bene laggiù, o vuole che vi riprendiamo a bordo?».
   «Rivera a Destiny, teletrasporto d’emergenza per due, ora!» gridò il Capitano. Lui e l’Ingegnere Capo restarono immobili, mentre il teletrasporto della loro nave li traeva in salvo da quell’incubo.
 
   «Allora?» chiese Losira, quando rimisero piede sulla plancia della Destiny.
   «Allora siamo sotto attacco» rispose senza mezzi termini il Capitano. «Qualcuno ci ha attirati in quest’anomalia, sfruttando l’Empirical... o una sua proiezione, perché dubito che quella sia una vera astronave. L’interno è labirintico e l’equipaggio non reagisce alla nostra presenza. Il punto è che ora siamo in ostaggio, e può capitarci di tutto».
   «Aspetta... chi o cosa ci ha intrappolati?!» si allarmò la Comandante.
   «Non lo so ancora. Deve trattarsi di una qualche entità incorporea, direi extra-dimensionale. Una a cui piacciono gli esperimenti. Non so... forse un Q» ipotizzò Rivera.
   «Uhm, questo non sembra il modus operandi dei Q» obiettò Irvik. Sedette a una consolle e aprì il database federale, scorrendolo rapidamente.
   «Che stai facendo?» chiese il Capitano, ancora scosso dall’esperienza.
   «Studio tutte le entità incorporee a noi note, cercando delle similarità comportamentali nei precedenti incontri» rispose il Voth. «Vediamo... escluderei gli Organiani, che sono troppo pacifici, e non sembrano in grado d’alterare lo spazio-tempo nel modo che abbiamo visto. Escludo anche i Profeti e i Pah-wraith di Bajor, che hanno bisogno d’intervenire attraverso degli Emissari o degli oggetti come i Cristalli. Metron, Thasiani... forse. Douwd... già più probabile. Ah-ah!» esclamò, fermandosi su una pagina.
   «Hai trovato qualcosa?» s’interessò Rivera, accostandosi.
   «Eccome. Guardi qui, Capitano!» si animò Irvik. «Due secoli e mezzo fa, l’Enterprise-D incappò in un’anomalia identica a quella in cui ci troviamo ora. Anche loro non riuscivano a uscirne, perché facendo un certo tragitto si ritrovavano sempre al punto di partenza. Anche loro videro astronavi che parevano reali, ma non lo erano: prima un Falco da Guerra romulano, poi l’USS Yamato. Addirittura, la squadra che visitò la Yamato osservò un interno labirintico come quello che abbiamo visto noi. Quelli dell’Enterprise giunsero alla conclusione d’essere come topi da laboratorio, le cui reazioni erano testate e osservate da una strana entità...».
   «Quale entità?» chiese il Capitano, sulle spine.
   «Quando infine si palesò, l’essere disse di chiamarsi... Nagilum» lesse l’Ingegnere Capo. «Pareva trascendere lo spazio e il tempo, al punto da non avere familiarità nemmeno coi concetti più basilari dell’esistenza umanoide. Ad esempio, gli servì qualche minuto per comprendere l’esistenza di due sessi, col dimorfismo maschi-femmine».
   «Urca, non fanno educazione sessuale dalle sue parti?» ironizzò Losira.
   «Ma la cosa più preoccupante» proseguì Irvik, «era che non conosceva nemmeno il concetto di morte. L’idea che un essere senziente sia vivo in un dato momento, e non lo sia più in seguito, era estranea alla sua mente. Durante i colloqui col Capitano Picard, arrivò a chiedergli espressamente che cos’è la morte».
   Cadde un silenzio greve d’inquietudine, persino di terrore. Infine il Capitano si schiarì la voce. «Mi domando... quanto si debba essere alieni, per non conoscere la morte» mormorò. «Voglio dire, persino gli esseri inorganici la comprendono» aggiunse, alludendo a Naskeel.
   «Confermo» disse il Tholiano. «Noi possediamo il concetto di morte, fin dall’alba della nostra civiltà. Tutti gli esseri senzienti, organici o inorganici, l’hanno necessariamente sviluppato».
   «Già, persino le Intelligenze Artificiali sanno che la loro esistenza può avere fine...» rimuginò Irvik. «Gli unici a non saperlo sono...» si bloccò.
   «Sì? Continua!» lo esortò il Capitano.
   «... i bambini molto piccoli» rivelò il sauro, pensando ai suoi figli. «Loro non hanno mai visto la morte, e anche se la vedono, stentano a comprenderla. Fino ai cinque anni non la capiscono affatto, pur soffrendo per l’eventuale scomparsa dei parenti; ad esempio continuano a chiedere dove siano andati. Dai cinque ai nove anni ne hanno una comprensione limitata, ad esempio confondendola col sonno o la malattia, o pensando che sia reversibile, o che riguardi solo “gli altri” e non anche loro stessi. Solo dal nono anno in poi ne afferrano le implicazioni. L’età esatta può variare da un individuo all’altro, dato che alcuni bambini sono più precoci anche in questo. Il fatto che Nagilum non conoscesse la morte mi fa pensare che...».
   «... che sia un bambino troppo cresciuto?!» chiese Losira.
   «In un certo senso, sì. È chiaramente un essere senziente, e molto intelligente, ma gli manca la conoscenza pratica, applicata. Perciò deve fare degli esperimenti per progredire nella comprensione. E purtroppo, per questi esperimenti si serve di gente come noi» disse, continuando a scorrere il documento. «Qui dice che uccise il timoniere dell’Enterprise, Haskell, con la sola forza del pensiero...».
   A queste parole Shati lasciò silenziosamente la postazione del timone.
   «... e manifestò la volontà di uccidere altri, fino a un terzo dell’equipaggio, o persino la metà, solo per comprendere tutte le possibili sfaccettature della morte» proseguì Irvik. «Era così inarrestabile che Picard fu costretto a ricorrere a un terribile bluff, se di bluff si trattava. Attivò l’autodistruzione dell’Enterprise, preferendo uccidere tutti, anziché assistere a una lenta strage. Funzionò, poiché all’ultimo momento Nagilum liberò l’astronave dall’anomalia. Ma anche dopo di allora fu capace di contattare Picard, sostenendo che un giorno sarebbe tornato a studiare i mortali».
   «E quel giorno è arrivato» sospirò Rivera. «Mi chiedo perché proprio noi...».
   «È semplice, Capitano» disse una voce cavernosa alle sue spalle. «Io viaggio tra una realtà e l’altra, e voi fate altrettanto. I vostri continui spostamenti hanno attirato la mia attenzione. Vi ho osservati a lungo, senza mai interferire... ma ritengo che sia ora di prendere contatto».
   Il Capitano, che dava le spalle allo schermo principale, s’irrigidì a quella voce. Si girò lentamente, preparandosi al confronto. A loro volta, Irvik e gli altri si voltarono o alzarono gli occhi allo schermo. E videro l’entità... o per meglio dire, videro l’immagine con cui quell’entità incorporea aveva deciso di palesarsi.
   Era un volto, solo un volto triangolare, che galleggiava nel Nulla. La sua epidermide era di un grigio-verde, come quella di un rettile, un poco cangiante in base alle espressioni. La bocca senza labbra era sottile come un taglio, il naso una sporgenza appena accennata. Gli unici elementi ben definiti erano gli occhi. Due occhi indagatori, ben distanziati, scuri e a mandorla. Con quell’aspetto Nagilum si era mostrato agli ufficiali dell’Enterprise-D, tanto tempo prima. Ma non era che una proiezione: un espediente per dare agli umanoidi qualcosa con cui interloquire. Il vero Nagilum, qualunque cosa fosse, era tutt’attorno a loro, invisibile e incorporeo.
   «Nagilum» esordì il Capitano, «siamo – ehm – onorati di fare la tua conoscenza...».
   «Voi avete paura» lo interruppe l’entità. «Tutti voi temete che sia qui per uccidere, come minacciai di fare con l’equipaggio dell’Enterprise».
   «Visti i precedenti, è un’eventualità che dobbiamo prendere in considerazione» ammise Rivera.
   «I vostri timori sono immotivati. Le mie intenzioni non sono ostili» sostenne Nagilum. «Così come i vostri popoli hanno continuato a esplorare in questi secoli, accrescendo le proprie conoscenze, altrettanto ho fatto io. Ora comprendo la morte, e l’angoscia che essa vi provoca. Non intendo arrecare distruzione, a meno che non sia per difendermi».
   «Lieti di sentirlo» disse il Capitano, ancora teso come una corda di violino. «Il modo in cui ci hai attirati in quest’anomalia ci aveva fatto temere il peggio. Allora l’Empirical e il suo equipaggio cosa sono, un’illusione?» volle sapere.
   «Voi la chiamereste così. Un’illusione molto realistica, ai limiti della realtà... praticamente reale, finché io la tengo in essere» confermò Nagilum. «Ma quando non mi occorre più...» lasciò in sospeso. L’astronave, ancora inquadrata dietro di lui, si dissolse.
   «È svanita» confermò Talyn dalla postazione sensori. «Niente rottami, nessun residuo. Come se non fosse mai esistita».
   Rivera tirò un sospiro di sollievo. Almeno Debora e il suo equipaggio erano salvi. «Già, ma noi?» si chiese, fronteggiando quell’entità aliena e incomprensibile. «Grazie del chiarimento. Ora però vorrei capire che bisogno c’era d’attirarci con l’inganno. Non potevi prendere contatto in modo più diretto, come stai facendo ora?» chiese.
   «Mi serviva che foste nel mio dominio, e sapevo che non ci sareste entrati spontaneamente» rispose Nagilum con schiettezza.
   «Perché ti serviva? Aspetta... questo è il tuo campo giochi, non è così? Un pezzo del tuo cosmo, traslato in un altro. Solo così sei al massimo dei tuoi poteri... solo così mantieni il controllo della situazione» indovinò il Capitano.
   Dietro di lui, Irvik si era recato silenziosamente alla postazione sensori. Prese a esaminare lo spazio circostante assieme a Talyn, cercando di rilevare Nagilum. Anche se era incorporeo, doveva pur essere fatto di qualcosa. Un flusso di particelle, un campo elettromagnetico, un’alterazione del tessuto spazio-temporale... doveva esserci qualcosa che lo differenziasse da dove non c’era. A suo tempo l’Enterprise-D non aveva rilevato nulla, ma la Destiny aveva sensori assai più evoluti, quindi valeva la pena tentare, mentre Rivera lo distraeva.
   «La sua deduzione è corretta, Capitano, anche se mi sfugge il senso dell’espressione “campo giochi”» ammise Nagilum.
   «Quindi che cosa vuoi da noi? Stai ancora cercando di familiarizzare con l’esistenza corporea?» chiese Rivera.
   «In un certo senso» confermò l’essere. «Ora ho compreso concetti come la mortalità e il dualismo maschio/femmina. Sto anche familiarizzando con le nozioni di bene e male, per quanto esse mi sembrino piuttosto relative...».
   «In certi casi sono oggettive» disse a mezza voce il Capitano.
   «Come preferisce, non è di questo che intendo occuparmi adesso» tagliò corto Nagilum. «Ultimamente mi sono interessato al concetto di Fato o Destino. Gli esseri senzienti, come me e voi, sono destinati ad agire in un determinato modo? In questo senso, siamo tutti prigionieri della Sorte? Oppure godiamo di quello che alcuni di voi hanno definito “libero arbitrio”?».
   «Che domandina da nulla, eh?» fece Losira.
   Rivera dovette radunare i pensieri prima di rispondere. «Nagilum, hai fatto una delle domande più complesse... forse la più complessa che un essere senziente possa porsi. Di certo la più destabilizzante, visto che ci mette tutti in discussione. Siamo liberi o meno? Siamo artefici della nostra sorte o schiavi di un Fato irrevocabile? Francamente, io non lo so. Non sono un filosofo, e del resto mi pare che i filosofi abbiano detto tutto e il contrario di tutto. Comunque mi piace pensare che, malgrado la nostra ignoranza e la nostra limitatezza, abbiamo la possibilità di scegliere. Ad esempio, noi abbiamo scelto di provarle tutte per tornare a casa, anziché fermarci da qualche parte».
   «Un interessante punto di vista» concesse Nagilum. «Ma ipotesi e opinioni non mi bastano. Devo procedere alla verifica sperimentale».
   «E come conti di procedere? Che vuoi farci?!» sobbalzò Rivera, vedendo avvicinarsi il punto cruciale di tutta la faccenda.
   «Come ho detto, non sono qui per distruggervi. Intendo solo esplorare il regno del possibile» rispose l’entità, sibillina. «Designerò uno di voi – uno solo – per il mio esperimento. Devo ancora decidere chi, dato che tra voi ci sono molti individui interessanti. Tra poco renderò nota la mia scelta e passerò alla fase sperimentale. Il resto di voi sarà libero, al termine della prova».
   «E il prescelto? Non sarà libero?!» si allarmò il Capitano.
   «Dipende dal fatto che il libero arbitrio esista o meno» rivelò Nagilum. «Se esiste, il vostro collega starà meglio di prima. Altrimenti, suppongo che non cambierà nulla. A presto, Capitano; non vedo l’ora di discutere i risultati» disse l’entità. E com’era apparsa, così svanì, lasciando lo schermo invaso dalla foschia bluastra del Nulla.
 
   «Allora, facciamo il punto della situazione» disse il Capitano di lì a poco. Aveva convocato gli ufficiali superiori in sala tattica per una riunione d’emergenza, compresa Giely, il medico di bordo, nonché sua attuale compagna. «Siamo alle prese con un’entità semi-onnipotente, dotata di grande intelligenza e conoscenze, ma di scarsa esperienza pratica. Un’entità che ci tiene prigionieri in quest’anomalia, che poi è una sacca del suo Universo d’origine. Un’entità capace di creare illusioni così realistiche da essere praticamente reali, almeno finché le tiene in essere. Con tutto questo, Nagilum mi sembra come un bambino che fa esperimenti... e questa è la cosa che più mi preoccupa» ammise.
   «Peggio ancora, è come un bambino a cui nessuno ha mai detto no» commentò Irvik.
   «Uhm, tra tutti noi, tu sei l’unico ad avere figli. Puoi spiegarti meglio?» chiese Rivera.
   «Beh, non ho mai potuto trascorrere molto tempo con loro, ma una cosa l’ho capita» disse il Voth. «Ricevere dei no, cioè vedersi porre dei limiti, è fondamentale per la maturazione psichica. Avete mai visto un bambino che fa i capricci? Un bambino che piange, si getta a terra, magari cerca di rompere gli oggetti che gli capitano a tiro? Guai a cedere davanti a queste scenate, guai ad accontentarlo, perché il pargolo ne dedurrà di poter sempre ottenere ciò che vuole. E si porterà dietro questa convinzione – magari in forma inconscia – fino all’età adulta, con risultati disastrosi. La maggior parte dei comportamenti criminali e violenti deriva proprio dal non accettare l’autorità, le imposizioni sociali, l’inevitabile confronto con gli altri. Ebbene, ho l’impressione che questo Nagilum sia come un grosso bambino che non si è mai visto imporre la disciplina. Ai tempi dell’Enterprise uccise solo per curiosità. Stavolta si è mostrato più conciliante, ma provate a scontentarlo, a negargli ciò che vuole... e sarà la fine» avvertì.
   «Ma insomma, cos’è questo Nagilum?» chiese Giely. «Non sembra essersi evoluto da creature inferiori, o avrebbe ricordato cos’è la morte, senza doverlo imparare daccapo. E non sembra nemmeno essere stato creato da qualcun altro, come un’Intelligenza Artificiale. In effetti, sembra del tutto incorporeo... cosa che, come medico, stento a credere...».
   «Conosciamo altre creature incorporee, che sfuggono alle nostre classificazioni» sospirò Irvik. «Ma in questo caso, sospetto che siamo di fronte a un’Intelligenza Auto-Generata, come diciamo noi Voth».
   «Un Cervello di Boltzmann?» chiese Rivera.
   «Sì, credo che voi federali lo chiamiate così. Strana definizione. Quindi sa di che si tratta?» chiese l’Ingegnere Capo.
   «Solo a grandi linee. Un Cervello di Boltzmann è un’ipotetica entità consapevole di sé, nata a causa di fluttuazioni quantistiche da uno stato di caos» disse il Capitano, ricordando vagamente le lezioni d’Accademia. «Non chiedermi cosa significa all’atto pratico, però».
   A questo punto Talyn, che già da un pezzo scalpitava per dire la sua, prese la parola. «È semplice, Capitano. L’idea è che, dato un tempo sufficientemente lungo, le fluttuazioni quantistiche casuali possono formare spontaneamente particelle di qualunque struttura e complessità, fino ad approssimare un cervello umanoide, forse persino con false memorie. In effetti, c’è chi pensa che tutti noi siamo Cervelli di Boltzmann, che s’illudono d’essere persone in carne e ossa» spiegò l’El-Auriano. «Comunque, anche senza arrivare a questi estremi, resta la possibilità di un’Intelligenza Auto-Generata, come la chiama Irvik. Si ritiene che il nostro Universo, e anche la maggior parte degli altri, sia troppo giovane perché ciò sia accaduto. Ma se il cosmo di Nagilum è abbastanza vecchio, tanto da aver raggiunto lo stato di Morte Termica, ecco che potrebbe essersi verificata quest’occorrenza».
   «Okay, quindi Nagilum ha una data di nascita» ragionò Losira. «Ma quindi potrebbe anche morire? Sì, ho capito che non aveva il concetto di morte... ma questo è irrilevante. Un bambino non conosce la morte, eppure questo non lo mette al riparo da essa. Per Nagilum potrebbe valere lo stesso? Ammettiamo che non invecchi e non possa perire di morte naturale... ma potrebbe essere ucciso?».
   A questa domanda calò il silenzio. Infine Irvik prese la parola, con voce raschiante. «Ehm, consiglio caldamente a tutti di moderare i termini. Questo Nagilum sembra essere un buon osservatore. Non è da escludere che ci stia ascoltando, proprio in questo momento. Quindi v’invito a fare discorsi più... concilianti» suggerì.
   Il Capitano fissò cupamente il tavolo, su cui teneva le mani intrecciate. Poi si rivolse a Talyn. «Hai detto che un Cervello di Boltzmann dovrebbe essere fatto pur sempre di particelle» disse.
   «In teoria, sì...».
   «Quindi è comunque materia. Magari diffusa, magari impalpabile, ma pur sempre materia» insisté Rivera.
   «Sì».
   «I sensori hanno rilevato niente del genere, attorno a noi? Nessun sistema complesso e stabile?» chiese cautamente il Capitano, quasi aspettandosi d’essere fulminato da Nagilum.
   «Gravitoni» sussurrò Irvik, prima che potesse farlo il giovane. «C’è un campo di gravitoni che si comporta assai stranamente, con delle oscillazioni armoniche. Non so se sia proprio Nagilum, o piuttosto una manifestazione del suo pensiero o del suo potere. Diamine, forse è solo la cosa che tiene aperta quest’anomalia».
   «Continui a indagare... con discrezione» mormorò Rivera. Avevano tutti abbassato la voce, da quando Irvik aveva ventilato la possibilità che Nagilum li stesse ascoltando. Naturalmente era una precauzione inutile. Se quell’essere era in ascolto, li avrebbe uditi comunque. Il Capitano non disse altro, ma le implicazioni erano chiare. Voleva che Irvik determinasse se Nagilum poteva essere ucciso, e si preparasse a farlo, qualora la situazione fosse degenerata. Un asso nella manica, da usare solo in caso d’estrema necessità.
   «Capisco, signore» bisbigliò il sauro, tornando ad allargarsi il colletto per respirare meglio. «Guarda un po’ in che situazione mi ritrovo» si disse. «Se questo Nagilum si accorge delle nostre macchinazioni, sarò il primo che fulminerà!».
 
   Per il resto della giornata Irvik si concentrò sui sensori, assieme a Talyn e ad altri esperti. Cercarono di determinare la natura di Nagilum, il modo di combatterlo ed eventualmente ucciderlo. Ma non ottennero granché. Rilevavano il campo armonico di gravitoni, ma non erano certi di come guastarlo. Soprattutto non sapevano se questo avrebbe davvero ucciso l’entità, o l’avrebbe solo fatta arrabbiare. Inoltre non si spiegavano come, a partire da quelle rade particelle, Nagilum fosse in grado di manipolare così drasticamente l’ambiente. Come creava l’anomalia, come proiettava le illusioni? E cosa più importante, come riusciva a uccidere?
   A sera, Irvik si sentiva stanco e deluso dalla mancanza di progressi. Nagilum non c’era più fatto sentire, dopo la chiacchierata di quella mattina. Ma tutti ricordavano che aveva promesso di scegliere a breve uno di loro, con cui condurre chissà quale esperimento. Così ognuno era distratto dal timore che toccasse proprio a lui; e il passare del tempo accresceva la tensione. Ormai il giudizio doveva essere imminente...
   «Ehi, che brutta cera» notò il Capitano, accostandosi all’Ingegnere Capo. «Torna nel tuo alloggio, fatti una dormita» consigliò.
   «E se Nagilum si rifacesse vivo?» obiettò Irvik.
   «Hai trovato il modo per liberarci?».
   «No» ammise il sauro, scornato.
   «Allora non farà differenza. Basta, abbiamo fatto un doppio turno, ora è inutile che ci priviamo anche del sonno. Dico a tutti: lasciate la plancia al turno di notte!» ordinò Rivera.
   Gli avventurieri erano così stanchi, a parte Naskeel, che nessuno si oppose all’ordine. Lasciarono la plancia ai colleghi del turno successivo e tornarono ai loro alloggi, sperando di vedere l’indomani. Quelli del turno di notte avevano comunque l’ordine di svegliare il Capitano e gli ufficiali superiori, se Nagilum fosse riapparso. Inoltre Naskeel, che in quanto Tholiano non aveva bisogno di dormire, si offrì di restare in plancia fino al termine dell’emergenza.
 
   Con queste rassicurazioni, anche Irvik tornò al suo alloggio. Consumò una rapida cena, dopo di che, malgrado la stanchezza, non andò subito a dormire. Era troppo nervoso, aveva bisogno di qualcosa per distrarsi e calmarsi. Mentre era ancora seduto in tavola, gli cadde lo sguardo sul Cubo di Rubik. Lo aveva lasciato lì quella mattina, tutto scombinato. Allora il Voth lo prese tra le mani tridattile e tornò a giocherellarci. In breve riuscì a uniformare uno dei lati, quello bianco. Allora passò a un altro, quello blu, ma si accorse che qualunque tentativo di metterlo in ordine finiva invariabilmente per scombinare il lato bianco. Dopo parecchi minuti di sforzi si ritrovò con un Cubo che era tornato un guazzabuglio, con nessun lato in ordine.
   «Sigh... sembra tanto la mia vita» mormorò l’Ingegnere Capo, sconsolato. «Ogni volta che riesco ad accomodare un lato, ne guasto un altro».
   «Io posso aiutarti» disse una voce cavernosa alle sue spalle. Una voce che Irvik ricordava fin troppo bene.
   Il Voth sobbalzò sulla sedia per lo spavento. Il Cubo gli sfuggì dalle mani tridattile, cadendo sul pavimento e rotolando per un breve tratto, prima di fermarsi. Sulle prime Irvik rimase paralizzato dal terrore, con la bocca semiaperta e il cuore che batteva all’impazzata. L’entità era tornata... e ce l’aveva proprio con lui. Forse voleva punirlo per aver cercato di sondarlo... ma un momento, cos’aveva detto? Che era lì per aiutarlo?!
   Passati i primi attimi di terrore, l’Ingegnere Capo si volse lentamente, con tutta la sedia girevole. Il suo alloggio era vuoto. Ma l’oloschermo della scrivania si era acceso, mostrando l’inquietante volto senza corpo di Nagilum. Gli occhi da rettile erano fissi su di lui. Da quanto lo stava osservando?
   «Ehm, benvenuto nel mio umile alloggio!» lo accolse Irvik, riuscendo finalmente ad alzarsi. «Cosa posso fare per te?».
   «Puoi collaborare al mio esperimento» rispose prontamente l’essere.
   Il Voth, che aveva temuto per la propria incolumità, rimase interdetto. «Collaborare...?» mormorò.
   «... al mio esperimento, sì» confermò Nagilum. «Non ricordi cosa vi ho detto qualche ora fa? Intendo verificare se esiste il libero arbitrio, e per questo mi occorre uno di voi. Non è stato facile scegliere, ma infine ho deciso che sarai tu il mio soggetto. Tu, che per primo hai intuito la mia vera natura. E soprattutto, tu che desideri più d’ogni altro tornare a casa. Io posso esaudire questo desiderio, sai?».
   «Davvero?!» si emozionò Irvik. Quando aveva capito che l’Empirical era un’illusione, anche le sue speranze di tornare a casa era svanite. Ma le parole dell’entità le riaccesero improvvisamente.
   «Sì, certo. Perché, temi forse un inganno?» si accigliò Nagilum. «Ah, capisco... i miei esperimenti di stamane ti hanno reso sospettoso. Avendo sperimentato le mie illusioni, temi che anche questa offerta sia illusoria. Ma ti garantisco che non è così. Vedi, io posso viaggiare da una realtà all’altra, e posso anche coprire grandi distanze spaziali, raggiungendo qualunque punto del cosmo desidero. Cosa più importante, ai fini dell’esperimento, posso portare con me ciò che desidero. Oggetti fisici... e anche persone. In questo caso, potrei portarti con me. Ti andrebbe se ti riportassi a casa tua, sul tuo pianeta natale, nel Quadrante Delta?» lo tentò.
   Irvik si umettò le labbra, mentre rigirava mentalmente le parole dell’entità, cercando di capire se contenevano ambiguità o inganni. Non ne trovò nessuno. Nagilum pareva bene intenzionato... a meno che l’intero discorso fosse una grande menzogna.
   «Non nego che mi piacerebbe moltissimo tornare a casa» ammise il Voth. «Rivedere i luoghi in cui sono cresciuto, riabbracciare amici e parenti. E soprattutto... tornare dai miei figli».
   «Sì, i tuoi sentimenti per loro sono forti» percepì Nagilum. «Perché li ami così tanto? Loro non hanno mai fatto nulla di utile per te».
   «Sono ancora dei bambini... ma non è questo il punto» deglutì Irvik. «Non so se posso spiegare... loro sono i miei figli. Sono parte di me, della mia identità. Stare lontano da loro... non so, è come perdere una parte di me stesso».
   «Una parte di te stesso... interessante. Io non ho mai perso parti di me stesso» rimuginò Nagilum. «Ebbene, a maggior ragione dovresti accettare la mia offerta».
   «Infatti vorrei, ma... che ne sarà degli altri? I miei compagni della Destiny, intendo. Anche loro desiderano ardentemente tornare a casa» ricordò Irvik.
   «Ho promesso di non coinvolgerli nel mio esperimento» ricordò l’entità.
   Irvik rimase interdetto. Da un lato era lieto che Nagilum si concentrasse solo su di lui, senza minacciare gli altri. D’altro canto, però, il suo “esperimento” non sembrava affatto pericoloso. Diamine, se era disposto a riportarli a casa, allora che lo estendesse pure a tutta la nave!
   «Un momento... tu cosa ci guadagni?» chiese il Voth, assalito da un pensiero allarmante. «In che modo riportarmi a casa ti aiuterà a indagare il libero arbitrio?».
   «Domanda pertinente» riconobbe Nagilum. «Devi sapere che è da un po’ che ti osservo, anche da prima di rivelarmi. Stamattina pensavi che, se anche riuscissi a tornare, ormai è troppo tardi. Temi che la tua vita sia rovinata. Non è così?».
   «In effetti...» ammise Irvik, chiedendosi dove volesse andare a parare. «È tutta colpa del mio divorzio. Per cinque anni ho visto pochissimo i miei figli. Solo due giorni al mese, secondo la sentenza del giudice. Poi ho avuto la dabbenaggine di fare un pellegrinaggio sulla Terra... e mi sono ritrovato su questa nave, persa nel Multiverso! Così sono quattro anni che i miei figli non li vedo per niente. Non so come siano diventati... e loro non conoscono me. Sanno solo quel che gli ha detto Maia – la mia ex moglie – e dubito che siano belle cose. Quindi, anche se tornassi da loro oggi stesso... ormai il danno è fatto. Saranno del tutto estraniati. Non ne vorranno sapere di me. Ecco, è questo che non riesco a sopportare!» si sfogò.
   Nagilum aveva ascoltato attentamente la lamentela, senza interromperla. Solo quando fu conclusa riprese la parola. «Dici che ormai il danno è fatto. Ecco, è questo il tuo errore. Sei un essere limitato, e come tale ragioni. Ma io non soffro queste limitazioni. Lo sai che posso riportarti indietro non solo nello spazio, ma anche nel tempo?» rivelò.
   A queste parole, Irvik rimase ammutolito. Il suo sogno più selvaggio e irrealizzabile era d’un tratto a portata di mano. Poteva fare ciò che ogni mortale aveva sempre sognato: riscrivere la propria vita, cancellando gli errori peggiori. «Indietro nel tempo! È una proposta allettante, ma... se torno indietro, non incontrerò me stesso? Dovrei convincere il mio alter-ego passato a non fare certe cose. E se ci riesco, cambiando la linea temporale... io non svanirò?!» squittì, nuovamente angosciato.
   «Il tipo di viaggio che ti propongo non è come quelli degli Agenti Temporali» spiegò Nagilum. «Tu non sarai fisicamente trasferito nel passato. No, io infonderò la tua coscienza attuale nel tuo corpo del passato. Dunque ci sarà una sola versione di te, quella più giovane, ma con la mente e i ricordi che hai adesso. Grazie alla conoscenza del futuro, potrai agire diversamente. Potrai evitare quegli errori che oggi ti fanno tanto soffrire e imboccare una strada diversa. Non appena la scelta sarà fatta, il continuum spazio-temporale si riassesterà. Allora la tua coscienza tornerà al presente. Un presente che, tuttavia, sarà cambiato... si spera in meglio. Sarai a casa tua, e i tuoi figli non avranno mai sofferto la lontananza. Questo è ciò che ti offro. E pochi mortali invero rifiuterebbero una tale occasione».
   Pochi? Nessuno, si disse Irvik. Questo era il più grande dono che si potesse immaginare. Altro che viaggi indietro nel tempo, scontri con gli alter-ego e paradossi temporali! In questo modo tutto sarebbe filato liscio. Avrebbe potuto evitare quel singolo errore che gli aveva rovinato la vita, e quella dei suoi figli. E in men che non si dica si sarebbe trovato in una nuova linea temporale, dove le cose erano andate per il meglio.
   «É... molto generoso da parte tua» mormorò il Voth. «Ma ancora non capisco. Tu dicevi di voler appurare se esiste il libero arbitrio...».
   «Infatti è questo il mio scopo» confermò Nagilum. «Se otterrai ciò che desideri, significherà che l’arbitrio esiste, e che tutto dipende dalle nostre scelte. Scelte buone conducono alla felicità, scelte cattive – o anche solo male informate – alla sofferenza. Viceversa, se nemmeno col mio aiuto realizzerai il tuo desiderio, vorrà dire che ciascuno di noi è asservito a un Destino superiore, che non si può in alcun modo contrastare. Non ti nascondo che preferirei il primo esito. Ma accetterò il risultato, quale che sia. Ebbene, ci stai? Perché la riuscita dell’esperimento dipende anche dalla tua collaborazione. Se non accetti, sarò costretto a designare un altro al posto tuo» avvertì.
   «No! Non c’è bisogno d’interpellare altri! Accetto la tua offerta!» gridò Irvik, temendo di farsi sfuggire quell’occasione irripetibile. Quando mai un altro essere semi-onnipotente si sarebbe offerto di realizzare il suo più grande desiderio? E senza chiedere nulla in cambio, peraltro! Nulla, tranne osservare il lieto fine?
   «Mi fa piacere. Ero quasi certo che avresti accettato» commentò Nagilum.
   «Certo, perché non... uh» fece l’Ingegnere Capo, guardandosi attorno. Gli era appena venuto un dubbio atroce. «Se cambio la mia vita, che ne sarà della Destiny?» mormorò.
   «Non è ovvio? Se non salirai mai su questa nave, i suoi occupanti dovranno cavarsela senza di te» rispose l’entità.
   «Già... chissà se ci riusciranno» disse Irvik a disagio. Ricordava bene come le sue competenze avessero salvato la nave in più di un’occasione. E non solo la nave! Quand’erano nello Specchio, lui e gli altri avevano salvato la Terra dalla distruzione. In seguito avevano impedito agli Undine d’attirare il pianeta Ferasa nello Spazio Fluido, aggiungendolo alla loro collezione. Senza di lui, gli avventurieri sarebbero riusciti in queste imprese? O piuttosto si sarebbero fatti ammazzare già alla prima avventura?
   «Ti vedo titubante» notò Nagilum. «Non starai riconsiderando la mia generosa offerta, spero».
   «Io... sono solo preoccupato per loro. Ormai sono dei cari amici» confessò il Voth.
   «Hai la presunzione di credere che senza di te siano spacciati?».
   «Beh, no... o sì. Non saprei, sono confuso!».
   «Considera che il nostro esperimento varrà anche per loro» ragionò l’entità. «Se esiste il libero arbitrio, e il futuro è nelle nostre mani, allora avranno buone probabilità di cavarsela. Se invece il Destino è già scritto... allora nemmeno io potrò mai alterarlo».
   «Sì... sembra logico...» mormorò Irvik, ancora a disagio. «Del resto, se io torno, potrei avvertire la Flotta Stellare affinché mandi soccorsi...» ragionò, cercando di sollevarsi dal senso di colpa per abbandonare i compagni.
   «Anche questo è corretto. Allora sei pronto a procedere?» lo pressò Nagilum, fissandolo con gli occhi scuri e indagatori.
   «S-sì, sono pronto» mormorò il Voth. Si guardò attorno, quasi temendo di vedere il Capitano o altri che lo osservavano con disapprovazione per quello che, ai loro occhi, doveva apparire come un tradimento. Ma Irvik non aveva mai chiesto di finire disperso con loro, era successo e basta. Non aveva alcun obbligo nei loro confronti. No, i suoi obblighi erano solo verso la sua patria e la sua famiglia; ed era proprio la famiglia che intendeva salvare.
   «Bene, allora raccogli quell’oggetto» disse Nagilum, accennando al Cubo di Rubik che giaceva dimenticato sul pavimento.
   «Quale... oh, intendi il Cubo? Come vuoi...» fece Irvik, sorpreso. Raccattò il rompicapo e lo accostò all’oloschermo da cui l’essere gli parlava. «È solo un vecchio gioco terrestre. Perché t’interessa?».
   «Le sue innumerevoli combinazioni sono come i possibili esiti della linea temporale. Ci sono molti modi per fallire, e pochi per riuscire» notò l’entità. «Mi sembra l’oggetto adatto per restare in contatto con te. Perché naturalmente dobbiamo restare in contatto, altrimenti come potremmo discutere l’esito dell’esperimento? Quindi lo trasformerò in un tracciatore, che mi permetta di localizzarti nello spazio e nel tempo. Osserva!».
   Sotto gli occhi sgranati di Irvik, il Cubo prese a muoversi da sé, coi segmenti che ruotavano sugli assi indipendenti.
   «Ora mi serve la tua collaborazione» avvertì Nagilum. «Io posso fornire l’energia per il trasferimento di coscienza, ma tu devi fare da guida. Concentrati! Pensa qual è stata la scelta sbagliata che vuoi rimediare. Pensa qual è il momento cruciale del passato che devi cambiare, per correggere i successivi eventi. Focalizza tutta la tua attenzione sul bersaglio» lo istruì, mentre il Cubo continuava a ruotare all’impazzata.
   «Sì, cerco di concentrarmi...» mormorò Irvik, chiudendo gli occhi. Qual era il momento cruciale? Strano che non ci avesse ancora pensato. La prima risposta che gli venne in mente fu il giorno in cui aveva acquistato i biglietti per il viaggio sulla Terra. Aveva proposto a Maia d’accompagnarlo, portando anche i ragazzi, e lei aveva rifiutato con sdegno. Allora lui aveva restituito tre biglietti, ma aveva conservato il quarto, decidendo di compiere un pellegrinaggio in solitaria. Stupida decisione. Se fosse rimasto lì, a battersi per il diritto all’affido condiviso dei figli...
   «Ci sono, so dove andare!» disse, richiamando i ricordi di quel giorno ormai lontano.
   «Bene, mantieni la concentrazione. Non distrarti, o finirai nel luogo e nel tempo sbagliato!» raccomandò Nagilum.
   Sferzato da quell’ammonimento, il Voth si concentrò con tutte le sue forze su quella giornata. Sì... ricordava distintamente il momento in cui aveva chiamato Maia, tutto trepidante, ed era rimasto deluso dalla sua reazione... come scordarlo?
   «È fatto» tuonò Nagilum, mentre il Cubo di Rubik si fermava con un sonoro click. Irvik riaprì gli occhi, accorgendosi che una delle facce era d’uniforme color bianco. Le altre, però, erano ancora scombinate. L’attimo dopo tutto svanì attorno a lui, mentre la sua consapevolezza abbandonava il corpo, per essere proiettata alla velocità del pensiero attraverso lo spazio e il tempo.
 
   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Serie TV > Star Trek / Vai alla pagina dell'autore: Parmandil