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Autore: Parmandil    30/12/2023    1 recensioni
Tra tutti gli avventurieri della Destiny, nessuno quanto Irvik brama di tornare a casa, dove lo attendono i figli. Ma anche se tornasse oggi stesso, chi gli restituirebbe gli anni perduti? Chi mai potrebbe evitare che la sua famiglia si disgreghi e i figli lo guardino come un estraneo?
Giunto da oltre lo spazio-tempo, un essere trascendente gli offre proprio questo. Riporterà Irvik nel passato, al momento delle sue scelte cruciali, permettendogli d’agire altrimenti, nella speranza d’evitare la rovina familiare. Quale mortale potrebbe mai rifiutare quest’opportunità? Scopo dell’esperimento è appurare se esista il libero arbitrio, e tutto dipenda dalle nostre scelte, o se viceversa siamo schiavi di un Fato ineluttabile.
Accettato il patto, l’Ingegnere Capo scatena inavvertitamente una serie d’eventi che potrebbero condannare la Destiny, e non solo quella. Riuscirà il povero sauro a salvare sia la sua famiglia che l’astronave? E come sfuggirà poi allo sdegno dell’entità che gli aveva concesso tanto? Volontà e necessità si scontrano come non mai, mentre Irvik apprende che per aggiustare qualcosa, bisogna scombinarne un’altra.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
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-Capitolo 2: Pericoloso come un desiderio
 
   Irvik provò la più strana delle sensazioni, quella d’uscire dal proprio corpo. In parte era come essere teletrasportati, ma in questo caso lo spaesamento fu ancor più marcato. Per un attimo si chiese se stesse morendo. Poi gradualmente i sensi gli tornarono. Si accorse d’essere steso sul pavimento, con tutto il lato sinistro del corpo indolenzito. Dedusse che era svenuto, in modo tanto subitaneo da cadere a terra. Sbatté gli occhi, ma la vista era confusa e la testa gli girava. Poco alla volta gli tornarono le memorie dell’ultima giornata. L’anomalia, l’Empirical... e soprattutto Nagilum. Aveva davvero interagito con quell’essere, o se l’era sognato a causa dello svanimento?
   Il Voth si sollevò, mettendosi dapprima carponi, mentre aspettava che la testa smettesse di girargli. Le sue mani, tastando il pavimento, incontrarono un oggetto spigoloso. Allora si schiarì la vista... e vide il Cubo di Rubik sul pavimento. Un solo lato era uniforme, quello bianco; gli altri rimanevano scombinati.
   «È tutto vero!» ansimò Irvik, guardandosi attorno. Era in un alloggio... ma non quello che occupava sulla Destiny. No, quello era il suo vecchio alloggio su Vothir, nel Quadrante Delta. Un luogo che non vedeva da quattro anni. Tutto era come lo ricordava. L’arredamento era spartano e disordinato, poiché era l’unico occupante e ci trascorreva così poco tempo da non riuscire mai ad arredarlo come si deve. Fuori dalla finestra, il sole tramontava sull’industriosa metropoli Voth. Scioccato, il sauro balzò in piedi. «Computer, fornire data!» ordinò con voce tremante.
   «Siamo in data 20.000.701, giorno 425» rispose il computer, usando l’antico calendario Voth.
   «Il giorno in cui ho acquistato i biglietti per la Terra» rabbrividì Irvik. Ebbene sì, era tutto vero. Il patto con Nagilum, il viaggio nel tempo... la sua mente era stata rispedita nel passato, a occupare il suo corpo di quattro anni più giovane. E il Cubo era lì, come pegno dell’accordo. Cosa aveva detto Nagilum? Ne aveva fatto una sorta di tracciatore, per rimanere in contatto con lui, anche qualora la linea temporale si fosse alterata. Irvik lo raccolse con mani tremanti, senza osare scombinarlo, e lo posò su una mensola.
   Così facendo, il sauro si avvicinò al piccolo specchio inserito nell’anta dell’armadio e vide il proprio riflesso. Sì, sembrava davvero più giovane... non che quattro anni facessero una gran differenza, nella vita secolare dei Voth. Ma gli parve d’avere il viso più in carne, gli occhi meno cerchiati dalla stanchezza. E naturalmente indossava i suoi comodi abiti Voth, anziché la tenuta paramilitare degli avventurieri, che aveva adottato sulla Destiny. Ecco, questo era l’Irvik che aveva ancora qualche speranza per il futuro.
   «Computer, per caso ho comprato dei biglietti turistici?» chiese, con voce più calma.
   «Affermativo. Quattro biglietti di prima classe, per un viaggio tutto compreso sulla Terra della durata di...».
   «Va bene, ho capito!» tagliò corto il Voth. «Ma sai, ci ho ripensato. Cancella... anzi no, prima voglio fare un’altra cosa». Rinunciare al pellegrinaggio non era l’unica azione necessaria a correggere la sua vita. Ce n’era un’altra, altrettanto importante. «Computer, chiama Maia! Canale in olo-presenza» ordinò, ponendosi davanti all’olocamera incassata nella parete.
   Dovette attendere più a lungo di quanto ricordasse, e ne approfittò per ripassare mentalmente il nuovo discorso che intendeva farle. Ma quando finalmente se la vide di fronte, per la prima volta in quattro anni, fu sopraffatto dall’emozione e non riuscì a spiccicare parola.
   «Beh, che vuoi? Non ho molto tempo, sto per uscire» disse Maia in tono sbrigativo.
   «Già... con Edmon, vero?!» sbottò Irvik, ritrovando assieme l’uso della parola e l’acredine verso il suo rivale.
   «Certo, che domande. Hai qualcosa in contrario? Ti ricordo che sono libera adesso, ed esco con chi mi pare. Dovresti provarci anche tu» consigliò la Voth.
   «Sì, adesso ricordo. Siete andati – voglio dire, andrete – alla presentazione del suo nuovo kolossal sulla Guerra Vaadwaur» disse Irvik, rammentando i dettagli della passata conversazione.
   «Sì, proprio così» fece Maia, un po’ stupita dal suo atteggiamento. «Naturalmente i bambini staranno a casa, con l’olo-tata» precisò.
   «Potevi portarli da me... va beh, lasciamo perdere» fece Irvik, non volendo ripetere l’alterco dell’altra volta.
   «Sì, meglio lasciar perdere» convenne Maia. «Allora, posso sapere perché questa chiamata?» avvertì, impaziente.
   «Oh, volevo giusto dirti una cosa» fece Irvik, ritrovando la sicurezza. Aveva viaggiato nel tempo per avere quella seconda occasione... non poteva sprecarla. «Ora che abbiamo varato i Borg Killer, ho un sacco di ferie arretrate. In un momento di debolezza, pensavo d’approfittarne per una lunga vacanza... ma poi ho capito che il mio posto è qui, coi miei figli» avvertì.
   «Che intendi?» si rabbuiò Maia.
   «Intendo che non mi basta vederli due miseri giorni al mese. D’ora in poi potrò dedicargli più tempo, quindi voglio avere tutti i finesettimana con loro» annunciò l’Ingegnere. Maia aprì la bocca, sul punto di replicare, ma lui non gliene lasciò il tempo. «Te lo comunico perché vorrei davvero che potessimo trovare una conciliazione amichevole su questo. Ma in caso contrario, sono pronto ad andare dal mio avvocato e far partire un procedimento d’appello contro la sentenza d’affido. Possiamo fare nel modo più facile, o in quello più difficile; decidi tu» disse con fermezza.
   Per un attimo Maia restò a bocca aperta, troppo scioccata per replicare. Ma passò in fretta. «Pezzo di dren, ora mostri il vero colore delle tue scaglie!» sibilò. «Quando c’erano le beghe dell’infanzia li hai lasciati a me, e ora che le cose si fanno più facili, me li vuoi strappare! Beh, te lo scordi! Io li ho allevati, io ho sempre provveduto a loro, quindi sono i miei figli! Miei e di Edmon, visto che gli ha fatto lui da padre. Tu... sei solo un estraneo che vuole rovinare la nostra felicità. Ma non te lo permetterò! Chiama pure il tuo avvocato; io chiamerò il mio e quelli di Edmon. E ce la vedremo in tribunale. Ti ho messo al tappeto una volta, non vedo l’ora di farlo ancora!» minacciò.
   «Quanto odio contro il padre dei tuoi figli» commentò Irvik, scuotendo la testa sconsolato. «Ti perdonerei se facessi del male solo a me. Ma siccome in tal modo danneggi anche loro, privandoli del vero padre... no, non posso lasciar correre. Combatterò fino in fondo per far valere i miei diritti... mi correggo, i loro diritti» ribadì.
   «Non mi ruberai il loro affetto!» tuonò Maia, pestando i piedi per la stizza. «Il giudice d’appello non ribalterà la sentenza... ma se anche fosse, non credere che sia finita. Non mi stancherò mai, mai di combatterti! Non ti darò tregua, trasformerò la tua vita in un inferno. Ti avverto: se io vado a fondo, ti trascinerò a fondo con me. E i bambini resteranno soli!». Gridata questa minaccia, la Voth troncò la comunicazione.
 
   «Non è andata come speravo» si disse Irvik, rimuginando nella penombra. Aveva scordato, o almeno sottovalutato, quanto Maia fosse arrivata a odiarlo. Lo detestava così tanto da usare i loro figli come armi... da farli soffrire al solo scopo di far soffrire anche lui. Ebbene, questo era un motivo in più per sottrarli alle sue grinfie. Altro che i finesettimana, avrebbe chiesto l’affido esclusivo! Certo che era desolante essere arrivati a tal punto. Osservando il Cubo di Rubik, che gli rammentava il patto con Nagilum, Irvik si chiese se non aveva sbagliato tutto. Non avrebbe fatto meglio ad andare ancor più indietro nel tempo, prima che Maia lo prendesse così in odio? Se fosse risalito a prima della loro separazione... ma no, era inutile pensarci. Nagilum gli aveva già fatto un enorme dono, sarebbe stato incauto pretendere di più. Doveva approfittare della situazione e salvare il salvabile. Almeno non rischiava più di finire disperso nel Multiverso... era già qualcosa. Poteva finalmente dedicarsi alle sue responsabilità.
   «Devo muovermi... a quest’ora Maia starà già chiamando il suo avvocato» si riscosse l’Ingegnere. Ma prima c’era un ultimo dettaglio da sistemare. «Computer, cancella la prenotazione turistica per il viaggio alla Terra. Restituisci i biglietti. Tutti e quattro, mi raccomando!» ordinò.
   «Ricevuto. L’agenzia avverte che l’improvvisa cancellazione può comportare un rimborso parziale del costo...» fece il computer.
   «Non m’importa. Voglio restituire i biglietti, subito!» gridò Irvik, sbattendo il pugno sul tavolo in un momento di collera.
   «Ricevuto» fece il computer, imperturbabile. «Operazione in corso, attendere... operazione eseguita. Il viaggio è stato cancellato, i biglietti sono stati restituiti. L’agenzia porge i suoi saluti e invita a visionare altre offerte last minute».
   «Ah, te lo scordi! Sono reduce da una “vacanza” lunghissima... ben quattro anni! Ho visto abbastanza posti esotici da bastarmi per tutta la vita!» sbottò il Voth.
   «Affermazione non riconosciuta».
   «Lascia stare... piuttosto, passami lo studio del mio avvocato. Non so chi mi risponderà a quest’ora, ma... di’ che è un’urgenza» ordinò Irvik. Mentre aspettava che qualcuno gli rispondesse, lo sguardo gli cadde nuovamente sul Cubo di Rubik. Cos’aveva detto esattamente Nagilum? «Non appena la scelta sarà fatta, il continuum spazio-temporale si riassesterà. Allora la tua coscienza tornerà al presente. Un presente che, tuttavia, sarà cambiato... si spera in meglio». Sì, era quello il discorso. Quindi non doveva rivivere gli ultimi quattro anni...
   In quel momento il Voth si sentì di nuovo mancare. Tutto divenne buio, mentre la nuova realtà che aveva innescato collassava in un presente alternativo.
 
   «Gasp!» fece Irvik, cercando d’alzarsi non appena ebbe ripreso conoscenza. Annaspò tra le coperte, al buio. Si trovava a letto... sì, ma quale? «Computer, luci!» ordinò.
   Si attivò un’illuminazione tenue, che rischiarò la stanza senza abbagliarlo. L’Ingegnere si guardò attorno... e scoprì d’essere sempre nel suo alloggio urbano, su Vothir. «Computer, fornire data!» boccheggiò, ancora confuso.
   «Siamo in data 20.000.706, giorno 16» rispose il processore, sempre usando il calendario Voth.
   «Urca, ha funzionato!» fece Irvik, districandosi dalle coperte. Era davvero tornato al presente, dopo aver apportato un cambiamento chiave al passato. «E secondo la Data Stellare della Federazione?» chiese per sicurezza.
   «Secondo il computo federale, siamo in Data Stellare 2614.38» rispose il computer.
   «Quindi ho incontrato Nagilum... ieri sera» comprese Irvik. Dunque una volta tornato al presente non si era riavuto subito, ma aveva trascorso una meritata notte di sonno. «Bene, è tempo di vedere com’è cambiata la mia vita. Intanto sono a casa mia, anziché sulla Destiny... già questo è un buon segno. Vediamo il resto».
   Il Voth scese dal letto e si vestì in fretta e furia. Notò che nell’armadio c’erano solo abiti civili, nessuna uniforme da Ingegnere. Questo lo inquietò leggermente. Significava forse che aveva lasciato la Milizia Voth, accettando un incarico da insegnante? Poteva essere... se si era impegnato a passare del tempo coi figli, in condizioni di stabilità e sicurezza, era la scelta più indicata. Niente vagabondaggi tra le stelle, niente battaglie spaziali... solo pace. Sì, poteva farci l’abitudine.
   Lasciata la camera da letto, Irvik giunse in soggiorno. Qui ebbe il primo brutto colpo. Il soggiorno era ancor più disordinato di come lo ricordava; ma non era il tipo di disordine che fanno i bambini. Non c’erano giochi sparsi sul pavimento, né disegni vivaci attaccati alle pareti. No, quello era il disordine deprimente di chi vive solo. Sui mobili c’era anche un considerevole strato di polvere, come se non si fosse dato pena di tenerli puliti.
   «Ahi-ahi» mormorò Irvik, ricordando le minacce dell’ex moglie. «Computer, oggi devo andare al lavoro?» chiese, ancora un po’ frastornato con le date.
   «Negativo».
   Bene, era fortunato che quello fosse il giorno di riposo settimanale. Così poteva informarsi su ciò che era successo nel frattempo. Aveva un’intera nuova vita con cui familiarizzare. Per prima cosa fece colazione... una vera colazione Voth, non quella robaccia sfornata dal replicatore della Destiny. Appena si sentì in forze, sedette alla scrivania e attivò l’oloschermo.
   «Computer, voglio dati aggiornati sull’affido dei miei figli. Con chi stanno attualmente?» chiese, temendo il peggio.
   «I vostri figli sono stati affidati alla madre Maia e al suo compagno Edmon, secondo sentenza del giudice di cassazione» fu la temuta risposta, mentre l’oloschermo mostrava il documento.
   «Yotz! Com’è possibile?!» imprecò Irvik, sbattendo i pugni sul tavolo. «Computer, voglio tutti i dati del processo. Mostrami lo storico degli ultimi quattro anni».
   Per accontentarlo, il computer dovette attivare degli oloschermi aggiuntivi. Davanti agli occhi esterrefatti del sauro apparve un calvario giudiziario lungo quattro anni, e da poco concluso. Appelli e contro-appelli, ricorsi e contro-ricorsi. Ritardi procedurali, pratiche smarrite per guadagnare tempo. Accuse d’ogni genere, perizie psichiatriche, ingerenze da parte d’assistenti sociali. Maia non scherzava, quando aveva minacciato di trasformare la sua vita in un inferno. Pareva che negli ultimi quattro anni non avesse fatto altro che tormentarlo. Tra tutti e due, dovevano aver dato lavoro a interi studi legali. Irvik scorse con rabbia l’elenco delle puntate di una famosa emittente olovisiva, presso cui Maia era andata a piangere e lanciare accuse contro di lui, trasformando il loro contenzioso in una sceneggiata mediatica.
   E dopo tutta l’ansia, la rabbia, il dolore, lo sfinimento... dopo le incalcolabili spese legali... dopo l’umiliazione pubblica... Irvik aveva perso. E aveva perso su tutta la linea. Se in precedenza poteva vedere i figli due volte al mese, adesso Maia aveva ottenuto l’affido esclusivo. Sconvolto, Irvik lesse la sentenza giudiziaria che gli faceva divieto d’avvicinarsi a loro. Non riuscì ad arrivare in fondo. Pieno di disgusto, spense gli oloschermi con un gesto rabbioso e scattò in piedi.
   «Devo fare una passeggiata... schiarirmi le idee...» si disse. Ma quando fu davanti all’uscita del suo alloggio, restò sgomento nel vedere che non si apriva. Che fosse rotta?
   «Beh, che succede?! Computer, fammi uscire!» ordinò, stizzito.
   «Impossibile eseguire» rispose il processore, con una calma che suonava beffarda. «Lei è agli arresti domiciliari, come da ultima sentenza».
   «Arresti domiciliari?!» fece Irvik, sputacchiando saliva. «Come... quando... insomma, computer, fammi vedere la sentenza!» ordinò, precipitandosi di nuovo alla scrivania.
   L’oloschermo si riattivò, mostrandogli la sentenza, ma evidenziando le ultime righe, quelle che ancora non aveva letto. Stavolta il Voth dovette farlo, assaporandone il fiele. Le sue scaglie si scolorirono, divenendo di un grigio smorto. Non era possibile... stava davvero leggendo questo? Sei mesi prima, quand’era sul punto di perdere la causa, Maia lo aveva accusato di violenze nei confronti dei bambini. Gli accertamenti medici erano inconcludenti, ma in via cautelare i piccoli erano stati allontanati, assegnandoli alla madre e al suo nuovo compagno. E lui, Irvik, era finito agli arresti domiciliari. Arresti che, in mancanza di prove, stavano per scadere... ma anche in seguito gli era fatto divieto d’avvicinarsi ai figli.
   Irvik si abbandonò sulla sedia, amareggiato. Sapeva per certo che non avrebbe mai fatto del male ai bambini. Le accuse di Maia erano certamente false, un espediente dell’ultimo minuto per ribaltare la sentenza. Ma nella società Voth, questo genere d’accuse distruggeva la reputazione, anche se poi si rivelavano infondate. E la reputazione tra i Voth era tutto. Senza di quella ti ritrovavi senza amici, senza opportunità di carriera, talvolta persino senza impiego...
   «Senza impiego?!» pensò il sauro, colto da un orrendo sospetto. Quando aveva chiesto al computer se quel giorno doveva andare al lavoro, il processore aveva risposto di no. Ma non aveva detto espressamente che quello fosse il giorno di riposo. Del resto, è difficile lavorare quando sei agli arresti domiciliari...
   «Computer» fece Irvik con voce tremante, «qual è il mio impiego attuale?».
   «Il suo ultimo impiego è stato come docente/ricercatore presso la facoltà d’ingegneria dell’Università. Il contratto è stato rescisso in seguito alla sentenza definitiva del tribunale. Attualmente lei non ha alcun impiego» fu la temuta risposta.
   Il Voth si prese la testa fra le mani. Si era accordato con un’entità aliena, aveva viaggiato nel tempo, abbandonato la Destiny... e tutto per questo?! Per trovarsi comunque senza i figli, e inoltre senza reputazione, senza soldi, senza lavoro, e per giunta costretto ai domiciliari?! Non era possibile, doveva essere un incubo. Adesso sarebbe tornato a letto, per risvegliarsi sulla Destiny e scoprire che s’era sognato tutto... o no?
   Colto da un raptus, Irvik corse alla mensola su cui quattro anni prima aveva lasciato il Cubo di Rubik. Lo trovò ancora lì, tutto impolverato, con una ragnatela che lo collegava al muro. Sembrava che nessuno lo avesse toccato da allora. Rabbioso, il sauro lo afferrò e lo scosse. «Mi senti, Nagilum? Dobbiamo parlare, io e te! Le cose non sono andate come previsto!» gridò.
   Per un attimo Irvik si accorse di quant’era surreale la situazione. Se un poliziotto o un assistente sociale fosse entrato adesso e lo avesse visto prendersela con quell’oggetto, aspettandosi una risposta, che avrebbe pensato delle sue condizioni mentali? Fortunatamente nessuno entrò nell’alloggio. Nessuno, cioè, tranne colui che era stato convocato.
   «Eccomi» disse Nagilum, il cui volto senza corpo riempì l’oloschermo ancora acceso. «Ah, vedo che molte cose sono cambiate. Sei a casa tua, sul tuo mondo, anziché smarrito nel Multiverso. Allora perché non mi sembri contento? Eppure io ho fatto la mia parte» notò.
   «Sì, l’hai fatta» ammise Irvik, sbollendo leggermente l’ira. «E io ho fatto la mia, o almeno così credevo. Ho apportato quei cambiamenti che ritenevo necessari... e infatti il cambiamento c’è stato. Ma non in positivo, mannaggia!», sbottò, riponendo il Cubo sulla mensola.
   «Davvero? Ciò è assai strano. Racconta, mi servono i dettagli per comprendere il problema» lo esortò Nagilum.
   E Irvik dovette raccontare, anche se le sue scaglie rosseggiavano per l’imbarazzo di dover spiattellare i suoi problemi familiari a quell’entità aliena, che probabilmente li avrebbe ricordati per i secoli dei secoli. Nagilum ascoltò con attenzione, interrompendo solo occasionalmente per chiedere precisazioni. «E così, questo è tutto. A parte vivere sul mio pianeta, non ho ottenuto niente di ciò che speravo... anzi, se possibile la mia vita è ancora più a pezzi!» concluse il Voth.
   «Sono perplesso» commentò Nagilum. «Lo scopo di questo esperimento era verificare l’esistenza del libero arbitrio. Tu dovevi alterare la tua sorte, in accordo coi tuoi desideri. E in effetti l’hai modificata: una scelta diversa ha condotto a un esito diverso, il che depone in favore dell’arbitrio. Però non hai ottenuto ciò che volevi, anzi, sembri ancora più infelice di prima. In questo senso, pare che il tuo destino sia di soffrire la mancanza dei figli, in un modo o nell’altro, e che niente possa cambiarlo».
   «Lo so, fammi riflettere un momento» disse Irvik, sprofondato su una poltroncina. «Devo aver sbagliato qualcosa. Il piano in sé era giusto, ho solo sbagliato a eseguirlo. Un errore procedurale, sì! Ecco la spiegazione!» si animò.
   «Stai dicendo che hai apportato i cambiamenti sbagliati, per una tua... limitatezza?» s’incuriosì Nagilum.
   «Hrump, diciamo così!» fece il Voth, punto nell’orgoglio. «Non avrei dovuto prendere così di petto Maia. In tal modo ho scatenato una guerra legale che in effetti avevo poche speranze di vincere. Certo che... comunque avessi agito, non credo che lei sarebbe stata più conciliante» ammise, avvilito.
   «Quindi eri destinato a fallire in ogni caso?».
   «Non ho detto questo!» fece Irvik, temendo che Nagilum lo abbandonasse. «Il punto d’intervento, ecco l’errore!» esclamò, balzando in piedi. «Sono tornato al momento in cui chiesi a Maia d’accompagnarmi sulla Terra e, davanti al suo rifiuto, decisi d’andarci da solo. Negli ultimi quattro anni mi sono detto e ridetto che quello era stato l’errore della mia vita, perché mi portò a perdermi nel Multiverso. Ma in realtà la mia vita familiare era già rovinata a quel punto. Maia mi odiava, s’era messa con quel gran bastardo di Edmon e non voleva farmi vedere i ragazzi. Qualunque cosa facessi da quel momento in poi, era destinata al fallimento. Sarei dovuto tornare più indietro nel tempo... molto più indietro!» s’illuminò.
   «Molto più indietro? E quando, esattamente?» chiese Nagilum, con cauto interesse.
   «Vediamo... vediamo... devo pensarci bene. Stavolta non devo commettere errori!» rimuginò il Voth, camminando avanti e indietro. D’un tratto si fermò. «Sì, ci sono! Non può essere che quello! Il vero momento che mi ha condannato a perdere i ragazzi fu quando accettai d’entrare nel team di progettazione dei Borg Killer. Era un incarico importante, sai, e pensavo che avrebbe dato grande impulso alla mia carriera. Seeehhh... ora ne vedo i risultati!» brontolò, alludendo all’alloggio in cui scontava gli arresti domiciliari. «Prima d’allora eravamo una famiglia unita. Ma quel dannato progetto mi assorbì a tal punto da farmi trascurare i miei cari. E fu allora... fu allora che li persi. Se fossi stato più presente, in quegli anni critici, tutto sarebbe andato diversamente. Ne sono certo!».
   «Un’ipotesi interessante» concesse Nagilum. «Direi di passare senza indugio alla verifica sperimentale».
   «Che, mi offri un’altra opportunità?!» fece Irvik, che si era quasi rassegnato alla nuova vita.
   «Certo, altrimenti che ne sarebbe del mio studio? Devo ancora stabilire se il libero arbitrio esiste o meno» confermò l’entità. «Però ti esorto ad agire con più accortezza. Quel che stiamo facendo è assai complicato, e richiede molta energia, e influisce su un gran numero di vite. Non voglio che i risultati dell’esperimento siano falsati dalla tua goffaggine. Altrimenti potrei scegliermi un altro soggetto» ammonì, scrutandolo severamente.
   «Ehm, sono certo che non sarà necessario. Stavolta andrà tutto liscio, vedrai» mormorò il Voth, temendo di perdere quello che ormai era a tutti gli effetti il suo nume tutelare.
   «In tal caso, concentrati. Focalizza i pensieri sulla tua nuova destinazione, ancora più indietro nel tempo» lo istruì Nagilum.
   Irvik riprese il Cubo di Rubik, vedendolo modificarsi tra le sue mani. I movimenti erano rapidi e certi, come se una forza invisibile lo manovrasse. La faccia bianca si scompose in un mosaico caotico, mentre i segmenti ruotavano attorno al perno centrale. In pochi attimi un nuovo lato si uniformò, quello giallo. Gli altri rimasero mischiati. Allora Irvik, che si stava concentrando spasmodicamente sulla destinazione, si sentì nuovamente avvolgere dall’oscurità.
 
   Ancora una volta il sauro ebbe l’impressione d’essere strappato dal suo corpo. Lottò per riaversi, finché sentì qualcosa di duro e freddo sotto di sé. Il pavimento... era disteso sul pavimento. Sopra di lui si udiva un brusio di voci confuse. Sagome sfocate si muovevano, alcune s’inginocchiavano per aiutarlo.
   «Irvik... ehi, Irvik!».
   «Che ti prende, hai bevuto troppo? O stai cercando di farci spaventare?».
   «Eddai, alzati... il bel gioco dura poco».
   «Basta, non vedete che sta male? Io chiamo l’infermeria!».
   «Amore, che ti succede? Guardami, sono qui!».
   Il sauro riconobbe quelle voci, la maggior parte delle quali non udiva da anni. Anche la sua vista cominciò a schiarirsi. Erano i suoi colleghi ingegneri, del tempo in cui lavorava sulla Nave Bastione Maastri. Cara, vecchia Maastri... lì si era fatto le ossa, cominciando come ingegnere junior e salendo rapidamente di grado. E la voce femminile, invece...
   «Maia!» gemette Irvik, drizzando la schiena di scatto. Si trovò faccia a faccia con la sua ex moglie... no, era ancora sua moglie... più giovane e affezionata di quanto la ricordasse.
   «Sono qui, tesoro. Cosa ti è preso? Sei crollato sul pavimento... mi hai spaventata a morte. Siamo tutti spaventati» disse Maia, aiutandolo a rialzarsi in piedi.
   «Non è niente, piccola scaglia del mio cuore» disse lui, pronunciando quelle parole affettuose per la prima volta dopo tanti anni. «Un po’ il brandy sauriano, un po’ l’emozione... ma ora sto bene, davvero».
   «Sei sicuro, capo? Un salto in infermeria lo farei...» consigliò un subordinato. Come si chiamava, già? Tenon, ricordò vagamente Irvik. Non lo vedeva da parecchi anni.
   «Mio marito ha detto che sta bene!» fece Maia, fulminando con lo sguardo il sottoposto. «Gli serve solo un po’ di spazio. Su, fatelo respirare!» si rivolse a tutti.
   I presenti allargarono il cerchio attorno a loro. Allora Irvik si guardò attorno e riconobbe il posto. Era il salone dei ricevimenti della Maastri, che come tutte le Navi Bastione trasportava civili e possedeva tutti i comfort. Una delle pareti era adibita a finestra panoramica, mostrando lo spazio trapunto di stelle. Ah, le familiari stelle del Quadrante Delta... aria di casa! In fondo alla sala c’era il bancone degli aperitivi. Molti ufficiali si erano radunati lì, compreso il Capitano, anche se il piccolo trambusto aveva attirato la loro attenzione.
   Irvik si guardò attorno, con la vaga sensazione che mancasse qualcosa. Infine lo vide: il Cubo di Rubik era rotolato presso un tavolino più piccolo. La faccia gialla era rivolta verso l’alto, a ricordare il patto in virtù del quale si trovava lì. All’improvviso l’Ingegnere temette che qualcuno potesse sottrargli il Cubo, impedendogli di contattare Nagilum. Preso dall’agitazione, si avvicinò rapido e si affrettò a raccoglierlo.
   «E quello cos’è?» s’incuriosì Maia.
   «Oh, niente... solo un rompicapo che ho preso al mercatino del ponte 12» mentì l’Ingegnere, e subito lo fece scomparire nell’ampia tasca.
   «Okay...» fece sua moglie, un po’ insoddisfatta, ma lasciò cadere l’argomento. Il Capitano infatti si stava facendo avanti. Allora ci fu un gran rimescolamento tra i presenti. Alcuni ingegneri si fecero avanti e si allinearono, come per una premiazione. «Che aspetti? Vai!» sussurrò Maia, quasi sospingendolo in avanti.
   Irvik si affrettò a prendere posto tra i colleghi, sei in tutto. Ora ricordava... tutti e sei avevano fatto domanda per partecipare alla progettazione dei Borg Killer. Ma solo uno poteva essere accettato, e il Capitano stava quindi per annunciare il prescelto. «Buona fortuna, signore» disse sportivamente Tenon, ponendosi accanto a lui.
   «Altrettanto» mormorò Irvik, con la bocca secca. Già, all’epoca considerava una fortuna essere designato per il prestigioso incarico. Solo la sua nuova consapevolezza, arrivata da un triste futuro, gli diceva il contrario. Con la coda dell’occhio guardò Maia, che gli sorrise, mandandogli un bacio a distanza. Lei naturalmente credeva ancora che fosse una fortuna... e quindi faceva il tifo per lui... che peccato doverla deludere...
   «Un momento d’attenzione, prego» invitò il Capitano. Sul vasto auditorio scese un silenzio carico d’emozione. Tutti fissavano i sei concorrenti, chiedendosi chi sarebbe stato designato. «Stasera siamo qui riuniti per un annuncio speciale» riprese il Capitano. «Uno dei nostri Ingegneri è stato selezionato per un incarico d’enorme responsabilità. Sarà trasferito presso i Laboratori Militari Centrali di Vothir, per collaborare alla progettazione dei Borg Killer, i nuovi strumenti di difesa dalla Collettività. La nostra sicurezza, le nostre stesse vite, dipendono dalla buona riuscita del progetto. È quindi fondamentale che solo i migliori vi partecipino; ed essi dovranno dedicarvi la massima devozione, anteponendolo ad ogni altra necessità. Detto questo, passo senza indugio ad annunciare il nome del vincitore. E questi è...».
   Pausa a effetto. Gli ingegneri s’irrigidirono, mentre i loro amici e parenti li osservavano ansiosi.
   «... il Tenente Irvik!» concluse il Capitano. Ci fu uno scroscio d’applausi. Irvik vide che Maia saltellava dalla gioia e applaudiva a più non posso, sorridendogli radiosa. Ma stava per arrivare la tempesta...
   «Congratulazioni, Tenente» disse il Capitano, venendo a stringergli la mano. «Una giusta nomina, se l’è meritata. Ci spiace perderla, ma siamo tutti fieri di sapere cosa farà per la patria».
   «Io... non posso accettare» disse l’Ingegnere con un filo di voce.
   «Sì, tutti molto fieri... come?!» fece il Capitano, sgranando gli occhi. Gli lasciò la mano e indietreggiò di un passo. Anche gli ufficiali lo fissarono sbalorditi, e così gli altri cinque finalisti dietro di lui. In un attimo l’intero salone era piombato nel silenzio. Anche Maia fu zittita, nel mezzo della sua allegria, e si trovò a guardarlo confusa.
   «Forse ho sentito male» disse il Capitano, fissandolo con gravità. «Lei accetta l’incarico, signor Irvik, sì o no?».
   «Sono spiacente, Capitano, ma non posso accettare!» rispose l’Ingegnere con voce stentorea. Le sue parole gravarono sulla folla ammutolita. Nella società Voth, così orientata al prestigio personale, era un grave scandalo che qualcuno rifiutasse una promozione. Soprattutto era scandaloso che si ritirasse all’ultimo momento, durante la premiazione, dopo che lui stesso s’era candidato. Tutti lo fissarono senza parole. Ma più scioccata di tutti era Maia, che indietreggiò e si coprì il volto per la vergogna.
   «Posso conoscere le ragioni di questo inaspettato rifiuto?» chiese il Capitano, incerto lui stesso sulla procedura.
   «Sono desolato, signore, non era mia intenzione mancare di rispetto a nessuno» disse Irvik. «Ma cinque anni sono lunghi, per dedicarli assiduamente a un progetto. Come lei ha giustamente ricordato, questo incarico richiede un’assoluta devozione. Ma io sono sposato, ho un figlio piccolo, e un secondo uovo in arrivo. Dopo attenta riflessione, sono giunto alla conclusione che siano questi, i miei doveri inderogabili. Perciò faccio un passo indietro, nella convinzione che sia meglio per tutti. Cedo l’incarico al secondo classificato».
   L’Ingegnere dette una fugace occhiata a sua moglie. La vide scuotere disperatamente la testa, ma era troppo tardi. Sperò che avrebbe capito, col tempo... almeno stavolta lui le sarebbe stato accanto...
   «Beh, Tenente, tutto ciò è inconsueto, ma... se vuol rinunciare all’incarico, ne ha facoltà» disse il Capitano, ancora meravigliato. «Passo quindi a designare il secondo classificato, che è... il sotto-tenente Tenon!» disse, leggendo frettolosamente da un d-pad.
   Ci fu un secondo applauso, più discreto del primo, per via dell’insolita situazione. Tenon si guardò attorno, confuso. «Non doveva farlo, signore...» sussurrò a Irvik.
   «Sì, invece. Ormai è fatta. Veditela tu» rispose l’Ingegnere, allontanandosi dai colleghi allineati, per mischiarsi alla folla mormorante.
   «Lei accetta l’incarico, signor Tenon?» chiese il Capitano, quasi aspettandosi un secondo, clamoroso rifiuto.
   «I-io... sì, certo, signore. Lo accetto eccome. Voglio dire, lo accetto con umiltà» incespicò il giovane Ingegnere.
   «Allora buona fortuna» augurò il Capitano, stringendogli la mano. «Si faccia onore laggiù, tenga alto il nome della Maastri. Il suo trasporto partirà domani alle diciotto in punto, dall’hangar principale».
   «Grazie, signore. Non mancherò» promise Tenon, ancora incredulo della sua fortuna.
   Nel frattempo Irvik inseguiva sua moglie, che si era ritirata in un angolo del salone, le scaglie rosse di vergogna. Fece per sfiorarle il braccio, ma lei si ritrasse di scatto.
   «Ti ha dato di volta il cervello?! Quell’incarico era ciò che volevi... ciò che volevamo entrambi. Un trasferimento sul pianeta, per almeno cinque anni, così da poter crescere i nostri figli al sicuro!» disse Maia, con aria ferita.
   «Così credevo, ma ci ho ripensato. Ascoltami, cara... dove vai, ascoltami» la trattenne. «Quell’incarico non è ciò che credi. Hai sentito il Capitano: sarei stato costretto a seppellirmi in un laboratorio ultraprotetto per cinque interminabili anni. Avrei passato lì tutto il giorno... magari a volte ci avrei persino dormito. E nel frattempo tu saresti rimasta sola! Sola, amore, con due bambini piccoli di cui occuparti. Altro che sogno... sarebbe diventato un incubo. Sarebbe stata la tomba del nostro amore. Ne sono certo!» disse con foga.
   «Ah, ne sei certo? Beh, avresti potuto parlarmene prima! E avresti potuto evitare di candidarti, se temevi così tanto di vincere» disse Maia, ricomponendosi.
   «Purtroppo ho compreso solo ora la realtà. Ma sono certo di aver preso la decisione giusta. Al diavolo la fama... le mie priorità siete tu e i bambini!» ribadì Irvik.
   «Se lo dici tu... ormai non sapremo come sarebbero andate le cose» sospirò Maia. E lasciò frettolosamente il salone, ancora in preda alla vergogna.
   Irvik fece per inseguirla, ma fu assalito dall’ormai familiare mancamento. Ancora una volta si sentì strappare dal corpo e spedire lontano, mentre una nuova linea temporale si dipanava da quell’evento.
 
   Ripresa conoscenza, Irvik si ritrovò accasciato su una scrivania. Si tirò su, ancora confuso, e si guardò attorno. Si trovava in un piccolo ufficio mai visto prima. La finestra aperta mostrava la capitale sotto i caldi raggi del sole. Anche stavolta era su Vothir, anziché su un’astronave. Già, ma in che condizione si trovava? Osservando l’oloschermo acceso davanti a sé, vide il simbolo dell’Università che sormontava un documento scritto. Altri documenti del genere erano consultabili dal menu laterale. Lezioni... quelle erano tutte lezioni universitarie. E lui le stava preparando, perché era un docente. Anche il piccolo ufficio, ora che lo riguardava, pareva uno di quelli a disposizione dei professori.
   «Computer, mostrami lo storico della mia carriera accademica» ordinò.
   L’oloschermo mostrò una nuova pagina, e Irvik la lesse avidamente. Scoprì che aveva lasciato la Maastri – e con essa la carriera nella Milizia Voth – e s’era trasferito nella capitale ben sette anni prima, con la famiglia. Aveva ottenuto l’impiego di docente/ricercatore presso la facoltà d’Ingegneria dell’Università, anche se non era mai riuscito a farsi ammettere nei Circoli scientifici più prestigiosi della società. In questo dovevano aver pesato la rinuncia al programma dei Borg Killer, nonché il suo addio alla Milizia. La sua poteva definirsi una carriera ordinaria... non eccelsa, ma comunque dignitosa.
   «Mi sta bene così» pensò Irvik. Di gloria e onori non sapeva che farsene, ora che aveva visto dove l’avrebbero condotto. Preferiva mille volte una vita normale. Ma ciò che davvero gli stava a cuore era la sua situazione familiare. Così aprì la sua scheda personale, un documento d’identità che conteneva informazioni dettagliate anche su questo. Stato civile... sposato. Maia si occupava di olografia, come in tutte le linee temporali precedenti. Figli... due, di dodici e nove anni. Indirizzo... corrispondeva a quello della loro casa coniugale, anziché dell’alloggio da divorziato.
   Irvik lesse con crescente emozione. Finalmente aveva fatto centro! La famiglia era unita, lui e Maia stavano crescendo assieme i ragazzi. L’unico dettaglio che lo adombrò fu notare che i voti scolastici dei figli erano scarsi. Beh, pazienza... d’ora in poi si sarebbe accertato che studiassero. Nel complesso era una situazione più che accettabile. Di certo migliore delle altre che aveva sperimentato.
   Confortato, Irvik approfittò del tempo di cui disponeva per informarsi il più possibile della sua nuova vita. S’interruppe solo quando il computer lo avvertì che doveva tenere una lezione. Sulle prime il sauro temette di non essere pronto, ma una rapida verifica dell’argomento lo convinse che non sarebbe stato difficile. Doveva insegnare i rudimenti della meccanica di curvatura alle matricole del primo anno... poteva farlo a occhi chiusi.
   Le ore di lezione scorsero senza grossi problemi. Spiegare, rispondere alle domande, assegnare le pagine da studiare e i test di verifica... gli veniva tutto naturale, come se non avesse mai fatto altro. Gli spiacque solo notare che le sue lezioni erano poco frequentate, e quei pochi studenti non sembravano concentrati. Soprattutto non mostravano gran rispetto nei suoi confronti, visto come risposero alle sue esortazioni a stare attenti. Irvik si fece un appunto mentale: anche con loro ci voleva più disciplina.
   Terminate le lezioni, il Voth si recò in sala docenti, cercando di familiarizzare con quelli che adesso erano i suoi colleghi. Aveva visto i loro volti nel database e cercò di riconoscerli. Un paio di volte provò ad attaccare bottone, ma anche lì notò che tutti sembravano ignorarlo o trattarlo con sufficienza. Questa cosa stava diventando fastidiosa. Okay, la sua non era la carriera più brillante che si fosse vista su Vothir... ma le loro erano forse meglio? Non erano tutti uguali, lì? E allora cos’erano quei sorrisetti fugaci che gli sembrava di vedere sui loro volti?
   A un tratto il suo comunicatore si attivò. Era una chiamata audio-video da Maia. Siccome un gruppo di colleghi si era messo a chiacchierare proprio davanti alla porta, Irvik dovette appartarsi in un angolo per rispondere. Premette il comunicatore, che proiettò un piccolo ologramma di sua moglie, dalle spalle in su. «Ciao, caro» lo salutò Maia.
   «Amore! Che bello vederti!» esclamò Irvik, con più foga di quanto le circostanze avrebbero richiesto. Era ancora emozionato per il fatto di aver creato una realtà in cui il loro matrimonio aveva retto e lei non lo odiava.
   «Uh... è tutto a posto? Mi guardi come se non mi vedessi da un secolo» notò Maia.
   «Non posso guardarti con affetto? Sei bella come il giorno che ti ho conosciuta, tesoro. Allora, perché questa chiamata?» si ricompose Irvik.
   «Oh, era solo per avvisarti che stasera farò tardi» rispose sua moglie con nonchalance. «Sai com’è, un’altra di quelle riunioni serali... più si avvicina il lancio del nuovo modello di MOE, più ne abbiamo. Forse riesco a ripassare da casa, per mettere a tavola i ragazzi».
   «Non ti preoccupare, tesoro, ci penso io ai diavoletti. Tanto qui ho finito e sto per rincasare. Fa’ con calma quel che devi. A presto, amore».
   «Grazie, caro, sapevo che avresti capito. Baci-baci!» fece Maia, e chiuse la comunicazione.
   Irvik fece per andarsene, ansioso di rivedere finalmente i suoi figli. Tuttavia, nel girarsi, intercettò l’occhiata beffarda di un collega.
   «Tutto a posto, vecchio mio?» chiese questi.
   «Certo, perché?» fece Irvik. Lo riconobbe: era il dottor Camptos, un collega con cui secondo il database aveva spesso lavorato assieme, il che spiegava il suo tono familiare.
   «Oh, niente... se lo dici tu» fece l’altro, sempre con quel sorrisetto beffardo, e fece per svicolare. Ma Irvik lo trattenne.
   «Eh no, vecchio mio, non te la cavi così!» avvertì Irvik, che cominciava a stancarsi di quell’atteggiamento generalizzato nei suoi confronti. «Se hai qualcosa da dire, esprimiti in modo chiaro!» intimò, con quel piglio deciso che gli veniva dall’essere vissuto quattro anni con gli avventurieri.
   Camptos aggrottò la fronte, sorpreso da quella grinta inaspettata, e le sue scaglie trascolorarono leggermente. «Caspita, che ti prende? Hai avuto una brutta giornata?».
   «Sapessi che giornate ho avuto... ma lasciamo stare. Allora, cosa stavi dicendo?».
   «Niente, dico solo che sei un marito esemplare. Sai com’è... tua moglie a volte ha le riunioni serali, a volte la palestra, a volte il circolo delle amiche... sembra che le sue serate siano più indaffarate delle giornate. Qualcun altro potrebbe insospettirsi, ma... evidentemente il vostro è un matrimonio di ferro! Complimenti per la fiducia!» ridacchiò il collega.
   «Tu stai insinuando...» fece Irvik, sbuffando dalle narici.
   «Ho solo detto quel che tutti mormorano alle tue spalle, povero amico mio. Sii tu a trarne le conseguenze» disse Camptos, e si disimpegnò da quella tesa conversazione.
   Irvik lo guardò allontanarsi, imbronciato. Possibile che quel tipo avesse ragione? No, non voleva crederci. Non poteva cominciare la sua nuova vita con quel sospetto. Non doveva lasciare che lo tormentasse. Giurò a se stesso che non ci avrebbe più pensato.
 
   «Non ci penserò più» si disse Irvik, per la centesima volta consecutiva. Era a casa, finalmente... a casa dai suoi figli! Non vedeva l’ora di riabbracciarli. «Ehilà, sono tornato!» disse giulivo. Non ebbe risposta. Dovette setacciare la casa per trovare i ragazzi. Dryos era nella sua cameretta, a suonare a tutto volume uno strano strumento alieno che chiamò “chitarra elettronica”: disse che veniva dalla Terra, dove a suo dire la suonavano tutti. La piccola Psitta invece era in cucina, dove aveva ordinato un’enorme quantità di dolci al replicatore e se li stava sbafando.
   «Ehi, signorina, basta così, o non ti resterà spazio per la cena!» la rimproverò Irvik, sottraendole il piattino.
   «Ma voglio quelli!» protestò la bambina, cercando di riafferrare il piatto colmo. Il padre dovette tenerglielo alto, così che non arrivasse a ghermirlo.
   «Uhm, devo ricordarmi di mettere una codifica al replicatore» borbottò Irvik. «Ma insomma, dov’è l’olo-tata? Dovrebbe vegliare su di voi, mentre io e mamma siamo fuori casa!».
   «Dryos l’ha disattivata. Dice che solo i poppanti hanno l’olo-tata!» strillò Psitta con la sua vocetta acuta. Salì sul tavolo, sempre nel tentativo di recuperare il piatto coi dolci.
   «Non è solo per i poppanti. E visto come siete allo sbando, credo proprio che ne abbiate bisogno!» fece Irvik. Ficcò il piatto nel replicatore e lo riconvertì in energia. Allora Psitta strillò di rabbia e corse via, mentre dal piano di sopra veniva un assolo spaccatimpani di chitarra.
   «Sono a casa, già» si disse Irvik, accorgendosi che c’era molto da fare.
 
   Di lì a poco tornò Maia, per mettere tutti a tavola come promesso. «Ciao caro, tutto bene?» chiese, dirigendosi frettolosamente verso la cucina.
   «Mah, insomma...» fece Irvik. «Non pensarci più» si disse per la duecentesima volta. «I ragazzi mi sembrano un po’ allo sbando. Non so se hai notato, ma i loro voti sono colati a picco nell’ultimo quadrimestre. Inoltre Dryos non si stacca da quella cosa aliena...» disse accennando al piano di sopra, dove il figlio maggiore continuava a strimpellare.
   «Intendi la chitarra? Beh, adesso che ha formato la band con gli amichetti, dobbiamo farci l’abitudine» spiegò Maia. «Non so, forse potremmo insonorizzargli la stanza».
   «Potrebbe essere il caso» convenne Irvik, che non ne poteva più del frastuono. «Ma il peggio è che ha disattivato l’olo-tata, così che non gli facesse fare i compiti. E ha sbloccato i controlli del replicatore, così che lui e Psitta potessero ingozzarsi di dolci. Non stupirti se adesso avranno poco appetito».
   «Oh no, ancora?!» si lamentò Maia, che intanto stava preparando la tavola. «È proprio il figlio di un ingegnere! Continua a neutralizzare i parental control di casa».
   «Dopo cena inserirò una codifica di sicurezza progettata contro i Borg. Spero che tratterrà per un poco quel dodicenne e la sua affamata sorellina» promise Irvik, mentre l’aiutava ad apparecchiare.
   Riuscirono a consumare una cena decente, facendo conversazione leggera. Irvik ne fu oltremodo grato: aveva bisogno di rilassarsi. Poteva soprassedere su tutti i problemi fin lì notati, promettendosi che li avrebbe affrontati nei giorni a venire. L’importante era che fossero finalmente lì riuniti, attorno alla tavola, come aveva sempre desiderato. Solo per un attimo si chiese che ne era stato dei suoi amici della Destiny, senza di lui... ma scacciò il pensiero. Il suo dovere era quello, non poteva esserci nulla di più importante. E se Nagilum fosse riapparso, avrebbe potuto confermargli che l’arbitrio esisteva, visto come aveva cambiato in meglio la sua vita, facendo le scelte giuste.
   «È tardi, devo scappare. Sai, la riunione...» disse Maia, alzandosi per prima dalla tavola. Corse in bagno, per darsi una sistemata alla faccia.
   «L’hanno organizzata proprio tardi, eh? Addirittura dopocena...» notò Irvik.
   «Infatti, è una cosa indecente» confermò sua moglie. Per un’antipatica riunione serale, stava curando fin troppo il suo aspetto.
   «Non pensarci più» si disse Irvik per la trecentesima volta. Ma il comunicatore di Maia, lasciato nella sua borsetta, esercitava su di lui un fascino simile al replicatore su Psitta. Doveva metterci le mani, per appurare come stavano le cose. Così, con l’agile mano di un borseggiatore, s’impadronì del dispositivo. Come sperava, sua moglie andava così di corsa che uscì di casa senza controllare di averlo ancora con sé.
 
   «Soli, finalmente» si disse l’ex Ingegnere, rigirandosi il comunicatore tra le mani. Intendeva estrarne la verità, tutta la verità. Dopo aver riattivato l’olo-tata, affinché sparecchiasse la tavola e costringesse i ragazzi a fare i compiti, si ritirò nel suo studio. Come sperava, non si era del tutto lasciato indietro il suo passato d’ingegnere militare. Lo studio era attrezzato di tutto punto con apparecchiature all’avanguardia, alcune delle quali probabilmente venivano dall’astronave, o erano delle repliche fedeli. Qualche ricordino dei vecchi tempi. Irvik depose con cura il comunicatore su un lettore quantico e si scrocchiò le dita, ansioso di verificarne il contenuto.
   Dovette sudare sette camice per venirne a capo. In tutta la sua vita, l’ex Ingegnere non aveva mai visto un comunicatore per uso civile così pesantemente criptato. Oltre al consueto riconoscimento vocale, serviva una password e persino un’analisi genetica per accedere alla memoria interna. Questo non fece che corroborare i suoi sospetti. Lavorando di buona lena, coi trucchi appresi nell’arco della sua carriera, Irvik riuscì infine ad hackerare il dispositivo. L’elenco delle chiamate e dei messaggi precedenti fu finalmente proiettato davanti a lui.
   Per un attimo Irvik fu tentato di non leggere. Aveva cambiato la linea temporale pur di riunire la famiglia, e ora stava per fare qualcosa che poteva nuovamente dividerla. Non poteva semplicemente lasciar perdere, e accontentarsi di ciò che aveva ottenuto...?
   No, non poteva. Sarà stata una deformazione professionale, ma era convinto che l’ignoranza non risolvesse mai niente. Doveva acquisire tutte le informazioni, e solo allora avrebbe potuto agire con cognizione di causa. Così il sauro si fece coraggio e guardò.
   Quindici minuti dopo, avrebbe preferito non avere guardato. Al diavolo la conoscenza... era l’ignoranza l’unico balsamo della vita! Beata ignoranza, convinta che finalmente Maia lo amasse e la famiglia fosse integra. Ma la conoscenza gli raccontava un’altra storia. Una storia in cui il loro matrimonio era solo una facciata, e neanche tanto convincente, visto come tutti gli sparlavano alle spalle. E Maia... quella stessa Maia che poco prima era seduta a tavola con lui... non perdeva occasione per correre tra le braccia di un altro. No, peggio ancora: per correre tra le braccia di Edmon, il produttore olografico dal dubbio talento. Sempre lui... non c’era realtà in cui non si avventasse su sua moglie, come una mosca sul miele. Sarà stato che i loro lavori, basati sugli ologrammi, li facevano incontrare ogni volta. E purtroppo, non c’era realtà in cui sua moglie resistesse alle avances. Che fosse una relazione alla luce del sole, in seguito al divorzio, o peggio ancora una relazione adulterina, quei due finivano sempre insieme. Si sarebbe detto che, se c’era un Destino capace di trascendere ogni altra forza, era il loro.
   La cosa che fece soffrire maggiormente Irvik, persino più del tradimento in sé, fu il modo in cui Maia parlava di lui in quei messaggi. Non perdeva occasione per denigrarlo, per accusarlo d’essere un fallito che si era lasciato sfuggire le migliori occasioni, condannandosi (e di riflesso, condannando anche lei) a una vita di mediocrità. Quelle stesse attenzioni che, nelle altre linee temporali, lui non aveva potuto riservare alla famiglia, qui diventavano ragione di scherno. Come se, non avendo nulla d’importante da fare fuori casa, non gli restasse che perdere tempo nelle quisquilie domestiche. Negli ultimi messaggi, Maia arrivava a dire che le sarebbe piaciuto fuggire da quella casa opprimente. Non specificava se, in questa ipotetica fuga d’amore, intendeva portarsi dietro i figli oppure no. Il tono suggeriva che non parlasse sul serio, che fossero delle iperboli romantiche. Anche così, Irvik sentì ciò che restava del suo cuore sbriciolarsi, polverizzarsi e venire soffiato via.
 
   Più tardi, dopo aver messo a letto i ragazzi ed essersi coricato lui stesso, Irvik ebbe tempo per pensare. Si era sempre incolpato del fallimento del suo matrimonio, ma vedendo come andavano le cose in tutte le linee temporali, ora capiva che anche Maia aveva grosse responsabilità. A ben vedere, non erano fatti l’uno per l’altra; non lo erano mai stati. Le difficoltà della vita, quali che fossero, non facevano che portare a galla questo problema di fondo. Se fosse stato solo per loro due, Irvik avrebbe accettato il divorzio. Avrebbe lasciato Maia con Edmon... finché non si sarebbe stancata anche di lui, data la sua indole incontentabile... e a sua volta si sarebbe cercato un’altra. Il problema erano i figli. Irvik non voleva che crescessero con una madre siffatta e con quel fetente di Edmon. Che cos’avrebbero imparato da loro? A prendere tutto quel che potevano arraffare?
   No, non poteva lasciare i ragazzi in mano a quegli scriteriati. Ora più che mai, Irvik sentiva di dover essere presente nelle loro vite. Ma se avesse divorziato, sapeva già come sarebbe andata a finire. Lo sapeva fin troppo bene, avendolo visto nella precedente linea temporale. Anni di battaglie legali, di rancori, di false accuse, coi ragazzi sballottati e usati come armi, solo per finire comunque assegnati a Maia... no, non poteva fargli questo. Quindi non restava che stringere i denti e andare avanti, accettando che il suo matrimonio era una farsa, e concentrandosi solo sul bene dei figli. Se fosse riuscito a portarli all’età adulta, allora avrebbero potuto capire, e accettare la separazione senza esserne rovinati. Certo che, con un figlio di dodici anni e una figlioletta di nove, era lunga aspettare che fossero maggiorenni...
   Colto da un improvviso dubbio, Irvik osservò la stanza in penombra. Che ne era stato del Cubo di Rubik, il suo contatto con Nagilum, in tutti quegli anni? Poteva essere finito disperso, o persino distrutto? In una casa con due bambini, il ricambio di giochi era frequente, e il Cubo poteva essere stato scambiato per un giocattolo rotto. «Ma Nagilum lo permetterebbe? Il suo scopo non è forse contattarmi, ai fini del suo maledetto esperimento?» si chiese Irvik.
   Rialzatosi, il Voth aprì il cassetto del comodino che teneva sul suo lato del letto matrimoniale. E lo vide: il Cubo era lì, come un inseparabile testimone della sua vita. Era ancora regolato in modo da mostrare un lato giallo e gli altri in disordine. E Irvik aveva la netta sensazione che, se avesse cercato di smuoverlo, avrebbe solo attirato l’attenzione di Nagilum. Ma non era ancora pronto a farlo. Prima voleva familiarizzare maggiormente con la nuova vita. Solo quando si fosse sentito pronto avrebbe chiamato Nagilum, confermandogli che il suo esperimento era un successo e il libero arbitrio esisteva. Così facendo, sperava di liberarsi definitivamente della strana entità. A quel punto non gli sarebbe rimasto che sopportare la nuova esistenza, per il bene dei suoi figli.
   Con questo pensiero, non tanto consolante, Irvik richiuse il cassetto e si riadagiò sotto le coperte. Era stata una lunga giornata, che lo aveva stancato. Quando riuscì a prendere sonno, sua moglie non era ancora tornata.
 
   La mattina successiva, Irvik e Maia non parlarono del comunicatore, sebbene lei si fosse certamente accorta che le era stato sottratto. L’ex Ingegnere glielo aveva lasciato sul tavolo, vicino a dove lei aveva lasciato la borsetta la sera prima, come a suggerire che poteva esserne sfuggito accidentalmente. Aveva anche fatto del suo meglio per cancellare le prove dell’hackeraggio. Maia lo riprese senza dire una parola. Forse sospettava già che lui conoscesse i suoi traffici. Per il resto della mattinata si scambiarono solo poche parole indispensabili. Poi, dopo aver teletrasportato i ragazzi a scuola e aver impostato l’olo-tata affinché sbrigasse i lavori domestici, si lasciarono con un semplice «Buon lavoro».
   La giornata trascorse senza grossi scossoni. Irvik cominciava già ad abituarsi all’insegnamento, per quanto dovesse ancora familiarizzare con certi meccanismi della vita accademica. «Non può essere più difficile che mandare avanti la sala macchine di un’astronave dispersa nel Multiverso» si ripeté, ogni volta che incontrava una difficoltà. Adesso però capiva l’atteggiamento di sufficienza con cui i colleghi, e persino gli studenti, lo trattavano. Le scappatelle di sua moglie dovevano essere note a tutti. Probabilmente lo avevano reso lo zimbello della facoltà. L’ex Ingegnere tenne duro, cercando d’imporsi almeno con gli studenti, richiamando severamente quelli che sonnecchiavano durante le sue lezioni.
   Quando fu di ritorno a casa, Irvik trovò un po’ d’agitazione. L’olo-tata stava cercando di far sbrigare i compiti ai bambini, come da suo ordine, mentre questi protestavano, dicendo che a quell’ora avevano il permesso di giocare. La piccola Psitta si era persino messa a piangere, mentre Dryos stava facendo un lavoro raffazzonato, nella speranza di liberarsene al più presto. Ah, se solo avessero saputo cosa si stava sobbarcando per loro! Irvik mise in chiaro che i compiti dovevano essere terminati prima di cena, non dopo, anche se temeva le prodezze chitarristiche in cui il primogenito si sarebbe esibito a tarda ora.
   Appena fu libero, il Voth si chiuse nel suo studio. C’era qualcosa che aveva rimandato fino a quel momento, ma il rovello era cresciuto sino a farsi insostenibile. Come la sera prima, con le infedeltà di sua moglie, anche stavolta doveva sapere.
   «Computer, accedi ai dati aggiornati sulla Federazione Unita dei Pianeti» ordinò. «Ti risulta che sia in servizio un’astronave chiamata USS Destiny?» chiese.
   «Negativo, non risulta in servizio alcuna nave con tale nome».
   «E tra le navi disperse?» chiese Irvik, con crescente tensione.
   «Affermativo. USS Destiny, dispersa nel viaggio inaugurale in Data Stellare 2605.44, che nel nostro calendario...».
   «Lo so» tagliò corto il Voth. «Non c’è stato nessun avvistamento dopo di allora? Nessun contatto?».
   «Ci sono stati 47 avvistamenti indagati dalla Flotta Stellare, ma nessun contatto ufficiale. Si ritiene che tutti gli avvistamenti fossero infondati».
   «Già, la nave fantasma che tutti intravedono sui sensori!» brontolò Irvik, sapendo come andavano queste cose.
   «Tuttavia gran parte delle informazioni concernenti l’USS Destiny sono classificate dalla Flotta Stellare per ragioni di sicurezza. Di conseguenza è possibile che vi siano stati contatti non divulgati» aggiunse il computer.
   «No, non credo» mormorò l’ex Ingegnere, con la bocca secca. Pensò a tutte le volte che l’avevano scampata di un soffio, grazie al suo contributo. Non per vantarsi, ma... erano state tante. Quei bricconi se la sarebbero cavata senza di lui? Irvik non riusciva a crederci. I loro volti gli passarono davanti, nitidi nella memoria. Rivera, Losira, Naskeel, Shati, Giely... e poi il giovane Talyn, così entusiasta d’imparare da lui i trucchi del mestiere. Che ne era stato di loro? Potevano essere sopravvissuti? O piuttosto erano periti subito dopo l’arrivo nello Spazio Fluido, quando i mostruosi Undine li avevano braccati come animali? Ricordando gli effetti degli artigli Undine, con le cellule aliene che infettavano le vittime e le consumavano, Irvik rabbrividì.
   «Computer, ci sono informazioni su un mercantile Ferengi di nome Ishka?» tornò a chiedere. Era quella la loro nave, prima che abbordassero la Destiny.
   «Affermativo. Il mercantile Ishka risulta tra le navi ricercate dalla Flotta, per reati di truffa e contrabbando. Ultimo avvistamento in Data Stellare 2610.35».
   «Quando ci nascondemmo in quella nebulosa, trovando la Destiny alla deriva» ricordò Irvik. Così era iniziata la loro odissea nel Multiverso. «E dimmi... non c’è alcuna informazione su quella banda d’avventurieri, dopo di allora? Anche in assenza della nave?» tornò a chiedere.
   «Negativo. Per avere informazioni più aggiornate e dettagliate, è consigliabile rivolgersi all’ambasciata federale» consigliò il computer.
   «Uhm» fece Irvik, aggrottando la fronte scagliosa. Se fosse stato un Ingegnere all’apice della fama, con contatti presso la Milizia Voth e i Circoli scientifici, forse avrebbe potuto smuovere le acque. Ma nella sua attuale vita di modesto professore... no, non credeva che all’ambasciata lo avrebbero ascoltato.
   D’un tratto gli venne in mente che c’era un modo per dedurre cosa poteva essere successo alla Destiny. Nella linea temporale originale, meno di un anno prima, erano tornati nello Spazio Fluido per dare battaglia agli Undine. Avevano distrutto l’Harvester, la loro grande stazione, impedendo che traslasse il pianeta Ferasa nel loro spazio. Avevano salvato un intero popolo, quello dei Caitiani. Ma nella nuova linea temporale, in cui lui non era lì a fare la sua parte...
   «Computer» disse Irvik con voce tremante, «ci sono informazioni aggiornate sul pianeta federale chiamato Ferasa?».
   «Affermativo. Il pianeta Ferasa risulta svanito in Data Stellare 2613.145 all’interno di un’anomalia, identificata come un’interfase di spazio. Cause dell’interfase: sconosciute. Attuale collocazione del pianeta: sconosciuta. Sorte dei suoi abitanti: sconosciuta. In seguito all’incidente, la Flotta Stellare è in allarme e ha presidiato il sistema di Ferasa. La Federazione ha chiuso le frontiere, decretando lo stato d’emergenza. Per i dettagli, rimando alle seguenti fonti».
   L’oloschermo mostrò un lungo elenco di notiziari e articoli scientifici, sia federali che d’altre fonti, dedicati alla crisi. Irvik non aveva bisogno di leggerli. Era evidente che, senza il messaggio d’allarme trasmesso dalla Destiny, la Flotta Stellare brancolava nel buio. E questo avvantaggiava gli Undine, che erano liberi di colpire ancora. Forse non avrebbero più tormentato la Federazione, passando ad altri obiettivi... ma forse sì. In ogni caso si erano presi Ferasa, e se l’Harvester era ancora integro, potevano prendersi altri mondi. Tutto perché lui, Irvik, aveva riscritto la Storia, al solo scopo di riunirsi a una moglie fedifraga e ai loro sventurati figli...
   A questo pensiero, il Voth rimase impietrito. Preso com’era dai suoi problemi personali, non si era mai reso pienamente conto di quanto fossero state importanti le loro imprese con la Destiny, di quanto avessero aiutato altri popoli. Sì, avevano anche combinato dei pasticci, ma erano quasi sempre riusciti a rimediare. E nel complesso, la bilancia era a loro favore. Nell’Universo dello Specchio, ad esempio, avevano aiutato i ribelli a combattere la Confederazione, avevano curato un’epidemia di sterilità e avevano salvato la Terra dalla distruzione totale. Com’erano le cose laggiù, adesso che niente di tutto ciò era accaduto? E i Caitiani come se la passavano, ora che erano finiti nello Spazio Fluido, alla mercé degli Undine? Quanti di loro erano già stati trascinati sul mondo Arena, per bagnare la sabbia riarsa col loro sangue?
   «Che cosa ho fatto...» mormorò Irvik, prendendosi la testa fra le mani. Aveva condannato interi popoli, intere civiltà... in cambio di una famiglia che non era nemmeno certo di poter aiutare. Come Ingegnere Capo della Destiny, aveva contribuito a salvare dei pianeti. Ma nelle altre linee temporali non gli era mai capitato di fare cose così importanti. La sua vita era stata molto più ordinaria, per non dire anonima. Non aveva fatto nulla che gli meritasse il rispetto, la stima dei suoi figli.
   Fu allora che Irvik capì cosa doveva fare, sebbene ciò gli lacerasse il cuore. Se aveva a cuore il bene, doveva rinunciare al suo più grande desiderio, la vicinanza dei figli. Del resto, loro sarebbero sopravvissuti anche senza di lui. E al suo ritorno – se fosse tornato – avrebbero trovato un padre di cui essere fieri. Non uno che fuggiva dalle proprie responsabilità.
 
   Presa la decisione, Irvik decise d’attuarla subito, prima di poterci ripensare. Ma prima doveva fare una cosa che, in precedenza, gli era stata negata. Doveva dire addio alle sue creature. Andò nella camera dei figli, trovandoli in piena attività. Dryos suonava la chitarra a tutto volume, mentre Psitta aveva preso la corda elastica e saltellava, vagamente al ritmo.
   «Abbiamo finito i compiti, pà!» si giustificò il ragazzino, interrompendosi.
   «Lo so, tranquilli, non sono qui per richiamarvi» lo rassicurò Irvik. «Volevo solo essere certo che... che capiste» disse, emozionandosi.
   «Capire che cosa, papà?!» chiese Psitta con la sua vocetta acuta.
   «Quanto vi voglio bene» rispose Irvik, abbracciando uno dopo l’altro i figli. «Tenetelo sempre a mente, mi raccomando. Di tutte le cose che ho fatto... o che potrei fare... in vita mia, nessuna sarà mai più importante che essere vostro padre. E anche se non potrò essere sempre con voi, saremo sempre una famiglia. Vicini o lontani, lo saremo sempre» disse, trattenendo a stento le lacrime. Poi si ritirò, lasciandosi alle spalle i ragazzini perplessi. Sperò che non lo seguissero, in cerca di spiegazioni, e infatti fu così; aveva fatto pochi passi che udì nuovamente il frastuono della chitarra. Bene così... avrebbe coperto le altre voci.
   Recuperato il Cubo di Rubik, Irvik tornò rapidamente nel suo studio. Bloccò la porta, per accertarsi di non essere disturbato. Infine posò il Cubo sulla scrivania, col lato giallo in avanti, e gli si rivolse in tono aspro: «Avanti, Nagilum, so che sei lì! So che mi senti quando parlo! Rispondi!».
   E Nagilum rispose, materializzando il suo inquietante volto senza corpo sull’oloschermo dietro al Cubo. «Eccomi, Irvik. Stavolta ce ne hai messo di tempo a contattarmi. Allora, come ti vanno le cose?» s’interessò.
   «Che premuroso! T’interesserà sapere che la mia vita è cambiata in meglio» ammise il sauro, e gli riassunse le principali differenze. Anche stavolta Nagilum ascoltò con interesse, chiedendo occasionalmente degli approfondimenti. «Questo è tutto. Come vedi ci sono alti e bassi, ma... nel complesso ho ottenuto di tenere unita la famiglia» concluse.
   «Interessante. Quindi la tua congettura era corretta... intervenendo al momento giusto, la sorte può essere alterata» concluse Nagilum. «Questo depone in favore dell’arbitrio. Il maggior problema di voi mortali sembra essere l’ignoranza, che offusca il vostro giudizio. Ciò v’induce a compiere scelte affrettate, o comunque errate, condannandovi all’infelicità. Per contro, più la vostra comprensione si espande, più le vostre scelte si orientano verso il successo. Davvero interessante». Il suo volto impallidì.
   «Aspetta, non te ne andare!» lo richiamò Irvik. «Spiegami una cosa... il tuo esperimento è finito? Sei soddisfatto?».
   «Ho ottenuto nuove informazioni su cui ragionare. Perché?» chiese l’entità, riprendendo consistenza.
   «Perché solo ora mi accorgo che stravolgere la linea temporale per il mio tornaconto è stato egoista» ammise il Voth. «La mia vita potrà anche essere migliorata, ma quella di molti altri è peggiorata in modo drammatico. Senza il mio contributo, gli amici della Destiny sono morti o prigionieri. E senza la Destiny, interi popoli hanno sofferto o sono stati persino sterminati. Non avevo riflettuto sulle ramificazioni delle mie azioni, ma ora sì. E per quanto mi dispiaccia, sono costretto a rinunciare. Se puoi annullare tutte queste alterazioni, e riportarmi sulla Destiny, ti prego di farlo».
   Nagilum lo scrutò a lungo con gli occhi insondabili. «Questo è inaspettato» disse infine. «Proprio ora che abbiamo fatto progressi, vuoi annullare tutto?».
   «A te che importa? Hai fatto il tuo esperimento e puoi meditare sui risultati. Per noi mortali, però, sarebbe d’enorme importanza cancellare i miei errori» spiegò Irvik.
   «La tua volontà è mutata... ma che ne è delle tue responsabilità familiari? In precedenza non parlavi d’altro» insisté l’entità.
   «Non le ho scordate. Il fatto è che ho delle responsabilità anche verso i compagni della Destiny, e verso i popoli che abbiamo aiutato. Per questo dobbiamo riportare tutto com’era prima. Puoi farlo? Dimmi di sì, ti supplico!» implorò il Voth, temendo che fosse impossibile.
   «Posso farlo» rivelò Nagilum. «E lo farò, se insisti che è così importante. Sì, ora mi accorgo che, nel grande schema delle cose, abbiamo creato un piccolo bene da una parte, ma un grande male dall’altra. Così non resta che annullare tutto. Solo io e te conserveremo il ricordo di questo esperimento».
   «Magnifico!» gioì Irvik.
   «Questo però confuta le mie precedenti conclusioni» avvertì Nagilum, facendosi severo. «Se dobbiamo annullare tutto, ciò significa che c’è davvero un Fato ineluttabile, contro cui non possiamo opporci. Sono turbato... devo riflettere a fondo, e magari procurarmi altri dati» rimuginò.
   Il sauro stava per chiedergli come contava di procurarseli. Ma il suo sguardo cadde sul Cubo di Rubik, che aveva preso a riconfigurarsi. La faccia gialla si scompose e anche le altre mutarono, fino a ripristinare l’esatta configurazione che aveva prima dei viaggi temporali. Allora Irvik sprofondò, una volta di più, nelle tenebre dell’incoscienza.
 
   
 
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