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Autore: Niv    31/12/2023    0 recensioni
Una storia che racconta di Itachi Uchiha un anno prima della morte. Una persona silenziosa, inquieta, gentile ma anche dura, che porterà alcune persone che l'incontreranno a domandarsi chi davvero egli sia, e se ci sia una verità nascosta dietro la cronaca dei suoi crimini.
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Itachi
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Naruto Shippuuden
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La caccia

Là echeggiavano, nell’immensa foresta di Cryptomeria dagli altissimi fusti, sordi colpi sui rami più alti, di albero in albero si susseguivano lungo un tragitto che tagliava la selva, nell’andamento di una corsa senza tregua. Figure nere balzavano rapide di ramo in ramo come grosse bestie feroci, erano uomini in caccia della loro preda, erano in due.

Da due giorni correvano attraverso quella foresta fitta di fusti innumerevoli, muti fendevano quel silenzio di selva, fatto di schiocchi e di fruscii e di richiami di animali, fragrante di resine.
Così come i neri orsi molta distanza tenevano dal vociare dei bei sentieri, curati da monaci dalle teste rasate e dalle vesti arancio.

Portavano indosso lunghi mantelli neri da viaggiatore, particolari simboli erano incisi su lustre placche di bronzo bianco che portavano in fronte, fissate su bende: erano quelli i segni della loro appartenenza al popolo dei guerrieri-ombra. Ma un solco trasversale tagliava a metà quei simboli, a rendere manifesto che a quel mondo avevano voltato le spalle, entrambi, per crimini e delitti dalle quali giuste pene erano fuggiti.
Al tempo di quella loro fuga senza ritorno poterono trovare rifugio sicuro presso una fosca organizzazione che, libera tra le Terre degli shinobi, andava reclutando ricercati, esiliati e mercenari in cambio della loro affiliazione; ad essa erano vincolati per mezzo di giuramento, testimoniato da anelli che portavano al quarto dito, e per conto di essa erano impegnati, in quei giorni, in quella lunga caccia attraverso la foresta.

Grande e possente era l’uomo che tra i due guidava quella corsa, aveva il corpo di un gigante, la pelle del colore dell’ardesia, occhi bianchi come di platino, i denti a cuspide, fitti, terribili nel viso scuro.

 

Nato dove la nebbia si confonde col mare, dalle genti dalla pelle fiorita di sale come bianco velo di pizzo, egli sorrideva, impetuoso

era un umano ma pareva piuttosto un animale, tanto era grande e furioso nell'aspetto.

Portava allacciata alla schiena una spada tozza, lunga quanto due braccia aperte, essa giaceva avvolta in fasce speciali che la tenevano quieta, poiché Samehada, 'la scagliosa' era una rara spada vivente.

E poi, così come un’ombra silenziosa, subito dietro ai suoi passi lo seguiva l’altro, suo compagno d’armi: svettava sulla schiena una lunga coda di capelli scuri, liscia e sottile come coda di faina

Nobile il suo sangue, nato d’una fiera stirpe sinistra,

gli occhi aveva come gioielli

 

Più leggero nella corporatura rispetto al compagno, e di due lustri più giovane, egli, cupo e guardingo, sempre stava in ascolto del bosco.

Ma da molto ormai correvano durante il giorno e sostavano poche ore la notte, così, stanco di quel viaggio di cui non conosceva il percorso, il giovane con uno sforzo maggiore oltrepassò il gigante, giacché vedeva aumentare il chiarore del tardo pomeriggio attraverso la foresta che si faceva più rada, sperando che la mèta fosse finalmente oltre quel crinale.

Fermò la sua corsa in alto tra i rami di un cedro tra i più vecchi, nato sul ciglio di una buia forra; da lì, nascosto dietro l’ampio fusto, diresse lo sguardo avanti a sé, lontano, reggendosi ad un ramoscello con la mano guantata.

Splendeva il viso del candore di un angelo terribile,

come d’alta cima innevata,

silente, spietata,

bellissima.

 

Là vide verdi colli dal dolce profilo mirabilmente terrazzati e ben coltivati, vi stormivano filari di piante del tè mosse dalla brezza di giugno: da poco era passato il periodo della seconda raccolta.
Giungeva dolce il vociare delle raccoglitrici che si incamminavano verso gli alloggi con i bambini piccoli al seguito, al termine di una giornata di lavoro.

Pervadeva il giovane shinobi un sentire d’inquietudine, senza alcuna evidente ragione, ma come sapendo che qualcosa sarebbe lì accaduto.

Strinse dunque le palpebre per scrutare quel luogo; volgendo il capo da levante a ponente andava cercando tremuli brandelli del passato o fuggevoli bagliori dal futuro, quelle evenescenze più lasse nella ruota della vita che solo al potere peculiare della sua nobile stirpe era concesso scorgere.

 

Così, tenue, emerse dal profondo di quegli occhi la luce del potere eccelso dello sharingan, il ‘sigillo’, come l’amaro fulgóre di un rubino maledetto

invidia e sgomento suscitava quel potere, ormai divenuto rarissimo proprio a causa sua

perché da sette anni il popolo dello sharingan non esisteva più

e da allora il suo era il nome di un infame, e la sua effigie compariva nel registro dei ricercati.

 

Il grosso compagno lo raggiunse sullo stesso albero, con le gambe estese colpì coi piedi il ramo ma tale fù l’impeto che il legno si spezzò sotto il suo peso con uno schianto forte, e, nel silenzio della foresta ammutolita rovinò giù tra il morbido fruscìo delle fronde e gli schiocchi di altri rami più piccoli, scosciati dal fusto.

« ...Che bestione » scosse la testa il giovane, dando voce al suo pensiero.

Ai suoi piedi, l’altro si reggeva sulla presa di due pugnali conficcati nel fusto del vecchio cedro.

«Beh, volevo dirvi che siamo arrivati. – disse il gigante dalla faccia spavalda, che sempre riservava verso di lui una deferenza non comune – Questa è la Terra del Tè.»

 

Il giovane volse il capo a guardare ancora una volta la vallata, mite, e serena all’apparenza, nessuna insidia pareva nascondersi nelle pieghe del tempo, eppure nel suo animo covava, muta e nascosta, l’inquietudine dell’attesa, così, senza una ragione.

«Percorrendo il sentiero dei bonzi avremmo impiegato un giorno in più e nel frattempo ci avrebbero senza dubbio avvistato e segnalato alla Casa delle Farfalle. – disse ancora il grande compagno lasciandosi cadere al suolo da tale altezza, e discese a terra come il maglio batte il ferro – Conosco abbastanza bene questi posti».

Il giovane discese a sua volta e potendo finalmente riposare si sedette a terra, sui muschi asciutti, velato alla vista da una selva di spini.

Tirò fuori una borraccia dalla borsa e aprendola disse: «Dunque aspetteremo che faccia buio per penetrare nell’albergo. Sempre che il nostro uomo sia ancora qui.» soggiunse dubbioso, prima di bere un sorso d’acqua.

«Oh, certo che c’è, e lo vedo bene » chiocciò il gigante gongolando tra sé.

Teneva un piccolo e astruso marchingegno tra le larghe mani unite a coppa, simile ad un riccio di ippocastano appena dischiuso, in esso un puntolino brillava debole in un lucido quadrante, come un occhio assonnato.

Lo guardava l’altro con una certa riprovazione.

«Tu confidi troppo in quella cosa

E ghignò, il gigante, soddisfatto: «Trovate veramente irritante questa piccola meraviglia della tecnica, vero Itachi?»

Rispose il giovane con la poca pazienza che si riserva all’ovvio: «Noi shinobi abbiamo qualità tali che gli uomini comuni possono solamente sognare, non è bene trascurarle per un ozioso congegno.»

« Certamente, tuttavia, non tutti nascono col dono dell’eccellenza, né sono molti a vantare nobili natali, eredi di poteri arcani. Io, per esempio non potrei trovarmi qui, sulle tracce esatte del nostro obiettivo, senza l’ausilio di questo piccolo, ingegnoso strumento, – si piegarono le labbra in un sorriso invisibile – dal momento che io non sono capace di percepire l'energia vitale.» Con l’occhio fisso di un serpente lo guardava, in attesa di un segno, uno solo, che tradisse, finalmente, il suo misterioso compagno.

« Non ho mai detto di essere in grado di farlo. » seccato, rispose.

« Questo è vero: voi non l'avete mai detto. » alzò la mano sinistra e rimarcò l’enfasi col gesto di ‘èureka’. Portava al quarto dito un anello con castone d’ambra gialla, “SUD” vi era inciso. Riprese poi a parlare: « Ciononostante ne ho avuto spesso l’impressione. Vedete, ho notato che sembra sappiate sempre molto bene dove si trovi quel bambino… »

«Basta, Kisame. » Come il cagnolino sotto i morsi del compagno con un ringhio pone fine al gioco quando questo si è fatto pesante, così Itachi chiuse di netto quel discorso, anche per quella volta.

Davanti alle labbra Kisame Hoshigaki intrecciò le dita e chiuse gli occhi come in cerca di riposo; ma di nascosto strofinava il castone d’ambra, mentre nella mente fluiva rapido il pensiero volto al capo supremo dell’organizzazione, il magister:

[ operatore: SUD/tipo: resoconto/ -- Sempre molto irritabile quando si tratta del fratello minore – nega di essere sensortype, ma non gli credo -- / fine resoconto / SUD ]

Riaprì dunque gli occhi, disteso appariva in viso, con un lieve sorriso sufficiente.

 

Il crepuscolo era appena iniziato, cessarono ovunque, in pochi istanti, i richiami delle cicale, e l’aria cominciava a portare gli odori della notte umida.

«Piuttosto, parlami un po’ di questo posto, dato che sostieni di conoscerlo bene. » riprese il giovane Uchiha, scacciando da sé pensieri.

E Kisame dai denti di squalo si dispose volentieri a raccontare, poiché era un uomo d’aspetto mostruoso e dall’impeto devastante, ma era di piacevole compagnia.

 

Parlò dunque di quella terra che ebbe la sventura di essere debole tra le forti confinanti, al tempo della Terza Grande Guerra; parlò di una terra di gente di modeste qualità, che quindici anni prima subì distruzione e saccheggi finché, drenata di ogni risorsa fin nello spirito, si ridusse all’annichilimento.

« Così il consiglio degli anziani si riunì per l’ultima volta e trovò una soluzione da alcuni ritenuta lungimirante, da altri troppo costosa, ma nessuno ne potè trovarne una migliore, e così decisero che l'unica cosa da fare era vendere l'oggi per il domani – raccontava Kisame – ovvero, concedere l’approvvigionamento in cambio della ricostruzione post-bellica. Tant’è vero che ad oggi queste terre non appartengono più ai nativi, così come una generazione di figli della guerra. Ma sono tutti scappati, al più emigrati. Come i topi, quando abbandonano in massa la nave che affonda.» con le dita mimava la fuga di ispidi ratti furtivi, col disgusto che gli arricciava le labbra, poi sospese il racconto divertendosi a spezzare ramoscelli secchi.

« Solo l’albergo è rimasto. » riprese come ruminando suoi ricordi, dopo una pausa nell’aria sempre più scura e fresca. « La Casa delle Farfalle. »

« Il famoso albergo dove si riunisce il club Hyaku Chō. » aggiunse Itachi.

« Vedrete che meraviglia. »

« Lo conosci? »

« Ci sono stato tre volte, e ogni volta era più grande e più bello di prima. »

Il buio ormai impediva di vedere all’uno il viso dell’altro, era quello il momento di muoversi.


 

   
 
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