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Autore: Orso Scrive    15/01/2024    4 recensioni
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Una parodia in chiave horror dei numerosi canali di "ghost hunting" che spopolano su YouTube (almeno, la mia pagina principale ne è piena). Nota: i personaggi di questa storia sono apparsi in precedenza in altre mie storie, ma non è necessario averle lette.
Genere: Mistero, Parodia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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II.

Mercoledì notte, sopra un’auto parcheggiata in una strada deserta

 

 

«Che coglioni, Manfredino. Posso dirlo? Che coglioni. C-h-e-c-o-g-l-i-o-n-i.»

Il sottotenente Aurora Bresciani sottolineò quel concetto sbuffando una nube di fumo che finì tutta in faccia al tenente Alberto Manfredi.

«Ormai l’hai detto, che cosa me lo chiedi a fare?»

I due agenti del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale erano seduti sulla vecchia Fiat Punto blu di Manfredi da quasi tre ore. L’appostamento fuori dal museo era stato ordinato dal colonnello Iannaccone in persona. L’ufficiale aveva ricevuto una soffiata sulla possibilità che, in quella notte, avvenisse un furto al museo, e aveva inviato Alberto e Aurora a vigilare.

Ma chi cazzo vuoi che venga a compiere un furto al Museo del Cavatappi, porco di quel…?

Ovviamente, Manfredi si astenne dal dire ad alta voce quella cosa. Aurora non sapeva che cosa ci fosse nel museo e, per l’incolumità dei propri testicoli, Alberto era consapevole di non doverlo dire mai.

Mai e poi mai.

Per nessuna ragione al mondo.

A una richiesta di chiarimenti della collega, il tenente si era limitato a bofonchiare: «È un museo comunale, piccolo ma caratteristico, pieno di reperti preziosi.»

«Comincio ad averne le palle piene, Manfredino, ti avverto», disse lei, con tono nervoso. Minaccioso. «E mi rimane una sola sigaretta nel pacchetto.»

Consapevole che, qualunque tentativo di farle comprendere che gli ordini che ricevevano non dipendevano da lui, Alberto trovò la forza per fare un sogghigno.

«Non sapevo che tu avessi le palle, ma adesso che me lo hai rivelato, comincio a capire molte cose. Cose che, fino a questo punto, non mi erano molto chiare. Adesso hanno un senso, ecco.»

Lei non rispose nemmeno. Si lasciò cadere contro il sedile, spandendo fumo e cenere da tutte le parti. Alberto non si curò di lamentarsi. Come sempre accadeva quando ci si sedeva sopra lei, la sua macchina si stava a poco a poco tramutando in una discarica puzzolente. Ormai aveva rinunciato a chiederle la cortesia di adoperare almeno il posacenere.

Sto zitto, almeno risparmio il fiato, ché di ossigeno ce n’è già pochissimo, dentro questa specie di fumeria.

Si sporse in avanti e, con la manica del giubbotto, asciugò il vetro appannato.

Quella specie di finestra che si creò davanti agli occhi, gli rivelò l’anonima strada di una qualunque cittadina di provincia, in mezzo alla pianura, da qualche parte dell’Italia del Nord. Le due carreggiate e i marciapiedi erano illuminati dalla luce arancione dei lampioni. La sagoma del municipio, adiacente al Museo del Cavatappi, era un’ombra a malapena distinguibile, al di là di un giardinetto curato e cinto da siepi. Poco lontano, si vedeva l’insegna luminosa di un anonimo discount.

Non aveva nome.

Solo “Discount”.

Come se chiamassero un supermercato “supermercato”, un’edicola “edicola” e un centro commerciale “centro commerciale”. Capisco voler puntare meglio al concetto, ma qui si esagera.

Più in là, si intravedevano alcuni capannoni industriali. In giro, in quell’anonima e fredda notte infrasettimanale di gennaio, non c’era anima viva, a parte loro.

Manfredi fissò una telecamera di sicurezza, appesa sopra un palo. Era chiaramente spenta.

Piuttosto che fare lo sforzo di accenderla, preferiscono lasciarci qui tutta la notte. Per quella miseria che chiamano stipendio, poi.

«Se qualcuno ci stesse osservando in questo momento, penserà o che siamo due disperati rimasti senza tetto – e, con il cesso di macchina con cui vai in giro, è facilissimo crederlo – oppure che stiamo facendo la sveltina più lunga della storia», commentò Aurora.

Alberto guardò fuori dal vetro per ancora qualche secondo, poi si lasciò andare contro il sedile. Prese dal cruscotto una bottiglietta di chinotto già mezza consumata e la stappò. Bevve un breve sorso.

«Quando sei così acida, piuttosto che farmi una sveltina con te, mi farei sparare», replicò il tenente. «Scommetto che, in momenti come questi, ti crescono i denti pure nella figa.»

«I denti nella figa, tenente!» ripeté Aurora, fingendosi sconvolta. «Ma come sei volgare, a dire figa! Non lo sai che non si dice figa, Manfredino? Figa è una parolaccia e le parolacce non si dicono, figa!» Sottolineò il concetto battendosi una manata da camionista sulla parte interessata.

Trascorse un minuto in quasi totale silenzio.

«Comunque», riprese poi Aurora, «io non sono acida. Io mi limito a constatare.»

«Ah, sì?» sbottò Alberto, guardandola di sottecchi. «E che cosa constati, si può sapere?»

Lei fece un sorriso che non piacque per niente a Manfredi.

Un sorriso che avrebbe potuto definire in un solo modo.

Pericoloso.

«Constato tre cose: la prima, che sto sprecando tempo prezioso che potrei impiegare in modo più proficuo; la seconda, che mi rimane soltanto una sigaretta; la terza che, in virtù delle prime due, la tua vita comincia a essere in serio pericolo, Manfredino. Sai, quando mi obbligano a stare per ore intere in una macchina e finisco le sigarette, io divento nervosa, e se divento nervosa divento dispettosa, e quando sono dispettosa, io…»

Alberto sbuffò.

«Sì, sì, ho capito», brontolò. Guardò l’orologio sul cruscotto. «Senti, adesso è quasi mezzanotte. Facciamo che restiamo qui ancora, che ne so, un paio d’ore e…»

Aurora lo frenò con un cenno imperioso.

«Non pensarci nemmeno, Manfredino», intimò. «Io adesso mi fumo la mia sigaretta. Poi, appena l’ho finita, tu accendi il motore e schiacci quel pedale fino a che non troviamo un distributore automatico. Sono stata chiara?»

Per essere chiara, lo sei stata. Ma io ho chiaro anche a chi toccherà subire la collera di Iannaccone, se qui il furto avviene per davvero e noi non lo sventiamo. Di certo, non a te.

«Senti», disse Alberto. «Facciamo un patto: tu ora tiri fuori il telefono e ti guardi un video. Uno a tua scelta. Poi, dopo averlo finito, ti fumi la tua sigaretta. Se, dopo video e sigaretta, qui non è ancora successo nulla, ce ne andiamo fuori dai coglioni e chi s’è visto s’è visto.»

Aurora soppesò per un momento quelle parole. I suoi occhi verdi mandarono un bagliore che fece paura ad Alberto. Poi, però, lo sguardo le si addolcì.

«Accordato, Manfredino», disse. «Un video e una sigaretta e poi si va. Ma devi darmi il tuo telefono, il mio ha la batteria scarica.»

«E ti pareva», borbottò Alberto.

Prese dalla tasca il suo vecchio smartphone tutto rotto e aprì YouTube.

«Allora, che cosa ci guardiamo?» domandò. «Una compilation di cartoni animati di Paperino?»

Lei sorrise.

«Così mi tenti…» Indicò lo schermo. «E quelli? Chi sono?»

«Chi, questi?» domandò Alberto. «H.UL», lesse. «Boh, sono tipo dei cacciatori di fantasmi. Me li suggerisce qualche volta l’algoritmo di YouTube, ma non mi interessano… figurati se io credo a quelle baggianate…»

«Sei sempre il solito incredulo, Manfredino», lo prese in giro lei. «Scommetto che, se ti mettessi in testa che non esiste nemmeno la figa, non ci crederesti neppure se ti sventolassi la mia sotto il naso e ti dicessi di leccarmela per sentire che sapore ha.»

«Che discorsi», borbottò lui.

«Da’ qua», disse Aurora, strappandogli il telefono di mano.

Con un movimento rapido del dito, premette il tasto PLAY.

 
   
 
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