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Autore: Flying_lotus95    16/01/2024    1 recensioni
Torino, 1944.
L'omicidio di un ufficiale tedesco, un uomo in fuga, una donna che cercherà di proteggerlo. Amore e odio, segreti e bugie, guerra e pace, sia dentro che fuori.
[𝘘𝘶𝘦𝘴𝘵𝘢 𝘴𝘵𝘰𝘳𝘪𝘢 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦𝘤𝘪𝘱𝘢 𝘢𝘭 𝘞𝘳𝘪𝘵𝘰𝘣𝘦𝘳 2023 𝘥𝘪 𝘍𝘢𝘯𝘸𝘳𝘪𝘵𝘦𝘳.𝘪𝘵]
Genere: Drammatico, Guerra, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Prompt: Sigaretta
 

Capitolo 9

Come una (sigaretta) spenta e ammaccata

 


Erano passate ore da quando Agnese aveva iniziato a guardarsi allo specchio dell'armadio, con aria persa. 
Era in camicia da notte, i capelli sciolti e il viso imbronciato. Non sapeva esattamente cosa stesse guardando nello specifico.
Era sì, il suo riflesso, quello allo specchio, ma allo stesso tempo non si rivedeva affatto in esso. Si sentiva spaesata, la testa pesante e vuota allo stesso tempo.
Decise di allontanarsi da lì, continuare a riflettersi dentro non avrebbe allentato quella sensazione di estraniamento che stava provando. 
Si avvicinò al piccolo scrittoio dove di solito teneva i suoi trucchi, il suo diario e i suoi libri, e aprendo un cassetto, vi trovò un pacchetto di Imperium vuoto, consumato.
Erano le sigarette che Gabriel fumava spesso.
La prima volta che Agnese gliene aveva vista una in mano, era stato la notte in cui avevano fatto l'amore per la prima volta, quasi un anno prima.
A quel tempo, Agnese se lo era visto davanti soltanto pochi giorni prima, in veste ufficiale di tenente della Schutz-Staffel, con aria imponente e guardinga.
Quando si era sentita il suo sguardo penetrante addosso, intenta a scendere le scale, le era sembrato come se il tempo si fosse fermato, come se non ci fossero stati i suoi zii intenti a fare gli onori di casa - Ismaele con molta poca voglia della moglie -, Romeo a fissare quei soldati uno per uno, in allerta, e Anna dietro di lei, che nel riconoscere in quel tenente il vecchio amico d'infanzia della sorella maggiore, aveva saltato a due a due le scale, buttandosi addosso a Gabriel, colto di sorpresa.
Uno dei soldati si era avvicinato per reguardirla, ma il tedesco lo aveva intimato di non procedere oltre. Era bastato un cenno della mano per convincerlo.
Era stato in quel momento che Agnese aveva iniziato a vacillare, a pensare che, nonostante tutto, in Gabriel vi fosse stata ancora una traccia di bontà umana, di considerazione per tutti loro.
Ci aveva creduto quando si era avvicinato piano, nei giorni successivi, cercando di richiamare la sua attenzione, per ristabilire un rapporto deterioratosi a causa dell'ideologia che aveva proliferato come gramigna intorno a loro.
Nonostante l'ombra di quel matrimonio che pesava sulle loro teste, Agnese aveva voluto dargliela una seconda possibilità, aveva voluto credere che Gabriel volesse recuperare qualcosa del loro rapporto, fossero state anche briciole, poco importava.
Ci aveva creduto anche quando l'aveva portata in quell'albergo dove le prostitute ufficiali dei soldati andavano a trovarli, per soddisfare i loro bisogni.
All'inizio Agnese non si era sentita usata, o raggirata. Si era lasciata travolgere da quel sogno di gioventù che non l'aveva mai davvero abbandonata, quando, in bilico tra il desiderio e il ribrezzo, aveva iniziato a fantasticare su Gabriel pensieri osceni, toccandosi nel letto mentre lo immaginava sopra di sè, a possederla con quella divisa addosso che odiava, ma che una parte inconscia del suo essere aveva trovato intrigante, pericolosamente attraente.
Tra quelle pareti sconosciute, fredde, Agnese era diventata donna con Gabriel, e aveva pensato di essere felice, anche se era consapevole del fatto che quella felicità l'avrebbe pagata a caro prezzo, unendosi ad un uomo sposato, oltre che un soldato.
Quando sta con me, sta solo con me, sua moglie non esiste fra noi, era stato il pensiero che Agnese aveva rimuginato in quel periodo, in preda alla febbrile sensazione di gioia che la sua relazione con Gabriel le aveva portato.
Quando aveva scoperto di essere rimasta incinta, poi, era stato il culmine della gioia. 
Lo aveva scoperto per caso, mentre si vestiva.
Aveva notato di avere la pancia un po’ tesa, e i seni più gonfi. I capezzoli poi le tiravano così forte che l'attrito con la stoffa di pizzo del reggiseno le provocavano un fastidio indicibile.
Nonostante la felicità, però, non aveva voluto dirlo a nessuno, forse per un principio di pudore che le stava sbocciando dentro.
L'unico a cui ne aveva parlato, successivamente, era stato Romeo, ma solo perché quel ragazzo era sempre stato troppo acuto su tutto, non gli era mai sfuggito nulla di ciò che accadeva al casale. Aveva intuito anche la natura della vicinanza tra lei e quel tenente, che a pelle gli stava profondamente antipatico.
Era stato davvero difficile nasconderlo, soprattutto a Gabriel, che all'oscuro della cosa continuava a fumare in sua presenza le sue Imperium, e per Agnese era stata una vera sofferenza sopportare quel tanfo, poiché l'olfatto le era diventato piuttosto sensibile.
Quando poi la sua gravidanza è saltata fuori, la reazione di Gabriel non fu per niente quella che Agnese si era aspettata di vedere.
Senza chiederle alcun parere, senza darle facoltà di decidere, l'aveva trascinata in ambulatorio, decidendo per lei il destino di quel figlio che non avrebbe mai visto la luce del sole. 
Agnese ne era rimasta incredula, esterrefatta. Non aveva potuto opporsi, non aveva potuto affermare ciò che realmente avrebbe voluto. Ci aveva provato, ma in risposta Gabriel le aveva afferrato il mento con forza e le aveva alitato in faccia che non avrebbe avuto intenzione di pagare per una sua mancanza. Come se quel figlio Agnese l'avesse procreato da sola, senza il suo intervento, solo per fargli dispetto.
Era stato allora che lo aveva realizzato, con la morte nel cuore: Gabriel non l'aveva mai vista davvero come una donna da amare. Era stata solo il suo passatempo, il suo giocattolo da usare quando si annoiava troppo. E la conferma l'aveva ottenuta perfino attraverso le chiacchiere dei suoi commilitoni, alludendo a varie avventure che il tenente von Kusserl aveva intrattenuto in Germania, nonostante sua moglie e i loro due figli.
Un'altra, terribile conferma, l'aveva ricevuta con la visita di una giovane ragazza al casale. Ad Agnese era rimasta impressa perché era bionda, bellissima e un fisico slanciato, giunonico.
Si chiamava Teresa, e a Torino la conoscevano tutti. Si diceva che era diventata l'amante di un nazista, che si manteneva grazie ai suoi soldi, visto che fino a qualche anno prima era solo una semplice lavandaia che aspirava a diventare attrice di teatro.
Aveva chiesto di parlare con il tenente von Kusserl, e Agnese l'aveva lasciata entrare, indispettita.
Gabriel l'aveva ricevuta nella sua stanza al casale, senza premurarsi di Agnese o di chiunque altro.
Vi era stata una litigata furibonda, erano volate parole grosse, Agnese le aveva sentite persino dalla cucina. Teresa era uscita dalla stanza inviperita, stravolta. Agnese non aveva fatto neanche in tempo a raggiungerla, che aveva già sbattuto dietro di sè il portone di casa.
Qualche giorno dopo, nel canale, venne rinvenuto il suo cadavere, gonfio d'acqua.
Ad un primo accertamento era stata strangolata, e si era scoperto anche che si trovava in stato interessante.
Nell'apprendere ciò, Agnese aveva trovato il coraggio di affrontarlo, mettendolo con le spalle al muro. E Gabriel dovette arrendersi e confessare che Teresa aspettava suo figlio, che aveva mandato i suoi uomini a spaventarla, per costringerla a non rivelare a nessuno la paternità del bambino. Non avevano avuto altra scelta, era stata la sua grama difesa. Ma Agnese ormai non era più succube dei suoi trucchetti: tra loro il muro si era elevato così tanto, da risultare ormai invalicabile.
Di tutta quella situazione, Agnese era rimasta pentita solo di una cosa: di non essere riuscita, neanche una volta, a farsi valere, a fargliela pagare come avrebbe voluto.
Intenta a rigirarsi quel pacchetto vuoto e consumato tra le dita, Agnese sorrise amara nel realizzare che Gabriel aveva usato le persone intorno a sé proprio come le sue sigarette: le accendeva, si gustava la nicotina che gli inebriava il palato, e man mano che il tabacco bruciava raggiungendo il mozzicone, perdeva interesse fino ad ammaccarle nel posacenere senza cura e riguardo.
Agnese era stata una delle sue sigarette, e adesso si sentiva spenta e ammaccata, priva di importanza e valore.
Quei pensieri lugubri le continuarono a vorticare in testa, finché Blanca non entrò in stanza con accortezza, affacciandosi alla porta con cautela.
«Sei ancora in camicia da notte, tesoro?».
Sua zia non smetteva mai di elargirle premure. Quando faceva così, Agnese provava una profonda nostalgia verso Levda che a volte le mancava il fiato.
«Mmh sì» tagliò corto Agnese, nascondendo nel cassetto il pacchetto vuoto delle Imperium con una certa fretta. Quella carrellata di ricordi che aveva provocato quel minuscolo oggetto l'aveva inaspettatamente sfiancata.
«Vuoi che ti aiuti a vestirti? Sei ancora un po’ pallida…» fece Blanca, entrando nella stanza con passo felpato. Agnese diniegò il capo, stringendo le palpebre per trattenere le lacrime che la colsero di sorpresa. Avrebbe preferito di gran lunga rimettersi sotto le coperte, ma non poteva permettersi quel lusso. C'erano molte faccende da sbrigare, e in più doveva recarsi da don Pierino per ultimare i preparativi del viaggio di Maxime per l'Uruguay. Sapere di potersi rendere utile a quella causa, per Agnese era un toccasana immediato.
«Ce la faccio anche da sola, zia, non temere» la rassicurò la ragazza, imbronciata.
Blanca annuì alle sue parole, si avvicinò al suo armadio e le scelse un vestito, era di un blu molto scuro con piccole margherite disegnate sopra.
«Questo almeno non stringerà in vita» le disse la zia, guardandola con occhi lucidi. A quella premura, Agnese non riuscì a trattenersi oltre. Le lacrime le scesero copiose lungo il viso, accartocciato dalla sofferenza.
Blanca la invitò in un abbraccio, lasciando che la nipote sfogasse tutte le sue lacrime in totale libertà, senza giudizio e senza rimprovero.
«La prima volta ho reagito male… ancora me ne pento al solo ricordo» si ritrovò a dirle, massaggiandole la schiena scossa dai singulti. 
«Sei dovuta crescere così in fretta, bambina mia… se hai perso il tuo bimbo, è stato anche per colpa mia, che non ti ho saputo proteggere». Anche Blanca aveva il volto provato e rigato di lacrime. La voce le si accartocciava in gola come una palla di carta.
«È stato Gabriel a volerlo eliminare, tu non hai nessuna colpa» le rispose Agnese, spostandosi dall'abbraccio a testa china.
«Ed è stata colpa mia perché ho creduto… pensavo che mi sarei potuta fidare di lui, proprio come da bambini».
Dirlo ad alta voce per Agnese non fu solo liberatorio, ma anche salvifico, guaribile.
Blanca le carezzò una guancia affettuosamente, avvicinando le loro fronti con delicatezza.
«Stavolta è diverso» la rassicurò sua zia, e un sorriso dolce le si propagò in viso.
«Maxime ti ama. Non gliel'ho mai sentito dire, ma gli sguardi che ti ha sempre dedicato, i sorrisi, le gentilezze…»
«Anche Gabriel era stato gentile con me. Quando voleva lui».
Agnese non avrebbe voluto mettere Maxime sullo stesso piano di Gabriel. Si obbligò a farlo, perché troppo scottata per aspettarsi qualcosa di diverso dagli uomini ormai.
Blanca corrucciò la fronte, in disaccordo.
«Gabriel era gentile per un suo tornaconto personale. Maxime lo è per natura. E credimi, la differenza l'ho notata, da persona esterna».
Se sua zia avesse detto quelle cose solo per convincerla o convinta lei stessa della verità dei fatti, Agnese non riuscì a capirlo fino in fondo.
«Non lo so, zia. Non so se mi conviene crederci».
Blanca comprese il sottotesto delle sue parole. D'altronde, la ferita inflittale da Gabriel era stata troppo ostica da sanare in così breve tempo.
«Per questo lo lascerai andare via così, senza dirgli niente?». Tuttavia, Blanca voleva crederci in quel lieto fine diverso, in quel miracolo, sempre se Dio avesse acconsentito ad avere pietà per entrambi.
Agnese lasciò le calde braccia di Blanca, per dirigersi verso il letto. Prese il vestito appeso alla gruccia e cominciò a sbottonarlo. 
«Lì a Montevideo si rifarà una vita lontano da qui. Penso che se lo meriti, dopotutto». La sua voce non tradì alcun sentimento, né di nostalgia e né di sarcasmo. Blanca la osservò per qualche minuto, dubbiosa ma comprensiva.
«Potresti andare con lui» azzardò, non lo stava dicendo sul serio, ma una piccola parte di lei quasi avrebbe sperato in una pazzia dell'ultimo minuto. Agnese si voltò poco prima di abbassarsi la spallina della camicia.
«Lui non ha più nessuno qui. Io ho voi» chiosò, asciutta. Blanca annuì vagamente, aggrottando la fronte.
Anche lui qui ha te, avrebbe voluto dire, ma lasciò correre. Aiutò Agnese a vestirsi, e il resto del tempo lo trascorsero in silenzio, senza proferire troppe parole inutili.
 

 
□♧□
 

Maxime non amava fumare.
Aveva imparato a farlo durante i raduni della gioventù hitleriana, per non dimostrarsi un codardo o giudicato poco uomo in confronto agli altri compagni.
Eppure, seduto su quel tronco in quel preciso istante, sentì il forte impulso di fumare una sigaretta per stemperare l'ansia e l'agitazione che lo stavano divorando vivo.
Ringraziò il cielo che i vestiti di Romeo gli calzassero a pennello. La giacca invece l'aveva trafugata ad Ismaele, aveva due taglie in più e gli sembrò di navigarci dentro.
Sapeva che quello che stava per fare sarebbe andato contro ogni principio, e soprattutto sarebbe stata una bella mancanza di rispetto contro quella famiglia che aveva fatto di tutto per procurargli i documenti per fuggire, ma sentiva che non poteva limitarsi a scappare senza fare qualcosa di concreto. E soprattutto, doveva assicurarsi che ciò che aveva cominciato con Gustaf non finisse nel dimenticatoio.
Alfredo e Dante giunsero con i fucili in spalla, guardinghi. Maxime si alzò di scatto, cercò di darsi un tono, nonostante la giacca troppo grande gli desse un'aria buffa.
«Non abbiamo tutto il pomeriggio, giovanotto, perciò datti una mossa» brontolò Alfredo, già scocciato.
Dante si accese una sigaretta rudimentale, nonostante il vento gli spegnesse la fiamma in continuazione. Maxime lo fissò con un certo interesse.
«Könnte ich… ehm… posso averne una anch'io?» chiese timidamente, cercando di imitare il gesto da fumatore per sottolineare il concetto. 
Dante e Alfredo si fissarono per qualche minuto, poi il primo gli aprì davanti una scatoletta di latta sporca, al cui interno vi erano delle sigarette rullate, di diversa dimensione.
Maxime prese la più piccola, ringraziando sommesso. Dante lo aiutò persino ad accendergliela, guadagnandosi l'occhiata in tralice dell'altro al suo fianco.
«Fammi indovinare» intervenne così Alfredo, con le mani in tasca. Maxime gli dedicò tutta la sua attenzione, tirando una boccata che lo disgustò. Quell'aroma artigianale era decisamente troppo forte per il suo palato.
«Hai deciso di mandare all'aria la tua vacanza in Sudamerica, giusto?».
Maxime lo fissò, cercando di non far trasparire troppo i suoi pensieri prima del tempo. 
«Non posso andarmene adesso. Non prima di essermi accertato che sia andato tutto bene» rispose, ponderando ogni parola detta con estrema attenzione. 
Alfredo lo squadrò, in dubbio. 
«Tu rischi grosso, Maxime» si limitò a dirgli, freddo e senza un briciolo di empatia.
«Dammi retta, parti per l'Uruguay, che ce la vediamo noi qui. Nessuno sa di Gustaf, morto il tenente non c'è pericolo che qualcuno spifferi tutto a Schlütz». 
Maxime aspirò lentamente dalla sigaretta, leccandosi le labbra nel processo.
«Non posso» si limitò a rispondere, a capo chino.
«Cos'è, non ti fidi?» chiese Dante, osservandolo di sottecchi, un po’ preoccupato.
«Non ho detto questo» chiarì il giovane, digrignando i denti.
«Ci sarà bisogno di aiuto, e io voglio esserci. In prima fila, stavolta».
Alfredo spostò il peso da una gamba all'altra, interdetto. A Dante cadde la cenere sul prato senza ciccarla, tanto aveva bruciato la cartuccia esterna.
«Vedo che ci siamo ripresi dallo shock di qualche giorno fa. Ottimo, me ne compiaccio!».
No, Maxime non si era ripreso davvero da ciò che aveva fatto. Aveva ucciso un uomo, e questo nessuno avrebbe potuto cambiarlo, anche se si trattava di aver tolto la vita ad un essere spregevole e meschino. Quel poco di forza che aveva racimolato in quei giorni era servita per riuscire a portare a termine ciò che aveva iniziato. Ciò che in silenzio era riuscito a fare, e che se non fosse stato per le minacce che Gabriel, facendo cantare Gustaf sul loro piano, aveva dichiarato, si sarebbe risparmiato volentieri il suo omicidio. Non che fosse stato pianificato prima, ma avrebbe preferito di gran lunga un finale migliore di quello che si era realizzato. Avrebbe di gran lunga preferito sopportare il carcere per alto tradimento, piuttosto che portarsi sulla coscienza la vita di Gabriel von Kusserl.
«Per favore, Alfredo. Posso fare da staffetta. Nessuno penserebbe che-»
«Ti devo ricordare che l'ultima volta c'è mancato poco che Schlütz ci sbattesse tutti in galera?? Se ci scopre stavolta, non ci salva neanche nostro Signore!» lo interruppe Alfredo, senza mezzi termini.
Maxime lo fissò interdetto, come se non avesse capito bene tutto il discorso.
«Quelli ci tengono gli occhi addosso, Maxime. Non è sicuro che tu rimanga qui, né per noi né per te» diede man forte Dante, con meno veemenza del suo capo.
«Allora resto nelle retrovie. Non mi unisco a voi, ma agirò per conto mio». Dopo qualche secondo di esitazione, Maxime diede il suo verdetto. Alfredo scosse il capo, contrario alle sue parole.
«Non intendo prendermi questa responsabilità, ragazzo! Ismaele non sarà d'accordo! Quindi stammi a sentire, accetta quei cazzo di documenti e prendi quella cazzo di nave per Montevideo, per favore!». Alfredo aveva gli occhi fuori dalle orbite per il nervoso, ma dovette ugualmente contenersi. Erano troppo vicini al casale, e l'idea che qualcuno potesse sentirli non lo faceva stare per nulla tranquillo.
Ma dallo sguardo risoluto di Maxime, dovette constatare che non l'avrebbe avuta vinta così facilmente.
«Nessuno mi ha chiesto cosa volessi davvero fare… avete deciso voi per me» azzardò Maxime, negli occhi gli ardeva una fiamma che Alfredo non gli aveva mai scorto con tanta evidenza.
«Tu non eri in grado di decidere per te stesso. Stavi in piedi per miracolo» lo rimbeccò Alfredo, piccato. Stava iniziando ad infastidirsi sul serio. 
«Datemi tempo! Giusto il tempo del loro arrivo e potrò-»
«Moccioso, ascoltami bene prima che tu mi costringa ad arrivare alle mani» tuonò allora Alfredo, avanzando pericolosamente alla volta del tedesco, impavido.
«Si tratta di mio fratello, e della mia famiglia! Ti sono grato per l'aiuto, ma hai già fatto abbastanza. E se non vuoi ritrovarti una scarica di piombo addosso, ti conviene alzare i tacchi e prendere quella nave! Altrimenti, giuro sull'anima dei miei, ti ci butto come un sacco di patate sul ponte, e mi assicurerò che tu non metta più piede nè in Italia, nè in Germania, e nè in Europa! Ci siamo intesi, ragazzino?» e rafforzò il concetto afferrando Maxime per il bavero, per niente gentile. Dante fu sul punto di scattare, nel caso Alfredo avesse perso davvero le staffe. Maxime non gli diede una risposta, si limitò a fissarlo, senza paura.
Allora Alfredo si giocò quell'ultima carta. Infame, ma necessaria per farlo vacillare.
«Pensavo ci tenessi ad Agnese» soffiò, sfidando Maxime con lo sguardo. Le pupille tremarono impercettibilmente al suono di quel nome, ambrosia pura per le labbra e le orecchie.
«Pensavo le volessi bene… a quanto pare mi sbagliavo» e gli lasciò il bavero, con più delicatezza. Dante studiò entrambi col fiato fermo in gola. 
«Hai ragione, io non le voglio bene» dichiarò infatti Maxime, deciso. Serrò la mascella così forte da provare male.
«Io la amo».
E Alfredo capì di aver perso su ogni fronte. Ne era uscito lui sconfitto e la cosa gli risultò davvero strana. 
«Fa’ come credi. Ma sarai tu stesso a comunicare questa decisione ad Ismaele e famiglia. Non voglio essere tirato in ballo più del dovuto» alzò le mani Alfredo, risentito. Diede una pacca alla spalla di Dante, per incitare a seguirlo. 
Quest'ultimo fissò Maxime interdetto, ma con meno rabbia di Alfredo. Se ne andarono lasciandolo lì solo, all'entrata del bosco, una sigaretta consumata tra le dita e il cuore che gli galoppava frenetico in petto.
Aveva detto ad alta voce che la amava, e fu come provare una nuova sensazione di libertà.
La stessa che aveva provato la prima volta che era morto dentro di lei, sazio di piacere e peccato.



Tre mesi prima…

L'odore delle Imperium giunse alle narici di Agnese ancor prima che il suo padrone mettesse piede in salotto.
Era rimasta lì seduta, a fissare lo scoppiettare del fuoco nel camino enorme, con aria attonita.
Teneva entrambe le braccia poggiate sul grembo con una certa accortezza. Le aveva strette per riflesso non appena si era accorta della presenza di Gabriel accanto.
Il tedesco le si avvicinò per darle un bacio sulla guancia, ma lei si scostò, girando il capo dall'altra parte, arricciando il naso.
Gabriel sghignazzò a quel gesto puerile.
«Ho sempre trovato questo tuo modo di negarti alquanto seducente» dichiarò in tedesco il tenente, mordendosi il labbro inferiore per trattenere una risata spontanea.
Peccato che Agnese non condividesse il suo stesso stato d'animo.
«Facciamo la pace, Anja. Siamo più forti di questo». Gabriel le soffiò quelle parole all'orecchio con una sicurezza tale da recarle quasi spavento misto a stupore.
Le lasciò un bacio sul padiglione dell'orecchio, e per poco Agnese non dovette trattenersi le labbra per non sboccare.
«Ho male allo stomaco» dichiarò laconica, stringendosi le braccia attorno alla pancia, infastidita.
«Mi è uscito un livido enorme» continuò mentre i baci pregni di fumo di Gabriel le giunsero fin sotto alla mandibola.
Quest'ultimo rimase totalmente sordo alle sue parole, sedendosi addirittura di fianco a lei.
«I miei baci guariranno tutto, vedrai». Le raggiunse quasi le labbra, baciandole l'angolo con insistenza crescente. Agnese cercò di spingerlo via, debolmente.
«Hai proprio una bella faccia tosta, tenente!» e gli si divincolò, alzandosi dal divano con una certa fretta. Raggiunse il camino, restando a fissare le fiamme accese che sfavillavano energiche.
«Passi sul fatto che non volevi che ti dessi un figlio» cominciò, e il tacco delle Peep Toe s'impiantò sul tappeto, creando un piccolo solco nella stoffa «passi anche sul fatto che la nostra sia solo una storiella senza importanza… ma i miei genitori… non posso far finta di niente. Non posso continuare ad entrare nel letto del loro carnefice come se niente fosse».
Agnese non parlò con rabbia o risentimento, il suo tono di voce era rimasto vacuo, privo di tonalità.
«Ne parli come se te li avessi ammazzati» commentò Gabriel, altamente risentito da quel discorso. Ma Agnese non se ne curò più di tanto. Aveva deciso che non se ne sarebbe curata più dei suoi umori, delle sue voglie e dei suoi capricci. Avrebbe messo un punto a quella storia nefasta, che le aveva procurato soltanto dolore in quegli anni.
«Davvero non capisci la gravità della situazione?». Agnese si voltò a fronteggiarlo, sentendosi in netto vantaggio in confronto all'altro.
«Hai fatto arrestare la mia famiglia, per le sue origini ebree e per i dissidi politici a cui mio padre aveva preso parte, mentre dormivamo nello stesso letto, e non mi hai mai fatto menzione a riguardo»
«È accaduto prima che ci rincontrassimo» si difese asciutto Gabriel, trattenendo a stento il nervoso.
«Peggio mi sento» fu il rimbecco di Agnese, risentito e duro.
«Cosa ti costava tenermi al corrente di tutto? Avvisarmi di quello che stava succedendo…» Agnese si portò le mani all'altezza dello stomaco, dove le doleva maggiormente, a causa dei pugni che Gabriel le aveva sferrato in caserma.
«Anja, per favore, ormai è andata così…»
«Sì. Sì, è andata così, Gabriel» una strana luce le ravvivò le pupille, avvalorata dalla vicinanza delle fiamme del camino.
«Ma da adesso in poi, non andrà più come vorrai tu».
Gabriel assottigliò lo sguardo a quelle parole enigmatiche. 
«Che cosa-»
«A partire da ora non mi dovrai sfiorare mai più. Non voglio più essere toccata da te neanche per sbaglio» lo interruppe Agnese, ferma e decisa nella voce e nella postura.
Quando il tenente si alzò dal divano, la sua mole la sovrastò, facendola sentire piccola ed indifesa. Ma Agnese non vacillò, sebbene indietreggiò di un passo verso il camino.
«Non credo che tu sia in condizione di poter dettare leggi, Anja. Ti ricordo che è grazie a me se i tuoi zii non sono finiti su di un treno diretto in Germania. Dovresti essere un po’ più riconoscente» e le scostò una ciocca di capelli dal volto, lascivo.
Agnese rimase impassibile, nonostante il respiro le si facesse più pesante in gola e nel petto.
«Allora te lo chiedo con cortesia, Gabriel» e lo fissò dritto negli occhi, a pugni chiusi.
«Lasciami in pace. Hai questa casa, puoi muoverti come più ti pare, ma non venire più a trovarmi. Perché non sono sicura che riuscirò a darti quello che vuoi a cuor leggero».
Agnese era stata pacata, nonostante il cuore le bruciasse dentro la cassa toracica. 
«Mi appello in nome della nostra vecchia amicizia, Gabriel. Ti prego, abbi pietà».
Le era costato molto dirgli quelle parole, fosse dipeso da lei non lo avrebbe mai fatto, ma aveva raggiunto un punto di non ritorno, un punto dal quale sarebbe stato difficile ripartire come se niente fosse.
Agnese gli aveva perdonato troppe cose, aveva soprasseduto a troppe sue mancanze. 
Adesso ne aveva semplicemente abbastanza, era stanca. Stanca di lui, della guerra, della violenza che regnava intorno a loro. 
Gabriel la fissò a lungo negli occhi, a distanza ravvicinata. Agnese non si aspettò nulla di buono da quello sguardo.
«Siete tutti nelle mie mani, Anja, te compresa» la minaccia nella voce fu talmente pesante, che ad Agnese mancò l'aria.
«Te l'ho già detto, non ti è concesso scegliere. Sei mia, e mia resterai fino alla fine. Tra l'altro, chi vuoi che si prenda una donna sterile come te? Nessuno vorrà sposarti, vivrai il resto della tua vita da sola, e tutti penseranno che sei pazza e isterica. Perciò, resta sotto la mia ala, e resterete tutti al sicuro».
Nel pronunciare l'ultima frase, Gabriel se la tirò a sè, stringendola talmente forte in vita da farle accrescere il dolore fisico all'altezza dello stomaco.
L'odore forte di sigaretta le entrò nelle narici, insidiandosi dentro come un serpente viscido e velenoso. 
Gabriel le morse nuovamente il collo, con intenzioni sinistre.
In lacrime, Agnese cercò di divincolarsi, prima cautamente, poi sempre più con insistenza: si sentì sporca, stupida e debole.
Per sua fortuna, sua sorella, Romeo e Maxime entrarono nella stanza, inizialmente ignari di trovarla occupata da qualcuno.
«Ehm, a-abbiamo interrotto qualcosa?» chiese Anna, presa in contropiede nel vedere Agnese e Gabriel avvinghiati l'uno all'altra.
Romeo e Maxime fissarono la scena con un certo disappunto, quasi infastiditi da quella visione.
Gli occhi del secondo individuarono immediatamente quelli di Agnese, lucidi e spaventati. Avrebbe voluto strappargliela dalle mani, e farle da scudo col suo stesso corpo.
Percepiva aria di paura e pericolo da parte di entrambi.
«Nulla, cara Anna» comunicò Gabriel con fare allegro, talmente allegro da risultare artificioso. Dietro di lui, Agnese ritrovò il modo per tornare a respirare, sebbene con difficoltà.
«Stavo appunto proponendo ad Agnese di farmi da interprete per una cena che si terrà stasera in città» e nel voltarsi, le rivolse uno sguardo di fuoco, camuffato magistralmente da un sorriso compiaciuto.
«E ovviamente non accetto un no come risposta».
Prova a fare di testa tua e vedrai tu stessa le conseguenze che ne deriveranno.
Agnese quel sottotesto lo percepì talmente forte da digrignare i denti così forte col rischio di romperseli.
«Ma ti stavo appunto dicendo che non mi sento bene, e che non so se-»
«Tu verrai stasera. Ti ho già fatto mettere il vestito in stanza. Va’ a vederlo, magari mostralo anche ad Anna».
Se avesse potuto, Agnese lo avrebbe aggredito seduta stante, fregandosene di farsi passare per pazza isterica. In quel momento stava provando solo odio puro verso quell'essere.
«Uh sì, sono curiosa Agnese! Me lo fai vedere? Magari posso aiutarti a vesti-»
«Ti chiamo dopo, va bene? Dammi solo qualche minuto». Agnese la interruppe bruscamente, passandole accanto. Le carezzò una guancia, ma non si soffermò a guardarla. Se lo avesse fatto, Agnese sarebbe scoppiata in lacrime con indecenza davanti a tutti loro, e per decenza non poteva permetterselo.
Non salutò nessun altro mentre lasciava la stanza.
Tutti e tre la guardarono salire le scale, apprensivi e preoccupati.
«Preparati anche tu, Brünner» incalzò il tenente, accingendosi ad uscire dalla stanza, diretto verso la cucina «Sarà presente il sergente Hölm, e non accetterò brutte figure». Lo sguardo glaciale che gli dedicò fece venire i brividi alla povera recluta, che deglutì prima di scattare nel saluto militare.
«Jawohl» mormorò, con voce flebile.
Una volta che Gabriel lo sorpassò per uscire dalla stanza, Romeo fece per sputare a terra, prontamente fermato da Anna, richiamandolo all'ordine.
Un urlo disperato giunse dal piano di sopra, dalle stanze da letto. Anna si precipitò verso le scale, temendo fosse successo qualcosa alla zia. Anche Maxime fece per seguirla, ma Romeo lo afferrò per un braccio, diniegando il capo.
Maxime lo fissò confuso per qualche minuto, per poi capire il motivo di quel gesto. 
Lasciò l'incombenza ad Anna, anche se a malicuore. Non smise di fissare le scale neanche mentre Romeo cercava di trascinarlo via da lì, senza dare troppo nell'occhio.
Anima e cuore erano di sopra, nella stanza da cui era partito quell'urlo straziato, angosciante.
 

 
○●○●
 

Quella cena tra ufficiali era stata talmente noiosa che Agnese si era dovuta inventare una scusa per allontanarsi qualche secondo da quel tavolo, stufa di aver fatto da interprete dall'italiano al tedesco per Gabriel e i suoi uomini.
Solo fuori in terrazza le sembrò di respirare aria pulita, quella cappa di fumo generata da quelle maledette sigarette le stavano rendendo difficile persino il proferire parola, e dover ragionare in due lingue non era impresa facile già di consuetudine, figurarsi sotto costrizione.
Agnese si appoggiò mollemente con le braccia sulla ringhiera del resort, luogo in cui si era tenuta la cena, sbuffando ad occhi chiusi.
Blanca le aveva acconciato i capelli in una crocchia elegante, da diva del cinema.
Anna le aveva detto che somigliava alla Petacci tanto che era bella e ammaliante quella sera, con quel vestito rosso bordeaux di velluto indosso senza maniche, i guanti lunghi neri e il filo di perle che le aveva regalato Gabriel. 
Quelle perle per Agnese, più che un adorno, sembravano un guinzaglio, un triste promemoria della sua condizione da cui non sarebbe mai potuta fuggire. Si era costruita la propria gabbia da sola, pensando di rincorrere un sogno. Ma quando aveva aperto gli occhi, il Mefistofele del Faust stava là ad aspettarla, pronto a vendersi la sua anima per scambiarla con un ricordo di gioventù, sperando che sarebbe stato eterno.
Ma i patti con i diavoli, si sa, non portano mai al lieto fine, o perlomeno, non danno mai niente in cambio di niente.
Agnese, purtroppo, lo aveva capito nel modo peggiore, sbattendoci non solo la testa, ma perdendoci anche l'integrità.
Persa nei suoi pensieri, allungò il collo verso il vuoto, ipotizzando per un solo istante come sarebbe stato prendere il volo, scavalcare la ringhiera e saltare… chissà se un angelo o un demone sarebbe accorso a salvarla. O se ad aspettarla vi sarebbe stato solo il suolo, freddo e duro. Se fosse stata fortunata, l'ultimo sguardo sarebbe stato rivolto al cielo, alle stelle, mentre la vita le sarebbe scivolata via dalle membra con estenuante lentezza…
«Agnese?».
La ragazza ringraziò silenziosamente Dio, il cielo o chi per esso che quella non fosse la voce dell'uomo che si era fatto odiare con tutte le sue forze da lei, senza alcuna possibilità di potersi redimere.
Agnese si voltò verso Maxime, sussultò senza volerlo nel vederlo con quella divisa addosso. Avrebbe dovuto farci l'abitudine, ma circondata da tutta quella gente con la stessa divisa, ne aveva sviluppato una sorta di rigetto per quella sera.
«Non hai freddo qui fuori, tutta sola?» chiese Maxime, avanzando piano con le braccia dietro la schiena. Agnese continuò a fissarlo, con sguardo assente. 
Maxime guardava altrove, pur di non vederle gli occhi. Il cuore non avrebbe retto a tutta quella meraviglia, se lo sentiva a pelle.
«Meglio il freddo che quella puzza» rispose laconica Agnese, inespressiva.
I pendenti di perla le oscillarono lentamente lungo le guance imbellettate di cipria.
Agnese appariva come una dea triste quella sera, e Maxime ne era vergognosamente attratto, più che in altri momenti.
Le si avvicinò, mettendosi al suo fianco, ad una certa distanza. Guardava dritto davanti a sé, su una Torino semi addormentata.
«Come stai?» si limitò a chiederle, puntando gli occhi verso la Mole antonelliana, che spiccava austera tra quell'ammasso di palazzi, mentre le Alpi proteggevano la città, illuminate dal bagliore languido della luna.
«Hai una domanda di riserva per caso?» ribatté Agnese, sogghignando ferita.
Maxime sospirò leggermente, socchiudendo le palpebre. 
«Ti sei ripresa da quel giorno?» domandò ancora, mordendosi le labbra poiché non sicuro di aver formulato la domanda corretta.
Anche Agnese socchiuse gli occhi, rassegnata.
«Tu che dici?».
Si girò su sé stessa, dando le spalle alla Mole, alle Alpi e alla città.
«Sono costretta ad assecondare ogni capriccio di quel bastardo. Ha arrestato la mia famiglia, e si è ugualmente coricato nel mio letto come se niente fosse».
La voce era rotta, ma lacrime non ne aveva in quel momento da versare.
Maxime si decise a darle attenzione, a suo rischio e pericolo. 
«E adesso se non sto attenta, potrebbe far deportare i miei zii e fare chissà cosa a mia sorella…»
«Deportare?». Maxime chiese più per capire il significato di quella parola in tedesco che per rimarcare il concetto. 
Agnese spostò il peso del corpo da una gamba all'altra. Il tacco nero elegante le rendeva il collo del piede talmente sinuoso, da sembrare simile al collo di un cigno.
«Sì, deportare, Maxime, hai capito benissimo».
«Non conosco questa parola» spiegò il tedesco, fattosi più attento nel recepire l'eventuale risposta.
Agnese si portò due dita sulla radice del naso, premendo piano.
«Trasferire i miei zii da qualche parte in Germania o in Polonia. Ho sentito parlare di treni merci che hanno trasportato centinaia di persone oltre confine…»
«Perché dovrebbe farlo? Voi non siete-»
«C'è proprio bisogno di un motivo per farlo?».
Agnese parlava in modo talmente pacato che quasi non si riconosceva. Solitamente la sua pazienza durava poco con chiunque, solo con Gabriel era sempre stata mansueta e tranquilla. Con Maxime aveva scoperto un nuovo tipo di calma e pace interiore, come se avesse raggiunto una nuova consapevolezza, un nuovo stadio sbloccato.
«E poi sì, lo siamo. Di terza generazione, ma lo siamo. Lo erano i miei nonni, sia materni che paterni. Solo che mio padre cambiò cognome in Germania, perché adottato da una famiglia italiana a Dresda. Mentre mia madre… lei lo è e basta, senza occultamenti vari».
Maxime ascoltò in silenzio le parole di Agnese, pronunciate con una musicalità tale da sembrare un racconto della buonanotte. Se ne sentì coinvolto, come se l'assenza di emozioni di lei fosse diventata un po’ anche sua.
«Quando mio padre ci spinse a mandarci via, lo fece proprio perché lì le cose stavano diventando insostenibili. Non abbiamo mai dovuto cucire le stelle sui vestiti, proprio perché nei registri del censimento il cognome di mio padre non era apparso» spiegò ancora Agnese, giocando nervosamente con le dita. Maxime avrebbe voluto bloccargliele in qualche modo.
«Non sapevo nulla però sul fatto che fossero sovversivi e scrivessero articoli contro il regime. Anche se avrei dovuto sospettarlo. Mio padre era sempre stato contrario a ciò che stava accadendo in Germania». Sospirò, guardando dritta di fronte a sè.
«Se lo avessi saputo, gli avrei dato volentieri una mano».
Realizzò in quel momento che si sarebbe portata quel rammarico dietro per tutta la vita.
«Neanch'io sono mai stato d'accordo con quello che vedevo in giro» confessò Maxime, intimorito. La fioca luce delle lampade esterne, appese alla veranda, tradirono il lieve rossore apparso sulle gote.
«Volevo vivere di musica, accompagnare mia madre ai suoi concerti, formarmi una famiglia… mai avrei pensato di dover indossare una divisa e seguire un uomo che inneggia alla violenza e che legittima i soprusi verso i più deboli».
Agnese si accorse che Maxime aveva l'aria triste nel proferire quelle parole.
Pensò a quanti ragazzi come lui fossero stati costretti ad arruolarsi per quella guerra assurda, costretti a seguire dei principi che il più delle volte non sapevano neanche da dove realmente nascessero. 
Quante volte in cuor suo aveva sperato che tra quei ragazzi potesse esserci anche Gabriel, ma gli ultimi avvenimenti avevano definitivamente, e amaramente, allontanato ogni possibilità e speranza a riguardo.
«È tutto così ingiusto… tutto così… verrückt, così-»
«Portami via».
La richiesta repentina di Agnese lo colse all'improvviso, facendolo sobbalzare.
«Eh, was?» esclamò Maxime, fissandola interdetto.
Agnese ricambiò il suo sguardo con una strana luce nei suoi begli occhi truccati. Erano tristi, ma lo guardavano con enorme aspettativa.
«Invece di stare qua a piangerci addosso, lasciamo perdere tutto questo e andiamo via, solo per stasera. Ti va?».
Maxime non seppe capire sul momento se stesse sognando ad occhi aperti, se Agnese fosse impazzita o se qualcuno gli stesse giocando qualche strano scherzo.
«Ma c'è il coprifuoco, e poi sono in servizio, se mi allontano-»
«Aspettami qui, ci penso io» e senza lasciare a Maxime possibilità di replica, Agnese si allontanò quasi correndo, con l'euforia che le brulicava nelle vene, rendendola sovreccitata.
Il tedesco non le tolse gli occhi di dosso finché non la vide sparire all'interno della stanza. 
Si aggrappò alla ringhiera, cercando di regolare il respiro.
Qualsiasi cosa stava per accadere, a lui stava già piacendo tantissimo, più del dovuto, più di quanto si sarebbe aspettato.
Per una volta, non gliene fregò nulla di andare contro quelle stupide regole.
Se le doveva infrangere insieme a lei, allora si sarebbe lasciato corrompere volentieri, anche se poi, per punizione, si sarebbe dovuto calare giù fino a raggiungere le viscere della Terra. 
Un sorriso strafottente gli si disegnò in viso, e un Fick dich, mein Führer gli rimbombò in testa, come un canto di giubilo e vittoria.
Vittoria sulla prepotenza, sull'imposizione, sulla malvagità. Anche se sarebbe durata soltanto fino al sorgere del sole, per Maxime non fu affatto rilevante. 
Aveva deciso che avrebbe vissuto quel sogno ad occhi aperti, o follia, fino in fondo, senza rimpianti e paure.
 
Era bastata una scusa abbastanza credibile da parte di Agnese, per lasciare che Gabriel le concedesse il permesso di tornare a casa, accompagnata da Maxime.
Un alibi perfetto per il crimine che entrambi avrebbero commesso di lì a poco. 
Un crimine che aveva tutte le fattezze di un sogno meraviglioso, talmente bello da risultare irreale.


 
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«Brünner! Brünner, wo bist du?».
Gabriel irruppe nel capannone dove erano situati gli alloggi dei suoi uomini. Voleva accertarsi che Maxime avesse adempiuto ai suoi doveri e avesse portato Agnese a casa, senza deviazioni lungo la strada. Continuò a chiamarlo, senza curarsi troppo del fatto che avrebbe potuto svegliare qualcuno nel mentre. 
«Mi ha chiamato, signor tenente?».
Gabriel si voltò inaspettatamente, trovandosi il giovane dietro le spalle, sull'attenti, ancora in divisa.
Lo squadrò attentamente dalla testa ai piedi, percependo ci fosse qualcosa di strano nell'aria.
«Sei ancora in divisa?» chiese, apparentemente tranquillo.
Maxime non si scompose più di tanto.
«Dopo aver accompagnato fraulein Martini a casa, mi sono trattenuto a parlare con Romeo» fece, con aria seria, impostato graniticamente sull'attenti. 
Gabriel gli si avvicinò con le braccia dietro la schiena, avvertendo un lieve odore di alcool verso il ragazzo.
«Hai bevuto?» esclamò, assottigliando lo sguardo. Maxime non cambiò espressione, né postura o altro.
«A cena, signore» rispose asciutto, con lo sguardo rivolto in avanti, risoluto.
Gabriel continuò a guardarlo insistente. C'era qualcosa che in quel soldato non lo stava convincendo del tutto, qualcosa che gli stava sfuggendo…
«Va’ a dormire adesso. C'è da fare in caserma domani» sentenziò con fare glaciale.
Maxime si limitò a piegare il capo, dandogli adito di aver capito. 
Lo sorpassò svelto, nascondendogli magistralmente il sorriso che gli era spuntato a tradimento sulle labbra sottili.
Gabriel gli fissò a lungo la schiena mentre si allontanava, mentre un tarlo iniziò a rodergli dentro, molesto.
Con un ghigno sprezzante, lo silenziò momentaneamente, dirigendosi fuori dal capannone, a passo svelto e senza voltarsi indietro.
   
 
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