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Autore: aki_penn    18/09/2009    5 recensioni
Si è sempre parlato di gente "sfigata" che vuole diventare bella ricca e famosa, ma a nessuno è mai interessato se qualcuno sta bene nel suo bozzolo da nerd con una catenella da gabinetto attaccata alla porta? Beh, mio fratello stava bene così. E finchè se ne è stato nel suo piccolo paradiso di 20 metri quadrati nessuno ha mai avuto da ridire (a parte mia madre ovviamente), ma poi è arrivata quella tipa , ed è cambiato tutto, a partire dalla catenella del wc,e a finire col cercare di farlo diventare una specie di latin lover! E io sapevo che avrebbe portato guai, io lo sapevo, ma figurati se qualcuno mi ascolta mai in questa famiglia!
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I miei venti metri quadrati' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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(Vi avverto prima di cominciare che questo capitolo è assolutamente inutile, avrei potuto saltarlo,ma volevo scriverlo, è stato complicato e forse non è neanche venuto un granché. Ho idea che le parti allegre siano tristi e quelle tristi troppo leggere. Di solito non scrivo cose malinconiche, non mi piace, ma temo che questo capitolo sia così. Spero che possiate apprezzarlo lo stesso. Vi lascio alla lettura. I ringraziamenti sono in fondo)

 

 

I miei venti metri quadrati

Capitolo Quindicesino

L’amnesia del Puzzle

 

 

 

Mio padre ha sempre detto una cosa starna, che riguardava i ricordi della vita. Secondo lui la vita di ogni persona è come un puzzle personale di ricordi.

I pezzi mancanti sono i momenti in cui si dorme, è un po’ come se il puzzle di ognuno abbia perso dei pezzi.

Quando ero piccola perdevo sempre tutti i pezzi dei miei puzzle, non sono mai riuscita a finirne uno. A Mei invece piacevano, e riusciva a finirli. L’ho sempre invidiato per questo.

Bizzarramente quando è morto mio padre e io ho cominciato a soffrire di insonnia ho iniziato ad apprezzarli di più.

Il mio puzzle non ha molti pezzi mancanti.

 

 

Sabato, 13 Luglio 1996

 

La signora Pavesi teneva stretti i suoi figli al petto tanto quasi da strozzarli. Rachele torceva il naso e sembrava intenzionata a tirarle un morso da un momento all’altro. Mini Mei tratteneva il fiato e si stringeva al braccio cicciotto della madre.

“Mei, per carità! Cos’è questo trabiccolo!” strillava guardando l’acqua chiara sotto di sé.

“Si chiama moscone, tesoro… e non si ribalterà” rispose pacato Mei senior da dietro i suoi occhiali dalla montatura leggera.

“Ma se uno dei bambini cade in acqua come facciamo?” strillò preoccupata lei seduta sul sedile di legno con in braccio i figli.

“Tesoro, credo che il pericolo più imminente per Mini Mei e Rachele sia lo strangolamento” commentò tranquillamente suo marito remando stancamente stando in piedi in equilibrio sul moscone bianco che si stagliava sull’acqua limpida.

“Strangolamento?” chiese la signora Pavesi con voce stridula.

Mattia Pavesi fece un cenno con la testa che gli smosse il ciuffo, indicando i due pargoli ormai fucsia.

La signora Pavesi  li guardò entrambi e li lasciò come se bruciassero. I due caddero per terra come due pere corte.

Mei senior sorrise mentre Mini Mei si passava la manina tra i capelli, Rachele sbuffava e sua moglie si guardava in giro preoccupata.

Alzò la testa per godersi al meglio il sole. Non gli capitava spesso di andare al mare, ma pareva che sua moglie ci tenesse davvero a fare un fine settimana marittimo ogni tanto.

Non amava andare al litorale, ma un moscone e una maglietta potevano essere un buon compromesso per far felice sua moglie. Che alla fin fine si era dimostrata più ansiosa che mai.

La signora Pavesi si sistemò qualche capello sfuggito alla sua crocchia. Rachele si alzò e corse da suo fratello ondeggiando e causando le enormi preoccupazioni di sua madre.

“Rachele! Rachele tesoro non correre” strillò mentre Mattia guardava tranquillamente gli scogli grigi respirando tutta la salsedine che poteva.

Si chiese quanto dovesse pesare uno di quei massi, storse la bocca impegnandosi a immaginarsi quanti quintali potessero essere a occhio.

Rachele saltò addosso al fratello. “Preso!!” urlò mentre lui finiva con la guancia schiacciata al moscone dal peso della sorella.

Mei senior aveva deciso che per quella mattina aveva remano abbastanza e non si scompose granché quando sua moglie finì in acqua nel tentativo di salvare, da non si sa quale pericolo, i due figli.

Rachele e Mini Mei si raddrizzarono per guardare meglio loro madre annaspare nell’acqua disperata.

“Oddio, oddio, Mei aiutami! Annego! Annego!” strillò sguazzando e schizzando tutti i suoi famigliari, dei quali solo Mini Mei si asciugò la faccia, gli altri due rimasero impassibili.

Mei senior tirò fuori dalla tasca dei bermuda gialli a righe un pacchetto di sigarette e se ne accese una ignorando la moglie che invocava il suo aiuto.

“Mei, oddio! Oddio Mei! Aiuto!!” strillava disperata annaspando.

Pavesi senior sbuffò fumo prima di rivolgersi pacatamente alla consorte.

“Tesoro, se ti fermassi un attimo ti accorgeresti che c’è mezzo metro d’acqua ed è impossibile annegare”.

La signora Pavesi appoggiò le mani al fondo sabbioso e sbatté qualche volta le palpebre.

“Ehm… già… non me ne ero accorta” disse alzandosi imbarazzata e scrollandosi la sabbia di dosso.

“Tesoro ti serve una vacanza dalla vacanza… le ferie non ti fanno bene” fece tranquillamente suo marito ricominciando a remare dopo che la moglie era risalita.

I pargoli si misero a sedere coi piedi a mollo nell’acqua e quando Rachele fece cadere suo fratello in mare la signora Pavesi quasi non se ne accorse, tornarono a prenderlo venti minuti dopo.

“Mei quando smetterai di fumare?”

“Quando morirò, e ho intenzione di non andarmene tanto presto. Quindi credo che dovrai abituarti al fumo passivo,Tesoro”

 

Lunedì, 15 Dicembre 1997

 

Mini Mei fissò lo schermo del computer ultimo modello che suo padre aveva comprato. Si avvicinò per vederlo da vicino, e poi si allontanò per avere una visione più completa, c’era evidentemente qualche cosa che lo turbava. Si grattò il mento dondolando i piedi che non toccavano per terra dall’alto della sedia a rotelline del padre.

“Papà?” cinguettò voltandosi verso il padre che fumava con la testa fuori dalla finestra.  Mattia Pavesi sussultò e si voltò verso il figlio più silenzioso, spense la sigaretta nella piantina sul davanzale e si avvicinò a lui.

Gli sembrava già di sentire la voce di sua moglie “Me le uccidi tutte le mie piantine con le tue accidenti di sigarette! Dovresti smetterla di fumare!”. Ridacchiò sotto i baffi e si interessò a Mini Mei che lo guardava dal basso.

“Hai messo una password?” chiese increspando le labbra e aggrottando le sopracciglia. Mei alzò le spalle.

“In internet ci sono un sacco di cose che i bambini non dovrebbero vedere. Potrai andare in internet quando riuscirai a scavalcare le password” spiegò suo padre con il ciuffo indisciplinato e gli occhiali leggeri che gli scivolavano.

Mini Mei sbatté le palpebre un paio di volte perplesso. Mei sorrise e lo lasciò solo col computer.

Era uno delle sue filosofie, se sei in grado di raggiungerlo sei anche in grado di usarlo al meglio.

Si fermò a guardare la sua secondogenita che invece giocava con una specie di grosso topo di peluche.

“A te non piacciono i computer?” chiese anche se la bimba non gli dava la ben che minima attenzione.

“No, a me piacciono gli opossum, vado a inseguirli al parco a volte” rispose senza degnarlo di uno sguardo e facendo deambulare il suo peluche sulla cassettiera.

Mei storse il naso “Tesoro, in Europa non ci sono opossum, quelli che rincorri tu sono ghiri” spiegò dolcemente.

Rachele gli cacciò un’occhiataccia e strinse la mano sul suo peluche.

“No, sono opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

“Opossum”

“Ghiri”

Rachele si voltò verso il suo cesto dei giochi e ne estrasse una pistola ad acqua colorata “Opossum” disse decisa puntando l’arma di plastica contro il padre.

Mei piegò la testa da una parte “Lo sai che mi hai convinto, credo anche io che siano opossum, tesoro”.

Rachele sorrise e cacciò il suo giocattolo in un angolo continuando a divertirsi col peluche. Si voltò a guardare il suo grande dato che la figlia lo ignorava bellamente.

“Mini Mei, lascia perdere quel computer e vai a giocare con qualche cosa d’altro, non ci puoi riuscire”disse prima di vedere l’intestazione Google.

Sbatté le palpebre e lo guardò sottecchi abbassandosi un po’ gli occhiali.

“Ho preso il tuo portatile, l’ho configurato, l’ho attaccato a questo computer e sono entrato” spiegò lui semplicemente alzando le spalle.

Mei fece un sospiro e l’unica cosa che riuscì a dire “Tesoro?! I nostri figli stanno prendendo il potere!”

 

 

Sabato,10 ottobre 1998

 

Rachele e Mini Mei erano seduti nel retro dell’auto famigliare che i signori Pavesi avevano comprato quando si erano sposati, e che ormai era passata di moda.

La signora Pavesi appoggiò la sua borsa nel sedile del passeggero accanto al suo. Aspettando che un fuoristrada si spostasse da dietro la sua vettura per poter fare retromarcia e uscire in fretta dal parcheggio dell’ospedale.

“Allora, bambini” cominciò con la voce che le tremava “il Papà non c’è più, d’ora in poi saremo solo noi tre” concluse con un singulto.

“Puoi dirlo che è crepato, lo riusciamo a capire” disse seria Rachele serrando la mascella subito dopo.

Sua madre ebbe un singulto e non si voltò a guardare i figli mentre faceva finta di cercare qualche cosa nella borsa.

“Rachele Tesoro… forse è la mamma che non riesce a dirlo…” rispose con voce tremante.

Rachele si appoggiò alla spalla del fratello piangendo silenziosamente. Mini Mei storse la bocca poi alzò la testa e disse semplicemente “Mamma, andiamo a casa?”

La signora Pavesi sospirò e mise in moto l’auto.

 

Lunedì, 12 ottobre 1998

 

Mini Mei trovava che i funerali fossero inutili, soprattutto perché la metà delle persone che erano in chiesa non credevano in Dio. Suo padre compreso. Suo padre non credeva nemmeno nella vita dopo la morte, tanto valeva seppellirlo subito. Ma alla fine erano finiti tutti in chiesa ad ascoltare un vecchio prete parlare di lui anche se non lo conosceva.

Quando finalmente erano riusciti a uscire sua sorella Rachele gli aveva lasciato andare la mano e aveva continuato a camminare da sola per evitare tutte le condoglianze e gli abbracci. Mini Mei avrebbe giurato di aver sentito un paio di vecchietti intrattenersi parlando di prostata e problemi alla sciatica.

Sua madre non aveva versato neanche una lacrima, ma aveva respirato forte tutto il tempo. Mini Mei con una mano teneva sua sorella, con l’altra scrostava la vernice della panca su cui era seduto per vedere cosa c’era sotto. Aveva pianto prima, e non voleva ascoltare quello che dicevano, e i canti erano così lugubri. La panca era molto più interessante.

Ma finalmente erano usciti.

Rachele che stava quasi correndo via, seguendo sua madre che teneva per mano suo fratello si sentì chiamare.

“Rachele?” si voltò facendo la ruota coi capelli castano scuro. Un ragazzino della sua età con i piedi tenuti all’indentro, in una posizione innaturale, e il capo reclinato da una parte le restituì lo sguardo.

Più o meno era alto come lei, era magrolino, con i capelli e gli occhi scuri, la pelle era ambrata e il ciuffo di capelli gli cadeva fastidiosamente in mezzo alla fronte.

In tutto quel nero, era colorato, maglietta viola, giubbino giallo, pantaloncini verde pisello che gli arrivavano sopra al ginocchio. Un piccolo arlecchino con le scarpe impolverate.

“Cosa ci fai tu qui? Oggi non vengo a cacciare gli opossum” disse lei scorbutica, con la gola che le bruciava per aver pianto fino a poco prima.

Joyce notò perfettamente gli occhi gonfi e il naso arrossato, ma non disse nulla.

“Ero venuto…a salutarti… ho saputo…” era maledettamente complicato da dire e lui si torceva le mani in grembo.

“Come l’hai saputo?” chiese la bambina seria e immobile come una statua di cera. Joyce sobbalzò.

“C’era scritto sul necrologio” spiegò. Rachele arricciò il naso.

“Tu leggi i necrologi?” chiese perplessa. Joyce si strinse nelle spalle “Non io, mia sorella Emily… dice che sta cercando un ereditiere… non chiedermi cos’è perché non lo so”.

Rachele increspò un poco la bocca, non era un sorriso, ma non era neanche una statua di sale.

“Lo andrai a trovare?” chiese il bambino. Rachele fece una smorfia “Tanto è morto…”

Joyce si strinse nelle spalle “Non lo so, nei fil americani fanno così!”. Lei lo guardò per un lungo secondo.

Sospirò prima di girarsi “Ci vediamo al parco per cacciare gli opossum” disse prendendo subito a correre verso sua madre.

 

Domenica, 15 novembre 1998

 

La prima volta che Rachele approdò a casa Cumoli suonò il campanello. Le prime persone che vide furono due ragazzine che non conosceva. Una era più alta, Emily, dodici anni, quattro in più di Joyce, aveva il nome della Dickinson, chiunque fosse questa Dickinson di cui lui parlava, aveva i capelli lunghi fino alle spalle e un cerchietto azzurro, crescendo se li sarebbe tagliati inesorabilmente a caschetto e avrebbe sostituito l’azzurro con un immancabile rosso.

L’altra era più piccola, Jane, un anno in meno di Joyce, sette anni, come lei. Portava i capelli cortissimi quasi da sembrare un maschio, crescendo, in modo inversamente proporzionale a quelli di sua sorella li aveva fatti crescere all’inverosimile, tanto da avere due grosse trecce che le arrivavano quasi al sedere.

Entrambe avevano i capelli e gli occhi scuri come loro fratello, chissà che non fosse disdicevole per degli Irlandesi essere mori, probabilmente avevano preso dal loro occhialuto padre che Rachele intravide passare da una camera all’altra con un salto felino venuto male e delle pantofole scozzesi.

All’epoca Abigail Cumoli se ne era tornata in Irlanda da un pezzo e faceva poche visite.

Le due non si presentarono, ma parlarono in coro, come se si fossero preparate la scena, seppe dopo che era venuta così per caso “Tu devi essere quella che chiama di notte. Nostro padre ha comprato un cellulare a Joyce, così d’ora in poi potrai chiamare a lui senza svegliare anche noi”

“Ok” rispose Rachele vagamente intimorita dal bizzarro corteo di benvenuto. E per quel giorno fu l’unica cosa che si dissero.

 

Martedì, 2 gennaio 2001

 

Joyce dondolò i piedi seduto su uno sgabello in vimini vicino alla vetrata del salone. La casa della mamma era molto più bella di quella che aveva in Italia, ma in Irlanda pioveva sempre, ed era sempre più freddo.

In particolare fuori, oltre il vetro e la veranda piena di vasi con fiori finti, pioveva a dirotto.

Sua madre amava i fiori, e non poteva sopportare di non averli d’inverno per colpa delle temperature rigide.

Darcy correva per casa come una pazza rincorrendo un minuscolo cagnolino. Suo fratello non avrebbe saputo dire di che razza era, forse era un incrocio.

Darcy era riccia, coi capelli castano chiaro e degli occhiali tondi e infrangibili saldati alla nuca con un elastico giallo di gomma.

Joyce si grattò la pancia coperta da una maglietta con sopra scritto My best friend is a leprechaun.

Era una stupida maglietta per turisti, ma sua madre l’aveva comprata perché in aeroporto gli avevano perso la valigia.

Darcy aveva cinque anni, ed era estremamente rumorosa, sua madre invece era in cucina a smuovere pentole.

Non è che cucinasse, smuoveva e basta. Ne uscì con passo stanco, la sigaretta in mano e guardò suo figlio appoggiata allo stipite della porta.

“Sei proprio carino Joyce, è un  peccato che tu viva in Italia”disse, e in quel momento , sotto ai capelli rossi, a Joyce sembrò estremamente vecchia.  Sorrise “Grazie”. Poi si voltò a guardare sua sorella che tirava la coda al cane che del canto suo guaiva disperato.

“Darcy è un nome da maschio” proferì senza un nesso con la conversazione precedente. Sua madre alzò le spalle “No, è sia maschile che femminile”.

Joyce storse la bocca “E’ uno scrittore?” chiese conoscendo le propensioni letterarie della genitrice.

Sua madre si guardò intorno con aria sognante “No, è un personaggio della Austen” spiegò.

“Quella di Jane?” sua madre annuì.

“Posso farmi un tatuaggio?”

“Quando sarai maggiorenne tesoro” rispose sua madre con aria sognante come al solito, andando a raccogliere la piccola Darcy che era caduta per terra e si era messa a frignare.

 

Lunedì, 16 luglio 2001

 

Era appostata da un secolo dietro quello stupido cespuglio. Le facevano male le gambe, in quella scomodissima posizione.

E la tempera blu che quell’idiota di Joyce le aveva ribaltato in testa si era seccata, appiccicando i capelli tra loro.

Ma non le importava granché, era appostata lì da dopo pranzo, un opossum sarebbe uscito prima o poi e  lei sarebbe stata lì con la sua macchina fotografica.

Diede un’occhiata alla bottiglia d’aranciata che aveva appoggiato li accanto e a un suo ciuffo particolarmente appiccicato di blu.

Ci contava che l’opossum uscisse, e infatti, un musino baffuto spuntò dal un cespuglio poco lontano da lei. Aprì gli occhi il più possibile, come per vedere più particolari possibili.

Ma il musino scomparve come era arrivato, e al suo posto arrivarono un paio di scarpette di vernice nera. La proprietaria urlava ai quattro venti, “A Marilena piace Andrea!!” strillava la padrona delle scarpe, una ragazza coi capelli castano chiaro.

“Stai zitta! Stai zitta Nicoletta!!” strillava disperata la ragazzina mora che la inseguiva ormai paonazza in volto. La sua amica castana invece rideva rumorosamente.

Rachele si alzò dal cespuglio smuovendolo e facendo saltare in aria parecchie foglie, come se fosse esploso qualche cosa.

“Che cavolo stai facendo! Spaventi gli opossum con quella voce da cornacchia!!” strillò adirata puntandole il dito contro.

“Parlerò con te quando avrai un colore di capelli lontanamente normale!” le rispose strafottente con un ghigno che a Rachele non piacque per nulla.

Fu così che le finì addosso tutto il contenuto della bottiglietta di aranciata, inaugurando i famosi gavettoni al succo. E iniziò l’odio vicendevole. 

 

 

Venerdì, 24 agosto 2001

 

Rachele si passò la lingua sulle labbra e si riavviò i capelli dietro l’orecchio prima di afferrare il biscotto che troneggiava in cima al suo gelato e usarlo come cucchiaino.

Cioccolato e fior di latte. Non capiva come certe persone potessero prendere i gusti di gelato alla frutta, le parevano una bestemmia. Fu con disprezzo misto schifo che si voltò alla sua sinistra per guardare il gelato dell’amico di colore rosa/giallo, ovvero fragola e limone. Joyce dal punto di vista dei gelati bestemmiava spesso. Una volta aveva preso il gusto fico e mango. Era incredibile quello che riuscivano a inventarsi i gelatai, una volta in una gelateria del centro storico aveva trovato il gusto millefoglie. Alla gelateria del parco c’era anche il gusto formaggio e fichi, né lei né Joyce avevano avuto il coraggio di assaggiarlo. Era invece il cavallo di battaglia di Emily, la sorella di Joyce, Emily piena di braccialetti colorati, Emily che legge i necrologi, Emily che segue gli andamenti della borsa, Emily che ha quindici anni e sogna di farsi mantenere da un miliardario.

“Mia sorella si è portata un tipo strano a casa ieri, dai capelli sembrava un gallo, e ha cacciato mia sorella Jane dalla camera, così lei si è lamentata tutto il pomeriggio” raccontò lui intento in una dura lotta col gelato, buona parte della fragola franò sull’erba.

“E si baciavano?” chiese Rachele con un’aria saccente che Joyce non interpretò subito.

“Sì che si baciavano! Ma non come tu hai baciato al campo estivo quell’idiota di Pollini, dico un bacio vero!” sbraitò Joyce facendo girare diversi vecchietti intenti a giocare a bocce.

“Senti, la pianti di parlare di Pollini? Ti ricordo che tu hai dato un bacio a quella … cosa… la Facchini, le mancano le piastrelle! Secondo me non è neanche capace di baciare qualcuno!” lo rimbeccò stizzita.

“Ah perché tu sei meglio?” sbottò Joyce strafottente.

 Rachele gli stampò un bacio sulla bocca a labbra e occhi serrati, e per poco non gli diede una testata. Del canto suo Joyce fece cadere un po’ di gelato al limone, tanto per bilanciare la precedente perdita di fragola.

“Cavolo che schifo! Come fai a mangiare quella roba!” sbottò lei pulendosi la bocca col braccio.

“Sei tu che mi hai baciato!” la rimbeccò lui un po’ stizzito “E poi quello non era un bacio, questo è un bacio!” continuò prendendola per le spalle.

Rachele trattenne il respiro e gli strinse il braccio , mentre più in basso gli tirava un calcio negli stinchi.

“Oddio che schifo! La lingua tienila nella tua di bocca! Per la miseria, mi è sembrato di baciare una lumaca!” strillò lei attirando l’attenzione delle vecchiette che facevano la maglia. D’inverno se ne stavano dalla parrucchiera a parlare di tumori, incidenti e altre simpatiche disgrazie, ma d’estate per il caldo  erano costrette a rifugiarsi al parco, e anche i bisticci di due ragazzini che non avevano ancora cominciato le medie potevano essere interessanti.

“Hai cominciato tu!” la rimbeccò lui. Fu colpito da un’infradito e il suo gelato finì definitivamente per terra.

 

Domenica, 23 novembre 2003

 

Il signor Michelini voleva che lui tagliasse l’erba, gli avrebbe dato dei soldi, che di certo non avrebbero guastato, poteva comparsi un videogioco. Sì, sicuramente li avrebbe impiegati così.

Ma prima doveva riuscire a modificare quell’affettatrice a cui aveva appena smontato la copertura.

Il signor Michelini gli aveva fornito una specie di falce, ma ci avrebbe messo un secolo per tagliare tutto il prato con quell’arnese, e non aveva trovato nulla di più simile a un tagliaerba di quell’affettatrice lasciata affianco al bidone.

Non era nuovissima, ma funzionava ancora. Se la rigirò tra le mani e spinse l’accensione per vedere se partiva.

L’affettatrice cominciò a ronzare, seguita a ruota da un dolore incredibile alla mano destra.

Mei fu percorso da un brivido, si guardò la mano destra ricoperta di un innaturale liquido rosso. Fu scosso da un altro brivido quando si rese conto che mancava qualche cosa. Perché diamine non aveva più la prima falange del medio? E fu a quel punto che cominciò a sentire davvero male.

Più tardi Rachele attraversò con passo stanco mezzo ospedale prima di trovare sua madre che parlava con un medico sulla porta di un ambulatorio. Non si fece notare e vi si infilò dentro.

All’interno era tutto bianco quasi in maniera accecante, l’unica nota scura era suo fratello seduto sul lettino bianco, che indossava un giubbotto scozzese dai toni scuri, creato da sua madre ovviamente.

La guardò con aria colpevole dondolando le gambe.

“Allora adesso sei senza un dito?” chiese increspando le labbra. Mei fece un sorriso e mostrò la mano bendata e macchiata di liquido scuro.

“Me l’hanno riattaccato” spiegò contento “Il medico dice che dato che mi sono tagliato solo la prima falange c’è una buona possibilità che torni esattamente come prima”

“Te l’hanno riattaccato?” ripeté Rachele perplessa, e da quando si riattaccavano le dita?

“Beh, sì, è una cosa relativamente semplice, ma ho dovuto ritrovare il pezzo di dito che mi era saltato via, metterlo in un sacco impermeabile e chiuderlo bene per poi sistemarlo in un sacco con del ghiaccio per conservarlo” illustrò. Sua sorella si accigliò “E tu come diavolo lo sai?”

Mei alzò le spalle “Rudimenti di medicina”

Rachele alzò gli occhi al cielo “E io do la caccia agli opossum, mah”

Mei deglutì e le puntò contro il dito fasciato di fresco “A riprova di ciò che è successo: non giocherellare mai con le affettatrici e non buttare mai del sodio nell’acqua”proferì.

“Che c’entra il sodio con fatto che il tuo dito è schizzato via?” sbottò Rachele. Mei alzò le spalle “Rudimenti di chimica?” chiese incerto. Sua sorella sospirò.

 

Martedì, 27 gennaio 2004

 

“Joyce si sta facendo la doccia” disse Emily strascicando la voce.

Rachele era entrata in casa Cumoli usando la chiave che in famiglia erano soliti tenere sotto lo zerbino, e si era stravaccata sul divano salutando stancamente Emily intenta ad analizzare un giornale che titolava Come diventare ricchi.

Inizialmente la ragazza aveva fatto finta di non badare granché alla nuova venuta, ma poi sottecchi aveva iniziato a spiarla con aria beffarda, e tutte le volte che incrociava il suo sguardo si fingeva nuovamente interessata alla sua lettura.

“Diamine Emily, che c’è?”sbottò infine Rachele. Emily si strinse nelle spalle e guardò il soffitto, poi le pentole e infine lei. Rachele sbiancò e sbraitò visibilmente imbarazzata “Te lo ha detto? Te lo ha detto?”.

Emily soffocò una risatina nel maglione mentre Rachele diventava paonazza e distoglieva lo sguardo. “Non pensavo che vi dicesse certe cose!”sbuffò Rachele.

La ragazza seduta al tavolo alzò le spalle mentre i suoi capelli a caschetto e la frangia cortissima rimanevano immobili come fatti di marmo “Ma infatti non ce le dice” proferì sibillina “ o almeno non di sua volontà. Io e Jane abbiamo un’insana passione per la tortura” spiegò tranquilla sfogliando il suo giornale, più per scena che per reale interesse agli articoli. Aveva trovato un argomento molto più divertente.

“Allora come è andata?” chiese sogghignando.

“Da schifo”ammise Rachele un po’ scocciata. Emily ridacchiò. “La prima volta fa sempre schifo”disse.

“Non era la prima volta!” soffio stizzita.

“Se lo racconti a mia nonna Ealga che è arteriosclerotica e si ostina a chiamarmi Abigail come mia madre, magari ti crede!” continuò Emily tranquilla.

Rachele mise il muso. “Joyce ha detto che è stato per scommessa…” cominciò a dire lasciando in sospeso la frase.

“Già, diceva che l’aveva già fatto ma non gli credevo” ammise la ragazzina. Emily annuì fintamente fingendosi ammirata.

“Magari fate delle scommesse che almeno uno dei due può vincere” concluse rimettendosi a leggere il suo giornale economico.

 

Martedì, 29 marzo 2005

 

“Un etto in meno, un etto in meno, solo un etto in meno ti prego, ti prego” diceva sottovoce Nikka in mutande chiusa in bagno, come se fosse una preghiera.

La bilancia se ne stava minacciosa e bianca davanti a lei pallina e infreddolita, coi piedi nudi sulle piastrelle fredde.

“Nicoletta, per la miseria! Esci da quel bagno! Hai intenzione di piantare le tende li dentro e dormire nella vasca?”urlò con poco garbo sua madre oltre la porta sottile. Nikka si attaccò alla porta a aprendola un poco; tanto per far spuntare un occhio.

“Ho quasi fatto mamma, cosa c’è?”sussurrò.

“Damine Nicoletta! Cosa hai fatto ai tuoi bei capelli? Che colorino insulso è questo?”sbraitò sua madre, una donna decisamente rustica, per così dire.

“E’ un colore carino mamma! Mi facevano schifo quegli stupidi capelli castano topo! E poi pensa se avessi come figlia la Pavesi, una volta l’ho vista con della tempera blu in testa!” sbottò scocciata dall’opinione di sua madre.

“Ah, comunque sbrigati,devi andare a scuola a pagare la gita scolastica, mica vi mandano a Vienna gratis! Me li ha dati tuo padre, ogni tanto si ricorda che ha una figlia, quell’idiota!” disse appioppando alla figlia una mazzetta di banconote e girando i tacchi.

“Sempre con quella SE-RE-NI-TY!” sputò il nome come se fosse veleno.

“Si chiama Selena, mamma, non Serenity” disse, a lei non stava poi così antipatica la nuova fidanzata di suo padre. Sua madre sbuffò e scomparve in cucina.

Nikka diede un’ultima occhiata alla sua acerrima nemica, la bilancia e poi uscì in punta di piedi chiudendosi la porta del bagno alle spalle.

Non ci mise molto a vestirsi e non si truccò molto. Uscì salutando sua madre con un gesto frettoloso e stringendosi al petto la borsa. Fuori faceva un freddo invernale, nonostante fosse marzo e ormai dovesse iniziare la primavera il clima non accennava a volersi riscaldare.

Camminò decisa verso la scuola , passi veloci e furtivi, avere tutti quei soldi addosso la metteva in agitazione.

Schivò un venditore ambulante, un hippie che distribuiva abbracci, e liquidò in fretta un’amica di sua madre che aveva tutta l’aria di volersi fermare a parlare con lei. Tirò dritto finché la strada non svoltò a destra, e anche lì per un secondo stava per continuare a camminare, ma una forza quasi sovrumana la costrinse a fermarsi e a fare retromarcia.

Questa forza sovrumana era lucente, trasparente e piena di meraviglie. Questa forza era comunemente chiamata Chanel.

Nikka si attaccò al vetro, quasi spiaccicandoci il naso contro. Gli occhi le si erano aperti a dismisura.

Era tutto così bello, così lucente, e così  dannatamente costoso.

Un vestito a frappe se ne stava stentoreo nel bel mezzo della vetrina circondato da luci intensissime. Più a destra una borsa trapuntata, una fantastica borsa con il manico  a catenella. Nikka deglutì, quanto avrebbe voluto quella borsa…

Guardò il prezzo, esorbitante, tutta via l’importo esatto che avrebbe dovuto pagare per la gita, deglutì ancora. Non poteva spendere i soldi che suo padre gli aveva dato per la gita, in una borsa, no non poteva affatto. Sta di fatto che entrò lo stesso.

 

Sabato, 23 dicembre 2005

 

Mei si mordicchiava l’unghia del pollice mentre leggeva l’esercizio di matematica. Aveva capito benissimo come risolverlo, ma voleva vedere se per caso c’erano altri modi per farlo. Rachele leggeva un giornale di moda lasciato sul divano da sua madre. E la signora Pavesi girava tranquillamente il cucina con grembiule e guanti da forno, intenta a preparare i primi piatti di Natale. Da quando Mei e Rachele avessero memoria il Natale si era sempre festeggiato a casa loro, e tutti i parenti, in trasferta venivano a casa Pavesi.

Tuttavia nessun membro della famiglia si era accorto che in cucina c’erano due frigoriferi.

O meglio, Rachele si era accorta che qualche cosa era cambiato, Ma non aveva avuto la pazienza di farci caso. Era come i giochi delle differenze sull’enigmistica, una cosa tremendamente noiosa.

Fu traumatico quando la signora Pavesi aprì il congelatore del frigorifero sbagliato, e da questo non uscì ghiaccio, bensì fuoco!

Ci fu una vampata, qualche capello bruciato e un urlo disperato della mamma. Rachele sobbalzò e fece cadere il giornale e Mei alzò la testa dalla sua matematica sgranando gli occhi.

“Mamma?” chiese basito.

Sua madre atterrita si era appiattita sul pavimento, mentre il portello del frego si era richiuso da solo. Aveva il fiatone come se avesse fatto una gran corsa, e qualche capello bruciacchiato.

“MEI!” strillò disperata “Cos’è quella diavoleria? Volevi uccidermi?”

Mei a bocca aperta per lo stupore boccheggiò, che fosse colpa sua era ovvio, Rachele non sarebbe mai stata capace di mettere in piedi un arnese del genere.

“Mamma, non pensavo… non pensavo che avrebbe avuto un effetto del genere… volevo collegarlo via etere col pc!”cercò di scusarsi.

La signora Pavesi ansimò ancora seduta per terra con gli occhi fuori dalle orbite.

Per un mese buono tutte le volte che doveva aprire il frigo si metteva una maschera da saldatore per precauzione. Non era un bel vedere, e a Natale tutti i parenti rimasero perplessi.

 

Lunedì, 16 gennaio 2006

 

Rachele si accese una sigaretta con lo zippo, seduta sui gradini davanti alla porta del condominio, poteva fumare, sua madre era appena uscita a fare la spesa, e non sarebbe tornata prima di un’ora, perciò poteva fumare quanto le pareva senza essere vista. Joyce sarebbe arrivato a momenti per portarla non aveva capito dove, con quello stupido lambrettino raccattato nel garage del vicino.

La signora Pavesi riapparse all’improvviso,dato che aveva scordato la lista della spesa, Rachele non fece in tempo a nascondere le prove del misfatto, anche perché rimase completamente impietrita con la bionda in bocca.

Le due si guardarono, sua madre a bocca aperta, lei a bocca serrata.

“Rachele!” esclamò sua madre “Tu, tuo padre ci ha messo così tanto per smettere e.. e..”non era vero, suo padre aveva fatto finta di smettere, poi ci aveva rinunciato ed aveva ricominciato a fumare in pubblico, ma questo la signora Pavesi non lo sapeva.

Furono interrotte dalla signora Michelini che uscì rumorosamente dalla porta d’ingresso senza accorgersi minimamente della tensione che si era creata.

“Oh, signora Pavesi, scusi se la disturbo, ma sa avrei bisogno di una mano con il water, mi si è di nuovo otturato. Chiederei a mio marito, ma purtroppo è a Madrid per lavoro, mi chiedevo se quel suo parente così simpatico che viene sempre a trovarla per Natale mi potesse aiutare”, lo zio Michele, che a ogni Natale si ubriacava follemente.

La signora Pavesi fece un sorriso amabile e le indicò Rachele “Sono sicura che Rachele vorrà darle una mano gratuitamente”.

Rachele fece un sorriso tirato di circostanza.

 

Mercoledì, 20 agosto 2008

 

Faceva un gran caldo, Joyce era tornato dalla fresca Irlanda, e insieme lui e l’irascibile Rachele se ne era andato al parco a mangiare il gelato. Lei non l’avrebbe mai ammesso, ma forse un po’ le era mancato.

Da quando era piccola i gusti di Rachele in quanto a gelato non erano granché cambiati, Joyce invece nell’ultimo periodo optava per gusti dai colori imbarazzanti quali puffo e chewin gum. Il cui sapore tra l’altro era tristemente simile.

“Sei imbarazzante mentre mangi quella roba. Anzi, tu sei sempre imbarazzante, con quella collana di fiori simil hawaiani e quella stupida utilitaria verde Irlanda” sbottò non per vero odio ma per abitudine.

Joyce non parve affatto offeso, ma ribatté dicendo “Sai cosa sarebbe imbarazzante? Se ti schiacciassi il gelato sui capelli” disse civettuolo.

“Non ne avresti il coraggio!” sentenziò lei altera. Joyce ridacchiò “E tu non avresti il coraggio di tingerti i capelli di blu elettrico” la provocò.

La ragazza si incupì e allungò la mano verso di lui “Scommettiamo?”

Joyce sorrise e l’afferrò “Scommettiamo”

Sapeva benissimo che Rachele l’avrebbe fatto, solo, gli piacevano i capelli blu.

 

Venerdì, 18 dicembre 2008

 

“Oh, sì, tu non hai idea di quanto sia bello il vestito che ho fatto per la spagnola che abita nel nostro palazzo, Rachele dice che ci sono troppi fiori, ma lei mi è sembrata molto soddisfatta!” esclamò contenta la signora Pavesi fumando e passeggiando tranquillamente davanti alla lapide del marito.

“Sono sicura che il matrimonio sarà un successone, e poi lei è una così cara ragazza!!” sospirò guardando distrattamente le lettere incise sul marmo.

“Oh, e non dire a Rachele che fumo quando sono con te” si interruppe per ridere “sai quando l’ho beccata a fumare le ho fatto pulire tutti i cessi del condominio” altra risata sguaiata e un po’ forzata. Nel silenzio risuonava solo la sua voce.

Fece un sospiro “Mi manchi Mei, mi manchi tanto”. Spense la sigaretta in un portacenere che aveva poggiato sulla lapide. Era convinta che a lui non desse fastidio il fumo, e forse lo faceva sentire ancora un po’ vivo. Si strinse nel cappotto e se ne andò mentre dalla foto Mattia Pavesi guardava il vuoto del cimitero.

Mattia Pavesi 1959 – 1998 La moglie e i figli lo piangono inconsolabili.

Avrebbero voluto scrivere qualche cosa di diverso, qualche cosa di solo suo. Ma non gli era venuto fuori nulla, e il marmista aveva fatto di testa sua.

 

Bussai alla porta che conoscevo tanto bene, e questa si aprì rivelando un Joyce in mutande.

“TI va di andare al cimitero?” chiesi cupa. Lui fece una faccia strana “Credo di essere ancora troppo giovane per morire” ironizzò lui con un risolino.

Voltai i tacchi senza dire nulla, miravo alla fine del corridoio e alla porta d’uscita di casa Cumoli,ci sarei andata da sola.

Joyce sobbalzò e starnazzò un “Vengo, vengo, lo so che vuoi andare a vedere tuo padre! Ma io proprio non capisco, non ci va mai nessuno al cimitero, solo nei film americani c’è la gente che parla con le lapidi!”

Si infilò al volo una maglia e mentre saltellava giù per la tromba delle scale si mise i pantaloni. La portinaia che stava pulendo le scale gli squadrò anche il sedere prima che riuscisse a coprirselo con i calzoni. Lui non ci fece caso.

Camminammo in silenzio per il cimitero, lui mi seguiva a poca distanza. Per una volta nella vita si era vestito come una persona normale. Forse almeno ai morti portava un po’ di rispetto.

“Oh! Un Opossum!” sussurrò quando fummo ormai davanti alla tomba di mio padre, non mi voltai ma dissi “Non è un opossum, è un ghiro, gli opossum non ci sono in Europa”

Joyce si accigliò “Quindi noi fino ad adesso…” non finì la frase, la completai io al posto suo “…abbiamo cacciato ghiri, esattamente. Me lo ha detto mio padre”.

Joyce fece una smorfia “Ci hai fregato anche sta volta vecchio volpone!”  commentò rivolto alla lapide.

Spostai un portacenere che se ne stava sulla lapide di mio padre.

“Diamine! Chi cavolo è che fuma qui?!” sbottai scocciata.

“Magari è tua madre” blaterò Joyce senza il minimo di senso.

“Non dire cavolate, mia madre non fumerebbe mai!” proferii io.

A volte mi manca …papà…

 

 

Eccoci arrivati a fine capitolo, spero che vi possa essere piaciuto anche se è un po’ diverso dal solito ed un po’ malinconico. Ringrazio moltissimo tutte le persone che sul forum hanno risposto alle mie molteplici domande(opossum, dita mozzate e chimica) aiutandomi a scrivere un capitolo verosimile.

Passando in dettaglio Mini Mei che sorpassa le password per quanto piccolo credo che non sia una cosa così straordinaria. Ho sentito di un bambino che aveva fatto una cosa del genere più o meno a sei anni.

Il capitolo è stato scritto principalmente perché volevo un po’ infilare il signor Pavesi, che nell’ultimo periodo ho preso in simpatia, e pensare che all’inizio non gli avevo neppure inventato una faccia.

Inoltre anche per raccontare un po’ il rapporto tra Joyce e Rachele.

Ci sarebbero stati un sacco di altri aneddoti, ma non volevo appesantire troppo il racconto, che già mi è sembrato pesante così.

Ringrazio infine chi ha messo la storia tra i preferiti e i seguiti e ovviamente chi ha commentato:DarkViolet92(Grazie!!), The Corpse Bride ( beh, direi che avevi più o meno indovinato…^.^ mi fa piacere sapere che segui ancora la mia storia, i tuoi commenti sono sempre piacevolissimi), DiraReal (hai detto una cosa bellissima, mi piacerebbe tantissimo pubblicare *.*grazie mille davvero!) e Melisanna (Grazie mille! All’inizio l’idea era SOLO parlare di estetica, ma poi ho perso la retta via e siamo finiti qui!! )

Grazie ancora a tutti e al prossimo capitolo, non so quanto ci metterò a scriverlo, perché a scrivere questo mi sono più o meno distrutta una mano!! Devo smetterla di scrivere solo con la mano destra cavolo!!!XD

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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