PARTE PRIMA
SICILIA,
ISOLA DI SANTO STEFANO
AGOSTO 1988
CAPITOLO 1
IL MONDO
SEGRETO
Stefano
spalancò le
braccia e si lasciò cadere all’indietro senza
esitazione, piombando di schiena
tra gli alti steli di grano pronto per essere raccolto.
«Mi annoio» annunciò.
«Andiamo a fare il
bagno» propose Claudia, alla sua sinistra. Era molto vicina a
lui e il bambino
riusciva a vederla anche se era immerso nel grano. Seduta con le
ginocchia
piegate davanti a sé, giocava a intrecciare steli di grano,
fiorellini di campo
e fili d’erba secchi e gialli che aveva raccolto quella
mattina, mentre
bighellonavano nei campi senza meta. Si gettò oltre le
spalle una delle due
treccine castano dorato che le era scivolata davanti e la infastidiva.
Stefano emise un verso
di disappunto. «Lo abbiamo fatto ieri»
mugugnò.
«A me piace. Facciamone
un altro» ribatté la bambina, ostinata. La sua
voce, però, era dolce come il
miele spalmato sul pane, la mattina a colazione, e Stefano, nel suo
nascondiglio in mezzo al grano, sentì le sue labbra
incurvarsi in un piccolo
sorriso.
«Anch’io voglio fare un
altro bagno. Fa caldo» intervenne pigramente Enrico. Sedeva
un po’ in disparte
con le braccia tese all’indietro, a metà strada
tra gli altri due bambini e le
biciclette che avevano gettato nel campo dopo aver pedalato per
un’ora sotto il
sole cocente, esausti e accaldati. Stefano non poteva vederlo, ma era
certo che
mentre parlava avesse lanciato un’occhiata rapida a Claudia.
Poteva indovinare
cosa faceva Enrico in ogni momento, a occhi chiusi.
Per un po’ nessuno
parlò. C’era un silenzio quasi assoluto. Non
tirava un alito di vento, la
risacca del mare sembrava arrivare da molto lontano e le cicale
frinivano
stancamente, senza entusiasmo, come spossate dal caldo. Il sole era una
palla
di fuoco alta e incandescente nel cielo di un azzurro limpido e chiaro.
Una
grossa ape si avvicinò a Stefano e svolazzò sul
suo viso, ronzando. Lui la
osservò per qualche istante, poi soffiò con forza
e la guardò sussultare e
allontanarsi, ondeggiando, forse in cerca di qualcosa di più
interessante. Gli
parve che fossero completamente soli sulla Terra. Soltanto loro tre e
un giorno
infinito d’estate. Fece un sorriso enorme.
«Io ho un’idea più
bella» disse, infrangendo la quiete.
«Che idea?» Indagò
Claudia con cautela. Sbirciò verso di lui con espressione
dubbiosa. Gli altri
due bambini avevano imparato da tempo che spesso le idee di Stefano
significavano una cosa sola: guai. E divertimento, risate, caos,
avventure e
scoperte, ma soprattutto un mucchio di guai.
Stefano si tirò su a
sedere di scatto e i suoi occhi di un azzurro intenso e splendente, che
irradiavano
una luce vivace sul viso sottile, incrociarono quelli color nocciola
della
bambina. «Facciamo un gioco. Anzi, no… una prova
di coraggio.»
Quelle parole caddero
nel silenzio come pietre sulla superficie immobile di uno stagno.
L’atmosfera
cambiò, attraversata da un lampo di energia. Stefano amava
quella sensazione
che avvertiva sempre quando una delle sue idee lo colpiva
all’improvviso, un
formicolio sulla pelle, un senso di attesa e di eccitazione che faceva
vibrare
l’aria, e sapeva che anche i suoi due amici la amavano. Solo
che ci mettevano
sempre un po’ a ricordarselo.
«Una prova di
coraggio?» ripeté Claudia, fissandolo a occhi
sgranati. Quella era una novità
assoluta. Fino ad allora avevano fatto giochi di ogni tipo, scherzi,
esplorazioni e perfino una caccia al tesoro, quasi tutte idee nate
dalla
fertile mente di Stefano, ma una prova di coraggio mai.
«E come facciamo?»
chiese Enrico, la fronte aggrottata. Lanciò
un’altra occhiata in direzione di
Claudia, poi tornò a concentrarsi su Stefano. Aveva gli
occhi azzurri, come il
suo amico. Era un po’ più alto e slanciato, aveva
capelli castani, la
carnagione pallida e lineamenti delicati che sembravano tracciati in
punta di
matita. Stefano era mingherlino e aveva capelli scuri e la pelle sempre
leggermente abbronzata. Quando Enrico lo guardava, a Stefano sembrava
sempre
che quegli occhi non si limitassero a incrociare i suoi, ma li
agganciassero,
come se il contatto visivo facesse vibrare qualcosa che correva tra
loro. Forse
era perché si conoscevano dalla nascita, eppure anche
Claudia faceva parte del
loro gruppetto da quando aveva iniziato a camminare, ma con lei non
succedeva.
«Le femmine non fanno
le prove di coraggio» aggiunse Enrico dopo un breve silenzio.
Claudia gli gettò
un’occhiata di fuoco. «Sì che le fanno!
E le vincono pure!»
Il bambino la fissò,
poi arrossì e abbassò gli occhi, come pentito di
quello che aveva detto.
«Tu non la fai, la
prova» intervenne Stefano. «La facciamo io e
lui.» Fece un cenno con il capo
verso l’amico.
Claudia si gonfiò come
un palloncino, le labbra serrate e gli occhi stretti per la rabbia.
«E io?!»
strillò, indignata. Stefano intuì che era meglio
spiegare tutto subito, prima
che lei si infuriasse sul serio e se ne andasse. Ogni tanto succedeva,
durante
un litigio, e se in un primo momento Enrico e Stefano dichiaravano con
solennità di stare benissimo anche loro due soli e di non
avere alcun bisogno
delle bambine, dopo un po’ erano sempre costretti a
constatare, pur senza
ammetterlo ad alta voce, che stare senza Claudia era come andarsene in
giro
senza una gamba. Così cercavano il modo di riavvicinarla,
coinvolgendola in un
gioco oppure offrendole qualcosa di buono da mangiare. Una volta
avevano messo
insieme i loro risparmi e per farsi perdonare le avevano comprato un
album di
figurine che desiderava. Lei metteva il broncio e li ignorava, ma non
resisteva
a lungo. Alla fine scoppiava a ridere e tornava di corsa da loro e
tutto era di
nuovo come prima.
«Tu sei il premio: dai
un bacio al vincitore» disse Stefano con un sorriso sghembo
sul viso.
Claudia rimase
interdetta, mentre Enrico, vicino a lei, spalancava la bocca per lo
stupore. «Scemo
sei? ‘Nu vasu?»[1]
Aveva un’aria vagamente disgustata,
come se lui le avesse proposto di mangiare del fango.
Stefano annuì, sicuro.
«Sì. Uno vero. Sulla bocca.» Era da un
po’ che ci pensava e adesso che si era
presentata l’occasione non se la sarebbe fatta sfuggire. A
lui non sfuggiva mai
niente.
«Bleah!» commentò
Claudia. Scosse la testa. «Ma che premio
è?»
«È una cosa da grandi»
rispose Stefano con aria di superiorità. Guardò
Enrico. «Allora? Ci stai?»
Enrico era arrossito
fino alla punta dei capelli sentendo parlare di baci.
Trasalì. «Che prova vuoi
fare?»
«Andiamo alla torre»
rispose Stefano, evasivo. Non ci aveva ancora pensato nel dettaglio, in
realtà.
Avrebbe avuto un’idea più precisa quando fosse
stato lì.
Enrico guardò Claudia.
Lei aveva ancora gli occhi sgranati e una buffa espressione a
metà fra
l’incredulo e il disgusto, ma sembrava meno ostile di prima
all’idea. «Tu ci
stai?» balbettò.
Lei lo fissò per un
attimo, poi fece di sì con la testa. «Ci sto.
Però la prova la voglio fare
anche io.»
«E se vinci qual è il
premio?»
«Non vince» intervenne
Stefano, il tono spavaldo e canzonatorio. Claudia gli fece una
linguaccia, ma
quando incrociò il suo sguardo capì che non lo
pensava davvero. La stava sfidando. La cosa le piacque.
«Se vinco io, chi si
prende il bacio lo decido io.»
Enrico aprì la bocca
per dire qualcosa, ma non ne ebbe il tempo. Stefano era già
scattato in piedi e
stava spazzando via con la mano uno stelo di grano rimasto attaccato
alla
t-shirt di un rosso sbiadito.
«Prendiamo le
biciclette.»
****
Pedalare sotto
il sole
di mezzogiorno in una torrida mattina di agosto era come pedalare
sott’acqua. La strada che portava alla torre saracena
dell’isola era un
viottolo di campagna: partiva da una crepa nel muricciolo che
fiancheggiava la
litoranea, in un tratto di campagna abbandonata e adorna solo di
cespugli
spogli, erba secca, arbusti scheletrici e qualche fiore di campo
coraggioso,
che però piegava in fretta la testa sotto il sole
implacabile. Dopo qualche
minuto il viottolo iniziava a salire e da lì la pedalata si
faceva davvero
faticosa, ostacolata da buche e grosse pietre. Una volta Claudia ne
aveva presa
una con la ruota anteriore della bici, mentre scendevano a gran
velocità, e
aveva fatto un capitombolo memorabile. Era un miracolo che ne fosse
uscita solo
con le ginocchia sbucciate, un bernoccolo sulla fronte e uno scossone
alla
dignità.
Mentre si avvicinavano
alla meta, ansimanti e accaldati, il sole sembrava incendiare
l’aria sempre di
più e il caldo rendeva difficile respirare. Stefano sentiva
bruciare i muscoli
delle gambe, la gola secca come il deserto, il sudore che scorreva in
rivoli
fastidiosi lungo la schiena e gli faceva il solletico. Pedalavano in
fila
indiana, uno dietro l’altro, come sempre: Enrico davanti,
Stefano in mezzo e
per ultima Claudia, che arrancava sempre un po’ per via delle
gambe più corte e
della bici più piccola. In realtà Stefano era
quasi alla pari con Enrico e
avrebbe potuto superarlo senza difficoltà. Aveva 9 anni
appena compiuti, quasi
due in meno dell’amico che ne avrebbe fatti 11 a settembre,
ed era magro e
sottile, ma anche forte e veloce, molto più di quanto
sembrasse a prima vista.
A volte, durante le loro eterne scorribande per l’isola in
bicicletta, con la
pioggia e con il sole, con il freddo e con il caldo, Stefano superava
Enrico
distrattamente, senza rendersene conto, ma subito rallentava o si
fermava e si
girava a guardarlo con un’aria seria e limpida che diceva
senza parole: «Io ti
aspetto».
D’altronde era giusto
che fosse così, secondo lui. Enrico era il più
grande, dato che Claudia aveva 8
anni e ne avrebbe compiuti 9 solo a novembre, e per una sorta di tacito
accordo
tra loro era sempre stato il capo della loro piccola banda. A conti
fatti, era
quasi sempre Stefano a prendere le iniziative, a organizzare i giochi e
le
escursioni, a mettere tutti e tre nei pasticci e poi a tirarli fuori, a
decidere quando era ora della merenda e quando invece era il momento di
un
tuffo in mare. Prendeva il comando in modo spontaneo, naturale, quasi
inconsapevole, come quando oltrepassava Enrico pedalando. Poi,
all’improvviso,
se ne accorgeva. Lanciava un’occhiata guardinga
all’amico, preoccupato di
avergli sottratto ancora una volta il ruolo che avrebbe dovuto essere
suo e
faceva un passo indietro. Enrico, però, non se la prendeva
mai. Solo quando
giocavano a casa, il baglio[2]
dei Falconeri di proprietà
del padre di Enrico, e vedeva Stefano assumere la guida del gruppo, si
rabbuiava. Quando erano fuori, invece, nella campagna, in spiaggia, nei
campi
di grano, alla torre o per le strade di Portosalvo, l’unico
centro abitato dell’isola,
sempre loro tre insieme, isolati dagli altri bambini, Enrico sorrideva
e
seguiva Stefano con entusiasmo e gli occhi che brillavano. Erano una
squadra e
Stefano aveva sempre pensato che in fondo quella faccenda del capo non
fosse
poi così importante. La nonna di Claudia, Amelia, li
osservava pedalare
insieme, uno dietro l’altro come gli anelli di una catena,
bisbigliare qualcosa
e poi scoppiare a ridere o chiamarsi a gran voce tra loro, e diceva che
sembrava che nascondessero chissà quale grande segreto. Un
mondo segreto, tutto
loro, inaccessibile a chiunque altro.
Finalmente la torre
apparve sulla sommità di una scogliera a picco sul mare. Era
una struttura
diroccata a pianta circolare, affondata tra ginestre, agavi e cespugli
di
gramigna, imponente e solitaria. La vecchia Amelia aveva raccontato ai
bambini
che era stata costruita tantissimo tempo prima per sorvegliare
l’arrivo di
pericolosi predoni dal mare e questo scatenava la fantasia di Stefano
più di
qualsiasi altra cosa. Era il suo posto preferito di tutta
l’isola. Il muro era
solcato da ciuffi d’erba e squarci simili a cicatrici nei
punti in cui le
vecchie pietre grigie, disposte in modo irregolare, quasi ammassate
semplicemente l’una sull’altra, erano cadute,
ammucchiandosi ai piedi della
torre. Tre gradini di pietra spezzati conducevano a una porta di legno
marcio
scardinata, appoggiata a chiudere l’ingresso alla torre e
ornata da un grosso
lucchetto penzolante, tutto arrugginito e ormai inutile. Sulla
sinistra, quasi
a ridosso della torre, sorgeva un boschetto di ulivi immerso nella
penombra e
nel frinire delle cicale: il posto ideale dove rinfrescarsi e fare
merenda dopo
aver giocato per ore sotto il sole.
Stefano saltò giù per
primo dalla bicicletta rossa, malconcia e arrugginita quanto il vecchio
lucchetto della torre, la gettò tra le erbacce e fece
più volte il giro della
torre, studiandola e riflettendo intensamente. Enrico e Claudia, dopo
essere
scesi dalle bici, se ne stavano fermi, vicini, e lo seguivano con gli
occhi.
Alla fine Stefano si fermò e li guardò con un
sorriso di trionfo che andava da
orecchio a orecchio.
«Ecco che cosa facciamo.»
****
Stefano era
sempre
quello che si lanciava per primo e quel giorno non faceva eccezione.
«Tu sei pazzo» aveva
sentenziato Enrico dopo che lui aveva finito di spiegare la prova agli
altri
due.
Claudia aveva annuito
con decisione. «Tra tutte quelle che hai pensato, questa
è la più…»
«La verità è che ve la
state facendo sotto» aveva esclamato Stefano allegramente.
«Vado io per primo e
vi faccio vedere.»
Così adesso si trovava
ai piedi di un grosso ulivo ritorto, sul lato della torre che dava
verso il
mare, i grossi rami in basso così curvi verso il terreno da
far pensare a
sottili fuscelli piegati dal vento. Gli altri due bambini erano a pochi
passi
di distanza e lo osservavano in religioso silenzio. Stefano
osservò i rami
bassi dell’albero, poi, con cautela, mise il piede destro su
quello che gli
sembrava il più grosso e il più resistente, si
attaccò con le mani a un ramo
più in alto e si tirò su. Attese un istante,
raccogliendo la concentrazione, e
ripeté il passaggio una seconda volta, poi una terza.
Salì fino a metà del
tronco senza difficoltà, poi si trovò su un ramo
più sottile degli altri che
ondeggiò paurosamente sotto il suo peso. Il bambino si
bloccò e serrò la presa
intorno al ramo a cui si teneva con le mani sottili. A terra
sentì che Claudia
ed Enrico trattenevano rumorosamente il fiato. Pian piano il ramo smise
di
ondeggiare e, quando si sentì di nuovo sicuro, Stefano fece
forza sul piede per
sollevarsi di nuovo.
Quando arrivò a un
punto in cui nessun appoggio gli sembrava convincente,
infilò il piede in una
rientranza del tronco, pregando che non ne spuntasse fuori nessun
animale per
aggredirlo. Ebbe fortuna, come spesso accadeva. Non successe nulla e
lui poté
issarsi quel tanto che bastava per raggiungere un ramo grosso e lungo
sul quale
si fermò a riprendere fiato dopo aver scostato le foglie che
gli sfioravano le
guance. Il cuore gli batteva forte, un rombo cupo e martellante nelle
orecchie,
ma sentiva di avere il controllo. Amava quella sensazione.
Non aveva raggiunto la
cima dell’ulivo, anche se mancava poco, ma non era quello
l’obiettivo. Davanti
a lui, sulla sinistra, c’era la finestra della torre: era
più simile a una
feritoia nella pietra, priva di vetri e chiusure di alcun genere. Prese
fiato,
gli occhi fissi sull’apertura nel muro, ignorando le
goccioline di sudore che
gli scivolavano sulla fronte, e iniziò ad avanzare sul ramo
con grande
lentezza, un passo alla volta, le mani saldamente agganciate al ramo
superiore,
come un circense impegnato in un gioco di abilità. Per
controllare dove metteva
i piedi era costretto a guardare in basso e la distanza di almeno
quattro metri
che lo separava da terra gli fece girare un po’ la testa, ma
solo per un
secondo. Le altezze non gli davano fastidio, anzi, lo elettrizzavano.
Un passo
dopo l’altro, un piede avanti all’altro, raggiunse
la fine del ramo. La
finestra si trovava un po’ più in alto, per cui
dovette staccare una mano dal
ramo a cui si aggrappava e appoggiarla con attenzione al bordo di
pietra intorno
all’apertura. Quando si sentì abbastanza sicuro,
staccò anche l’altra mano. Si
slanciò, trattenendo il fiato, e salì sul bordo.
Alle sue spalle, il ramo che
gli era servito da ponta ondeggiava lievemente.
Non appena ebbe i piedi
ben saldi sulla pietra, si lasciò scappare un sorriso di
trionfo. Da sotto
arrivavano le grida di entusiasmo di Enrico e Claudia, ma
l’impresa non era
ancora neppure a metà. Tenendosi con attenzione al bordo
dell’apertura, esaminò
la situazione. La finestra era stretta e se Stefano fosse stato appena
più
robusto avrebbe avuto difficoltà a passarci. Un tempo la
torre aveva avuto un
primo piano, oltre al pianoterra, poi il pavimento era crollato,
chissà come,
chissà quando. Ne restava solo un pezzo, uno spuntone di
pietra dai bordi
irregolari che sporgeva di una cinquantina di centimetri. Tra la
finestra e il
pezzo di pavimento sopravvissuto, il vuoto era colmato solo da alcune
assi di
legno che qualcuno doveva aver sistemato per poter passare da una parte
all’altra. Erano fissate da grossi chiodi arrugginiti, erano
palesemente molto
vecchie e poco stabili. Dagli spazi tra le assi si scorgeva il
pianoterra, cui
si accedeva dalla porta con il lucchetto. Era un ambiente circolare
pieno di
un’accozzaglia di oggetti vecchi e abbandonati, proprio come
la torre stessa:
mucchi di pietre, pezzi di legno, una sedia sfondata, due assi mezze
marce
tenute insieme da una corda e dei chiodi che sembravano quel che
restava di un
tavolo, reti da pesca rotte, una pentola priva di uno dei due manici,
una ruota
di bicicletta sgonfia, una pila di cassette simili a quelle usate per
trasportare la frutta, un secchio di un azzurro sbiadito, una lamiera
incrostata di ruggine e perfino un grammofono che cadeva a pezzi. Da
terra
partiva una rozza scala di pietre che sembravano quasi gettate alla
rinfusa
l’una sull’altra formando gradini alti e scoscesi.
Stefano lanciò
un’occhiata verso l’alto, tenendosi saldamente al
muro: una copertura di
fortuna composta di assi di legno chiudeva il tetto della torre. Dal
basso
arrivò un improvviso trambusto e lui guardò di
nuovo giù: Enrico e Claudia
avevano spalancato la porta di legno con gran fracasso e si erano
precipitati
dentro, il respiro affannoso, gli occhi che puntavano verso
l’altro,
cercandolo. Per poco Claudia non inciampò nel secchio
azzurro.
Stefano fece un respiro
profondo. Doveva restare concentrato. La parte più tosta era
proprio quella che
stava arrivando. Studiò con calma il percorso da seguire:
un’asse di legno,
larga non più di una quarantina di centimetri, che gli
sembrava meno marcia e
più resistente delle altre. Allargò le braccia e
immaginò di essere un uccello
sul punto di spiccare il volo, lasciare la terra, quella piccola isola,
e
salire su, su, su, sempre più in alto, sempre più
lontano, Santo Stefano sotto
di lui che si riduceva a un puntino quasi invisibile nel mare, verso
chissà
quali posti lontani e nuovi e straordinari.
Fece un passo avanti
sulla trave, poi un altro. Attese qualche istante, mentre il legno
ondeggiava e
scricchiolava sotto il suo peso. Qualcuno in basso, Enrico o Claudia,
cacciò un
verso di paura, ma non accadde nulla. Allora andò avanti,
piano, ma senza
esitazioni, prendendo respiri lenti e cauti, leggeri, nel timore che un
movimento troppo brusco gli facesse perdere l’equilibrio. La
tentazione di dare
un’occhiata nel vuoto che si spalancava sotto di lui era
fortissima, ma si
costrinse a dominarsi e a non staccare lo sguardo dal suo obiettivo:
uno
squarcio nella parete, dal lato opposto della finestra. Una volta
Claudia aveva
detto che sembrava che un gigante affamato avesse dato un morso alla
sommità
della torre saracena, staccandone una parte e lasciando quello strano
buco
irregolare. Sua nonna Amelia, invece, sosteneva che quel pezzo fosse
venuto giù
durante un terremoto, molti anni prima che i bambini nascessero. A loro
quella
spiegazione così banale non piaceva per niente e trovavano
molto più convincente
l’idea del gigante.
All’improvviso, una
fitta al polpaccio sinistro, a pochi passi dalla fine. La caviglia si
piegò e
il bambino si sbilanciò verso destra con un sussulto di
sorpresa che gli fece
uscire di colpo tutta l’aria dal petto. Claudia, di sotto,
strillò.
«Gesù, adesso muore!
Che diciamo a sua mamma se muore?!»
«Non muore, non muore»
rispose tranquillamente Enrico.
Fermo sulla trave, il
respiro affannoso, in attesa di riprendere il controllo, Stefano
sentì la
sicurezza nella voce di Enrico che lo raggiungeva e gli entrava dentro
come un
alito di coraggio. Enrico pensava che ce l’avrebbe fatta e
allora era così. Ce l’avrebbe
fatta. Era sempre così. Altrimenti lo
avrebbe deluso e questo era
inaccettabile. La fitta al polpaccio era già passata,
bruscamente come era
arrivata. Mosse un po’ la caviglia, ma il dolore non
tornò. Sembrava tutto a
posto. Era stato solo un crampo. Poggiò di nuovo il peso
sulla gamba sinistra,
con delicatezza, e di nuovo non accadde nulla. Stefano
sospirò di sollievo,
fece un passo avanti e un altro ancora e quando toccò con i
piedi il pezzo di
pavimento sopravvissuto fece un salto e lanciò un grido
liberatorio. Sotto di
lui, anche Enrico e Claudia urlavano di gioia e saltavano su e
giù.
«Ce l’ha fatta! Ce l’ha
fatta davvero!» esclamò Enrico.
«Torniamo fuori!»
Si lanciò attraverso la
porta malconcia con Claudia alle calcagna.
Non era ancora finita.
Stefano abbassò gli occhi e vide il suo piccolo pubblico
arrivare di corsa
sotto la torre. Gli fece un inchino e in risposta gli altri due
batterono le
mani entusiasti e lanciarono ovazioni. Poi iniziò a scendere
da una scala a
pioli di corda con i gradini fatti di pezzi di legno, agganciata a una
sporgenza della pietra. In alcuni punti la corda era sdrucita come se
qualcuno
avesse cercato di strapparla, magari lo stesso gigante che aveva
mangiato un
pezzo della torre per merenda, e alcuni pezzi di legno che formavano i
gradini
mancavano, costringendo chi saliva o scendeva a fare un salto di
parecchi
centimetri. I tre bambini, però, avevano fatto su e
giù su quella scala
infinite volte, quando andavano a giocare alla torre, e aveva sempre
retto
benissimo. Avrebbe retto anche questa volta.
Stefano mise il piede
sul gradino che segnava la metà della discesa e di colpo il
pezzo di legno si
spezzò, probabilmente troppo marcio per sostenere il suo
peso. Il bambino
scivolò verso il basso, mentre la paura gli strattonava con
violenza lo stomaco
e Claudia urlava. Poi sentì un’altra fitta di
dolore al polpaccio, ma non era
un crampo, stavolta. Enrico gridò «Accura[3],
Ste’!» con voce carica di
angoscia, poi la corda che Stefano stringeva nella mano sudata e
irritata si
strappò, incapace di reggerlo, dal momento che lui non
poteva poggiare i piedi
da nessuna parte per distribuire il peso. Tutto accadde così
in fretta che
quasi non ebbe il tempo di rendersene conto. Stefano
precipitò, mentre Claudia
strillava come da molto lontano, e una frazione di secondo
più tardi toccava
terra con un colpo secco.
Un lampo di dolore lo
attraversò da capo a piedi e per un tempo indefinito fu
incapace di vedere,
ascoltare, ragionare o perfino respirare. C’era solo dolore.
Le orecchie
ronzavano fortissimo, la testa pulsava come se qualcuno la colpisse
regolarmente con una pietra, la nausea gli squassava lo stomaco. Poi
riuscì a
prendere aria e gli sembrò di tornare lentamente alla vita.
Aprì gli occhi e si
ritrovò a fissare il cielo azzurro e sgombro. Il dolore si
era trasformato in
un rimbombo sordo e la nausea arrivava a ondate, mentre il ronzio nelle
orecchie scemava pian piano, ma era del tutto privo di forze. Braccia e
gambe
erano come tubi abbandonati, vuoti e inservibili. C’era
qualcuno accanto a lui.
Piano, cercò di girare la testa: Enrico e Claudia erano in
ginocchio nell’erba
e lo guardavano con due identiche espressioni terrorizzate. Gli rivolse
un
sorriso ammaccato, per fargli capire che non era poi così
grave. Claudia, che
aveva le mani a coppa sulla bocca, le abbassò e
spalancò gli occhi.
«È vivo!»
«Certo che è vivo!
Minchia, Stefano!» sbottò Enrico, la voce che
grondava sollievo.
Claudia sollevò tre
dita e le mostrò a Stefano. «Quante sono
queste?» domandò, serissima.
Stefano le fissò per un
momento. «Trentatré.» Gli
sfuggì una risata soffocata, ma il dolore aumentò
e
smise subito.
Enrico alzò gli occhi
al cielo. «Vai a prendergli la borraccia» disse a
Claudia. Lei scattò in piedi
e corse via, scomparendo dietro la torre. Stefano la seguì
con gli occhi finché
poté mentre l’altro continuava a parlare.
«Ti fa male qualcosa? Riesci a metterti
seduto?»
«Penso di sì.»
Sostenuto dall’amico,
si tirò su con cautela e si guardò. Era in
pessime condizioni: la maglietta era
sporca di terra e aveva uno strappo sul bordo, le braccia e le gambe
erano
graffiate e piene di macchie nere e sul polpaccio destro
c’era una scia di sangue.
Doveva essersi ferito mentre scivolava contro la parete della torre.
Claudia
tornò, trafelata, brandendo la borraccia bianca e nera che
Stefano attaccava
sempre alla bicicletta. Enrico la stappò, fece mandare
giù qualche sorso a
Stefano, poi usò un po’ d’acqua per
lavare il sangue dalla ferita. Si chinò per
esaminarla.
«Non sembra profonda,
però bisogna disinfettarla. Meglio tornare.»
Enrico lanciò un’occhiata alla
torre che incombeva su di loro. La scala di corda penzolava tristemente
lungo
il muro, ormai inservibile. Deglutì, poi abbassò
la testa.
Mentre lo aiutava ad
alzarsi in piedi, Stefano cercò di incontrare il suo
sguardo, ma l’amico teneva
il proprio ben fisso a terra. Lo aveva fatto arrabbiare. Aveva
esagerato, come
sempre, aveva voluto fare troppo e per colpa sua lui e Claudia non
potevano
fare la prova. Non aveva problemi a camminare, anche se la testa gli
girava un
po’ e la ferita bruciava. Adesso che lo shock per la caduta e
il dolore stavano
passando lentamente, si sentiva di nuovo elettrizzato, come se fosse
sul punto
di ricominciare la prova da capo.
Enrico strappò un lembo
di stoffa dalla sua maglietta a strisce e la legò sopra la
ferita, per bloccare
il sangue. «Ce la fai?» indagò.
Continuava a tenere l’amico per un braccio,
come se temesse di vederlo cadere da un momento all’altro, ma
ancora non lo
guardava.
Stefano annuì e si
staccò da lui. Si avviarono piano verso le biciclette
buttate nell’erba
dall’altro lato della torre. Claudia camminava strascicando i
piedi, facendo
più rumore del necessario. Enrico montò per primo
sulla sua bici nera, nuova e
scintillante come un gioiello accanto a quella vecchia e malridotta di
Stefano
o a quella polverosa di Claudia, con la vernice rosa e verde scrostata.
Stefano
lo vide lanciare un’ultima occhiata verso la torre dai
contorni quasi sfocati
nell’aria incandescente, sotto la luce del sole. Aveva
un’espressione incerta,
preoccupata, come se la torre gli lanciasse una sfida silenziosa che
lui
esitava a cogliere. Nel boschetto di ulivi si alzò il verso
di un picchio.
Enrico abbassò lo sguardo e lo puntò su Claudia,
che stava salendo sulla bici.
«Che c’è?» domandò
la
bambina quando si accorse che lui la fissava.
Enrico si riscosse, ma
non rispose. Fece girare la bicicletta con uno scatto e
iniziò la discesa che
li avrebbe portati giù dalla collina. Stefano si era mosso
appena un secondo
prima di lui, distrattamente, e si rese conto all’improvviso
che stava andando
per primo, come faceva sempre, ma in discesa era difficile fermarsi. Per
una
volta non fa niente, pensò, e continuò
a pedalare. Sentiva su di sé lo
sguardo di Enrico che gli perforava la schiena.