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Autore: Cathy Holland    23/01/2024    0 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
A causa di un problema tecnico, l'aggiornamento della storia è sospeso fino a martedì 21 maggio, poi riprenderà regolarmente.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PARTE PRIMA

SICILIA, ISOLA DI SANTO STEFANO

AGOSTO 1988

 
 

CAPITOLO 1

IL MONDO SEGRETO

 

Stefano spalancò le braccia e si lasciò cadere all’indietro senza esitazione, piombando di schiena tra gli alti steli di grano pronto per essere raccolto.
«Mi annoio» annunciò.
«Andiamo a fare il bagno» propose Claudia, alla sua sinistra. Era molto vicina a lui e il bambino riusciva a vederla anche se era immerso nel grano. Seduta con le ginocchia piegate davanti a sé, giocava a intrecciare steli di grano, fiorellini di campo e fili d’erba secchi e gialli che aveva raccolto quella mattina, mentre bighellonavano nei campi senza meta. Si gettò oltre le spalle una delle due treccine castano dorato che le era scivolata davanti e la infastidiva.
Stefano emise un verso di disappunto. «Lo abbiamo fatto ieri» mugugnò.
«A me piace. Facciamone un altro» ribatté la bambina, ostinata. La sua voce, però, era dolce come il miele spalmato sul pane, la mattina a colazione, e Stefano, nel suo nascondiglio in mezzo al grano, sentì le sue labbra incurvarsi in un piccolo sorriso.
«Anch’io voglio fare un altro bagno. Fa caldo» intervenne pigramente Enrico. Sedeva un po’ in disparte con le braccia tese all’indietro, a metà strada tra gli altri due bambini e le biciclette che avevano gettato nel campo dopo aver pedalato per un’ora sotto il sole cocente, esausti e accaldati. Stefano non poteva vederlo, ma era certo che mentre parlava avesse lanciato un’occhiata rapida a Claudia. Poteva indovinare cosa faceva Enrico in ogni momento, a occhi chiusi.
Per un po’ nessuno parlò. C’era un silenzio quasi assoluto. Non tirava un alito di vento, la risacca del mare sembrava arrivare da molto lontano e le cicale frinivano stancamente, senza entusiasmo, come spossate dal caldo. Il sole era una palla di fuoco alta e incandescente nel cielo di un azzurro limpido e chiaro. Una grossa ape si avvicinò a Stefano e svolazzò sul suo viso, ronzando. Lui la osservò per qualche istante, poi soffiò con forza e la guardò sussultare e allontanarsi, ondeggiando, forse in cerca di qualcosa di più interessante. Gli parve che fossero completamente soli sulla Terra. Soltanto loro tre e un giorno infinito d’estate. Fece un sorriso enorme.
«Io ho un’idea più bella» disse, infrangendo la quiete.
«Che idea?» Indagò Claudia con cautela. Sbirciò verso di lui con espressione dubbiosa. Gli altri due bambini avevano imparato da tempo che spesso le idee di Stefano significavano una cosa sola: guai. E divertimento, risate, caos, avventure e scoperte, ma soprattutto un mucchio di guai.
Stefano si tirò su a sedere di scatto e i suoi occhi di un azzurro intenso e splendente, che irradiavano una luce vivace sul viso sottile, incrociarono quelli color nocciola della bambina. «Facciamo un gioco. Anzi, no… una prova di coraggio.»
Quelle parole caddero nel silenzio come pietre sulla superficie immobile di uno stagno. L’atmosfera cambiò, attraversata da un lampo di energia. Stefano amava quella sensazione che avvertiva sempre quando una delle sue idee lo colpiva all’improvviso, un formicolio sulla pelle, un senso di attesa e di eccitazione che faceva vibrare l’aria, e sapeva che anche i suoi due amici la amavano. Solo che ci mettevano sempre un po’ a ricordarselo.
«Una prova di coraggio?» ripeté Claudia, fissandolo a occhi sgranati. Quella era una novità assoluta. Fino ad allora avevano fatto giochi di ogni tipo, scherzi, esplorazioni e perfino una caccia al tesoro, quasi tutte idee nate dalla fertile mente di Stefano, ma una prova di coraggio mai.
«E come facciamo?» chiese Enrico, la fronte aggrottata. Lanciò un’altra occhiata in direzione di Claudia, poi tornò a concentrarsi su Stefano. Aveva gli occhi azzurri, come il suo amico. Era un po’ più alto e slanciato, aveva capelli castani, la carnagione pallida e lineamenti delicati che sembravano tracciati in punta di matita. Stefano era mingherlino e aveva capelli scuri e la pelle sempre leggermente abbronzata. Quando Enrico lo guardava, a Stefano sembrava sempre che quegli occhi non si limitassero a incrociare i suoi, ma li agganciassero, come se il contatto visivo facesse vibrare qualcosa che correva tra loro. Forse era perché si conoscevano dalla nascita, eppure anche Claudia faceva parte del loro gruppetto da quando aveva iniziato a camminare, ma con lei non succedeva.
«Le femmine non fanno le prove di coraggio» aggiunse Enrico dopo un breve silenzio.
Claudia gli gettò un’occhiata di fuoco. «Sì che le fanno! E le vincono pure!»
Il bambino la fissò, poi arrossì e abbassò gli occhi, come pentito di quello che aveva detto.
«Tu non la fai, la prova» intervenne Stefano. «La facciamo io e lui.» Fece un cenno con il capo verso l’amico.
Claudia si gonfiò come un palloncino, le labbra serrate e gli occhi stretti per la rabbia. «E io?!» strillò, indignata. Stefano intuì che era meglio spiegare tutto subito, prima che lei si infuriasse sul serio e se ne andasse. Ogni tanto succedeva, durante un litigio, e se in un primo momento Enrico e Stefano dichiaravano con solennità di stare benissimo anche loro due soli e di non avere alcun bisogno delle bambine, dopo un po’ erano sempre costretti a constatare, pur senza ammetterlo ad alta voce, che stare senza Claudia era come andarsene in giro senza una gamba. Così cercavano il modo di riavvicinarla, coinvolgendola in un gioco oppure offrendole qualcosa di buono da mangiare. Una volta avevano messo insieme i loro risparmi e per farsi perdonare le avevano comprato un album di figurine che desiderava. Lei metteva il broncio e li ignorava, ma non resisteva a lungo. Alla fine scoppiava a ridere e tornava di corsa da loro e tutto era di nuovo come prima.
«Tu sei il premio: dai un bacio al vincitore» disse Stefano con un sorriso sghembo sul viso.
Claudia rimase interdetta, mentre Enrico, vicino a lei, spalancava la bocca per lo stupore. «Scemo sei? ‘Nu vasu[1] Aveva un’aria vagamente disgustata, come se lui le avesse proposto di mangiare del fango.
Stefano annuì, sicuro. «Sì. Uno vero. Sulla bocca.» Era da un po’ che ci pensava e adesso che si era presentata l’occasione non se la sarebbe fatta sfuggire. A lui non sfuggiva mai niente.
«Bleah!» commentò Claudia. Scosse la testa. «Ma che premio è?»
«È una cosa da grandi» rispose Stefano con aria di superiorità. Guardò Enrico. «Allora? Ci stai?»
Enrico era arrossito fino alla punta dei capelli sentendo parlare di baci. Trasalì. «Che prova vuoi fare?»
«Andiamo alla torre» rispose Stefano, evasivo. Non ci aveva ancora pensato nel dettaglio, in realtà. Avrebbe avuto un’idea più precisa quando fosse stato lì.
Enrico guardò Claudia. Lei aveva ancora gli occhi sgranati e una buffa espressione a metà fra l’incredulo e il disgusto, ma sembrava meno ostile di prima all’idea. «Tu ci stai?» balbettò.
Lei lo fissò per un attimo, poi fece di sì con la testa. «Ci sto. Però la prova la voglio fare anche io.»
«E se vinci qual è il premio?»
«Non vince» intervenne Stefano, il tono spavaldo e canzonatorio. Claudia gli fece una linguaccia, ma quando incrociò il suo sguardo capì che non lo pensava davvero. La stava sfidando. La cosa le piacque.
«Se vinco io, chi si prende il bacio lo decido io.»
Enrico aprì la bocca per dire qualcosa, ma non ne ebbe il tempo. Stefano era già scattato in piedi e stava spazzando via con la mano uno stelo di grano rimasto attaccato alla t-shirt di un rosso sbiadito.
«Prendiamo le biciclette.»

 

****

 

Pedalare sotto il sole di mezzogiorno in una torrida mattina di agosto era come pedalare sott’acqua. La strada che portava alla torre saracena dell’isola era un viottolo di campagna: partiva da una crepa nel muricciolo che fiancheggiava la litoranea, in un tratto di campagna abbandonata e adorna solo di cespugli spogli, erba secca, arbusti scheletrici e qualche fiore di campo coraggioso, che però piegava in fretta la testa sotto il sole implacabile. Dopo qualche minuto il viottolo iniziava a salire e da lì la pedalata si faceva davvero faticosa, ostacolata da buche e grosse pietre. Una volta Claudia ne aveva presa una con la ruota anteriore della bici, mentre scendevano a gran velocità, e aveva fatto un capitombolo memorabile. Era un miracolo che ne fosse uscita solo con le ginocchia sbucciate, un bernoccolo sulla fronte e uno scossone alla dignità.
Mentre si avvicinavano alla meta, ansimanti e accaldati, il sole sembrava incendiare l’aria sempre di più e il caldo rendeva difficile respirare. Stefano sentiva bruciare i muscoli delle gambe, la gola secca come il deserto, il sudore che scorreva in rivoli fastidiosi lungo la schiena e gli faceva il solletico. Pedalavano in fila indiana, uno dietro l’altro, come sempre: Enrico davanti, Stefano in mezzo e per ultima Claudia, che arrancava sempre un po’ per via delle gambe più corte e della bici più piccola. In realtà Stefano era quasi alla pari con Enrico e avrebbe potuto superarlo senza difficoltà. Aveva 9 anni appena compiuti, quasi due in meno dell’amico che ne avrebbe fatti 11 a settembre, ed era magro e sottile, ma anche forte e veloce, molto più di quanto sembrasse a prima vista. A volte, durante le loro eterne scorribande per l’isola in bicicletta, con la pioggia e con il sole, con il freddo e con il caldo, Stefano superava Enrico distrattamente, senza rendersene conto, ma subito rallentava o si fermava e si girava a guardarlo con un’aria seria e limpida che diceva senza parole: «Io ti aspetto».
D’altronde era giusto che fosse così, secondo lui. Enrico era il più grande, dato che Claudia aveva 8 anni e ne avrebbe compiuti 9 solo a novembre, e per una sorta di tacito accordo tra loro era sempre stato il capo della loro piccola banda. A conti fatti, era quasi sempre Stefano a prendere le iniziative, a organizzare i giochi e le escursioni, a mettere tutti e tre nei pasticci e poi a tirarli fuori, a decidere quando era ora della merenda e quando invece era il momento di un tuffo in mare. Prendeva il comando in modo spontaneo, naturale, quasi inconsapevole, come quando oltrepassava Enrico pedalando. Poi, all’improvviso, se ne accorgeva. Lanciava un’occhiata guardinga all’amico, preoccupato di avergli sottratto ancora una volta il ruolo che avrebbe dovuto essere suo e faceva un passo indietro. Enrico, però, non se la prendeva mai. Solo quando giocavano a casa, il baglio[2] dei Falconeri di proprietà del padre di Enrico, e vedeva Stefano assumere la guida del gruppo, si rabbuiava. Quando erano fuori, invece, nella campagna, in spiaggia, nei campi di grano, alla torre o per le strade di Portosalvo, l’unico centro abitato dell’isola, sempre loro tre insieme, isolati dagli altri bambini, Enrico sorrideva e seguiva Stefano con entusiasmo e gli occhi che brillavano. Erano una squadra e Stefano aveva sempre pensato che in fondo quella faccenda del capo non fosse poi così importante. La nonna di Claudia, Amelia, li osservava pedalare insieme, uno dietro l’altro come gli anelli di una catena, bisbigliare qualcosa e poi scoppiare a ridere o chiamarsi a gran voce tra loro, e diceva che sembrava che nascondessero chissà quale grande segreto. Un mondo segreto, tutto loro, inaccessibile a chiunque altro.
Finalmente la torre apparve sulla sommità di una scogliera a picco sul mare. Era una struttura diroccata a pianta circolare, affondata tra ginestre, agavi e cespugli di gramigna, imponente e solitaria. La vecchia Amelia aveva raccontato ai bambini che era stata costruita tantissimo tempo prima per sorvegliare l’arrivo di pericolosi predoni dal mare e questo scatenava la fantasia di Stefano più di qualsiasi altra cosa. Era il suo posto preferito di tutta l’isola. Il muro era solcato da ciuffi d’erba e squarci simili a cicatrici nei punti in cui le vecchie pietre grigie, disposte in modo irregolare, quasi ammassate semplicemente l’una sull’altra, erano cadute, ammucchiandosi ai piedi della torre. Tre gradini di pietra spezzati conducevano a una porta di legno marcio scardinata, appoggiata a chiudere l’ingresso alla torre e ornata da un grosso lucchetto penzolante, tutto arrugginito e ormai inutile. Sulla sinistra, quasi a ridosso della torre, sorgeva un boschetto di ulivi immerso nella penombra e nel frinire delle cicale: il posto ideale dove rinfrescarsi e fare merenda dopo aver giocato per ore sotto il sole.
Stefano saltò giù per primo dalla bicicletta rossa, malconcia e arrugginita quanto il vecchio lucchetto della torre, la gettò tra le erbacce e fece più volte il giro della torre, studiandola e riflettendo intensamente. Enrico e Claudia, dopo essere scesi dalle bici, se ne stavano fermi, vicini, e lo seguivano con gli occhi. Alla fine Stefano si fermò e li guardò con un sorriso di trionfo che andava da orecchio a orecchio.
«Ecco che cosa facciamo.»

 

****

 

Stefano era sempre quello che si lanciava per primo e quel giorno non faceva eccezione.
«Tu sei pazzo» aveva sentenziato Enrico dopo che lui aveva finito di spiegare la prova agli altri due.
Claudia aveva annuito con decisione. «Tra tutte quelle che hai pensato, questa è la più…»
«La verità è che ve la state facendo sotto» aveva esclamato Stefano allegramente. «Vado io per primo e vi faccio vedere.»
Così adesso si trovava ai piedi di un grosso ulivo ritorto, sul lato della torre che dava verso il mare, i grossi rami in basso così curvi verso il terreno da far pensare a sottili fuscelli piegati dal vento. Gli altri due bambini erano a pochi passi di distanza e lo osservavano in religioso silenzio. Stefano osservò i rami bassi dell’albero, poi, con cautela, mise il piede destro su quello che gli sembrava il più grosso e il più resistente, si attaccò con le mani a un ramo più in alto e si tirò su. Attese un istante, raccogliendo la concentrazione, e ripeté il passaggio una seconda volta, poi una terza. Salì fino a metà del tronco senza difficoltà, poi si trovò su un ramo più sottile degli altri che ondeggiò paurosamente sotto il suo peso. Il bambino si bloccò e serrò la presa intorno al ramo a cui si teneva con le mani sottili. A terra sentì che Claudia ed Enrico trattenevano rumorosamente il fiato. Pian piano il ramo smise di ondeggiare e, quando si sentì di nuovo sicuro, Stefano fece forza sul piede per sollevarsi di nuovo.
Quando arrivò a un punto in cui nessun appoggio gli sembrava convincente, infilò il piede in una rientranza del tronco, pregando che non ne spuntasse fuori nessun animale per aggredirlo. Ebbe fortuna, come spesso accadeva. Non successe nulla e lui poté issarsi quel tanto che bastava per raggiungere un ramo grosso e lungo sul quale si fermò a riprendere fiato dopo aver scostato le foglie che gli sfioravano le guance. Il cuore gli batteva forte, un rombo cupo e martellante nelle orecchie, ma sentiva di avere il controllo. Amava quella sensazione.
Non aveva raggiunto la cima dell’ulivo, anche se mancava poco, ma non era quello l’obiettivo. Davanti a lui, sulla sinistra, c’era la finestra della torre: era più simile a una feritoia nella pietra, priva di vetri e chiusure di alcun genere. Prese fiato, gli occhi fissi sull’apertura nel muro, ignorando le goccioline di sudore che gli scivolavano sulla fronte, e iniziò ad avanzare sul ramo con grande lentezza, un passo alla volta, le mani saldamente agganciate al ramo superiore, come un circense impegnato in un gioco di abilità. Per controllare dove metteva i piedi era costretto a guardare in basso e la distanza di almeno quattro metri che lo separava da terra gli fece girare un po’ la testa, ma solo per un secondo. Le altezze non gli davano fastidio, anzi, lo elettrizzavano. Un passo dopo l’altro, un piede avanti all’altro, raggiunse la fine del ramo. La finestra si trovava un po’ più in alto, per cui dovette staccare una mano dal ramo a cui si aggrappava e appoggiarla con attenzione al bordo di pietra intorno all’apertura. Quando si sentì abbastanza sicuro, staccò anche l’altra mano. Si slanciò, trattenendo il fiato, e salì sul bordo. Alle sue spalle, il ramo che gli era servito da ponta ondeggiava lievemente.
Non appena ebbe i piedi ben saldi sulla pietra, si lasciò scappare un sorriso di trionfo. Da sotto arrivavano le grida di entusiasmo di Enrico e Claudia, ma l’impresa non era ancora neppure a metà. Tenendosi con attenzione al bordo dell’apertura, esaminò la situazione. La finestra era stretta e se Stefano fosse stato appena più robusto avrebbe avuto difficoltà a passarci. Un tempo la torre aveva avuto un primo piano, oltre al pianoterra, poi il pavimento era crollato, chissà come, chissà quando. Ne restava solo un pezzo, uno spuntone di pietra dai bordi irregolari che sporgeva di una cinquantina di centimetri. Tra la finestra e il pezzo di pavimento sopravvissuto, il vuoto era colmato solo da alcune assi di legno che qualcuno doveva aver sistemato per poter passare da una parte all’altra. Erano fissate da grossi chiodi arrugginiti, erano palesemente molto vecchie e poco stabili. Dagli spazi tra le assi si scorgeva il pianoterra, cui si accedeva dalla porta con il lucchetto. Era un ambiente circolare pieno di un’accozzaglia di oggetti vecchi e abbandonati, proprio come la torre stessa: mucchi di pietre, pezzi di legno, una sedia sfondata, due assi mezze marce tenute insieme da una corda e dei chiodi che sembravano quel che restava di un tavolo, reti da pesca rotte, una pentola priva di uno dei due manici, una ruota di bicicletta sgonfia, una pila di cassette simili a quelle usate per trasportare la frutta, un secchio di un azzurro sbiadito, una lamiera incrostata di ruggine e perfino un grammofono che cadeva a pezzi. Da terra partiva una rozza scala di pietre che sembravano quasi gettate alla rinfusa l’una sull’altra formando gradini alti e scoscesi.
Stefano lanciò un’occhiata verso l’alto, tenendosi saldamente al muro: una copertura di fortuna composta di assi di legno chiudeva il tetto della torre. Dal basso arrivò un improvviso trambusto e lui guardò di nuovo giù: Enrico e Claudia avevano spalancato la porta di legno con gran fracasso e si erano precipitati dentro, il respiro affannoso, gli occhi che puntavano verso l’altro, cercandolo. Per poco Claudia non inciampò nel secchio azzurro.
Stefano fece un respiro profondo. Doveva restare concentrato. La parte più tosta era proprio quella che stava arrivando. Studiò con calma il percorso da seguire: un’asse di legno, larga non più di una quarantina di centimetri, che gli sembrava meno marcia e più resistente delle altre. Allargò le braccia e immaginò di essere un uccello sul punto di spiccare il volo, lasciare la terra, quella piccola isola, e salire su, su, su, sempre più in alto, sempre più lontano, Santo Stefano sotto di lui che si riduceva a un puntino quasi invisibile nel mare, verso chissà quali posti lontani e nuovi e straordinari.
Fece un passo avanti sulla trave, poi un altro. Attese qualche istante, mentre il legno ondeggiava e scricchiolava sotto il suo peso. Qualcuno in basso, Enrico o Claudia, cacciò un verso di paura, ma non accadde nulla. Allora andò avanti, piano, ma senza esitazioni, prendendo respiri lenti e cauti, leggeri, nel timore che un movimento troppo brusco gli facesse perdere l’equilibrio. La tentazione di dare un’occhiata nel vuoto che si spalancava sotto di lui era fortissima, ma si costrinse a dominarsi e a non staccare lo sguardo dal suo obiettivo: uno squarcio nella parete, dal lato opposto della finestra. Una volta Claudia aveva detto che sembrava che un gigante affamato avesse dato un morso alla sommità della torre saracena, staccandone una parte e lasciando quello strano buco irregolare. Sua nonna Amelia, invece, sosteneva che quel pezzo fosse venuto giù durante un terremoto, molti anni prima che i bambini nascessero. A loro quella spiegazione così banale non piaceva per niente e trovavano molto più convincente l’idea del gigante.
All’improvviso, una fitta al polpaccio sinistro, a pochi passi dalla fine. La caviglia si piegò e il bambino si sbilanciò verso destra con un sussulto di sorpresa che gli fece uscire di colpo tutta l’aria dal petto. Claudia, di sotto, strillò.
«Gesù, adesso muore! Che diciamo a sua mamma se muore?!»
«Non muore, non muore» rispose tranquillamente Enrico.
Fermo sulla trave, il respiro affannoso, in attesa di riprendere il controllo, Stefano sentì la sicurezza nella voce di Enrico che lo raggiungeva e gli entrava dentro come un alito di coraggio. Enrico pensava che ce l’avrebbe fatta e allora era così. Ce l’avrebbe fatta. Era sempre così. Altrimenti lo avrebbe deluso e questo era inaccettabile. La fitta al polpaccio era già passata, bruscamente come era arrivata. Mosse un po’ la caviglia, ma il dolore non tornò. Sembrava tutto a posto. Era stato solo un crampo. Poggiò di nuovo il peso sulla gamba sinistra, con delicatezza, e di nuovo non accadde nulla. Stefano sospirò di sollievo, fece un passo avanti e un altro ancora e quando toccò con i piedi il pezzo di pavimento sopravvissuto fece un salto e lanciò un grido liberatorio. Sotto di lui, anche Enrico e Claudia urlavano di gioia e saltavano su e giù.
«Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta davvero!» esclamò Enrico. «Torniamo fuori!»
Si lanciò attraverso la porta malconcia con Claudia alle calcagna.
Non era ancora finita. Stefano abbassò gli occhi e vide il suo piccolo pubblico arrivare di corsa sotto la torre. Gli fece un inchino e in risposta gli altri due batterono le mani entusiasti e lanciarono ovazioni. Poi iniziò a scendere da una scala a pioli di corda con i gradini fatti di pezzi di legno, agganciata a una sporgenza della pietra. In alcuni punti la corda era sdrucita come se qualcuno avesse cercato di strapparla, magari lo stesso gigante che aveva mangiato un pezzo della torre per merenda, e alcuni pezzi di legno che formavano i gradini mancavano, costringendo chi saliva o scendeva a fare un salto di parecchi centimetri. I tre bambini, però, avevano fatto su e giù su quella scala infinite volte, quando andavano a giocare alla torre, e aveva sempre retto benissimo. Avrebbe retto anche questa volta.
Stefano mise il piede sul gradino che segnava la metà della discesa e di colpo il pezzo di legno si spezzò, probabilmente troppo marcio per sostenere il suo peso. Il bambino scivolò verso il basso, mentre la paura gli strattonava con violenza lo stomaco e Claudia urlava. Poi sentì un’altra fitta di dolore al polpaccio, ma non era un crampo, stavolta. Enrico gridò «Accura[3], Ste’!» con voce carica di angoscia, poi la corda che Stefano stringeva nella mano sudata e irritata si strappò, incapace di reggerlo, dal momento che lui non poteva poggiare i piedi da nessuna parte per distribuire il peso. Tutto accadde così in fretta che quasi non ebbe il tempo di rendersene conto. Stefano precipitò, mentre Claudia strillava come da molto lontano, e una frazione di secondo più tardi toccava terra con un colpo secco.
Un lampo di dolore lo attraversò da capo a piedi e per un tempo indefinito fu incapace di vedere, ascoltare, ragionare o perfino respirare. C’era solo dolore. Le orecchie ronzavano fortissimo, la testa pulsava come se qualcuno la colpisse regolarmente con una pietra, la nausea gli squassava lo stomaco. Poi riuscì a prendere aria e gli sembrò di tornare lentamente alla vita.
Aprì gli occhi e si ritrovò a fissare il cielo azzurro e sgombro. Il dolore si era trasformato in un rimbombo sordo e la nausea arrivava a ondate, mentre il ronzio nelle orecchie scemava pian piano, ma era del tutto privo di forze. Braccia e gambe erano come tubi abbandonati, vuoti e inservibili. C’era qualcuno accanto a lui. Piano, cercò di girare la testa: Enrico e Claudia erano in ginocchio nell’erba e lo guardavano con due identiche espressioni terrorizzate. Gli rivolse un sorriso ammaccato, per fargli capire che non era poi così grave. Claudia, che aveva le mani a coppa sulla bocca, le abbassò e spalancò gli occhi.
«È vivo!»
«Certo che è vivo! Minchia, Stefano!» sbottò Enrico, la voce che grondava sollievo.
Claudia sollevò tre dita e le mostrò a Stefano. «Quante sono queste?» domandò, serissima.
Stefano le fissò per un momento. «Trentatré.» Gli sfuggì una risata soffocata, ma il dolore aumentò e smise subito.
Enrico alzò gli occhi al cielo. «Vai a prendergli la borraccia» disse a Claudia. Lei scattò in piedi e corse via, scomparendo dietro la torre. Stefano la seguì con gli occhi finché poté mentre l’altro continuava a parlare. «Ti fa male qualcosa? Riesci a metterti seduto?»
«Penso di sì.»
Sostenuto dall’amico, si tirò su con cautela e si guardò. Era in pessime condizioni: la maglietta era sporca di terra e aveva uno strappo sul bordo, le braccia e le gambe erano graffiate e piene di macchie nere e sul polpaccio destro c’era una scia di sangue. Doveva essersi ferito mentre scivolava contro la parete della torre. Claudia tornò, trafelata, brandendo la borraccia bianca e nera che Stefano attaccava sempre alla bicicletta. Enrico la stappò, fece mandare giù qualche sorso a Stefano, poi usò un po’ d’acqua per lavare il sangue dalla ferita. Si chinò per esaminarla.
«Non sembra profonda, però bisogna disinfettarla. Meglio tornare.» Enrico lanciò un’occhiata alla torre che incombeva su di loro. La scala di corda penzolava tristemente lungo il muro, ormai inservibile. Deglutì, poi abbassò la testa.
Mentre lo aiutava ad alzarsi in piedi, Stefano cercò di incontrare il suo sguardo, ma l’amico teneva il proprio ben fisso a terra. Lo aveva fatto arrabbiare. Aveva esagerato, come sempre, aveva voluto fare troppo e per colpa sua lui e Claudia non potevano fare la prova. Non aveva problemi a camminare, anche se la testa gli girava un po’ e la ferita bruciava. Adesso che lo shock per la caduta e il dolore stavano passando lentamente, si sentiva di nuovo elettrizzato, come se fosse sul punto di ricominciare la prova da capo.
Enrico strappò un lembo di stoffa dalla sua maglietta a strisce e la legò sopra la ferita, per bloccare il sangue. «Ce la fai?» indagò. Continuava a tenere l’amico per un braccio, come se temesse di vederlo cadere da un momento all’altro, ma ancora non lo guardava.
Stefano annuì e si staccò da lui. Si avviarono piano verso le biciclette buttate nell’erba dall’altro lato della torre. Claudia camminava strascicando i piedi, facendo più rumore del necessario. Enrico montò per primo sulla sua bici nera, nuova e scintillante come un gioiello accanto a quella vecchia e malridotta di Stefano o a quella polverosa di Claudia, con la vernice rosa e verde scrostata. Stefano lo vide lanciare un’ultima occhiata verso la torre dai contorni quasi sfocati nell’aria incandescente, sotto la luce del sole. Aveva un’espressione incerta, preoccupata, come se la torre gli lanciasse una sfida silenziosa che lui esitava a cogliere. Nel boschetto di ulivi si alzò il verso di un picchio. Enrico abbassò lo sguardo e lo puntò su Claudia, che stava salendo sulla bici.
«Che c’è?» domandò la bambina quando si accorse che lui la fissava.
Enrico si riscosse, ma non rispose. Fece girare la bicicletta con uno scatto e iniziò la discesa che li avrebbe portati giù dalla collina. Stefano si era mosso appena un secondo prima di lui, distrattamente, e si rese conto all’improvviso che stava andando per primo, come faceva sempre, ma in discesa era difficile fermarsi. Per una volta non fa niente, pensò, e continuò a pedalare. Sentiva su di sé lo sguardo di Enrico che gli perforava la schiena.



[1] Un bacio? 

[2] In Sicilia, una sorta di masseria fortificata risalente al periodo feudale.

[3] Attento!

   
 
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