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Autore: Cathy Holland    16/01/2024    0 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PROLOGO

 

Milano
Maggio 2015 

Stefano mandò giù un sorso di caffè dal bicchierino di plastica monouso, mentre seguiva con lo sguardo i numeri luminosi che indicavano il piano, sul display nella parete, a mano a mano che l’ascensore saliva. A destra e a sinistra le pareti erano di un vetro immacolato, tanto che avrebbe potuto usarle come uno specchio e darsi una controllata, se non fosse già stato certo di non averne bisogno. Alle sue spalle, una terza parete trasparente mostrava il parcheggio alberato ai piedi dell’edificio, in basso, gli altri due grattacieli che lo affiancavano e sullo sfondo Milano, avvolta in una lieve, morbida foschia.
A Stefano, però, il panorama interessava poco, innanzitutto perché lavorava in quel grattacielo da due anni e ormai la vista aveva smesso di stupirlo, ma anche perché tendeva a evitare le distrazioni. La sua mente girava in continuazione, simile a una di quelle ruote per i porcellini d’India, come diceva a volte sua moglie per prenderlo in giro. Aveva delineato una scaletta precisa della giornata già quella mattina presto, durante il footing al parco, come ogni giorno alle sei. In verità, nel suo lavoro non sempre scorreva tutto liscio e regolare. Anzi, quasi mai. Gli imprevisti si verificavano praticamente ogni giorno e fare programmi era molto difficile, ma Stefano calcolava anche quelli e raramente lo coglievano di sorpresa. Se non ne fosse stato capace, dopotutto, non avrebbe mai lavorato in quel grattacielo.
L’ascensore iniziò a rallentare piano e si fermò con un morbido strattone. Stefano si sistemò meglio sulla spalla lo zainetto nero di Armani e abbassò per un attimo lo sguardo sui gemelli d’argento smaltati d’azzurro. Erano abbinati alla camicia azzurro chiaro e davano un tocco di luce al completo blu scuro che indossava. Si udì un suono lieve, poi una fredda voce femminile annunciò: «Settantacinquesimo piano». La porta automatica dell’ascensore si aprì, scivolando dolcemente e silenziosamente, su uno spazio già occupato da diverse persone in attesa. Sebbene fossero appena le otto del mattino, lì dentro erano già tutti in piena attività. Sulla destra c’era un altro ascensore.
La maggior parte degli uomini e delle donne, tutti in completo elegante, salutò Stefano con cordialità, qualcuno con un semplice «Ciao, Stefano», altri con un più formale «Buongiorno, dottor Ruggero» o un cenno del capo. Lui rispose a tutti con un sorriso e batté con la mano sulla spalla di un collega mentre fendeva la piccola folla con passo sicuro e rapido. Passò accanto a una signora sulla quarantina in tailleur pantalone verde scuro che nel vederselo davanti spalancò gli occhi, poi sollevò una mano per sistemarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e si girò un po’, cercando di seguirlo con lo sguardo senza attirare l’attenzione. Stefano se ne accorse a malapena.
Attraversò il pianerottolo, dalle pareti trasparenti come quelle dell’ascensore e il pavimento di marmo candido, e imboccò il corridoio di fronte a sé. Sbucò in un vasto open space affollato di persone che parlavano e camminavano rapidamente, invaso da un chiacchiericcio simile a un rombo costante, dal suono di telefoni che squillavano e dal ronzio di stampanti in funzione. Lo spazio era suddiviso in cubicoli dalle pareti di plexiglass, ciascuno dotato di una scrivania e di un computer, che a Stefano facevano sempre venire in mente le cellette di un alveare fremente di attività. In un angolo due donne e un uomo discutevano con voce sommessa, passandosi una cartellina con dei documenti pieni di numeri. Poco più avanti un uomo sbraitava contro qualcuno nelle cuffie wireless e senza interrompere la tirata fece un gesto di saluto verso Stefano che gli passava accanto.
Al di là dell’open space, un enorme tavolo ovale accoglieva venti postazioni computer, ciascuna occupata da un impiegato con grosse cuffie sulla testa e un’espressione assorta e concentrata. Televisori ultrapiatti fissati alle pareti trasmettevano senza interruzione notiziari economici o mostravano l’andamento delle Borse e ogni tanto, in mezzo ai telefoni che squillavano e ai discorsi che si intrecciavano, un’esclamazione si levava più netta al di sopra del brusio, quasi subito coperta da un’altra.
«Vendiamo subito!»
«Le azioni stanno salendo!»
«Siamo a – 0,2!»
La sala dava su corridoi e uffici, scanditi dalle solite pareti trasparenti al di là delle quali si scorgevano stanze arredate in modo elegante ed essenziale e altre persone indaffarate e ben vestite. La quarta parete, a sinistra, era interamente di vetro e affacciava sull’esterno, offrendo una vista magnifica della città e del cielo azzurro. Stefano avanzava con passo spedito, distribuendo cenni di saluto e sorrisi e ringraziando mentalmente l’aria condizionata. Per essere maggio faceva un caldo infernale e lui non lo sopportava.
«Dottor Ruggero, le azioni della Power Corporation stanno salendo!» esclamò un ragazzo biondo in giacca e cravatta di non più di 25 o 26 anni, in stato di visibile agitazione, appena lo vide avvicinarsi. Era seduto a una delle postazioni al centro del lungo tavolo e quando Stefano gli passò accanto si sollevò a metà, fin quasi ad alzarsi, come se avesse voluto afferrarlo e trattenerlo. Poi le cuffie che indossava, attaccate al computer, lo strattonarono di nuovo giù e lui ricadde sulla sedia.
«Carlo, ti ho scritto un’ e-mail… tre minuti fa, mentre salivo dal parcheggio» rispose Stefano, dopo aver lanciato una breve occhiata allo smartwatch che aveva al polso. «Non hai ancora controllato?»
Il ragazzo lo guardò a bocca aperta per un attimo. Era un neoassunto ed era stato appena colto in fallo e Stefano sapeva bene quanto lui cosa poteva significare in un posto come la sede italiana della Prescott Investment Bank, uno degli istituti bancari anglo-americani più importanti del mondo. Bevve l’ultimo sorso di caffè rimasto nel monouso, studiando il ragazzo con una leggera curiosità e un mezzo sorriso a stento trattenuto.
«S-sì, dotto Ruggero… Certo… Controllo subito… Mi scusi, dottore» balbettò Carlo subito prima di gettarsi sulla tastiera del computer e digitare furiosamente qualcosa.
Stefano gli diede una pacca sulla spalla. «Non preoccuparti.»
Mentre si allontanava colse una parolaccia a mezza voce dalla postazione di Carlo e il suo sorriso si allargò. Superò il tavolo ovale e svoltò a destra. Entrò in un ambiente decisamente più tranquillo, una stanza circolare occupata da una grande scrivania di vetro e acciaio sulla sinistra, un divanetto di pelle nera a due posti sulla destra e una pianta dall’aspetto ben curato in un angolo. Il plexiglass, però, era ovunque e gli dava una visuale perfetta dell’agitazione frenetica che regnava dall’altra parte. “L’acquario”. Così una volta aveva sentito definire quel posto da una stagista burlona e non aveva potuto fare a meno di convenire con lei.
Una giovane donna mora era seduta dietro la scrivania, ma all’arrivo di Stefano si alzò. Sulla giacca del completo beige che indossava una targhetta recitava “Sara Landi, Back Office”.
«Buongiorno, dottore» esclamò con un tono squillante e un gran sorriso.
Stefano le rivolse un cenno con la testa. «Buongiorno, Sara. Tutto bene il week-end?»
«Bene, dottore, spero anche il suo. Com’era Il lago dei cigni
Stefano fece un mezzo sorriso mentre tirava fuori il tablet dalla tasca e gettava uno sguardo al display. Non era sorpreso che la segretaria se ne ricordasse: era stata lei a prenotare per suo conto tre biglietti alla Scala, in platea, mesi prima.
«Troppo lungo, ma era uno dei regali di compleanno per mia figlia. Ci teneva molto» disse semplicemente, come se questo sistemasse la questione. «E poi le fa bene distrarsi in questo periodo, è già in ansia per il saggio di fine anno.»
«Ma mancano ancora un paio di settimane, se ricordo bene.»
«Sì, ma sai com’è fatta. Quei dati che ti avevo chiesto sono già pronti? Devo capire cosa sta succedendo alla Power Corporation e cosa ci conviene fare» continuò, senza smettere di guardare il tablet. Si sentiva addosso lo sguardo fisso di Sara e sapeva che stava facendo un sorriso che lui conosceva bene, quasi un invito muto e al tempo stesso una vaga presa in giro, perché lui non lo coglieva mai, quell’invito. Era stato così fin dal primo giorno di lavoro di Sara e fin dal primo giorno Stefano le aveva fatto capire, senza parole, di non essere interessato. E quando lei iniziava a guardarlo in quel modo trovava più semplice ignorarla. Nulla avrebbe mai interferito con il suo lavoro o il suo matrimonio.
La ragazza gli passò una cartellina. «Ho stampato tutto, così può prendere appunti velocemente, se vuole» rispose in tono compunto. «Sono arrivate due telefonate stamattina, una da Parigi e una da Bruxelles. Le ricordo anche che alle 9.15 ha un appuntamento telefonico con il CEO della casa madre di Londra per aggiornarlo sulla riunione di venerdì.»
«Richiama Bruxelles, per favore, e passamela tra cinque minuti. Parigi ce la sbrighiamo dopo la Power Corporation.»
«Va bene, dottore.»
Sara tornò alla scrivania. La sua voce era scivolata verso una leggera afflizione e mentre Stefano raggiungeva la porta bianca del suo ufficio, su cui campeggiava la targhetta “Dott. Stefano Ruggero, Trading manager”, gli parve di sentire un sospiro.
Si richiuse la porta alle spalle e sbuffò. L’ufficio era deliziosamente fresco, grazie al cielo. L’aria condizionata veniva accesa prima che arrivasse, anche se l’impianto di ultima generazione era silenzioso e non si percepiva neppure il più lieve ronzio. Gettò lo zainetto monospalla sul divano di pelle a destra e attraversò la stanza, percorrendo il pavimento di un bianco abbagliante. Sedette alla scrivania di vetro e acciaio, poggiò il monouso del caffè sul ripiano immacolato e controllò lo smartphone. Rispose in fretta al messaggio di un collega che gli chiedeva di vedersi a pranzo, mentre ascoltava distrattamente il telefono suonare nella stanza accanto e poi la voce cortese e distaccata di Sara che rispondeva. Lasciò lo smartphone, aprì la cartellina che gli aveva consegnato la segretaria e aveva letto solo le prime colonne di una tabella piena di cifre quando il cordless alla sua sinistra iniziò a squillare.
«Bruxelles» bofonchiò, allungando la mano per afferrarlo. A volte aveva qualche dubbio sulla professionalità di Sara, ma non poteva negare che nel suo lavoro fosse precisa ed efficiente come pochi altri. «Ci sono» disse, subito dopo aver portato il cordless all’orecchio.
«Mi scusi, dottore, ma non ho ancora richiamato Bruxelles. È appena arrivata un’altra telefonata.»
«Non sarà ancora Massimo? Mi ha passato materiale vecchio sugli olandesi e si aspetta che tessa le sue lodi con il CEO per questo.»
«No, è un certo dottor Enrico Falconeri. Dice che lei sa chi è e che sicuramente avrebbe voluto essere informato subito della telefonata. Cosa faccio, gliela passo?»
Stefano si era immobilizzato. Aveva la sensazione che il suo cervello, che di solito andava sempre a mille, si fosse svuotato all’improvviso, come un palloncino schiacciato di botto tra due mani. Lo sguardo gli cadde su due fotografie in cornici d’argento di fronte a lui, sulla scrivania. La prima era in bianco e nero: Stefano indossava un completo elegante e abbracciava una giovane donna con un lungo abito e un bouquet di fiori tra le mani. Nella foto il vestito di lei poteva sembrare bianco, ma Stefano sapeva che era di un delicato color champagne. Nell’altra, a colori, una ragazzina era seduta sul parapetto di un canale, a Venezia: aveva i capelli scuri scarmigliati dal vento, gli occhi azzurri e un sorriso allegro, più simile all’inizio di una risata. Era l’autunno precedente. Stefano aveva fatto una battuta subito prima di scattare la foto e lei era stata colta nel momento in cui stava per scoppiare a ridere. Era la foto che lui amava più di qualsiasi altra. L’espressione felice sul viso minuto della ragazza lo faceva sentire bene, sicuro, forte, tutte le volte che la guardava.
«Dottor Ruggero? Le passo la telefonata?»
La voce perplessa della segretaria lo richiamò alla realtà. Si rese conto che stava trattenendo il fiato e che stringeva il cordless nella mano con tanta forza da sentire dolore alle dita. Gli girava la testa. Inspirò bruscamente e allentò la presa sul telefono. Mentre l’aria gli riempiva i polmoni, si sentì meglio. Ce la poteva fare. Lanciò un’occhiata verso la scrivania di Sara, al di là della parete trasparente dello studio: sedeva con le gambe accavallate e lo osservava con le sopracciglia folte incarcate.
«Sì. Va bene, passamela.» Stefano si raddrizzò sulla poltrona girevole di morbida pelle nera e si passò la mano libera sulla cravatta, come per sistemarla, anche se era perfettamente a posto. «Bruxelles slitta tra dieci minuti. Non credo che sarà necessario più tempo.»
«Ok. È sulla uno» rispose semplicemente Sara. Aveva ancora un tono curioso, ma non fece domande.
«Grazie.»
Stefano abbassò il cordless ed esitò, il dito sospeso sul numero 1 della tastiera. Quell’istante si dilatò all’infinito, come un elastico, mentre il martellare del suo cuore gli rimbombava cupo nelle orecchie. I secondi scivolavano via in fretta uno dopo l’altro, come i granelli di sabbia in una clessidra.

Smettila, si disse con rabbia. Non essere codardo. Non sei più un ragazzino. Affrontalo.
Premette il tasto di colpo e riportò il telefono all’orecchio.
«Sì?» La sua voce suonò fredda e distaccata. Ne fu sollevato.
Dall’altra parte ci fu un silenzio lunghissimo o almeno così gli parve, al punto che Stefano pensò – sperò, forse – che nessuno avrebbe risposto.
«Stefano. Quanto tempo.» La voce di Enrico lo raggiunse all’improvviso, come lo schiocco di una frusta.
Stefano fece un sorriso amaro, avvertendo una punta di familiare tristezza. Si appoggiò all’indietro contro lo schienale della poltrona e afferrò una penna stilografica blu con la mano sinistra. Aveva bisogno di stringere qualcosa, in quel momento. «Sei proprio tu. Credevo fosse uno scherzo o qualcosa del genere.»
«Spiacente di deluderti.»
«Dovremmo esserci abituati, io e te, a deluderci a vicenda.»
Enrico rimase zitto per alcuni secondi. «Hai ancora un pessimo senso dell’umorismo» disse, con voca calma, ma tagliente.
Stefano alzò le spalle. «Che vuoi farci? Gli anni passano, i difetti restano… Io sono un caso disperato. Spero che a te vada meglio» rispose, ironico.
«Veniamo al punto, Stefano. Ti ho chiamato per un motivo preciso: Edoardo sta male. Già da qualche anno il suo problema al cuore si è aggravato di nuovo e ha fatto un altro intervento. Due mesi fa gli hanno diagnosticato un cancro al polmone. Ha già metastasi allo stomaco e all’intestino. Il professore che lo segue a Palermo sconsiglia un’operazione. E dice che anche la chemio sarebbe una sofferenza inutile. Abbiamo ascoltato vari specialisti, ma sono tutti più o meno d’accordo. Pare che non ci sia più niente da fare.»
Stefano rimase in silenzio. Si concentrò sull’acquario che occupava quasi tutta la parete sinistra dell’ufficio: piccoli pesci dai colori vivaci nuotavano pigri nell’acqua cristallina che Sara si preoccupava di far pulire scrupolosamente tutte le settimane da un addetto, tra rocce, stelle marine ed alghe fluttuanti. Non sentiva nulla. Provò a scavare a fondo dentro di sé, a scendere più che poteva, in cerca di qualcosa che aveva sepolto tanto tempo prima. Nulla.
«Stefano? Ci sei ancora?»
«Perché me lo stai dicendo?» chiese Stefano per tutta risposta. «È lui che ti ha chiesto di chiamare, vero? Cosa si aspetta da me stavolta?» Non riuscì a trattenere una smorfia simile a un sorriso carico di amarezza. «Anche questo non è cambiato.»
Dall’altra parte arrivò un’ondata di gelo. «Sei il solito stronzo. Non ci parliamo da quindici anni, ti chiamo per dirti che Edoardo sta morendo e tu mi rispondi con queste minchiate.»
«Cosa vuoi che ti dica? Non è davvero mio padre, non lo è mai stato e tu lo sai. Mi dispiace, ma… cosa ti aspetti… Cosa…» Stefano si interruppe. Non riusciva a parlare. Una rabbia sorda gli riempiva lo stomaco, un fiotto caldo e bruciante e saliva a bloccare la gola, ma non era con Enrico che ce l’aveva. Era furioso con se stesso, perché dopo così tanto tempo, dopo tutto quello che era successo, Enrico ed Edoardo riuscivano ancora a fargli questo. A strizzargli il cuore in una morsa di rabbia, amarezza e rimpianto. Non se ne sarebbe mai liberato? Respirò profondamente e si prese qualche secondo per recuperare il controllo. «Non posso fare niente per lui. Mi dispiace, davvero, ma non so cosa dirti. Volevi che lo sapessi? Ok, adesso lo so: Edoardo sta per morire. Informazione ricevuta. Grazie di avermi avvisato.» Aggiunse, non senza lasciar trapelare una leggera ironia. Un’altra breve pausa, un altro respiro profondo. «Se è tutto, ho una telefonata importante che mi aspetta.»
«Vuole vederla» aggiunse Enrico, quasi prima che Stefano terminasse di parlare. «Vuole vedere Vittoria.»
Fu un pugno allo stomaco, forte e micidiale. La rabbia bollente che gli si contorceva nello stomaco si raffreddò di colpo, trasformandosi in ghiaccio paralizzante. Un’ondata di gelida angoscia gli serrò la gola e la mano che rigirava la penna tra le dita si bloccò. Questo cambiava tutto.
«Che cazzo c’entra Vittoria?»
«Vuole conoscerla. È un suo diritto, in fondo» rispose l’altro lentamente, quasi seccato per essere costretto a spiegare qualcosa di ovvio.
«Lei non ha niente a che fare né con lui né con te» risposte Stefano a denti stretti. Quella sensazione di freddo panico era sempre più intensa, gli chiudeva la gola, lo soffocava.
«Ne sei sicuro?» chiese Enrico a bassa voce. Stefano ebbe l’impressione di sentirlo sorridere. «Vittoria è una Falconeri. Puoi anche far finta che non sia così, se lo preferisci, ma il sangue non si cambia.»
«Sei l’ultima persona al mondo che può darmi lezioni su questo.»
«Lo so» rispose Enrico, con un tono basso e carico di tristezza che per un istante strinse dolorosamente il petto di Stefano. I sentimenti di Enrico gli risuonavano dentro, come se fossero i suoi. Come se fossero ancora una cosa sola. «Ma Edoardo sta morendo. Gli avrei detto di no, se avessi potuto, non ti avrei mai chiamato. Non ho dimenticato il nostro accordo, ma sta morendo».
«Ti rendi conto che parli della persona che ha rovinato la tua vita, vero?»
Ci fu una pausa. Poi Enrico riprese a parlare con estrema calma, scandendo lentamente le parole. «Non si tratta di lui, di me… o di te. Anche Vittoria ha il diritto di conoscerlo. Non puoi negarglielo, Stefano, non puoi. Proprio tu, che sai cosa significa essere senza radici.»
Era un colpo basso, accuratamente studiato per ferire, e se Stefano fosse stato più giovane o meno forte o se avesse avuto una vita diversa, se non fosse stato seduto nel suo ufficio elegante in quel momento, ai posti di comando, se non avesse avuto quelle fotografie davanti a sé, forse lo avrebbe spezzato. Invece sentì soltanto un dolore sordo, come una vecchia ferita mal rimarginata che urta contro uno spigolo, ma quasi non se ne accorse. Era completamente preso dal pensiero di cosa fare per impedire che accadesse quello che voleva Edoardo.
«Anche tu sei sempre il solito stronzo» disse alla fine, gelido. Si mosse sulla sedia e fece una pausa, cercando di prendere tempo, di riflettere. «Claudia non dirà mai di sì. È inutile.»
«Claudia» mormorò Enrico, pensieroso. Sospirò. «Non mi hai detto niente di lei. Come sta?»
Stefano strinse convulsamente la stilografica tra le dita. «Nemmeno Claudia ti riguarda. Non più.»
Si aspettava un insulto e invece dall’altra parte ci fu un silenzio così lungo da fargli credere che Enrico avesse riagganciato. Poi sentì un respiro pesante. «Quanta ostilità, Stefano. Non è stato sempre così. Te lo ricordi?»
La sua voce non era più dura, tagliente, provocatoria, suonava solo profondamente triste. Stefano gettò la penna sulla scrivania si passò la mano sul viso chiudendo le palpebre. Di colpo avvertiva un’enorme stanchezza, come se avesse sostenuto una lotta corpo a corpo. E si sentiva uno stupido. Dopotutto, aveva sempre saputo, dentro di sé, che il passato sarebbe tornato, che si era solo illuso di essersene liberato per sempre, che avrebbe dovuto farci i conti. Tutto ciò che sperava era che toccasse soltanto a lui, che nessun altro ne fosse sfiorato. Quella era l’unica cosa che avesse il potere di spezzarlo davvero. Non poteva permettere che accadesse, non doveva accadere. Non per se stesso, ma per lei. Lasciò ricadere la mano e aprì gli occhi. La prima cosa che vide fu la foto della ragazza bruna, sorridente e felice, ma questa volta, a differenza di tutte le altre, guardarla non lo fece sentire affatto meglio. Un’ondata di angoscia gli avvolse il cuore.
«Sì» mormorò. «Sì, me lo ricordo.»

SPAZIO AUTRICE 
Ciao a tutte e tutti, grazie di essere arrivati fino a qui! 
Il mondo segreto è la prima storia originale che ho scritto. Prima mi ero cimentata solo con qualche fanfiction. Ho sempre amato scrivere, per me è praticamente un bisogno fisiologico, e ho iniziato a buttare giù questa storia molti anni fa. Poi l'ho lasciata per un po' di tempo, l'ho ripresa e riscritta quasi da capo. Quando ho pubblicato il prologo ero emozionatissima. 
Il mondo segreto si svolge in più luoghi e su piani temporali diversi. Si compone di sei parti, più un prologo e un epilogo, e all'inizio di ogni parte e di ogni capitolo inserirò sempre i luoghi e l'arco temporale in cui si svolgono gli eventi, per maggiore chiarezza.
Non è certo una storia perfetta, anzi, ma ci ho messo tutta me stessa. Sarei molto felice se oltre a leggerla e (spero) ad apprezzarla vorreste lasciarmi un commento, anche breve, per farmi sapere cosa ne pensate. Accetto con piacere anche le critiche e i suggerimenti, perché ho una gran voglia di migliorare e solo il vostro feedback può darmi una mano. 
Grazie e buona lettura!

   
 
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