Storie originali > Horror
Segui la storia  |       
Autore: Orso Scrive    24/01/2024    4 recensioni
Noi siamo gli H.UL, Hunters of Unusual. Andiamo a caccia di insolito. Se amate il brivido, seguiteci nelle nostre avventure! E, mi raccomando, iscrivetevi al canale e attivate la campanellina degli avvisi per restare sempre aggiornati e non perdervi nessuna novità!
--
Una parodia in chiave horror dei numerosi canali di "ghost hunting" che spopolano su YouTube (almeno, la mia pagina principale ne è piena). Nota: i personaggi di questa storia sono apparsi in precedenza in altre mie storie, ma non è necessario averle lette.
Genere: Mistero, Parodia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

IV.

Sabato

 

Sabato mattina, nel quartier generale del Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale

 

«E quindi, Manfredi, si ritenga un miracolato se mi limito a segnalarla per inadempienze! Meriterebbe che la spedissi a dirigere il traffico in centro a Napoli, come minimo! Le avevo dato un incarico ben preciso e avevo garantito a mio nome che il preziosissimo Cavatappi del Nebbiolo di Vittorio Emanuele II sarebbe stato al sicuro! Invece, non solo lei ha abbandonato l’appostamento, contravvenendo a tutti gli ordini ricevuti e permettendo così il furto, ma non ha nemmeno risposto al telefono quando è stata avvisato dal custode del Museo! Se solo avesse risposto, avrebbe potuto intervenire in modo tempestivo e fermare i ladri prima che si defilassero! Che cosa devo fare io, con lei, Manfredi?! Che cosa?! Me lo dica lei, per pietà, perché io non lo so più!»

Il colonnello Iannaccone aveva fatto quella tirata stando seduto dietro la scrivania. Aveva parlato tutto di fila, senza mai riprendere fiato, sputacchiando da tutte le parti. Era diventato rosso come un sole al tramonto. Sembrava prossimo a conflagrare dall’interno.

Non è colpa mia, se non ho risposto, pensò Alberto. Abbiamo guardato quel video e la batteria del telefono si è scaricata completamente.

Qualcosa, nel profondo del suo cuore, gli suggerì che fosse più saggio e prudente rimanere in silenzio.

«Non dice nulla?!» abbaiò Iannaccone. Sollevò il braccio in modo plateale, indicando la porta. «E allora, fuori di qui! Fuori! Subito! Non voglio rivederla mai più, Manfredi! E lunedì mattina veda di presentarsi in orario, in caserma!»

«Agli ordini, signor colonnello!», replicò Alberto.

Poi, prima che Iannaccone ci ripensasse e lo bloccasse per fargli un altro cazziatone, o per dirgli che aveva deciso di trasferirlo a fare la guardia all’Ambasciata d’Italia in Mali o qualcosa di simile, si affrettò a imboccare la porta e a defilarsi.

Aurora lo aspettava fuori nel corridoio, appoggiata al muro con le braccia conserte sotto il seno e l’aria indolente di chi non abbia nessun pensiero al mondo.

«Ah, sei qui», borbottò Alberto, offeso. «Hai visto che bello? Tu mi hai obbligato ad abbandonare l’appostamento per andare a cercare quel cavolo di distributore di sigarette, e io mi sono dovuto beccare la solita tirata. E ora vedrai che mi decurteranno le spese per il rimborso di quello stramaledetto cavatappi da quella miseria che chiamano stipendio.»

La donna dai capelli rossi fece una delle sue irresistibili smorfiette.

«Manfredino, questa è una lezione di vita», disse, con aria innocente. «Tu devi imparare a non ascoltarmi e a importi. Sei o non sei il tenente, mentre io sono il sotto? E, allora, impara a sfruttarlo, quel sotto mancante.»

Alberto fu sul punto di commentare qualcosa.

Preferì non farlo.

Tanto, in qualsiasi modo la giri e la rigiri, alla fine l’ha sempre vinta lei.

«Mi offri almeno un caffè?» sbottò.

«Non si dica che la tua amica Aurora ti rifiuta un caffettino, tenente», replicò lei.

Scesero di un paio di piani, in silenzio. Alberto aveva le mani in tasca e continuava a bofonchiare tra di sé.

«Oh, quante storie, per una tirata d’orecchi», fece lei.

Allungò la mano e gli scompigliò i capelli.

«Ahio, stai ferma, con quelle brutte manacce», borbottò lui. «Che poi, parli parli, ma poi le tirate d’orecchio, chissà perché, me le becco sempre io…»

Aurora fece un ampio sorriso.

«Hai voluto farti promuovere, in modo da prendere più soldi in busta paga? Adesso, pagane le conseguenze…»

Finse di tastarsi nelle tasche dei jeans e del giubbotto di pelle.

«Oh, a proposito di pagare, non è che puoi anticipare tu gli spicci con cui ti offro il caffè? Non ne ho portati con me. Poi, appena li ho, te li restituisco…»

«Tegna che non sei altro, sei peggio di quel tirchio scassaballe di Iannaccone», commentò Alberto.

Si guardò attorno, per essere certo che il colonnello non fosse per caso a portata d’orecchi. Per fortuna, non si era mosso dal suo ufficio. Alberto riteneva che, avido com’era, ne uscisse il meno possibile per non consumare la suola delle scarpe.

Vecchio caprone tirchioso rompicoglioni.

A malincuore, mise mano alla tasca del giubbotto dove teneva le monetine e ne prese alcune. Controllò il prezzo sul display della macchinetta.

«Cazzo, cinquanta centesimi per un caffè, ma siamo impazziti?! Questo è un furto…! Cioè, cinquanta centesimi per un po’ d’acqua calda e di polverina nera!»

«E poi hai il coraggio di dare degli avari agli altri, Manfredino», fece Aurora. «Ma, si sa, la prima gallina che canta ha fatto l’uovo.»

Dopo aver preso i due bicchierini di plastica con i caffè fumanti, andarono a posizionarsi vicino alla finestra. Guardarono il cortile sottostante, con l’andirivieni degli agenti e dei passanti. Le auto passavano in successione, una dopo l’altra, sulla strada poco più in là. Aurora, ignorando in modo plateale il cartello “vietato fumare” appeso alla parete, prese dalla tasca il pacchetto delle sigarette e se ne accese una.

Caffè, finestra, sguardo nel vuoto, voglia di vivere pari a zero, una ragazza accanto e l’odore del tabacco nelle narici. Per un momento, Manfredi ebbe la sensazione di essere tornato studente.

Magari… che bello che era, quando potevi vivere fregandotene del mondo intero, tanto il futuro non esisteva.

Aurora, con la sigaretta stretta tra le labbra e il caffè nella mano sinistra, prese dalla tasca posteriore dei jeans il suo telefono.

«Hai visto?» disse. «È uscito il nuovo video degli H.UL. Conclude quello che abbiamo guardato mercoledì, credo. Vabbe’ che ci siamo persi la prima e la terza parte, ma almeno vediamo come va a finire, no?»

Alberto le si appoggiò contro la spalla.

«Vediamo, dai», brontolò. «Almeno non penso a tutto il resto.»

Aurora schiacciò PLAY.

 

* * *

 

Sabato pomeriggio, tra le viuzze di un piccolo paesetto sperduto chissà dove

 

Tolgo le mani di tasca, per il tempo necessario a spingermi di nuovo in su gli occhiali che mi sono scivolati lungo il naso. Le rimetto dov’erano fino a un momento fa.

Non è che faccia freddo, a dire il vero. Anzi, diciamo pure che fa caldo. Sembra già di essere in primavera. Tra un po’, il detto “non ci sono più le mezze stagioni” sarà vecchio e superato. A breve varrà soltanto “non ci sono più le stagioni”. Si passerà dall’estate all’estate, con un giusto un breve periodo – sempre più breve – di fresco nel mezzo.

E andremo avanti così fino a quando il pianeta, stufo di sopportarci, si darà una scrollata e ci butterà giù tutti. La Terra se la caverà e andrà avanti, come sempre ha fatto nel corso degli cinque miliardi di anni o giù di lì. Ne ha passate di peggio, di molto peggio. Più che altro, mi domando se abbia un senso, pensare a quando noi non ci saremo più. Se nessuno potrà rendersene conto, esisterà ancora qualcosa?

Be’, forse, se è vero che noi siamo anime immortali che abitano in corpi mortali, continueremo a renderci conto di ogni cosa e a vedere tutto. Solo, lo faremo in modi del tutto nuovi, diversi, per adesso ancora inimmaginabili. Magari, smetteremo di essere umani e diventeremo… che ne so io, di che cosa diventeremo.

Ma poi, esiste davvero l’anima immortale, o è solo una fantasia? Un modo per aggrapparsi alla vita, per esorcizzare la paura di una morte inevitabile, conclusiva e totalizzante? A volte, me lo pongo, questo dilemma. Sono un ateo incorreggibile, d’altra parte. Ateo e anarchico, non dimentichiamolo mai. E la risposta è sempre diversa. Varia a seconda dei giorni. Dipende anche da come sono io, in quel momento, se tendo all’ottimismo o al pessimismo… e, soprattutto, dipende da quanto Vecchio Jack è rimasto nella bottiglia.

Svolto in una viuzza. Dietro un cancello, un enorme cane nero comincia ad abbaiare e a fare salti nel tentativo di uscire in strada e sbranarmi. È una cosa che si ripete ogni giorno, tutte le volte che passo di qui. E, come ogni giorno, mi fa sobbalzare e ha il potere di strapparmi al solito cumulo di pensieri anticlimatici e privi di un inizio e di una fine che mi accompagnano ovunque vada, qualunque cosa faccia.

Pensare troppo è un problema, sapete? Soprattutto, se siete dei tipi piuttosto solitari come lo sono io. Per questo avverto sempre la necessità di mettermi lì a scrivere. È il mio modo di raccogliere i pensieri e di indirizzarli verso qualcosa di fisico, di concreto.

Mi fermo a guardare il cane. Lui, percependo la mia presenza, abbaia ancora più forte e compie salti che potrebbero valergli almeno una medaglia d’argento. Per fortuna non è ancora arrivato a vincere l’oro. Quando accadrà, dovrò sperare che le gambe non mi tradiscano, altrimenti saranno cazzi.

«Lo sai che queste velleità omicide non servono a nulla?» borbotto.

La replica è un abbaiare feroce, condito da latrati e ringhi che non promettono nulla di buono. Sono certo di avergli visto una specie di sogghigno sul muso. Ho anche tradotto dal canese all’italiano le sue parole: «Dici così solo perché sono chiuso qui dentro. Potessi uscire, non diresti una parola.»

Riprendo la mia passeggiata.

Ormai conosco queste stradicciole così bene che potrei quasi percorrerle a occhi chiusi. Passo davanti alla finestra dove, fino a qualche anno fa, una tizia si metteva in posa e faceva vedere le tette a tutti quelli che camminavano qui davanti. Io, per inciso, ci passavo almeno dieci volte al giorno. Poi, un giorno, una sua vicina di casa – una vecchia bisbetica, brutta, antipatica e perbenista – la denunciò per atti osceni. Da quel momento, basta tette. Che vita grama.

Mi fermo per un momento davanti a un grande portone. Sollevo gli occhi, alla finestre con le ante chiuse. Qui abitavano il professor Bernasconi e Sophia. Mi ero preso una bella sbandata, per quella donna. Purtroppo, se n’è andata, chissà dove. A volte, quando passo di qui, spero di vedere quelle ante aperte, e la luce accesa dietro i vetri. Una speranza che non ho abbandonato. E, quando succederà, prenderò il coraggio a due mani, metterò da parte la mia eterna timidezza e suonerò il campanello.

«Eh, vecchio Orso, ti fai troppi film mentali», brontolo.

Vabbe’, per oggi penso di aver camminato abbastanza. Sento le idee prorompere dal cervello. Sembrano un fiume in piena. Meglio approfittarne e andarmene a casa a scrivere. Voglio concludere al più presto la storia del killer delle belle infermiere, così poi passo all’altra, quella dello scrittore assassino. Magari, lo scrittore avrà un gatto. Potrei chiamarlo Miagolino, perché no?

Sono arrivato.

La porta di casa si chiude dietro di me. Il mio gatto comincia a strusciarmisi contro le caviglie. Qualcuno potrebbe pensare che sia il suo modo per darmi il bentornato, di esprimere la felicità nel rivedermi. In realtà, lo fa soltanto perché pretende di ricevere la pappa. Come se lo affamassi, poi.

Assolto il compito di dare da mangiare alla bestia – che, come sempre, si lancia sul cibo perdendo qualsiasi interesse nei miei confronti – mi lascio cadere sulla mia poltrona, davanti allo schermo del computer. Mando via le bolle.

YouTube è rimasto aperto. Vedo subito che, i tizi che ho guardato ieri, hanno fatto uscire un nuovo video. Deve essere quello che conclude il precedente.

Mi prende una certa curiosità di sapere come va a finire.

«Vabbe’, anche se si vedeva che era tutto finto, non era poi male», mi dico. «Dai, guardiamo come si conclude.»

Schiaccio PLAY.

 

* * *

 

Sabato sera, tra le strade del centro di una città qualunque

 

Era inverno, eppure sembrava già primavera. L’aria era appena appena fresca, come quando si esce a camminare in una serata d’aprile. Soltanto una folata di vento tagliente, di quando in quando, rotolava giù dalle montagne e andava a sferzare il viso ai due ragazzi, per ricordare che, dopotutto, la natura sa ancora fare il suo corso, nonostante tutto. In ogni caso, il freddo che aveva cominciato a farsi sentire in autunno era sparito chissà dove. In cielo, non si vedeva l’ombra di una nuvola. Se le luci a led dei lampioni non avessero fagocitato il riverbero degli astri, il cosmo avrebbe di certo offerto uno spettacolo incantevole. Un altro sogno impossibile e inutile del giorno d’oggi.

Stretti l’uno all’altra, quasi si sorreggessero a vicenda per non finire risucchiati nel piatto niente del mondo contemporaneo – quel mondo di cui entrambi avevano una discreta dose di paura, e dal quale si sentivano in un certo modo respinti ed evitati – Daniele e Valeria si fermarono all’estremità dell’attraversamento pedonale, sperando invano che qualche automobilista si decidesse a dare loro la precedenza. Ma le auto sfrecciavano l’una dopo l’altra, impazzite. Alcuni automobilisti, temendo di doversi fermare, acceleravano di proposito, per dimostrare a se stessi e agli altri di essere i soli, veri e unici padroni della strada. Qualcuno, addirittura, faceva i fari o suonava il clacson per avvertire di non passare, perché altrimenti li avrebbe investiti.

Valeria stringeva in mano una sporta da cui usciva profumo di kebab. Daniele aveva sottobraccio una bottiglia di lambrusco, che tintinnava ogni volta che la avvicinava ai bottoni del suo cappotto. Durante la settimana tiravano la cinghia, ma almeno al sabato si concedevano qualcosa di diverso dal solito.

Lambrusco e kebab. Il più strano dei connubi. Anche quello, in fondo, era un segno dei mutamenti dei tempi. Il simbolo di un mondo che, man mano che si allargava, si restringeva in se stesso, avvicinando usi e costumi tra loro lontanissimi. Uno dei tanti simboli.

«Sai cosa mi ha detto, il Matteo, quando gli ho accennato al fatto che l’unico vino che mi piaccia sia il lambrusco?» borbottò Daniele, mentre l’ennesima automobile lanciata a folle velocità sfrecciava davanti a loro, nemmeno avessero scelto di attraversare un autodromo. Nel suo tono c’era un’intonazione offesa, come se quel Matteo lo avesse ferito nell’anima.

«Conoscendolo, posso quasi immaginarlo», replicò Valeria, sorridente, «ma dimmelo lo stesso.»

«Mi ha detto, testuali parole: “il lambrusco è un’aberrazione! Vino – rosso – frizzante. Che schifo! Vino rosso con dentro l’acqua gassata, insomma! Un’aberrazione”.» Fece una smorfia. Pareva offeso a morte. «Ma ti pare normale?! Cioè, come cavolo fai, a parlare così del lambrusco?! E poi, è mai possibile che, ogni volta che esprimo una mia preferenza, chiunque debba sentire l’immediata necessità di darmi contro?!»

Valeria sorrise ancora.

«Tu hai ascendenze emiliane, caro mio. Lui no. E si vede.»

La strada, verso entrambi gli orizzonti, in quel momento apparve sgombra da qualsivoglia veicolo. Soltanto un aereo, con le luci rosse e verdi lampeggianti sulle ali, si fece vedere, nel cielo innaturale dei lampioni, ma quello non li interessò affatto. La mano della ragazza si strinse attorno a quella dell’amico e, finalmente, poterono guadagnare la tanto agognata altra parte della carreggiata.

«Alleluia», disse Daniele. «Temevo che ci avrebbero costretti a cenare sul marciapiede, se andava avanti così.»

Valeria ridacchiò.

«Ho talmente fame che, ancora un paio di minuti, e lo avrei fatto davvero.»

Senza lasciarlo andare, lo trascinò in direzione di un bar che si trovava poco lontano. Nonostante fosse sabato sera, era già chiuso – era una zona di periferia davvero poco frequentata. Tuttavia, i tavoli e le panche che si trovavano sotto il plateatico esterno erano lasciati a libera disposizione di chiunque avesse cercato un posto dove riposarsi. Fu lì, che andarono ad accomodarsi i due amici.

Il plateatico era in penombra, illuminato dai lampioni allineati lungo la strada. Anche un distributore di sigarette, accanto alla porta d’ingresso al bar, emanava un flebile chiarore. Ce n’era abbastanza per non mangiare al buio.

Mentre Valeria tirava fuori dalla sporta le scatole di cartone che contenevano i loro kebab – Daniele aveva chiesto quello nella piadina, perché aveva un difficile rapporto con il panino del kebab, che puntualmente gli si rovesciava tutto sul giubbotto, quando provava ad addentarlo – il ragazzo cominciò a trafficare con la bottiglia di lambrusco. A rischio di distruggersi le unghie, riuscì finalmente a sradicare l’involucro di plastica che avvolgeva il tappo di sughero. Poi, spingendo con le dita, riuscì a stapparla.

«Be’, allora, cincin», disse Daniele.

Non avevano pensato di portarsi dei bicchieri. Valeria prese la bottiglia che l’amico le porgeva e se la portò alle labbra, per prenderne un sorso. Poi la restituì a Daniele, che bevve a sua volta. Per uno strano istante, parvero intenti a compiere qualche misterioso rito tribale.

Cominciarono a mangiare in silenzio. Nonostante tutti i suoi sforzi, Daniele riuscì lo stesso a rovesciarsi sul giubbotto metà del contenuto della sua piadina. La salsa gli inzuppò anche i peli della barba corta che aveva sul mento e sulle guance.

«E ti pareva…» bofonchiò, cercando di ripulirsi alla meglio con un fazzolettino di carta.

Valeria, che aveva modi molto più signorili e raffinati, e riusciva a mangiare senza tramutare in una pattumiera il posto dove sedeva, gli lanciò un’occhiata.

«Di birra e di…» cominciò a dire.

«Questa non è birra e non è nemmeno l’altra cosa», si lagnò lui.

La ragazza ridacchiò. Era troppo abituata alle difficoltà che Daniele sapeva manifestare nei confronti della vita, per indispettirsi o schifarsi. Del resto, se non fosse stato per la capacità di entrambi di affrontare davvero la vita, non si sarebbero mai conosciuti, né incontrati. Ma, a ben vedere, dal momento in cui si erano visti la prima volta, avevano affrontato la vita come pochissimi altri potevano dire di aver fatto.

«Sai», disse a un certo punto Valeria, «a volte mi domando se non dovremmo fare anche noi come gli H.UL e andare a caccia di fantasmi.»

Daniele fu scosso da un brivido che minacciò di fargli volare di mano il resto della sua piadina.

«No, grazie», bofonchiò. «E non è perché mi viene male al cuore al solo pensiero di mettermi a parlare davanti a una telecamera.» Scosse il capo. «Non è solo quello, almeno. Una volta mi è bastata. Finché continuiamo a interessarci di queste cose guardando video e leggendo libri, mi sta benissimo. E se capita di imbattersi in qualcosa… be’, siamo pronti, penso. Ma andarmi a cacciare in modo volontario in un altro posto tipo Villa Mayer… no.» Scosse la testa con decisione. «No, proprio no.»

Valeria sorrise. Annuì. Anche se le era rimasta in corpo un’immensa curiosità, pensava davvero di averne avuto abbastanza anche lei. Non credeva che ne valesse la pena. Era meglio lasciarlo fare agli altri, se ci tenevano tanto.

«A proposito», disse.

Prese dalla tasca del cappotto il cellulare e lo mise sul tavolo, appoggiandolo contro la bottiglia del lambrusco. Si collegò a YouTube e controllò gli ultimi aggiornamenti.

«Dovrebbe esserci l’ultima parte del video della Casa nel Bosco», aggiunse.

Il video, infatti, c’era.

Daniele, che aveva finito di spartire la piadina con il suo giubbotto, le si fece più vicino. Girò per un momento lo sguardo verso un tale che si stava avvicinando al distributore di sigarette – e che, al solo vederli, fece dietrofront e si allontanò a passo rapido, nemmeno avesse temuto di essersi appena imbattuto in due serial killer – e tornò a concentrare la sua attenzione sullo schermo del telefono dell’amica.

«Dai», disse. «Vediamo come va a finire.»

Valeria fece un cenno.

Il suo dito premette il tasto PLAY.

 
   
 
Leggi le 4 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Horror / Vai alla pagina dell'autore: Orso Scrive