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Autore: Orso Scrive    26/01/2024    4 recensioni
Noi siamo gli H.UL, Hunters of Unusual. Andiamo a caccia di insolito. Se amate il brivido, seguiteci nelle nostre avventure! E, mi raccomando, iscrivetevi al canale e attivate la campanellina degli avvisi per restare sempre aggiornati e non perdervi nessuna novità!
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Una parodia in chiave horror dei numerosi canali di "ghost hunting" che spopolano su YouTube (almeno, la mia pagina principale ne è piena). Nota: i personaggi di questa storia sono apparsi in precedenza in altre mie storie, ma non è necessario averle lette.
Genere: Mistero, Parodia, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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V.

Un altro lunedì

 

 

Lunedì mattina, nella solita, vecchia casa davanti a un affittacamere vuoto

 

 

“Tiffany sollevò le mani davanti al seno – florido e nudo, pesante ma capace di sfidare la forza di gravità, tanto che le puntava verso la faccia e non sembrava avere una chiara percezione del concetto di andare verso il basso, come se le leggi della gravitazione universale non valessero per quelle tette gigantesche – nel tentativo di parare la coltellata. Inutilmente. La lama si fece largo nel petto dell’infermiera, squarciandolo in modo orribile.

«Nooo! Tiffany!» gridò Maddy, arrivando di corsa.

La sua presenza non era stata contemplata, dal killer delle belle infermiere. Non aveva considerato che, in quella casa, ci fossero due infermiere, anziché una soltanto.

Con il respiro affannato, il killer si rizzò in piedi. Tenne stretto in mano il pugnale, dalla cui lama gocciolò sangue che gli imbrattò le calzature di cuoio lucido e nero. Attraverso le lenti scure degli occhiali che gli ombreggiavano il viso, fissò la nuova venuta.

Maddy era mezza nuda. Indossava soltanto un accappatoio, aperto sul davanti. Sotto, si vedeva tutto.

Lei e l’altra sgualdrina dovevano aver passato la notte insieme! Ma, adesso, avrebbero pagato entrambe!

Il killer mosse un passo verso di lei. Sollevò il coltello, preparandosi a colpire. Maddy, in lacrime, gli occhi fissi al corpo riverso di Tiffany, non sembrò nemmeno vederlo.

In quel momento, accadde l’impensabile.

Tiffany ebbe uno scatto improvviso e afferrò le caviglie del killer. Gli diede un forte strattone, facendogli perdere l’equilibrio. L’uomo cadde in avanti, proprio sopra il suo coltello. La lama gli si conficcò nel cuore. Gli occhiali e il cappello gli scivolarono dalla testa, e Maddy, in quel momento, lo riconobbe.

«Detective Malone!» urlò. «Lei!»

Ma il killer delle belle infermiere non poté risponderle.

Era morto.”

 

«No, no», borbotto. «Non ci siamo.»

Troppo frettolosa, questa soluzione. La tensione si stempera troppo alla svelta, senza un vero e proprio momento in cui il climax aumenti fino a poterlo sentire vibrare tutto attorno come una corrente elettrica. Forse, il coltello non dovrebbe penetrare nel cuore del killer, in modo da non ucciderlo subito. Così, quando Maddy si china su Tiffany per darle l’ultimo bacio, lui si rialza all’improvviso e torna alla carica, e a quel punto Maddy lo uccide in modo definitivo.

Sì, potrebbe essere una soluzione già migliore…

Il problema, nelle mie storie, non è tanto lo svolgimento. Quello, per quello che mi riguarda, va persino troppo per le lunghe. È il finale, che mi frega sempre. Sento di essere arrivato alla fine, e quindi metto il turbo, con tutto quello che ne consegue.

«Non va bene, così, Orsetto mio», mi dico da solo. «Non va bene per niente.»

Come diceva quello, è il viaggio, quello che conta, non la destinazione. Poi vabbe’, dipende anche da dove uno deve andare. Se la destinazione è il supermercato, o lo sportello dell’INPS, viaggio e destinazione uno li passa alla stessa maniera, imprecando contro il mondo intero.

Ma poi, lo so, c’è anche altro.

Scrivere, il lunedì mattina, è sempre un grosso problema. Il lunedì mi ricordo di essere un disoccupato cronico, senza altro scopo nella vita se non quello di continuare a respirare – cioè, a spandere in giro anidride carbonica – fino a quando arriverà il momento di smettere di farlo. E, di lunedì in lunedì, mi accorgo di essere sempre più vicino a quel momento. Ogni tanto, mi trovo persino a pensare alla frase che potrebbe comparire sulla mia lapide. “Mi è passata l’insonnia”, cose così. Oppure “eccesso di melatonina”.

Questo mi fa fare tutto male. Tendo ad avere fretta di finire le cose. E poi, ormai, questa storia del killer delle belle infermiere mi ha stancato, al di là di tutto.

«Oh, se la faranno andare bene così», borbotto, salvando il file e chiudendolo.

Il mio gatto, che tanto per cambiare sta dormendo sulla sedia, agita la coda nel sonno e continua a sognare di riuscire a catturare un topo, una volta o l’altra. Illuso. Ci sono due cose veloci, in natura: la luce e i topi. Ma sulla prima, qualche volta, mi assalgono dei dubbi.

Uno dei tanti dubbi esistenziali che mi accompagnano ovunque vada, qualunque cosa faccia.

Mi alzo e vado alla finestra.

Oggi è una giornata piuttosto grigia, ma non c’è quella nebbia da cui traevo sempre la vera ispirazione. Da lì sì, che venivano fuori delle belle idee. La nebbia è come un manto che racchiude e nasconde tantissime cose: basta smuoverla un po’, e saper afferrare tutto ciò che offre. C’è dentro così tanta roba, nella nebbia, che quasi stentereste a crederlo, se soltanto provassi a raccontarvi tutto quello che ho visto. Come faceva, quella vecchia canzoncina? Cosa c’è, nella nebbia in Val Padana? Ci son cose che a dirle non ci credi. Non ci credi, nemmeno se le vedi. A parte il fatto, che non le vedi…

Ecco.

Per un momento fisso la casa di fronte, dall’altra parte della strada. Ci abitava una vecchia che veniva sempre a lagnarsi della musica troppo alta. Ora è morta. Spero che continui a esserlo ancora per tanto tempo. Ma, casomai dovesse pensare di risorgere, ho già pronto lo stereo con tutti i dischi dei Black Sabbath e le colonne sonore di John Carpenter per tenerla a bada.

«Vieni, vieni pure, vecchio zombie: Orso è qua che ti aspetta al varco», mugugno.

A proposito di zombie e altre schifezze del genere.

È da sabato che non faccio che ripensare a quel dannatissimo video degli H.UL. Ma che cazzo! Sono stati davvero bravi, con gli effetti speciali, glielo riconosco. Sono riusciti a togliere il sonno persino a me, che con mostri, fantasmi e affini ho a che fare almeno tre volte alla settimana. Io sono quello che, per conciliare il sonno, guarda film horror e splatter, per intendersi. Venire turbato da un video scrauso di YouTube era un’esperienza che, ancora, mi mancava all’appello.

«Chissà se hanno già messo il video nuovo», mi dico.

Vederli in un nuovo contesto, di nuovo vivi e incolumi, mi aiuterà a dimenticare l’orrore dell’altro giorno. Perché va bene tutto, ma con quelle scene horror hanno davvero esagerato. Erano davvero realistiche.

Fin troppo.

E che cazzo.

Vado a sedermi di nuovo al computer. Le mille bolle blu danzano ancora una volta di fronte ai miei occhi. Le caccio via. Chissà dove vanno a finire, quando le allontano muovendo il cursore del PC.

Me lo domando sempre.

Non ho ancora trovato una risposta.

Ma, a certe cose, non esiste risposta, no?

Così come non mi spiegherò mai come sia possibile che, la bottiglia di Vecchio Jack che ho aperto giusto ieri sera, sia già vuota per due terzi. Misteri.

Apro il browser e vado su YouTube. Il trattino comincia a lampeggiare nella barra di ricerca. Scrivo H.UL e…

«Ecco, questa sì, che è una sorpresa…»

 

* * *

 

Lunedì pomeriggio, in una caserma dei Carabinieri

 

«Chiami la tua bella, Manfredino?»

Alberto, seduto alla scrivania, abbassò lo smartphone e diede un’occhiata ad Aurora, che entrò con i suoi soliti modi da valchiria nell’ufficio. Tanto per cambiare, parve occupare tutto lo spazio disponibile, facendo rimbombare il pavimento con il suo passo pesante, amplificato dagli anfibi militari che non si levava mai. I suoi capelli rossi parvero mandare bagliori di fuoco, e gli occhi verdi lampeggiarono come smeraldi illuminati dal Sole.

«Non ti hanno insegnato a bussare, quando entri nell’ufficio di un tuo superiore?»

Il sottotenente Bresciani si lasciò cadere di peso sulla sedia davanti al tenente Manfredi.

«Un superiore?» chiese, stupita. Si guardò attorno. «E dov’è?»

Mentre lo diceva, prese dalla tasca il pacchetto delle sigarette. Ne infilò una in bocca e l’accese. Alberto si girò a guardare con ostentazione verso il cartello che indicava il divieto di fumo. Aurora lo ignorò completamente.

«Comunque», borbottò Manfredi, con aria contrariata, «non stavo chiamando nessuno. Stavo solo facendo una ricerca su Internet. Mi tocca usare il mio telefono perché gli aggeggi che ci sono in questo ufficio risalgono al Mesozoico Superiore e sono lenti come la fame. Volevo vedere se, per caso, su qualche sito, è apparso l’annuncio di vendita del cavatappi di Vittorio Emanuele II.»

Aurora scoppiò a ridere. Lo fece tanto forte che cominciò a tossire, spandendo un’enorme nuvola di fumo tutto attorno.

«Razza di ciminiera che non sei altro», bofonchiò Alberto. Agitò la mano, nel vano tentativo di allontanare la cappa grigia che gli aleggiava attorno.

«Scusa, Manfredino», disse lei. «Ma non è colpa mia… mi fai sbellicare! Non dirmi che vuoi rimediare e tornare nelle grazie del colonnello ritrovando il reperto che ti sei fatto soffiare da sotto il naso.»

«Che tu mi hai fatto soffiare», precisò il tenente, con una punta di fastidio nella voce.

«Che pignolo che sei, Manfredino», borbottò Aurora. Si schiarì la gola, infiammata dalla tosse e dal fumo. «E vedi di non ricominciare: ti ho già detto che, quando io dico o faccio qualcosa, è solo per metterti alla prova. Sei tu, che non devi sempre leccare ovunque io appoggi la mia figa d’oro, anche se immagino che la tentazione sia irresistibile.»

Alberto spalancò gli occhi.

Fece per dire qualcosa.

Ci ripensò.

Lasciamo perdere, tanto non serve a nulla.

Giocherellò per qualche istante con il telefono, che aveva appoggiato sulla pila di documenti che teneva sulla scrivania. Poi spostò lo sguardo su Aurora, che stava fumando beata come se non avesse null’altro da fare al mondo.

«Sei venuta per dirmi qualcosa, o solo per fumare?» domandò.

«Vengo sempre nel tuo ufficio per fumare, Manfredino», puntualizzò lei. «Nel mio è vietato farlo.»

Una vena si gonfiò sulla fronte di Alberto. Una stilla di sudore gli solcò la tempia sinistra.

«Veramente, se non te ne sei accorta, sarebbe vietato anche qui dentro!» sbottò.

«Lo so», replicò la donna dai capelli rossi, più seria che mai. «Ma, se qualcuno sentisse puzza di fumo nel mio ufficio, darebbe subito la colpa a me. Qui dentro, invece, il cazziatone te lo becchi solo tu. Per non parlare della multa. Da quello che ho capito, fumare in un luogo pubblico dove è vietato farlo, comporta una sanzione amministrativa dai cinquecento ai cinquemila euro. Dovresti pensarci, Manfredino.»

«Io… tu…»

Alberto avvertì la necessità di bere.

Prese dal ripiano la bottiglietta d’acqua, tolse il tappo e la tracannò in due sorsi.

Non ho parole. Taccio. Un bel tacer non fu mai scritto, come diceva quello. Uno che la sapeva davvero lunga, secondo me.

«Comunque», andò avanti Aurora, sventolando la sigaretta che teneva tra le dita, e facendo volare cenere su tutto il ripiano della scrivania del tenente, «ero venuta anche per un altro motivo.»

«Ah… e sarebbe?»

Senza chiedere il permesso, Aurora afferrò il telefono di Alberto dalla scrivania.

«Fai pure», bofonchiò lui.

Lei sbloccò lo smartphone con il codice – che conosceva alla perfezione – e aprì la pagina di Internet. Senza nessuna pietà, cancellò tutte le ricerche che il tenente aveva effettuato per provare a ritrovare il cavatappi rubato, e aprì YouTube.

«Volevo vedere se, quei tipi, hanno messo una spiegazione, per il video dell’altro giorno», disse.

Alberto fece una smorfia. L’acqua che aveva appena bevuto minacciò di risalirgli dallo stomaco e di affiorargli dalle labbra. La ricacciò indietro a fatica.

«Che schifo», biascicò. «Non so perché certe robe siano consentite. Va bene tutto, e non voglio certo mettermi a fare il rompicoglioni come uno Iannaccone qualsiasi, ma in certi casi io farei intervenire la polizia postale per vietarli, certi obbrobri…»

Aurora aggrottò la fronte.

Fissò lo schermo, interdetta.

«Mi sa che qualcuno ti ha preceduto, Manfredino.»

 

* * *

 

Lunedì sera, di nuovo in una camera in un appartamento, con la porta chiusa a chiave

 

 

Il disordine era quello di ogni giorno.

Di ogni mattina, di ogni pomeriggio e di ogni notte.

Una caotica confusione in cui i due amici sapevano ritrovarsi e orientarsi. Quell’insieme di oggetti che formava la parte visibile delle loro vite che si erano avviluppate e unite a triplo filo.

Sdraiata sul letto, le mani intrecciate dietro la testa e le gambe distese, con i piedi allungati sulle ginocchia di Daniele, Valeria osservava il soffitto senza realmente vederlo. Seguiva il corso di alcune ragnatele che nessuno si era mai preso la briga di togliere. Perché farlo, poi? Se quella stanza era la loro casa, quelle ragnatele erano la casa dei ragni. Con quale diritto, privarli della loro abitazione? E poi, in estate, catturavano le zanzare, quando si riversavano a sciami impazziti attraverso le finestre aperte. Alleati formidabili.

«Arrivato niente, oggi?» domandò la ragazza. Era la domanda che, puntualmente, ripeteva ogni lunedì. Conosceva già la risposta, perché – a parte qualche rara variante – era sempre la medesima.

Daniele le strinse i piedi tra i polpastrelli, massaggiandoli.

«Niente», disse. «Io, comunque, le domande le ho fatte. Ho inviato richieste e curriculum. Se poi a nessuno interessa avermi come dipendente, non posso certo impormi, o obbligare chicchessia ad assumermi. Almeno, il cuore in pace, me lo sono messo.»

Valeria fece una specie di mugolio, forse di assenso, forse di piacere.

«Ce lo siamo messi in pace in due, il cuore», disse. «Nessuna risposta nemmeno per me. Forse non sono abbastanza di bella presenza, non so.»

Daniele sorrise, guardandola.

Per quello che lo riguardava, non c’era al mondo nessuna creatura di più bella presenza di Valeria.

«E il libro?» domandò.

Lei fece una specie di smorfia, gonfiando le guance.

«Anche oggi, mi sono uscite sì e no due parole. Però, sono comunque due parole in più, che ieri non c’erano. Giusto?»

«Giusto», approvò l’amico.

«Ma, prima o poi, ci toccherà fare qualcosa di più, immagino», proseguì la ragazza.

Sulle labbra di Daniele si allargò un altro sorrisetto.

«Possiamo sempre fare una rapina», sghignazzò.

«O, magari, rapire un riccone e chiedere il riscatto», soggiunse lei, ridacchiando.

«E allora, perché non trovare un riccone o una riccona a cui tenere compagnia, magari già bello vecchio, per poi farci lasciare tutto in eredità?» aggiunse lui.

Valeria allargò ulteriormente il sorriso, sempre impegnata a studiare il soffitto e a godersi il massaggio che Daniele le stava facendo ai piedi.

«Io, più che a un’eredità, punterei a qualcuno che ci prenda in simpatia e ci faccia un sacco di regali», disse, con fare pratico. «Le eredità è meglio evitarle. Saltano sempre fuori un mucchio di guai: gente che si intromette, parenti scontenti, avvocati, tribunali…»

Daniele annuì.

«Hai ragione, mi sa», borbottò. «Oh, al massimo, possiamo sempre andare sulla statale a dare via il culo e a offrire pompini al miglior offerente.»

Valeria fece un cenno.

«Non mi tiro indietro», confessò. «Dopo tutte quelle che ho passato, fare lavoretti da cinquanta euro sarebbe la cosa meno brutta.»

Quell’accenno fece riaffiorare alla mente di Daniele una domanda che lo stava assillando fin da sabato notte, quando avevano guardato il video degli H.UL. Ne erano rimasti tanto turbati che, dopo aver spento il telefono, erano rimasti immobili e in silenzio al tavolo del bar per quasi due ore. Alla fine, infreddoliti a causa del vento che aveva cominciato a soffiare più forte, erano riusciti a riscuotersi ed erano tornati a casa. Da quel momento, non ne avevano più voluto parlare. Una specie di tacito accordo.

Adesso, però, era arrivato il momento di infrangerlo.

«Secondo te…» borbottò il ragazzo, stringendo un po’ più forte tra le mani i piedi dell’amica, «… secondo te… era tutto finto?»

Lo sguardo di Valeria lasciò perdere quelle strane cicatrici nell’intonaco che erano le ragnatele. Si puntò in quello di Daniele, che sembrava quasi implorarla di dargli una risposta affermativa.

Scosse la testa.

«Non lo so…» sussurrò. «Davvero, non lo so… lo spero, ma…»

«…ma sembrava così reale», concluse per lei Daniele.

Valeria annuì, senza aggiungere altro.

Ritrasse le gambe e si accoccolò contro il cuscino. Daniele si spostò sul materasso per andare a sederle accanto. Lei prese il telefono dal comodino.

C’era un solo modo per conoscere la verità su quell’ultimo video degli H.UL.

Effettuarono l’accesso a YouTube.

Entrambi fecero un sobbalzo, quando videro quello che apparve sullo schermo.

Valeria e Daniele si guardarono negli occhi.

Allibiti.

 
   
 
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