Anime & Manga > Inuyasha
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Autore: solandia    08/02/2024    2 recensioni
Un Diavolo incompleto.
Due zingare di periferia.
E un Angelo bruno sullo sfondo del cielo lontano.
Una favola dark sulla scoperta di se stessi e del proprio io.
Una favola su un'inestinguibile anelito alla Libertà.
Genere: Dark, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Inuyasha, Kagome, Kikyo | Coppie: Inuyasha/Kagome, Inuyasha/Kikyo
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Inferno, Cerchio I

Camminava in un corridoio di nebbia.

Sotto i suoi piedi, al suo fianco e sopra il capo, solo caligine a perdita d'occhio: il Portale era stato aperto da un lato soltanto.

Era stato trascinato via dal Mondo Terreno, ma non era stato condotto da nessuna parte. Si trovava al Confine, quel Luogo che non è un luogo. Avanzare era del tutto inutile, non sarebbe mai arrivato da nessuna parte.

Si fermò e attese. Se per ore, minuti o giorni non avrebbe saputo dirlo: in quella dimensione anche il tempo era distorto.

Poi un grande Diavolo emerse dal nulla. Testa di toro, corporatura nerboruta, mascella imponente, occhi come tizzoni ardenti e corna affilatissime sulla sommità del capo: Gozu, un pezzo grosso.

Ok, era nella merda.

Se avevano fatto scomodare addirittura uno dei due guardiani delle porte degli Inferi, era proprio nella merda.

«Inuyasha!» tuonò il Gran Demonio.

Per tutta risposta, lui emise un grugnito scazzato.

Gozu lo afferrò per il bavero della giacca e lo sollevò di peso. Era alto tre volte lui e largo almeno il doppio.

«Guardami in faccia!» ringhiò l'Oni.

«Non posso: ti puzza troppo il fiato».

Gozu lo scaraventò violentemente a terra e lo sovrastò con tutta la sua mole, piantandogli un ginocchio in pieno petto; due o tre costole si incrinarono sotto quel peso, ma Inuyasha non si arrese a guardarlo, per quanto faticasse a respirare.

«Le nullità come te devono stare al proprio posto» gli ruggì contro l'enorme Demone.

«Le nullità come me non hanno un posto» ribatté lui atono, ostentando un sangue freddo che aveva già perso da un pezzo.

«Oh, sì che ce l'hanno: fra la feccia. Ed è lì che ti ributterò fra un attimo. Non prima, però, di essermi assicurato che ci resterai. Devo ricordarti che è vietato avere contatti con i sensitivi? Sai bene che gente come quella può soggiogarti fino a ridurti ad una larva! Cosa ti obbligherà a fare, quella stracciona, a mendicare per lei?»

Gozu sghignazzò e Inuyasha non poté fare a meno di voltarsi di scatto verso di lui e fissarlo irato.

Il Gran Demonio non si lasciò sfuggire l'occasione e gli bloccò il viso con la sua mano poderosa.

«Bene bene, ora mi guardi, eh? Sturati le orecchie, nullità: non sono le due accattone che ci interessano. Che loro facciano di te quel che vogliono, tanto sei un buono a nulla che possiamo rimpiazzare in ogni momento. Tu non servi a nulla, non vali nulla, esisti solo per scodinzolare ai nostri piedi e farci sentire forti quando ti calpestiamo. Non c'è altro significato nel tuo esistere, ricordatelo. Quindi guai con gli Angeli non ce ne devi procurare. Oggi sei sconfinato sul Suolo Sacro e hai combinato un casino diplomatico. Non hai idea di che fatica abbia fatto il Consiglio per giustificare la cosa, gli Arcangeli erano furiosi! Rifacci uno scherzo del genere e ti useremo come scopettone per pulire le nostre latrine, intesi?!»

Inuyasha restò impassibile.

«Intesi?!» incalzò Gozu, premendo ancora di più il ginocchio sulla sua cassa toracica.

Lui non si mosse.

Il Demonio caricò ancora, fino a far contorcere l'esile corpo della sua vittima.

«In...tesi» balbettò questi col fiato spezzato, distogliendo gli occhi.

Gozu si sollevò da lui.

«Bravo ragazzo. Sei un tipo ragionevole, in fondo» sghignazzò.

Inuyasha si rialzò, cercando disperatamente di non barcollare. Boccheggiava.

Ad ogni respiro, un dolore lancinante gli squassava il petto, ma si impose di non darlo a vedere al suo aguzzino.

«Finito il sermone? Posso andarmene ora?» chiese acido.

«Sì, puoi tornartene al tuo letamaio, feccia» rise il Grande Oni, disegnando un semicerchio in aria con la mano: un imponente Portale, dai battenti in ferro battuto decorati con altorilievi, comparve dal nulla alle spalle di Inuyasha e si aprì cigolando.

Lui si voltò. Al di là poteva vedere la propria stanza.

Diede la schiena a Gozu e si avviò lentamente.

«Dì a quelli del Consiglio che con i Piccioni Aureolati non creerò più casini» commentò oltrepassando la soglia.

Ma, in quel momento, qualcosa di viscido e rovente si avvinghiò al suo braccio sinistro.

Inuyasha non poté fare a meno di urlare dal dolore. Si girò e vide con orrore che il braccio di Gozu si era allungato a dismisura e, tramutatosi in un serpente, si era avvolto attorno al suo avambraccio. Dalle sue spire trasudava un miasma acido e venefico che gli stava corrodendo le carni.

Il dolore era tale da offuscargli la vista e rendergli difficile formulare un qualsiasi pensiero coerente. Inuyasha gridava, piangeva e si contorceva, mentre il suo aguzzino ghignava soddisfatto.

«Oh, siamo certi che non creerai altri pasticci diplomatici con i Gallinacci. Solo, vorremmo anche la garanzia che tu faccia il tuo lavoro alla perfezione. Sei un Diavolo Tentatore, nella tua esistenza non ci deve essere spazio per dei bei discorsoni che valorizzino gli altri. Tu gli altri li devi condurre alla perdizione, e nessuno mai, per nessun motivo, DOVRA' SOGNARSI DI VENIRTI A DIRE UN'ALTRA VOLTA GRAZIE. CHIARO?!»

Inuyasha gridava dal dolore. Forse gridò anche un «Sì», perché Gozu lasciò la presa.

«Questo è tutto» commentò allontanandosi. «Ricorda: non puoi curare quella piaga. Se ne starà buona finché non sgarrerai, ma, ogni volta che cercherai di fare qualcosa di non consono alla tua posizione, si riaprirà e ti divorerà il braccio. Te lo farà marcire fino a corroderti le ossa, se non starai alle regole. Buon Lavoro, Tentatore».

Sulle ultime parole dell'Oni il Portale si richiuse fragorosamente, lasciando al suo posto solo una parete grigia e spoglia.

Tutto era silenzioso e immoto.

Inuyasha era a terra, nella sua stanza. I suoi occhi piangevano, se di rabbia o di dolore non avrebbe saputo dirlo, ma le lacrime non si fermavano. E sapeva che Gozu e gli altri porci dei suoi Gerarchi le vedevano.

E ridevano.

Deglutì e si mise a sedere, asciugandosi il viso con il dorso della mano sana.

Poi strappò via i brandelli dei vestiti corrosi da intorno alla ferita e la guardò. Sembrava il tatuaggio di un roveto, un mostruoso intrico di rami spinosi che si avviluppavano su se stessi, strozzandogli il braccio. La carne viva, ustionata e cauterizzata al contempo, trasudava gremo e spirito.

Disgustosa.

Si alzò sulle gambe, malfermo, e raggiunse a tentoni il piccolo lavandino posizionato in un angolo.

Si portò alla bocca uno straccio e lo morse con tutte le forze, poi aprì il rubinetto e vi mise sotto il braccio.

Le lacrime tornarono ad offuscargli la vista. Stringeva fra i denti quel pezzo di stoffa per non permettersi di gridare, mentre l'acqua scrosciante staccava e portava via grumi di carne bruciata e sangue rappreso.

Il dolore era troppo per permettersi il lusso di svenire, ma la sua coscienza era distorta: sentiva la stanza roteare intorno a sé in una danza ubriaca. Reggendosi disperatamente al lavabo con il braccio sano, restò in quella posizione finché la lesione non fu tutta rosea e pulita. Poi chiuse l'acqua e, barcollando, si accasciò sul letto, ansante.

La testa vorticava e il respiro era stentato.

Gli veniva da vomitare.

Merda, si era detto che avrebbe difeso se stesso ad ogni costo, ma il prezzo da pagare si prospettava davvero salato.

Un Marchio.

Era una delle maledizioni più potenti e rognose che quelle carogne dei suoi Gerarchi potevano imporre ai paria come lui.

Merda.

Quel misero se stesso che si era intestardito a difendere valeva davvero un prezzo simile?

Non riuscì a rispondersi: esausto, precipitò in un sonno senza sogni.



«Inuyasha! Ehi, Inuyasha, svegliati! E' ora che andiamo».

Qualcuno lo stava scrollando vigorosamente. Si stropicciò gli occhi e li aprì a fatica: «Chiccazz... Shippo!»

Inuyasha scattò a sedere sul letto non appena messo a fuoco il viso lentigginoso del collega, che lo fissava da sotto la sua zazzera di capelli fulvi, unti come un piatto di spaghetti all'amatriciana.

«Che ore sono?!» esclamò guardando apprensivo fuori dal lucernario.

«Tranqui, sono solo le nove. Ma se non ti sbrighi non riusciamo nemmeno a mangiarci qualcosa prima di sistemare gli strumenti».

Le nove. Di sera, ovviamente: Shippo non era mai sveglio la mattina.

Significava che non aveva dormito neppure un paio d'ore.

Si sentiva un vero schifo. Le fratture alle costole dovevano essersi rimarginate e il respiro era tornato regolare, ma il dolore al braccio era insopportabile. Di fronte al Compare, però, era meglio far finta di nulla.

Si passò una mano fra i capelli, per ravvivarli e darsi un contegno: «Arrivo» disse alzandosi dal letto e dirigendosi al lavabo.

Si sciacquò il viso con l'acqua gelata, asciugandosi poi con uno strofinaccio che c'era lì a tiro.

Shippo lo osservava perplesso.

«Di', si può sapere dove ti sei imboscato per tutto il pomeriggio? Ti aspettavamo per provare, invece non ti sei fatto vivo. Gli altri si sono incazzati come iene».

«Ho avuto beghe» fu elusivo lui.

Shippo non era il tipo da farsi troppe domande, ma c'erano dettagli su cui persino un sempliciotto come lui focalizzava la propria attenzione: «Ehi, Inuyasha, ma la ferita che hai sul braccio non te la curi mica?» s'azzardò a chiedere, vedendo il collega trafficare come un forsennato nell'armadio alla ricerca di un nuovo maglione, dato che quello che indossava era per metà distrutto, come il suo braccio.

«Tanto non guarirebbe» tagliò corto lui, disseppellendo una pesante felpa rossa da sotto una pila di jeans sdruciti.

Non c'era bisogno di fornire ulteriori spiegazioni: se i suoi poteri diabolici non erano in grado di rimarginarla, poteva solo significare che anche quella ferita era stata generata da un potere diabolico. Il che, in soldoni, significava rogne con la Gerarchia.

Shippo non era Einstein, ma non era del tutto scemo, dunque non indagò oltre: da ceti casini era meglio tenersi allo scuro. E totalmente, anche.

«Ma ce la fai a suonare così conciato?» fu la sua unica, sincera preoccupazione.

«No problem» si limitò a rispondere Inuyasha, mentre si liberava degli anfibi e dei calzoni per infilarsi un paio di ampi jeans scoloriti, con lo stemma “Zona Radioattiva” stampato su una tasca posteriore. Prese quattro spiccioli, la custodia del suo basso e una montagna di spartiti, poi fece un cenno all'amico, che per tutto quel tempo se n'era rimasto a fissarlo perplesso.

Sdegnando la porta, entrambi filtrarono attraverso il pavimento e abbandonarono la stanza.

Si presero un birra e un trancio di pizza in un baracchino in fondo alla strada e fecero rotta per lo Spider's Nest.

***

Kikyo versò l'acqua calda in un enorme catino, poi chiamò la sorellina per il bagnetto.

Kaede protestava sempre quando era il momento di lavarsi, soprattutto nella stagione fredda, ma lei ci teneva molto a strigliarla per bene almeno una volta alla settimana. Sua madre diceva che serviva a tenere lontani i pidocchi. In verità li aveva presi tante volte lo stesso, ma Kikyo non si era mai arresa, così ogni volta erano le stesse litigate per il sapone negli occhi e i vestiti da cambiare.

Cenarono con un po' di riso e qualche verdura bollita, strette attorno alla stufetta elettrica, mentre da fuori giungevano ovattati i rumori festosi delle altre famiglie del campo che cenavano insieme.

Loro venivano sempre lasciate in disparte.

Terminato il pasto, Kikyo ritirò le poche stoviglie ammonticchiandole in una bacinella. Le avrebbe lavate l'indomani. Aiutò la sorellina a infilarsi sotto le coperte, vestita com'era, poi si sedette accanto a lei e iniziò a cantare.

Cantava così ogni sera, finché Kaede non si addormentava, anche se ormai era grande per la ninna-nanna.

E la bimba restava a guardarla tenendole la mano, finché il sonno non la costringeva a chiudere gli occhi.

Era l'unico modo che Kikyo conoscesse per dimostrare affetto alla sorellina. Era molto schiva e parlava pochissimo, perché le sembrava sempre che le parole non riuscissero a esprimere quel che le si agitava dentro; per questo affidava i suoi sentimenti alla musica.

Kaede invece era fin troppo chiacchierona ed espansiva e lei spesso si sentiva inadeguata a farle da madre, ma non poteva contare su nessun altro.

Un brivido di freddo le percorse la schiena.

Non era solo la mancanza di un sistema di riscaldamento nella roulotte. Era un freddo più profondo, che veniva da dentro di lei. E non lo si poteva fugare buttandosi uno scialle sulle spalle.

Sospirò.

Si alzò con ritrosia dal capezzale della piccola e si diresse alla credenza; ne estrasse il barattolo di latta dove conservava i suoi risparmi e ne rovesciò il contenuto sul tavolo; vi aggiunse tutti gli spiccioli racimolati in quella giornata e contò.

A fatica, contò due, tre volte aiutandosi con le dita: 27 euro e 34 centesimi.

Sentì le gambe cedere: a Onigumo non sarebbero bastati mai.

Ripose il denaro nel barattolo e si coricò nella branda, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime.

Aveva mendicato tutto il giorno e aveva raccolto pochissimi soldi.

Onigumo ne voleva molti, sempre di più.

E lei non sapeva fare niente, non sapeva leggere né scrivere e nessuno l'avrebbe mai presa a lavorare, perché all'anagrafe non esisteva nemmeno. Poteva solo tendere la mano.

Onigumo sarebbe venuto l'indomani.

E se i soldi non gli fossero bastati si sarebbe preso di nuovo lei.

Un moto di ribrezzo sferzò la sua personcina da capo a piedi.

Serrò gli occhi più forte che poté, cercando di scacciare ogni pensiero.

E d'un tratto rivide nella mente gli occhi verdi del ragazzo di quel pomeriggio. E la sua faccia da schiaffi e la sua voce calda e impertinente che le ripeteva «Guardami!» .

E in quel momento desiderò che l'avesse abbracciata.

Arrossì violentemente.

Era una sciocca anche solo a pensarle, certe cose.

Lui era uno degli altri: ai suoi occhi non sarebbe mai stata altro che una zingara. Sporca, ladra e accattona.

Così la vedevano i gagé. Sempre.

Anche se lei non rubava.

Era stata la bisnonna a insegnarle a non rubare mai, anche se si fosse trovata allo stremo. Diceva che altrimenti i diavoli sarebbero venuti e l'avrebbero portata all'Inferno con loro, e lei aveva paura.

Tutte le visioni della nonna le facevano paura, un terrore viscido, che le avvinghiava il cuore.

Kikyo odiava tutto ciò che andava Oltre il mondo reale in cui era immersa.

Odiava anche il mondo reale, tanto avaro e crudele, ma quello che aveva il potere di scaturire da dentro di lei era anche peggio: un mondo di odio e guerra eterni, che non meritava di esistere, tantomeno di essere guardato.

Si rigirò su un fianco, apprensiva.

Sentì di nuovo la voce calda del ragazzo: «Tu hai paura di Guardare. Guardami».

Chissà. Forse era davvero così.

Tuttavia, era la prima volta che qualcuno si interessava a lei, che le dedicava tutta questa attenzione.

Era la prima volta che un ragazzo era gentile con lei, anche se la sua era stata una gentilezza rude come una carezza di carta vetrata.

«Lui è un diavolo.»

Lo aveva detto Kaede .

Non poteva crederle. Come poteva quel ragazzo così affascinante essere una di quelle creature che la nonna le aveva insegnato a temere più di ogni altra cosa?

Il male... Il male aveva fascino? Era per questo?

Di nuovo sentì quegli incredibili occhi verdi fissi su di lei.

No. Non poteva essere.

Pensò a Onigumo e al suo sguardo schiumante. Alle donne del campo e alle occhiate impaurite che gettavano su di lei e su Kaede , e sulla loro madre e la loro nonna prima di loro. Pensò a tutti i passanti verso i quali ogni giorno tendeva la mano e ai loro occhi freddi, che la schivavano sempre.

E rivide gli occhi verdi del ragazzo farsi di fuoco.

Cielo.

Se uno come lui era un diavolo, decise che era all'inferno che voleva bruciare.

  
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