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Autore: __0Chia0__    10/02/2024    1 recensioni
Shiho Miyano: una ragazza qualsiasi.
Sherry: una scienziata di alto livello dell'Organizzazione Karasuma.
Shiho Miyano è Sherry, Sherry è Shiho Miyano, ma solo in parte. Quanto di Sherry c'è in Shiho e quanto di Shiho è presente nella sua maschera? Dettagli, piccole sfaccettature, o qualcosa di più?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Akemi Miyano, Gin | Coppie: Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Capitolo III

Gatti e tranquillanti

 

Il Giappone non le era mancato. Come si può provare nostalgia di un mondo che non si conosce? Shiho non aveva radici.

L’America era stata una lunga parentesi, ma sapeva, da sempre, che avrebbe avuto un inizio e un fine preciso. Appena atterrata, era una nanerottola di appena pochi anni. Non ricordava di chi si prendeva cura di lei, a quell’epoca. Era troppo impegnata ad assimilare i cambiamenti nella sua corta vita e a riempirsi di tutto ciò che la circondava. Gli occhietti blu si voltavano ovunque, per assorbire il cielo azzurro, il prato verde, il nuovo quaderno rosso e il nero delle persone attorno a lei. Iniziava a riconoscere i diversi suoni dolci degli uccellini e il gracchiare dei corvi. Scopriva con gaiezza il profumo dei libri e delle lenzuola pulite, l’odore dell’erba appena tagliata, la puzza dello spesso smog (chiaramente, trovava qualche proprietà in comune con la sua amica nebbia, con cui spesso vedeva lo smog accompagnarsi, il quale era, però, decisamente, più nocivo) e delle sigarette (anche queste pericolose, bastava notare i denti più scuri di chi le fumava e le loro dita tendenti al giallognolo, come se non bastasse l’odore pestilenziale lasciato sui vestiti). Non era una sciocca e, guardandosi attorno, si rese presto conto di appartenere a una coltre ben peggiore del fumo e dei gas di scarico delle automobili. Era un velo impalpabile, ma presente addosso a tutti quelli come lei. Quelli tenevano molto alla sua istruzione. Le loro aspettative diventavano le sue. Avevano gli stessi obiettivi. Shiho, in un certo senso, era grata per quella attenzione. La aiutava a distrarsi. E a migliorarsi. Perché lei non sarebbe morta e non avrebbe abbandonato sua sorella, per lasciarla respirare da sola. Avrebbe fatto qualsiasi cosa, per evitarlo.

 

Shiho imparò presto cosa comportava, per una come lei, vivere e studiare all’estero. Scoprì quanto dei ragazzini potessero essere più crudeli di un adulto e quali frasi velenose fossero in grado di appannare il suo sguardo.

«La tua mamma si è spaventata talmente tanto quando ti ha vista che ti ha abbandonata».

«Sei così brutta! Ma ci vedi, con quegli occhi?».

«Spostati, inquini l’aria».

«Secchiona sfigata».

«Dove sono i tuoi genitori, cinese?»

«Sono tutti morti».

Con l’abitudine, si rese conto che i commenti iniziavano a non toccarla più. La spronavano solo a concentrarsi di più sul suo obiettivo. Se proprio si sentiva troppo debole, prendeva la pastiglietta blu e bianca che loro le propinavano ogni mattina. Era utile, in certi casi. Era l’unico modo in cui riuscisse a calmarsi. Appena prendeva la pillola, entrava in uno stato di pura catarsi: le paure sparivano e gli spintoni non facevano male. Rideva dell’accanimento dei bulli, così “disgustati” dalla sua diversità, nemmeno tanto evidente. Le apparivano solo più stupidi, insulsi e ignoranti. Erano invidiosi del suo successo. Perché, sebbene tutti frequentassero dei corsi “speciali”, nessuno la equipaggiava, nessuno superava le classi con la sua stessa velocità, nessuno poteva tenerle testa in uno scontro tra menti. Era la stella della scuola.

Spiccava in ogni disciplina. La sua specialità erano quelle scientifiche, certo, ma dimostrava grande bravura anche nella composizione scritta, nelle lingue e negli sport. Le parole di una bambina erano superiori a quelle di un adolescente, provavano maturità e interesse per la vita politica e per la cronaca, sapevano suscitare emozioni o sostenere opinioni con fermezza. Di pomeriggio, frequentava diversi corsi sportivi (a dir la verità, non per sua scelta, ma per     quella degli “uomini in nero”, come si riferiva a loro, nella sua mente). Aveva imparato diverse lingue, eppure non capiva a cosa le sarebbero servite. Era stata protagonista di molti spettacoli, a teatro. In molteplici sport era la prima, tanto che li abbandonava spesso, dopo aver imparato i primi rudimenti. Aveva fatto nuoto, tennis, ginnastica artistica, pattinaggio, arti marziali. Le erano piaciuti tutti, però non li praticò mai, con dedizione, se non per un anno o due, al massimo. Un giorno, un'insegnante di matematica la raccomandò al corso di scacchi della scuola. Shiho non ne era molto entusiasta. Le sembrava uno sport banale e atipico. Noioso. Senza movimento. Andò alla prima lezione per obbligo. Le regalarono una scacchiera tascabile, per invogliarla a tornare. Con il passare dei giorni, non poteva fare a meno di notare le numerose analogie tra lei e quel gioco. Era sottovalutato e non molto comune. Era speciale. Complesso. All’apparenza non era impegnativo, ma, nella pratica, necessitava di più concentrazione di quanta Shiho fosse abituata a impiegare per evitare di farsi male, praticando gli altri sport. Studiare le aperture, il mediogioco e i finali la spronava. Per una volta, era messa alla prova, verso qualcosa che, di per sé, non era innato nella sua natura e non era imposto da quelle sagome scure. Se eccelleva, era solo grazie alla sua dedizione e diligenza. Decise di iscriversi e abbonarsi alla congregazione, quando, andando per la terza volta a lezione, a piedi, incrociò un gattino bianco e nero. Questo la seguì per tutto il tragitto e la stette ad aspettare all’uscita. Shiho, nel frattempo, si era anche procurata un biscotto per lui. Sulla strada del ritorno, gli parlò un po’. Si sentiva, leggermente, sciocca, mentre aspettava una risposta impossibile. Il gatto le divenne fedele. La aspettava fuori casa, la accompagnava alla fermata dell’autobus e alle lezioni pomeridiane. Lei, quando erano soli, osava rivolgergli qualche parola. Non aveva altri con cui confidarsi. Qualcuno, comunque, dovette sentirla. La voce si diffuse in fretta nell’istituto. Una volta, tornò a casa con un livido sulla guancia, inflitto da uno dell’ultimo anno. Da allora, la accompagnavano a scuola in macchina. Poche settimane dopo, Shiho aveva, ormai, imparato tutto quello che poteva trarre da quella scuola e venne trasferita. Non rivide più il gattino. Sperava solo che stesse bene.

 

Ebbe modo anche di conoscere l’amicizia, un sentimento caldo nel petto, che provi al solo vedere un viso noto.

Avrà avuto sette o otto anni, quando Shiho, tornando dalle scuole superiori, salì sulla solita vettura nera e, all'interno, ci trovò un'altra bambina. Inizialmente, le due si scrutarono diffidenti. La giovane Miyano stette qualche secondo più del normale in piedi fuori dall'auto. Forse avevano sbagliato. Dal momento che l'autista non la sgridò, si trovò costretta a salire sul sedile posteriore. Sebbene, per una volta, avesse, apparentemente, a che fare con una sua coetanea, si sentiva distante anni luce da quella bimba, che, per quanto ne sapeva, poteva frequentare ancora la scuola primaria. Se gli adolescenti la escludevano per la sua età e nazionalità, pure un bambino dell’Organizzazione, che, presumibilmente, era abituato a diverse etnie, l'avrebbe trovata troppo diversa per accettarla. A meno che avessero entrambi le stesse capacità. In quel caso, si sarebbero trovati in competizione, prima o poi. Comunque, Shiho era sicura di essere la più piccola in tutta la scuola e non aveva sentito voci sull'arrivo di un'altra bambina. Probabilmente, erano sulla stessa macchina per un motivo di necessità.

La ragazzina accanto a lei, di certo, era una gran curiosona. Da quando si era seduta, con lo zaino rosso tra le gambe, l’altra non aveva cessato, nemmeno per un momento, di osservarla. Le rivolgeva sguardi con la coda dell'occhio e attraverso lo specchietto del guidatore. Per quel giorno, non trovò il coraggio di rivolgerle la parola. Shiho venne lasciata nel condominio dove, in quel periodo, aveva in uso una stanza e l'auto sfrecciò via, senza attendere di vederla entrare in casa.

La settimana dopo, la bambina era ancora lì. Shiho, come la prima volta, attese un attimo, interdetta, temendo di essere redarguita per aver sbagliato veicolo, per, poi, sedersi accanto a lei.

Quella volta, si permise anche lei di darle qualche occhiata in più. Nel complesso, era graziosa, con un sottile visetto circondato da riccioli biondo cenere. Aveva l'espressione serena di chi conta sull'appoggio affidabile di qualcuno. Di chi tornava in un porto sicuro, a seguito di una giornata di lezioni, più o meno faticose, vantando un buon voto. O, almeno, quelle erano le espressioni dei suoi compagni più grandi a fine scuola.

Forse era stata davvero una buona giornata per lei, oppure, consultandosi con qualcuno (doveva essere normale, nelle famiglie più fortunate), le era stato assicurato che non ci sarebbe stato nulla di male a scambiare qualche convenevole con quella sconosciuta.

«Ciao. Sei giapponese?»

Shiho si voltò a osservarla. Le sembrava un modo maleducato per cominciare una conoscenza. Inoltre, ci stava già troppo male per le sue origini. «Sì».

«E hai un nome giapponese?»

Shiho inclinò un sopracciglio. «Sì».

«Posso sapere il tuo nome?»

Improvvisamente, Shiho si ricordò che non erano sole. Per fortuna, l'autista sembrava non prestare loro attenzione.

«Shiho», sussurrò piano.

La ragazzina annuì.

Shiho si sentiva in posizione di chiaro svantaggio. «E tu come ti chiami?»

«Elin».

Non era un nome tipicamente giapponese, eppure la bimba aveva degli occhi grigi, leggermente, a mandorla. «Per caso sei anche tu del Giappone?»

Elin sorrise leggermente. «Tutti lo siamo, almeno un po'».

Non era una gran risposta. Anche Shiho era per metà inglese, eppure non era stata così vaga.

«Cosa fai oggi pomeriggio? Potremmo andare a giocare al parco, un giorno di questi».

Shiho guardò di sbieco la sua cartella. «Non posso. Devo studiare».

Elin fece una smorfia. «Beh, mica lo farai sempre».

«In pratica, sì».

«Che noia».

Shiho corrugò la fronte. «A me piace».

Elin aveva un anno in più di Shiho, ma non frequentava ancora l'istituto superiore. In ogni caso, si vantava che avrebbe cominciato presto e sarebbero andate nella stessa scuola, molto probabilmente. Per Shiho la faceva un po' troppo semplice, però non se la sentì di discutere.

In genere, era Elin a condurre la conversazione. Sapeva parlare per due e anche per tre. A tono basso e lento, ma in continuazione. Shiho interveniva talmente poco da convincersi che il suo intervento era inutile per l’altra bambina. Pronunciava solo frasi spezzate di argomenti che le interessavano ben poco, ad esempio le bambole o le barbie. Shiho aveva una sola bambola di pezza, dalla provenienza sconosciuta, a cui non associava né un nome né una personalità né delle preferenze. Era solo un insieme di stoffa e plastica. Quando si esprimeva in questi modi troppo realistici (secondo la più grande, pessimistici), Elin sbuffava e le diceva che era proprio simile a suo fratello maggiore. Shiho deduceva che non fosse proprio inteso per essere un complimento. Allora taceva e guardava fuori dal finestrino, ma Elin, in realtà, non si infastidiva mai davvero, anzi, gradiva quel carattere un po’ testardo e un po’ troppo, per i suoi gusti, risoluto, che collegava all’amato consanguineo, sempre molto protettivo, nei suoi confronti. Quindi, tornava a blaterare, senza ascoltarsi neanche, finché Shiho non tornava a fare battute e intervenire. L’ironia della bimba richiamava il sarcasmo della mamma e del fratello, che a lei, però, non veniva naturale. Iniziò, ben prima di Shiho, a considerarla parte della sua famiglia, parte integrante e insostituibile. Pur sapendo che, probabilmente, la loro amicizia sarebbe durata soltanto pochi mesi.

Elin sapeva dove abitava Shiho, perché era la prima a rientrare. La distanza, tra le due, non era molta, alla fine. Una o due volte si trovarono a un parco, a metà strada tra i loro appartamenti, per giocare con le bambole, ma, quando Shiho ricevette qualche brutto commento da dei bulletti americani, con gestacci e minacce, improvvisamente, sospesero gli incontri pomeridiani. Anche se la più piccola proponeva di vedersi in un locale o di frequentare uno sport insieme, dicendosi indifferente a quei battibecchi stupidi, Elin rifiutava. Shiho iniziò a credere che si vergognasse di lei o non volesse andare nei guai, a causa sua. Capì cos’è la delusione.

Un sabato pomeriggio, però, Elin andò, inaspettatamente, a trovarla, con la sua bambola, Titian. Era, forse, la prima sorpresa nella vita della piccola e non poteva sperare in niente di meglio. Le due bambine si abbracciarono davvero, per la prima volta. E l’ultima.

Shiho la accolse, mettendo a posto, alla bell’e meglio, i libri di chimica avanzata e la tavola periodica. Aveva ricevuto delle lezioni di buone maniere e galateo, tuttavia, queste, di solito, prevedevano un preavviso, per riordinare la casa e le idee. Adesso, era tutto un po’ improvviso. Come la loro amicizia, d’altronde. Si sedettero sul divano, chiacchierando del più e del meno. Elin voleva, a tutti i costi, fare qualcosa, per cui Shiho preparò la scacchiera sul tavolino dove mangiava. Tagliò per ciascuna una fetta della torta al cioccolato della tata -e, per fortuna, avanzata- e versò due bicchieri di aranciata. Di meglio, non poteva permettersi. Elin, in ogni caso, non sembrava badare a quelle piccolezze. Vedendola sovrappensiero, Shiho le cedette il bianco. Iniziare per prima era, sempre, un buon vantaggio. Dubitava, però, che l’altra sapesse sfruttarlo appieno. Dopo la classica apertura in e4, Shiho partì con la difesa francese. La partita si sviluppava in maniera piuttosto classica, mentre discutevano del loro strumento preferito.

A un certo punto, Shiho sollevò il naso dalla scacchiera. «Come li hai convinti a farti portare qui?»

Elin mosse, distrattamente, un pedone. Poi, in grembo, le mani tornarono ad abbracciare la sua bambola. «Non potrei dirtelo,» disse, sospirando. «L'ho chiesto alla mia mamma. Aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per farmi smettere di piangere. Sono stata molto triste, negli ultimi giorni. Non ho frequentato le lezioni. Fortunatamente, mia mamma ha un immenso senso del… dovere? Insomma, hai capito. Mantiene la parola data. Quindi, eccomi qui!»

La rossiccia sorrise appena. «Sono contenta di contare così tanto per te».

Shiho, poi, catturò il pedone in f5 con un cavallo. Appena Elin riprese con l’alfiere, Shiho mosse la torre. Era in vantaggio di un pedone. Elin, poco concentrata, si portò la bambola, simile a lei, vicino al viso. La cullava come una neonata vera. «So di averti raccontato di feste di compleanno a casa di amici e di gruppi pomeridiani, dove ero al centro dell'attenzione. In realtà, mi escludono sempre tutti. Un po' perché sono piccola, un po' perché ho un cognome giapponese».

Shiho alzò, di scatto, lo sguardo verso di lei. «L’avevo intuito. Dagli occhi».

Elin si accigliò. «Io non sembro asiatica. Non ho gli occhi a mandorla. Mamma me lo dice sempre, è contenta che le assomiglio».

«Se ti osservi attentamente allo specchio, lo puoi notare nel taglio degli occhi e nella tonalità della pelle. Hai anche un leggero accento straniero. Tua mamma non è giapponese?»

La biondina scosse il capo, rivolgendo le pupille chiare alle sue ginocchia. «Mio papà lo era».

Shiho notò le lacrime nei suoi occhi. Non volle infierire. Oltretutto, stava già vincendo la partita, dopo solo una quindicina di mosse. «Se non ti piacciono gli scacchi, mia sorella mi ha consigliato un altro gioco, l'ultima volta che l'ho sentita. Si chiama just dance. Bisogna imitare il balletto su un filmato. Non l'ho ancora provato, però ci dovrebbero essere dei video su internet».

Elin annuì, alzandosi. «Non sapevo avessi una sorella».

Shiho inclinò la testa, un pelo imbarazzata. «Le parlo raramente».

Elin sorrise, sinceramente, con gli occhi non più offuscati dalle lacrime. «Abbiamo più cose in comune di quanto pensassi! Anch'io ho un fratello che non mi chiama mai!»

Però almeno lei aveva una mamma.

«Com’è avere una sorella?»

La piccola Miyano alzò le spalle. «Bello. Ti dà consigli di moda e quant’altro».

L’altra rise, abbracciando la bambola. «Wow! Mio fratello è già tanto se si ricorda quando compio gli anni. Allora, balliamo?»

Shiho annuì, felice. «Lin, ti sfido! Prova a battermi!»

Forse, avrebbe dovuto chiedere ad Akemi dove si trovasse quei passatempi. Di sicuro, a scuola sconsigliavano tutte quelle perdite di tempo. Era un gioco che non valutava né l’intelligenza, né la fantasia, né la forma fisica vera e propria. Eppure, si era divertita più che mai. La sua compagna, inoltre, si dimostrò una avversaria esperta e temibile, molto combattiva. E, sebbene un filmato non possa giudicare, probabilmente, la battaglia era finita in un pareggio. Shiho, comunque, era troppo stravolta, alla fine, per pensarci. Dover prendere in braccio una bambina più grande l’aveva quasi fatta cadere! Però, che gran risate… Nemmeno con sua sorella ne faceva di quel genere.

Era tutto finito, quando un brutto ceffo in completo scuro era venuto a prendere la “signorina”. Shiho lo stava odiando, profondamente.

«Devo andare. Il tempo è passato così in fretta! Ah, dimenticavo. Non ci vedremo la settimana prossima. Torno in Giappone, ma solo per qualche giorno. Io… Devo andare a un funerale».

Shiho non disse niente. Provava nostalgia da tutta la vita. Era tanto abituata a sentirsi incompleta, da non saper consolarla.

«Mi mancherai, Lin».

«Anche tu, Shiho».

 

Nel dicembre di quell'anno, Shiho passò a pieni voti la maturità e, felicissima, si iscrisse all'università di medicina ad Harvard. Nel frattempo, avrebbe condotto corsi di chimica e tecnologia farmaceutiche e biologia. Nel corso di pochi anni, l’Organizzazione desiderava di vederla laureata in più facoltà. Erano trascorsi pochi giorni dall'esame finale alla scuola superiore, quando Shiho si trasferì. Non rivide più Elin.

La piccola Miyano amava, in particolare, i laboratori. Avrebbe potuto trascorrere lì tutti i  pomeriggi. Un giorno, l'avrebbe fatto. Quando, però, ti viene imposto qualcosa, ti piace, subito, un po' meno. I tirocini ebbero luogo in diversi settori di ricerca dell'Organizzazione. Shiho ebbe modo, così, di abituarsi ai ritmi serrati di lavoro, senza particolari problemi. I tutor erano, in genere, personaggi gentili, che conducevano il loro lavoro con una velata serenità. Sherry, in seguito, si rese conto, con disappunto, che, per essere tanto tranquilli, quasi in modo irritante, visti a posteriori, dovevano far parte, per forza, di dei settori poco importanti. Dopotutto, nessuno di loro aveva un nome in codice. Allo stesso tempo, era piuttosto logica la sua presenza là: era una bambina di cui, ancora, bisognava valutare l’affidabilità e l’abilità sul campo. Aveva da imparare tutti i rudimenti e le procedure, per raggiungere il livello preteso. Le prime preparazioni erano, sicuramente, semplici, ma appaganti, per Shiho. Paradossalmente, erano più soddisfacenti di quanto sarebbero mai stati gli straordinari traguardi di Sherry. Sebbene la scienziatina fosse relegata a esercizi, che la escludevano dalle sperimentazioni, un giorno, ascoltando una discussione tra il suo tutor e un suo sottoposto, a proposito del loro farmaco, in via di definizione, gli consigliò, a fronte di un caso collaterale di sepsi*, di servirsi dell’etomidato, un anestetico intravenoso abbastanza raro. In questo modo, spiegò, avrebbero avuto il tempo necessario per trattare il paziente, evitandogli la morte, da cui non erano riusciti a salvare la loro ultima cavia. Forse, in associazione al loro nuovo anestetico, una dose troppo elevata di etomidato avrebbe potuto portare al decesso, dove non si fosse verificata la sepsi, perciò andava analizzata, soprattutto, la miscela racemica, eventualmente modificata, meno attiva della più usata soluzione acquosa di glicole propilenico. Non dubitava che si potesse trovare una composizione per unire i due anestetici, per formarne uno migliore. Dopo un veloce sguardo smarrito da parte del sottoposto, il tutor ordinò che si facesse proprio come aveva detto lei. Quando Shiho concluse le ore prescritte, la ricerca stava evolvendo velocemente. Ricordava con gioia l’orgoglio dello scienziato, che, affettuoso, l'aveva ringraziata, augurandole un futuro radioso.

«Sono sicuro che farai grandi cose».

Per un certo periodo, Shiho soggiornò con una ragazza adolescente. Frequentava la facoltà di biologia e, alcune volte, si vedevano a lezione, però non si salutavano un pubblico: nessuno doveva sapere che si conoscevano. Era un tipo un po' dissoluto, secondo Shiho. Ray (forse un diminutivo, magari un nome inventato) portava i capelli corti, senza frangia, tinti di un nero pece (a volte, si lamentava della ricrescita castana, ben poco visibile, per la coinquilina) e aveva delle strane orecchie, leggermente a punta, simili a quelle di un felino. Ray usciva tutti i venerdì sera e tornava a notte inoltrata, spesso alticcia o ubriaca. In quelle occasioni, chiedeva a Shiho di proteggerla dalla sua tutor, la quale sembrava intimorirla, seppur questo non le impedisse di contravvenire alle regole. La giovane Miyano trovava strana l’attenzione riservata a quella ragazza, all’apparenza, poco speciale. Se faceva già parte di un gruppo di lavoro, doveva esserci un motivo a lei sconosciuto.

A causa di Ray, Shiho provò, per la prima volta, il terrore assoluto.

Era una paura paralizzante, indescrivibile. Sapeva già cosa fosse la banale preoccupazione, il timore di tutti i giorni. Aveva avuto paura, almeno per qualche tempo, dei bulli maneschi. Era stata in ansia ai primi esami e, le prime volte in laboratorio, sentiva sottopelle la tremarella delle punizioni, corporali o verbali, per un suo eventuale errore. Sapeva che gli uomini in nero attorno a lei erano cattive persone, molto severe, a volte violente, pure con lei, che gli serviva e collaborava, e, dunque, aveva sviluppato un sesto senso, una sorta di presentimento, per capire quando la circondavano e a quale distanza. Era una sensazione intrinseca, che incute timore, come quella gente, eppure, non era paragonabile al panico che sentì quella fatidica notte. Perché quella donna non poteva che essere ancora molto lontana, nel momento in cui Shiho, mentre studiava a tarda ora, avvertì, nitidamente, lo scorrere tetro e rallentato del suo stesso sangue. Era nuovo. All’inizio, nemmeno se ne preoccupò molto.

Spesso, circa una volta a settimana, venivano a controllare se stessero bene. Già da tempo Shiho era autonoma, ai loro occhi, perlomeno in casa. L’assenza di Ray non aveva mai stupito nessuno. Probabilmente, anche lei era seguita in ogni suo spostamento, a sua insaputa. Shiho pensò che il sorvegliante di turno fosse fuori dalla porta. Abbandonò la sua scrivania e girò la chiave nella toppa della porta d’ingresso. Si stupì a vedere il corridoio vuoto, attraverso lo spioncino. Notò anche che c'era un corvo, sul balcone. Si sedette sul divano, in attesa. Per fortuna, rifletté in seguito, non era in piedi, mentre quell’energia si avvicinava all’appartamento. Boccheggiava, con una mano sul petto dolorante. L’odio puro e feroce veniva verso di lei. Gli aveva addirittura aperto la porta, invitandolo a entrare. Invitandolo a ucciderla. Shiho non voleva morire. Aveva promesso di non farlo, per Akemi, però, non vedeva altro futuro per sé.

La cattiveria è, talvolta, nascosta sotto la più bella e ingannevole maschera.

Vermouth aveva scrutato con scetticismo la figlia minore di Hell Angel, seduta su uno scolorito divano, a gambe e braccia incrociate. Quella bambina, sulla soglia dell’adolescenza, iniziava a mostrare i primi segni della pubertà. La vita si stava affievolendo, il seno iniziava ad abbozzarsi e il viso sembrava assumere una piega piacevole, simile a quella di Elena. I particolari capelli fulvi coprivano, in parte, i suoi occhi blu, un pelo assottigliati, presi da Atsushi, unico sangue giapponese nelle sue vene. Aveva un’aria più adulta di molti altri suoi coetanei dell’Organizzazione, tuttavia, poteva ancora rivelarsi un fiasco. Sebbene Vermouth nutrisse un astio innato, ereditato attraverso i geni materni, non aveva motivo di nuocerle. Poi, stava cercando qualcun altro. Spaventarla un po’ le sembrava accettabile. Si accese una sigaretta.

«Dov’è?»

Shiho, che tentava di nascondere le dita tremanti, guardò di sottecchi la bionda, con addosso un sofisticato completo nero di Coco Chanel. Quegli occhi verdi volevano incenerirla.

L’aveva riconosciuta subito. L’attrice Sharon Vineyard era su tutti gli schermi e i giornali facevano a gara, per ottenere qualche informazione sulla sua vita privata. Shiho aveva appena scoperto una bomba. Una persona così famosa era parte della sua stessa Organizzazione. Era da non credere. «Chi?»

«La tua coinquilina, Miyano».

Sapeva il suo nome. Naturalmente, avrebbe dovuto pensarci prima: per fare un tale effetto, doveva essere importante. La pronuncia perfetta del cognome e il taglio a mandorla degli occhi rendevano chiaro che fosse giapponese. Perché Ray l’aveva messa in una situazione del genere? Come avrebbe potuto aiutarla? Se avesse mentito, pur con la sua affinata abilità di recitazione, sarebbe stata scoperta. Lo sapeva, dentro di sé.

«Non è a casa».

Vermouth emise una risatina gelida, del tutto priva di divertimento. «Questo posso vederlo anche da sola, mocciosa. Ti ho chiesto dove è andata».

Shiho si raddrizzò. «Non me lo ha detto».

La bionda diede un tiro alla sigaretta. Il fumo si diffondeva, fastidiosamente, nel salone. «Allora, non sono stata chiara, tesoro».

Vermouth si infilò la mano all’interno della giacca. Quando la estrasse, impugnava una rivoltella. Gliela puntò contro. «Devo sapere dov’è finita quella puttanella».

Shiho osservò la canna puntata alla sua fronte. Proteggere Ray era impossibile, a questo punto. Prova l'impulso irrefrenabile di parlare. Doveva sopravvivere. «Di solito, va in una discoteca qua vicino, a piedi. Non so quale sia né come si chiami».

Vermouth fece uno spregevole sorriso soddisfatto. «Good girl. Hell Angel sarebbe orgogliosa di te».

 

La mattina dopo, Shiho scoprì come ci si sente a tradire. Quel senso di colpa era il più acuto che avesse mai provato. Ray aveva un brutto livido sul collo e un taglio sulla fronte. Nessun corso universitario avrebbe potuto farle evitare la colazione in cucina con lei, quella volta.

«Mi dispiace per quello che ti ha fatto».

La ragazza scosse le spalle. «Poteva andarmi peggio».

«Ho provato a coprirti, davvero». Poteva fare di meglio.

«Non fa niente. Prima o poi, l’avrebbe scoperto comunque».

«Chi è, in realtà?»

Ray la guardò di sbieco. «È un nome in codice. Sai chi sono? Quelli pericolosi e influenti».

Shiho annuì. Conosceva, all’incirca, la scala gerarchica dell’Organizzazione e anche i settori di base. Aveva sentito diverse storie dell’orrore sulla “divisione operativa”, alle quali, però, non sapeva se credere. Certe volte, sua sorella citava un certo Pisco, disponibile, a quanto pareva, a pagare a entrambe le scuole. Era una sorta di tutore legale, almeno per Akemi. Si chiedeva, allora, che fine avessero fatto i risparmi dei loro genitori, se dovevano, interamente, basarsi sulle finanze di quei tipi loschi.

«Lei è Vermouth. Da quello che mi ha detto su di te, sembra ce l’avesse con i tuoi genitori. Spero tu non debba averci a che fare. Già con me è una stronza, con te preferisco non pensarci».

I suoi genitori. Hell Angel.

Ci vide sfocato. La colpa non era attribuibile alle lacrime.

La prima volta che Shiho tornò a casa con gli occhiali, Ray disse che sembrava piuttosto buffa, una sorta di secchiona dei film. Le consigliò di comprare le lenti a contatto quanto prima possibile. Le avrebbe insegnato a metterle, come, tempo prima, le aveva spiegato, in tono pratico e meno teorico rispetto ai libri, cosa doveva aspettarsi dalle mestruazioni. E dai maschi. Anche dalle ragazze, dalle presunte amiche e dai nemici. Le aveva dato pure lezioni di autodifesa.

Shiho, tuttavia, ci restò male a quel commento, in particolare perché pure Akemi si era espressa in questi termini, diverse volte, raccontandole, al telefono, dell'ultima serie TV che stava guardando. Lo riteneva sciocco. Dopo due mesi, Shiho metteva le lenti a contatto tutte le mattine, prima di uscire. Le modelle sui magazine di moda non portano occhiali da vista.

 

Poco dopo, era, improvvisamente, diventata adulta. Oddio, aveva tredici anni, quindi, per molti, era considerabile alla stregua di una bambina. Non per l’Organizzazione. Aveva tutte le lauree necessarie, per iniziare il suo lavoro. Aveva un intuito migliore di molti altri scienziati con anni di esperienza. Sarebbe stata il fiore all'occhiello dei loro laboratori. Perdere, ulteriormente, tempo era inutile. Era il momento di aprire alla discendente dei Miyano, su cui si erano prodigati tanto, le porte sulla loro vita oscura.

Mettendo piede in Giappone, questa volta, per restarci, a tempo indeterminato, Shiho entrava in un mondo che la spaventava. Sentiva che, presto, sarebbe stata assorbita da tutto quel nero. Abbandonava in America la sua innocenza.

 

* Per sepsi si intende la disfunzione di un organo, potenzialmente letale, di fronte a una infezione.

 
   
 
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