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Autore: Flying_lotus95    13/02/2024    0 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 10


  • Gennaio, campo base NATO, prefettura di Ishikawa, Giappone, anno 21 dell’epoca Showa (1946)
 
Mariya si sentiva disorientata in quella stanza chiusa.
Non che nei giorni precedenti fosse stata meglio, tra l'altro.
Era da quando aveva riaperto gli occhi che non riconosceva il mondo circostante, tutto le era nuovo, e minaccioso.
Si era risvegliata in un tendone, assieme ad altre donne come lei, in alcune aveva riconosciuto le sue compagne di sventura, ma per il resto, intorno a sé, tutto era cambiato.
Le era bastato uscire, con passo incerto, dal tendone per rendersi conto che si trovava all'interno di un accampamento, ma stavolta i soldati non erano giapponesi. 
I volti di costoro erano tutti pallidi, i più con occhi e capelli chiari, alcuni avevano addirittura la carnagione nera, più nera del carbone.
Quella sera Mariya era stata convocata nella stanza del colonnello Sanders, poiché aveva cercato di scappare puntando una pistola contro alcuni soldati. Una pistola scarica, priva di pallottole, che non aveva voluto lasciare nelle loro mani.
Si trattava della pistola di Rokurota, e per niente al mondo Mariya se ne sarebbe liberata. Era l'ultimo dono lasciatogli, prima di sparire chissà dove.
Si ritrovò a stringere quella pistola al grembo al solo presupporre l'eventualità che Rokurota sarebbe potuto non tornare mai più. O forse, sarebbe stata lei a non tornare mai più, e a non avere più occasione di rivedere suo figlio, la sua famiglia…
Dopotutto, non era sicura di trovarsi esattamente in Giappone. Poteva essere ovunque, in Manciuria, Corea, Hawaii, ovunque quei demoni occidentali avessero installato le loro basi militari.
Lo scatto della porta fermò la fervida immaginazione della ragazza, che voltò rapidamente lo sguardo verso di essa, fissando l'uscio con crescente aspettativa.
Il colonnello entrò nella stanza con passo felpato, senza proferire parola alcuna, né di scherno e né di commiato.
Si avvicinò alla scrivania, sentendosi lo sguardo di Mariya addosso per tutto il tempo. 
Prima di sedersi, però, prese due bicchieri di vetro in perfetto stato, e una bottiglia di scotch ancora intatta. La aprì davanti agli occhi increduli della giovane, che corrucciò lo sguardo cerbiattino mentre il liquore veniva versato con pacatezza in entrambi i bicchieri.
Una volta seduto, il colonnello americano le avvicinò il bicchiere, lasciandolo strusciare sul legno pregiato della superficie.
Mariya guardò prima il bicchiere offerto e poi sfidò l'uomo, interdetta.
«Suppongo avrai sete, bevi pure» la invitò Sanders, nel suo inglese perfetto.
Mariya continuò a fissarlo, incapace di poter proferire anche solo una sillaba, non per mancanza di comprensione, ma per paura di non avere un quadro preciso della situazione.
Scosse il capo in seguito, allontanando il bicchiere da sé, con sguardo accigliato.
Sanders trattenne un sorriso, rapito dalla bellezza di quella ragazza che aveva davanti agli occhi.
«Capisci la mia lingua?» chiese lentamente, poggiandosi in avanti sulla scrivania, puntando il suo sguardo azzurro cinereo in quello caldo e castagnoso di Mariya.
La ragazza rimase ostinata nel suo silenzio, non aveva intenzione di dargliela vinta.
Il colonnello, allora, decise di provare un'altra mossa, più amichevole.
Prese il suo bicchiere e iniziò a sorseggiarlo, assaporando ogni goccia del liquore, concentrato.
Mariya non smise un secondo di fissare il pomo d'Adamo del soldato andare su e giù mentre era intento ad ingoiare quel liquido a lei sconosciuto.
Quando si staccò dal bicchiere, un verso soddisfatto lasciò le sue labbra, umettandosele poco dopo.
«Non c'è niente di meglio per scaldarsi, quando fuori le temperature non sono gradevoli» commentò, rigirandosi il bicchiere con una certa baldanza, quasi volesse studiarlo con attenzione.
Era calata un'atmosfera strana tra loro, illeggibile. Mariya stessa non sapeva come reagire, se non continuando a stringere al ventre quella pistola.
«Ma se non lo vuoi, posso sempre berlo i-»
Sanders non fece in tempo né a finire, né a raggiungere il bicchiere. Mariya glielo strappò quasi dalle dita, ingurgitando il liquore aspro e bruciante tutto d'un fiato.
Una serie di colpi di tosse la investirono non appena poggiò il bicchiere con forza sul legno della scrivania. 
«Faccia piano, signorina» la canzonò il militare, tentando di toccarle una spalla per calmarla.
Ma Mariya fraintese il suo gesto, scattando di lato, evitando di essere raggiunta dalla sua mano.
Lo sguardo impietrito colpì in pieno l'americano, che invece di stupirsi, sogghignò consapevole.
«Non devi avere paura di me» dichiarò sornione, rialzando il busto con calma, intrecciando le dita davanti a sé.
«Dopotutto, con quella che hai in mano non puoi fare molto» tagliò corto, mantenendosi sul cordiale.
Mariya continuava a fissarlo senza riuscire a capirci molto di quell'uomo: in effetti, se avesse voluto farle del male, non le avrebbe offerto da bere, né tanto meno le avrebbe rivolto parola con aria tanto affabile.
Gli stranieri erano davvero bizzarri, constatò.
«Hai fatto tanto trambusto per riprenderti quell'arma, finendo addirittura quasi investita dalla mia jeep. Devo riconoscere che hai fegato, ragazza mia!».
Sanders riportò fedelmente i fatti accaduti quella mattina al campo, ma lo fece con un'aria così canzonatoria, che a Mariya venne un principio di riso. Dovette stringere le labbra tra loro per non dargliela vinta.
«Comunque puoi stare tranquilla, non ti ho convocata per punirti» e detto questo, il colonnello si alzò dalla sedia, seguendo il fianco destro della scrivania. 
«Volevo solo accertarmi di non averti fatto male, stamattina» e la raggiunse, ponendosi con il suo metro e ottanta davanti a lei, ancora seduta.
«Ma mi piacerebbe tanto sapere la tua storia… una donna come te, finita a servire i soldati giapponesi durante la loro campagna militare… tra tutte le donne soccorse, tu mi sei sembrata quella più… “diversa”...» e fece una pausa, grattandosi la punta del naso.
«Hai uno spirito combattente, ma anche molto pacato. Nulla a che vedere con le altre che ho visto, tutte spaventate e terrorizzate!»
«Se sapeste cosa abbiamo dovuto passare, non si metterebbe a giudicare dall'alto della sua superbia» proferì parola Mariya per la prima volta quella sera, fissando poi i gradi del soldato, attenta. «Colonnello» chiarì, abbassando il capo con estrema riverenza.
Ma Sanders le prese il mento con delicatezza, invitandola a guardarlo negli occhi. Quello sguardo da cerbiatta lo aveva lasciato senza parole, totalmente inerme dinnanzi a tale magnificenza.
«Chiamami Andrew, per favore, e dammi del tu» soffiò l'americano, rapito da quelle splendide iridi che vibravano sconcertate.
Mariya scostò il mento da quelle dita, tremante. Non era pronta a rivivere di nuovo quel calvario, a diventare di nuovo merce tra le grinfie dell'ennesimo uomo che restava affascinato dalla sua bellezza. 
«Non ti farò del male, se è quello che stai pensando». Come se le avesse letto nel pensiero, Sanders proferì quelle parole allontanandosi da lei, con le braccia giunte dietro la schiena. 
Mariya deglutì, indecisa sul provare sollievo o restare ancora in allerta.
«Anche perché sono convinto che sarai tu a venire da me, quando ti sentirai pronta. Non amo costringere le donne a venire a letto con me, lo trovo un inutile atto di prevaricazione».
Mariya si voltò verso di lui, interdetta. Quell'uomo la confondeva, i suoi gesti e i suoi pensieri erano talmente criptici da farle salire l'emicrania a furia di scavare tra quelle parole e cercare il vero senso dei suoi discorsi.
«Davvero non mi forzerà?» azzardò allora a chiedere Mariya, poggiando la mano sullo schienale della sedia, fissando il profilo del soldato intento a fissare le luci della torretta di guardia dalla finestra aperta.
Sanders si allontanò da lì, raggiungendola con passo tranquillo, privo di smania. Poi, poggiando una mano sulla scrivania, la guardò cordiale, offrendole un sorriso compiacente.
«Un fiore come te non va oltraggiato» e avvicinò lentamente il volto a quello di una Mariya confusa «ma va coltivato e trattato con le dovute cure» e allungò una mano verso la sua guancia, carezzandogliela. Mariya si sentì stordita a quelle parole e a quel gesto tanto confidenziale.
«Per questo» si alzò poi di scatto il soldato, schiarendosi la gola per riprendersi dalla vista di quegli occhi bellissimi «sono curioso di conoscere la tua storia. Come ti chiami, qual era il tuo impiego prima del fronte…».
Mariya inspirò lentamente, investita di una strana forza e determinazione.
«Mi chiamo Mariya Minakami, ho ventidue anni e lavoravo come prostituta, nella prefettura di Ishikawa».
Sanders rimase sorpreso da tutta quella compostezza e dignità, si era aspettato che quella fanciulla potesse stupirlo, ma non fino a quel punto.
«Tu una prostituta? Non hai la loro lascivia…»
«Le conosce bene lei, le prostitute?» lo fronteggiò Mariya, più divertita che indignata. Quell'uomo stava iniziando a stargli stranamente simpatico.
«Beh, diciamo che ne ho una certa esperienza, sì» commentò, grattandosi la tempia, fintamente impacciato.
Mariya abbozzò un sorriso, che cercò di contenere il più possibile.
«E posso chiedere come mai una come te sia finita a fare quella vita? Un amore sbagliato?».
Mariya abbassò lo sguardo a quelle parole. Avrebbe dovuto appellarsi a tutta la sua integrità per non vomitare anche l'anima, al solo ricordo.
«Direi più un incontro sbagliato» commentò lei, deglutendo a fatica.
Sanders assottigliò lo sguardo, indagatore.
«Ho subito violenza all'età di quindici anni, e sono rimasta incinta. Mio padre era un professore, se fossi rimasta in casa con lui avrei disonorato il suo nome».
Mariya non seppe spiegarsi perché stesse raccontando tutte quelle cose private a quello sconosciuto. Paradossalmente, fu più facile e spontaneo parlarne con Sanders che rivelare tutta la verità a Rokurota. Forse perché Mariya sapeva che quella verità lo avrebbe ferito oltre ogni dire…
«Dunque hai un figlio» commentò asciutto l'americano, sempre più interessato alla storia di Mariya.
Quest'ultima annuì, addolcendo lo sguardo.
«Sì» rispose, e la commozione la colse impreparata. 
«Ad aprile di quest'anno compirà sette anni, ed è tutta la mia vita». 
Una lacrima le scese lungo la guancia, tradendo la sua debolezza di fronte all'altro.
Ma quando si trattava del suo bambino, Mariya non sapeva gestire i suoi sentimenti. Era l'unico che la faceva pericolosamente vacillare.
«Gli mancherai molto, immagino» osservò Sanders, inteneritosi alle sue parole.
Mariya asciugò velocemente la lacrima, mentre un'altra si stava già preparando a scendere.
«Lui non sa niente di me. È rimasto con mio padre e mia sorella, sa che i suoi genitori sono entrambi morti» confessò, la voce rotta dal pianto che voleva sfogare.
Sanders annuì, comprensivo.
Rovistò nella tasca della divisa e le porse un fazzoletto bianco, immacolato.
Mariya lo prese chinando il capo con cortesia, per ringraziarlo.
«Non dev'essere facile per una madre stare lontano dal proprio figlio… ti vergognavi di dirgli che vendevi il tuo corpo per vivere?».
«No, assolutamente no, non mi vergogno di me stessa» rispose subito Mariya, riacquistando lucidità.
«Ma mio figlio deve vivere senza sapere di avere legami con una donna perduta come me. Voglio che viva sereno, che studi e diventi un uomo forte e determinato, senza ombre. Quelle me le sono accollate tutte io, e non ho rimpianti».
Sanders la fissò con ammirazione. Il suo sesto senso poche volte sbagliava, ma in quel caso aveva di nuovo fatto centro.
Quella donna era davvero interessante, sotto ogni punto di vista.
«Sei una donna eccezionale, Mariya» commentò stupito il soldato, accomodandosi meglio sullo schienale della sedia «Mi dispiace di averti fatto rivivere questo momento delicato».
«Si figuri» chiosò Mariya, i segni della commozione ancora presenti sul suo viso e nella voce.
«Puoi ritirarti se lo desideri» e Sanders le indicò la porta, sempre con cordialità.
«Ma aspettati di essere convocata prossimamente. Mi piace chiacchierare con te, mi dai l'aria di essere una donna molto intelligente» commentò ancora l'uomo, regalandole un sorriso sornione, accomodante.
Mariya non ricambiò il sorriso, ma si sentì ugualmente sollevata, in parte.
«Ovviamente, non mi rimangio la parola: non mi prenderò nulla, a meno che non sia tu a concederti di tua sponte» aggiunse in seguito, alzando le mani.
Mariya sbuffò una risata sarcastica.
«Siete così sicuro che finirò tra le sue braccia, colonnello?» chiese, lievemente intimorita, ma confidente.
Era pur sempre un nemico, abbassare la guardia non era contemplato.
Sanders allargò nuovamente le labbra in un sorriso dall'aria seduttiva.
«Quando avverrà, per me sarà una vittoria enorme» commentò, fissandola compiaciuto.
A quel punto, a Mariya non restò che congedarsi e uscire dalla stanza, la pistola di Rokurota ancora stretta tra le mani, come monito.
«Posso tenerla, vero?» chiese titubante, mostrando l'arma al soldato.
Sanders annuì compiaciuto.
«Tanto è innocua, puoi tenerla. A meno che tu non decida di puntarla nuovamente contro i miei uomini…» seguì una breve pausa, nel cercare lo sguardo dell'altra «ma come ho detto poc'anzi, ti reputo una persona molto intelligente».
Mariya s'inchinò al soldato, con l'intento di ringraziarlo, dopodiché uscì dalla stanza, col cuore che le martellava in petto frenetico.
Non seppe subito decretare se quanto appena accaduto fosse stato un miracolo o solo l'inizio di una catastrofe ben più grande.
Con la pistola del suo amato stretta al petto, Mariya prese la rincorsa e si allontanò, con la testa piena di mille pensieri e il cuore in subbuglio.





 
  • 20 aprile, campo base NATO, prefettura di Ishikawa, Giappone, anno 35 dell’epoca Showa (1960)
 
"Say yes to heaven,
Say yes to me…"



Meg si era ritrovata a fissare il cielo coperto con espressione vacua, senza un particolare trasporto.
Seduta sulle scale di legno del suo alloggio, poco fuori la porta d'ingresso, con la schiena poggiata al muro, ogni tanto lanciava a Kouki occhiate in tralice, giusto per assicurarsi che il bambino non si allontanasse troppo o cadesse con il sedere a terra, cosa già accaduta precedentemente. 
Un vento fresco le soffiò sulle spalle magre, lasciandole un brivido leggero sulla pelle, e una fitta acuta alla tempia. Meg era in preda ad una forte emicrania che la stava tormentando da giorni. Nulla di nuovo per lei: da dopo la gravidanza le emicranie erano peggiorate, aumentate col consumo abbastanza frequente di alcool e fumo. 
Solo dormire le arrecava sollievo, quando gli incubi non tornavano a tormentarla e a farle salire la paura in gola. 
Anche se non avrebbe voluto, Meg era tornata col pensiero a quel pomeriggio più volte in quei giorni, e più volte avrebbe preferito darsi una martellata in testa fortissima, pur di non pensarci.
Tornare a pensare alle mani di Vince che la toccavano con dolcezza potente, ai suoi baci vigorosi e ai suoi capelli che le solleticavano il bassoventre e le cosce mentre le baciava il monte di Venere… Rimuginare era stata una tortura costante, ma non era riuscita a farne a meno. 
Non avevano parlato, non si erano detti niente, né su Kouki e né sul loro passato. Avevano soltanto ridotto drasticamente tutta quella distanza che si erano imposti a vicenda, Meg in particolar modo, dando così man forte al suo smisurato orgoglio. Un orgoglio senza nome, che serviva soltanto a darle un coraggio farlocco dinnanzi a situazioni in cui si sentiva minacciata da qualcosa di molto più grande di lei, sconosciuto.
Vince era l'ultima persona contro cui Meg avrebbe mai voluto difendersi. Dopo suo padre e suo fratello, era stato l'unico a donarle affetto e protezione, a farla sentire amata, voluta.
Erano passati alcuni giorni da quel pomeriggio, ma Meg continuava a svegliarsi ogni mattina aspettandosi di trovare Vince al suo fianco, addormentato come un ghiro con una mano poggiata mollemente sull'addome. Kouki si addormentava spesso allo stesso modo, Meg ci aveva fatto caso proprio in quei giorni, quando perdeva ore ed ore a fissarlo mentre dormiva nella sua culletta improvvisata tra i cuscini, come imbambolata. Era a quelle piccolezze che Meg si aggrappava disperatamente, a tutti quei dettagli che si tramutavano in certezze assolute: Kouki era il frutto di ciò che aveva vissuto con Vince, era solo loro e di nessun altro. Nonostante nei suoi incubi ricorrenti, il bambino assumesse pian piano i connotati di Maerata, dell'uomo che l'aveva comprata e abusata dopo l'arresto di Joe, quando era ancora una bambina. 
Sfuggire a quell'uomo era stata un'impresa ardua, quasi impossibile da attuare. Proprio quando si era arresa, un soldato gentile dall'aria coraggiosa l'aveva presa e portata via dal suo inferno, dicendole che ben presto l'avrebbe fatta ricongiungere a suo fratello. 
Meg si era fidata, seppur tra mille titubanze e timori. Le era sembrato che finalmente tutto fosse tornato a girare nel modo giusto, che molto presto quell'incubo infinito cominciato con la morte di Joseph sarebbe finito, e con Joe avrebbe potuto ricominciare una nuova vita, lontano da quel posto, da quelle persone…
I documenti che aveva ricevuto per sè e per Joe, consegnatigli da una signora dal vago accento straniero e l'aria docile, ma sorprendentemente ferma, li teneva ancora perfettamente conservati, non li aveva mai lasciati da nessuna parte, in nessun luogo incustodito. Non li aveva mai mostrati neppure a Vince, ma sarebbe stata pronta a cacciarli qualora ce ne sarebbe stato bisogno. 
Poi però, quel soldato gli era morto davanti agli occhi, e tutte le speranze si erano frantumate una dopo l'altra. I suoi sogni, i suoi desideri: era scomparso tutto. 
Ancora pericoli, ancora fughe.
Nonostante adesso in quel campo base Meg avesse trovato una sorta di stabilità, non riusciva ad essere contenta, e nemmeno lontanamente soddisfatta: si sentiva come se tutto le fosse sfuggito di mano, e non possedesse il minimo controllo della sua vita, neanche quella di suo figlio. Si sentiva allo sbaraglio e voleva restarci, con la remota speranza che qualcuno l'afferrasse prima di precipitare nel vuoto. 
La testa continuò a pulsare forte, e Meg sentì il bisogno di ingerire dell'alcool per farla smettere, sebbene avesse la boccetta dei barbiturici stretta nella mano sinistra. 
Fece così per alzarsi, ma barcollò pericolosamente in avanti, sostenendosi sul traballante corrimano di legno delle scale. La fitta alla testa continuava a darle tormento. 
«Fanculo!» imprecò la ragazza, stridendo i denti tra loro. 
Una mano gentile le si posò dietro la schiena, mentre l'altra le strinse l'avambraccio con forza. Sulle prime, Meg aveva creduto - e sperato - che si fosse trattato di Vince, ma la consistenza di quel tocco, seppur vigoroso, non era al pari di una stretta ferrea, tipica di un uomo.
«Meg! Tesoro, cos'hai?».
Quella voce, arrivata alle orecchie della giovane come una carezza, Meg l'avrebbe riconosciuta tra mille. Tanto odiata quanto adorata.
«Niente, Lily, niente… la testa mi fa male come al solito» provò a parlare, la voce le uscì impastata dopo giorni di mutismo e isolamento volontario.
Lily le scostò una ciocca di capelli biondi dagli occhi, carezzandole la tempia con le dita.
«Perchè non sei venuta a chiamarmi? O almeno avvisavi Miki, o Nijiko!». Lily non voleva essere dura con lei, ma ogni volta che succedeva qualcosa alle sue ragazze saltava sull'attenti, era più forte di lei. 
Meg scostò il viso da quella carezza, come se quelle dita le avessero scottato il volto.
«Non lo vedi che non mi reggo in piedi?!» rispose brusca, cercando di divincolarsi dalla stretta della donna. Voleva raggiungere Kouki, prenderlo in braccio e portarlo dentro. Voleva essere capace di farlo da sola, di comportarsi da mamma, una volta tanto.
«Kouki! Vieni qui!» lo chiamò debolmente, muovendo una mano per rafforzare il concetto. 
Fu un attimo. Non appena il bimbo si voltò verso di lei, lo vide raddoppiarsi e sfocarsi nel giro di pochi minuti. La voce di Lily sempre più lontana… e il buio improvviso.



«… alright, darling?»
Quando Meg riaprì gli occhi lentamente, chiamò istintivamente il nome di Lily. La figura che le si era palesata davanti agli occhi gliela ricordava in qualche modo. Ma dopo qualche battito di ciglia, mise a fuoco meglio e il viso che le si parò davanti non era un viso asiatico, bensì il viso di una donna occidentale.
«Oh, meno male! Sei sveglia finalmente, darling!» esclamò la donna, entusiasta.
Meg si schiarì la gola con un leggero colpo di tosse. La testa le faceva ancora male, ma era un dolore più sopportabile stavolta. 
«Riesci a sentirmi, Meg? La testa gira ancora?» esclamò la donna, con sicurezza mista ad eccentricità. Anche a quella voce Meg ci aveva fatto presto l'abitudine.
Diniegò lievemente il capo, corrucciata.
Quel gesto bastò a far andare su di giri la donna occidentale.
«Oh! Very, very good, baby! Sono contenta che il paracetamolo abbia fatto effetto!» fece giuliva la donna.
Heather Hudson, dottoressa del campo base e maggiore dell'esercito statunitense. Era da un mese che era arrivata all'ambulatorio del campo, stravolgendone letteralmente i ritmi, assieme a quello dei soldati stessi, con le sue stramberie e le sue idee alquanto avanguardistiche. 
Nell'alzarsi dal lettino su cui era stesa, Meg la vide saltellare non troppo compostamente verso una Lily preoccupata e in attesa, che le tese le braccia per accoglierla in quello slancio d'affetto a cui non era ancora molto abituata.
La ragazza constatò che per un soldato del suo calibro, a volte il suo comportamento rasentava un che di eccentrico e smisurato. Quel lato caratteriale, però, aveva messo a loro agio le ragazze del campo, inizialmente un po' titubanti, e anche la stessa Meg aveva fatto fatica a prenderla sul serio, in quanto donna che svolgeva un mestiere - o meglio, due - prettamente maschili, in quanto medico e soldato.
«Tutto apposto, cara Lily! Nulla che non si possa curare con del paracetamolo, quando ne abbiamo, ovviamente!». Heather investì col suo inglese fluente la povera Lily, che per quanto capisse perfettamente la lingua, lo slang americano faticava a tradurlo il più delle volte. 
«Ne sono felice, dottoressa! Stavo già andando in paranoia!» commentò Lily, portandosi la bella mano curata al mento, con l'eleganza tipica di una donna del suo mestiere. 
Heather sorrise benevola a quel gesto: era poco più grande di lei d'età, ma in confronto a Lily, il più delle volte si sentiva inesperta ed ingenua, neanche si sentisse ancora una ragazzina che apriva i suoi orizzonti al mondo per la prima volta.
Meg le aveva raggiunte, appoggiandosi ad ogni superficie lì vicina. Lily, appena si accorse di lei, si avvicinò quasi per riflesso.
«Dov'è Kouki?» biascicò la ragazza, lasciando Lily basita sul posto.
Era la prima volta che la sentiva chiamare il nome del figlioletto con quel tono, che malcelava un velato allarme.
Si premurò di rassicurarla immediatamente.
«Sta con Kofumi. Quando sei svenuta, lei e Hiah erano lì vicino. Ho detto loro di portarlo via da lì» le disse la donna, fissandola con dolce interesse. Meg però rimase nella sua solita espressione diffidente, in cagnesco. 
«Meglio, un problema in meno» brontolò scocciata. Non voleva far trapelare la sua delusione riguardo alla sua inadeguatezza come madre, come donna, come tutto. Si avviò così verso l'uscita del tendone dell'infermeria, senza ringraziare nessuna delle due donne per averla soccorsa. Una volta fuori, però, restò impietrita quando si ritrovò davanti, a fare il piantone alla tenda, proprio Vince. Proprio la persona che aveva cercato ed evitato per tutto quel tempo. 
Il soldato, quando si accorse della sua presenza, la fissò con sguardo interdetto, pregno di mille domande. Meg, da parte sua, non riuscì a reggere quello sguardo smeraldino, evitandolo e guardando ovunque, men che meno il suo volto. Si strinse nelle spalle, frustrata. La voglia di lasciarsi abbracciare da lui cresceva a dismisura ogni giorno di più.
«How are you, Meg?» fece Vince, avanzando di un passo verso la ragazza. Manteneva le mani strette dietro la schiena, non voleva tradire alcun gesto di troppo, non davanti ad un suo superiore - la dottoressa Hudson - e Lily, che appena uscite dal tendone, rimasero a fissare la scena dubbiose.
Meg non rispose, non riusciva neanche a guardarlo in faccia per bene, ostinata. I ricordi di quel pomeriggio le passarono davanti agli occhi, non lasciandole alcuno scampo.
Fu la stessa Lily a rompere l'impasse, avanzando verso la più giovane con la naturalezza tipica della sua persona. 
«Sta bene, Vince» rispose al posto della bionda, carezzando la schiena di quest'ultima. Nonostante il suo cardigan addosso, Lily aveva percepito ugualmente la linea ossuta della sua colonna vertebrale, rabbrividendo senza darlo troppo a vedere. La magrezza di Meg la preoccupava anche troppo.
«Deve solo stare a riposo per qualche giorno» aggiunse la dottoressa, facendosi leggermente più seria mentre si avvicinava al gruppo «È in quel periodo del mese» ammiccò poi, dando una leggera spallata alla bionda.
Meg non poté fare a meno di guardarla con la sua solita diffidenza. 
«Permetti che la riaccompagni io nel suo alloggio, Lily?». La richiesta di Vince fece sobbalzare la ragazza sul posto. Non capiva tutto quell'interesse da parte sua, o meglio, le conveniva non capire. 
«Posso andare anche da sola» fece Meg, altezzosa. Evitare lo sguardo smeraldo del soldato le venne incredibilmente facile, così facile da riuscire ad avvertire una fitta al cuore.
Li aveva superati di qualche passo, ma riuscì ugualmente a sentire la risposta di Lily alla richiesta di Vince.
«Certo, va' pure Vince» lo incoraggiò la donna, sorridendogli con accondiscendenza.
Meg non si era voltata nè fermata, ma aspettò con somma trepidazione la dolce ed ingombrante presenza del giovane dentro di sè.
Con cuore e testa in subbuglio, come sempre.
Vince provò a metterle una mano sulla spalla, lo fece per riflesso, senza pensarci. Meg non aspettò neanche un secondo per scostarsi. Continuò a camminare, più lentamente, ma senza fermarsi. Vince le stette dietro mite, con la sua solita posa da soldato: mani dietro la schiena e passo felpato. Come se davanti a sé avesse un condannato a morte o un prigioniero, piuttosto che la ragazza che gli faceva battere il cuore più del normale da tre anni a quella parte.
Non appena si furono allontanati, Heather si avvicinò a Lily con aria dubbiosa, incuriosita da quella scena tanto insolita.
«Che tu sappia… c'è del tenero tra quei due?» fece la dottoressa, fissando in tralice l'altra con fare sospettoso. Lily, da grande astuta quale era, colse la curiosità di Heather con un sorriso composto. 
«Chi lo sa… io un po' ci spero, ma alzo le mani!» commentò Lily, canzonatoria. 
«Per caso le va un thé, dottoressa? Miki ne starà già preparando uno dei suoi buonissimi!» la invitò poi la donna, con un cenno del capo verso gli alloggi. La dottoressa diede una rapida occhiata al tendone dell'ambulatorio, come a sincerarsi di poter lasciare tutto incustodito.
«Ma sì, dai!» si lasciò convincere, infine, prendendo Lily sottobraccio, con confidenza. Non era ancora abituata a tutta quella familiarità, soprattutto se da parte di estranei e non di propria iniziativa, ma Lily fece finta di nulla e s'incamminò con la dottoressa fino alla sala comune, buttando solo un'ultima occhiata ai due giovani che si allontanavano nella direzione opposta.



Lo stomaco le brontolava, ma Meg non gli volle dare chissà quanta attenzione. Voleva depistare Vince, ma non riusciva ad accelerare maggiormente il passo.
Si stupì del fatto che il soldato le stesse dietro senza reclamare, camminando col suo passo felpato, guardandosi intorno con la solita aria impassibile in volto che aveva visto spesso nei soldati di quella base. 
Si bloccò di colpo, lo fece apposta, senza dire una parola. Anche i passi dietro di lei cessarono. Si voltò appena, e vide Vince guardarsi la punta dei piedi con perfetta nonchalance. Senza darle chissà quanto retta.
Indignata, Meg mosse solo un passo in avanti, per poi fermarsi di nuovo. Vince fece esattamente lo stesso. Quando Meg si voltò completamente, stavolta lo beccò, sì, a guardare in su, ma le labbra erano increspate in un timido sorriso, che probabilmente di "timido" aveva ben poco.
Indignatasi maggiormente, Meg si girò di scatto e proseguì, iniziando quasi a correre, e nel sentire il rumore degli anfibi di Vince coordinare perfettamente con i suoi zoccoli di legno, una strana euforia le prese il cuore. Non seppe riconoscere se fosse più arrabbiata o eccitata all'idea di sentirsi così all'unisono con lui, sentì solo tante emozioni confuse, intrecciate tra loro che ora la soffocavano, ora la liberavano. 
Quando Vince si decise ad afferrarla per un braccio con l'intenzione di bloccarla, Meg per poco non incespicò nei suoi stessi passi. Vince non l'aveva neanche strattonata con violenza, era lei che quel giorno aveva un equilibrio instabile.
«Sempre la solita gazzella!» la canzonò, alzando il mento con fare divertito. Meg gli si liberò dalla stretta con un forte strattone. 
«E tu sempre il solito cagnolino! Non scodinzolare troppo, che fai polvere!» sbraitò lei, dandogli nuovamente le spalle. Non era propriamente sua intenzione fare l'acida con lui, ma tra mal di testa, pensieri molesti e ricordi recenti, non riusciva affatto a restare tranquilla come si era prefissata. Soprattutto se a dargli parola era il soldato verso il quale, volente o nolente, provava un sentimento a cui faticava a dargli un nome, anche il più semplice e banale che esistesse.
Vince, da parte sua, cercò di non alimentare quel suo malumore, ma aveva troppe domande, troppi quesiti da appianare. Dopo quel pomeriggio d'amore trascorso insieme, non aveva avuto modo di avvicinarsi a Meg nuovamente, sebbene l'avesse tenuta d'occhio costantemente, sia lei che il bambino. Si era dato dello stupido per non aver capito niente fin dall'inizio, per aver preferito vedere altro più che l'ovvietà dei fatti. Era stato uno sciocco, ma non l'aveva fatto con cattiveria. Per lui era stato quasi normale pensare che la gravidanza di Kouki potesse essere stato il motivo per il quale, anni prima, Meg avesse deciso di non partire più con lui. Magari si era vergognata di dirgli che aveva intrattenuto una relazione con un altro, o peggio… che fosse stata abusata contro la sua volontà. 
Erano tutte cose che avrebbe potuto chiederle, ma tra tutte le domande che Vince aveva a disposizione, aveva scelto di partire da quella più inadatta e inopportuna, chiedendole di chi fosse quel bambino. Al solo ripensarci, Vince si sarebbe morso la lingua a sangue, fino a staccarsela per poi sputarla a terra con indignazione.
«Visto che ti vuoi tanto rendere utile, puoi anche prendermi sottobraccio, e pavoneggiarti come qualsiasi altro soldato del campo!».
Meg pregò in tutte le lingue che conosceva che la sua voglia di stare accanto a Vince non fosse trasparsa attraverso le sue parole. Il soldato si limitò a porgerle il braccio, un'espressione beffarda e divertita le si diramò sul volto cesellato. 
«Prego, signorina!» esclamò «Per servirla».
Dopo una leggera ritrosia, Meg sciolse le braccia dalla posizione di chiusura e difesa in cui le aveva costrette. Si aggrappò piano e titubante al braccio di Vince, era così forte e saldo al tatto che un brivido lungo le percorse la pelle, a partire dal collo fino alle punte dei piedi. 
Presero così a passeggiare, con una calma insolita, soprattutto per Meg, abituata a falciare il campo base in meno di due secondi con quel passo ballerino che si ritrovava. 
«Abbiamo un argomento in sospeso». 
Vince buttò fuori quella frase con estrema naturalezza, guardando davanti a sè. Meg lo fissò di sbieco, la sua espressione non tradiva alcuna emozione, nè positiva, nè negativa. Era serafico.
«Dopo un pomeriggio trascorso nel mio letto, non ne hai avuto abbastanza?!». 
Tuttavia Meg lasciò parlare il cinismo al posto dei sentimenti che provava. Sapeva benissimo qual era l'argomento a cui Vince alludeva, ma in cuor suo non si sentiva ancora pronta ad affrontarlo, a spiegargli tutto con serenità.
«È stato un ottimo diversivo, lo ammetto» gli concesse Vince, lo sguardo verde smeraldo fissava oltre il filo spinato del muro di cinta «Ma se credi che mi sia dimenticato quello che avevi detto prima, ti sbagli di grosso».
Meg non lo guardò in viso, puntò invece lo sguardo verso un gruppo di soldati intenti a ridere e chiacchierare con alcune sue compagne di sventura. Non le invidiò affatto in quel momento.
«Vuoi rimproverarmi per la bugia che ti ho rifilato?». La faccia tosta con cui Meg rispose a quella velata provocazione lasciò Vince quasi basito.
«Bugia?» ripetè, colto di sorpresa.
Meg alzò il mento, aveva l'aria di chi possedeva letteralmente in mano la situazione, senza il timore di vedersela scivolare tra le dita accidentalmente. 
«Il fatto che Kouki sia tuo figlio. Era una bugia, non è vero niente».
Vince si fermò bruscamente, e per poco Meg non inciampò nei suoi stessi zoccoli. Se non fosse stata aggrappata al braccio di Vince, sarebbe sicuramente rovinata col sedere a terra. 
«Non lo so con chi l'ho fatto. Dopotutto, tu non eri il mio unico cliente. Sai quanti ne ho visti a Shibuya che mi portavano avanti e indietro, che mi promettevano soldi, pellicce, cibo-»
«Non mi risulta che tu prima che venissi qui ti vendessi a chissà chi!».
Meg rimase sconcertata nel sentirsi zittire in quel modo proprio da Vince. Da che lo conosceva, non si era mai permesso di alzarle la voce o di aggredirla. In quei mesi trascorsi al campo base, Meg aveva potuto conoscere un lato di Vince che temeva più di qualsiasi altro soldato lì presente: la sua fredda indifferenza. Vince sapeva rimproverarla anche rimanendo in silenzio, implodendo dentro. Meg si era sentita investita prepotentemente da quel suo sguardo smeraldo più e più volte, perdendo quasi la facoltà di respirare. Le offese e le battute squallide degli altri marines non erano stati niente in confronto a quel silenzio, a quel muro che distruggeva lentamente più lui che lei. 
Sentirlo esplodere così, in quel modo, anche se composto e fiero, era stato inaspettato. E aveva fatto anche inaspettatamente male.
«Non ho frequentato per cinque mesi una prostituta che si vendeva al miglior offerente! Non eri così Meg, puoi anche farmi credere il contrario, ma io so chi sei e cosa sei stata quando stavi con me!». Investito dalla sua stessa invettiva, Vince non si era accorto che la stesse sovrastando con la sua mole. Meg si era incassata nelle spalle, stringendosi convulsamente le mani intorno alle spalle coperte dal cardigan. 
Vince indietreggiò, ritornando in sè.
«Potevi dirmelo che qualcuno ti aveva forzato, che ti ha allungato le mani addosso e ti ha costretta a stare con lui contro la sua volontà! Pensi che non ti avrei portato lo stesso con me in America?? Me ne sarei fottuto altamente! Perchè ti amavo e ti avrei sposato nonostante tutto!».
Quelle ultime frasi a Vince gli uscirono di bocca in italiano, o meglio nel dialetto calabrese con il quale aveva sempre sentito i suoi genitori discutere. Ogni tanto gli succedeva quando, a casa, litigava con qualcuno o discuteva animatamente con qualche parente. 
Nonostante fosse amareggiato, nel sentirlo parlare così, Meg dovette mordersi le labbra tra i denti per non scoppiargli a ridere in faccia. Ovviamente non aveva capito nulla di ciò che gli aveva detto, ma il modo in cui si era espresso l'aveva fatta ridere più del dovuto.
Vince, invece, pensò che stesse sul procinto di piangere, che avesse esagerato.
«Oh, I'm sorry, Meg, I'm so sorry!» mise le mani avanti il marine. Voleva toccarle le spalle, rassicurarla: non voleva che lei avesse paura di lui.
«Ogni tanto mi escono queste espressioni nella lingua dei miei, ma non ti volevo offendere, non ho dett-»
«Senti Vince, lascia stare!» tagliò corto Meg, superandolo di qualche passo. Mise da parte la frase in dialetto, diede importanza a quella precedente, a quella che aveva colto meglio.
«Quelle come me non dicono mai di no a niente! Se non lo sapevi, adesso lo sai!». Non lo guardò in faccia nel dirlo, gli diede volutamente le spalle.
Però Kouki è tuo, cazzo, è tuo!
Non riusciva a spiegarsi come mai facesse così fatica ad ammetterglielo. Nonostante Vince le avesse detto che non la considerava una poco di buono, quel suo orgoglio possente non si scalfiva neanche a suon di cannonate. 
«Adesso se mi vuoi scusare, mi vorrei stendere. Comincia a farmi male anche la schiena…».
Si era totalmente dimenticata di avere il ciclo mestruale addosso. Quella realtà l'aveva investita come un treno in corsa.
Si avviò verso il suo alloggio, ma a qualche passo più avanti, Meg notò che Vince era rimasto lì dov'era. Con i pugni e la mascella serrata.
«Va bene» mormorò, più verso sè stesso che verso di lei. «Continua pure a scappare… credo che ormai posso solo lasciarti andare».
E detto questo, girò i tacchi e prese la strada inversa alla sua, quella che portava alla torre dei radar. Meg lo guardò in apprensione, volle chiamarlo, ma la voce dalla gola non le uscì. La testa le girò a tal punto da farle perdere quasi l'equilibrio. 
Per l'ennesima volta, si era comportata da stupida orgogliosa. Ma c'erano cose che non avrebbe potuto dirgli a cuor leggero: cose che riguardavano lei, il suo passato, e il motivo per il quale si era dovuta rifugiare lì, in quel posto abbandonato da Dio.
Era davvero una confessione molto lunga e Meg le forze per sostenerla non le aveva. 
Un po' a fatica, s'incamminò verso il suo alloggio, combattendo contro le lacrime che le premevano contro le palpebre. 



 
* * *



«Sarà il quinto sbadiglio della giornata, Mario! La notte si dorme, non si va a caccia di donne! Ti dovresti vergognare!».
Noboru fissava Mario con un'indignazione talmente evidente, che sia il signor Hayakawa che Ryuji si dovettero tenere impegnati con qualche faccenda per non scoppiare a ridere. 
Intanto Mario si sentiva davvero troppo stanco per potergli dare retta.
Dopo il passaggio fortuito ottenuto da quei due ragazzini, la notte precedente Mario aveva pensato bene di portare Satō alla villa, sicuro del fatto che Setsuko stesse svolgendo il suo turno in ospedale. Lo aveva obbligato a farsi un bagno, cercando di trovare nel frattempo dei vestiti puliti. Nella stanza che un tempo fu di Rokurota aveva recuperato una camicia e un pantalone, un po' sgualciti ma presentabili.
Quando Setsuko era rientrata all'alba, per poco non aveva urlato dalla sorpresa nel ritrovarseli in casa a fare colazione, come due ragazzini pronti per andare a scuola.
Setsuko non si era dimostrata affatto molto contenta di ospitare un ricercato, ma Mario era riuscita a convincerla che Satō sarebbe rimasto lì per poco tempo, e che quello era l'unico posto sicuro dove poteva restare al momento.
Controvoglia, Setsuko aveva concesso così al ragazzo il permesso di restare, riempiendolo di ammonimenti e regole ferree da seguire, affinché non destasse sospetti nel vicinato. Una sola parola strana che sarebbe potuta giungere alle orecchie di donna Hayami e il loro piano sarebbe andato in fumo in poco tempo.
Perciò Setsuko aveva raccomandato discrezione ad entrambi, in particolar modo al figlioccio, sincerandosi che non si cacciasse nei guai come al suo solito.
Il sesto sbadiglio Mario non riuscì proprio a fermarlo. 
Accasciò la testa sul tavolo, con tutto l'intento di mettersi a riposare. Peccato però che non avesse fatto i conti con donna Chieko e le sue chiacchiere giulive.
«Hai proprio una brutta cera ragazzo, lasciatelo dire!» puntualizzò l'anziana donna, sorseggiando il suo thè con molta eleganza. Mario le rivolse un'occhiata storta, gravida di sonno.
«Ho avuto una nottataccia» replicò, sorreggendosi il mento con una mano «e qualcuno non dovrebbe neanche parlare, visto che ho semplicemente eseguito una loro commissione!».
Noboru e Ryuji si fissarono tra loro per qualche secondo, giusto il tempo di realizzare che la frase di Mario non malcelasse nulla di sospetto. Nulla che potesse aizzare la curiosità di donna Chieko e spingerla a fare domande a cui sarebbe stato difficile dare una risposta sensata . 
«Riposate male, signorino Mario!». L'intervento inaspettato di Hayakawa lasciò tutti di stucco.
L'uomo era intento a lavare una ciotola nel lavandino, indifferente alle occhiate sbieche che gli avevano rifilato. 
«Proprio perchè avevate un impegno dovevate recuperare sonno e forze! È un miracolo che non siate stato investito o buttato per aria mentre venivate qui» concluse l'uomo, ponderando attentamente le parole da usare, a scanso di equivoci.
Donna Chieko guardò Mario come se in volto gli si fossero materializzate delle lettere capaci di decifrare i pensieri che navigavano nella testa del giovane. 
«Un'altra bravata come quella dell'altra volta alla villa dei Sakuragi??» provò donna Chieko, sollevando un sopracciglio. A quel punto Mario la sfidò con lo sguardo: aveva intuito quali fossero le vere intenzioni di quell'anziana testarda. 
Voleva farsi dire a tutti i costi quali fossero queste commissioni di cui sentiva spesso e volentieri parlare ogni volta che si recava a fare colazione al Rainbow. Mario realizzò che fosse un bene che Tadayoshi non fosse mai venuto a ritirare documenti di mattina, altrimenti la vecchia lo avrebbe tartassato a dovere con le sue domande e le sue curiosità, anche usando la nipote se fosse stato necessario.
Non che donna Chieko, infondo, potesse essere un problema, si trattava soltanto di rispettare un patto e cercare di coinvolgere quanta meno gente possibile. Tadayoshi aveva persino tenuto all'oscuro di tutto sua moglie, non sarebbero stati di certo loro a far saltare tutto per aria con superficialità.
«Sì, perché sa, Chieko-san, che a me diverte proprio tanto andare a dar fastidio ad Atsumichi Sakuragi e consorte, augurandogli di morire il più in fretta possibile!».
Se negli altri quella frase lasciò tutti ghiacciati sul posto, a donna Chieko provocò invece un' ilarità tempestiva, facendola scoppiare in una risata giuliva. 
«Se hai intenzione di rifarlo, fammelo sapere, che dico al mio autista di darti un passaggio!» lo canzonò l'anziana, pulendosi le labbra dipinte di rosso carminio dalle goccioline di thè con il proprio fazzoletto «almeno so che dopo tornerai a casa tutto intero».
Le risate di donna Chieko servirono a stemperare l'atmosfera greve che si era creata senza volere nell'enorme salone del locale.
Difatti, al seguito anche Noboru, Ryuji e Hayakawa risero, con iniziale titubanza.
Mario invece si limitò a sogghignare, scuotendo il capo rassegnato. Ma quella scenetta durò relativamente poco.
Il piccolo Shigeo entrò nel locale di fretta, rischiando di inciampare nello scalino all'entrata, seguito dal fratello più grande, che si portava dietro l'inseparabile chitarra.
«Shigeo, stai un po' attento!» lo richiamò Wakao, allungando un braccio verso il vuoto, pronto ad afferrare il fratellino se fosse capitolato in avanti.
Ma il bambino si precipitò verso Mario, aveva il fiatone ed era estremamente eccitato alla sua vista.
«Mario, meno male che sei qui! Mi hanno detto di darti questa!».
Tra un sospirò e l'altro, Shigeo mostrò un bigliettino ad un incredulo Mario, che lo prese aggrottato in fronte.
Wakao nel frattempo aveva raggiunto il più piccolo, scusandosi per l'irruzione, calando il capo con riverenza verso tutti, in particolare a donna Chieko.
L'espressione di Mario s'incupì maggiormente nel leggere il contenuto di quel biglietto.
«Chi ti ha dato questo biglietto, Shigeo??» chiese, fissando il ragazzino dritto negli occhi. Ma Shigeo non si lasciò intimorire, era abituato ormai alle occhiatacce del più grande.
«Una signora, molto bella… stava seduta al tavolino di un cafè, quando ci ha chiamato e detto che dovevamo consegnarti questo» spiegò il bambino, indicando con lo sguardo l'oggetto incriminato. 
Sulle prime, Mario increspò le labbra con evidente disappunto, ma un po' per stanchezza, un po' per non attirare sospetti, preferì non dare adito ai suoi pensieri davanti a tutti. 
Intascò così il bigliettino, e con una scusa si diresse in cucina, cercando di mostrarsi quanto più naturale possibile, per quanto gli riuscisse.
Una volta accertatosi di essere rimasto solo, riaprì il biglietto e lo rilesse con più attenzione, con preoccupazione crescente.
 
Ti devo parlare di una cosa importante. Ti lascio l'indirizzo del mio albergo, ci vediamo stasera alle sei in punto, vedi di non mancare.
Non ti mordo mica!
 
Eri Hagino.

 
Mario produsse un profondo respiro, portandosi due dita alla radice del naso, stringendo forte.
Pregò internamente che quella non fosse una trappola preparata dalla donna per vendetta o chissà cos'altro. Volle appellarsi al suo buon senso, e alla sua forza interiore: non era più un moccioso di cui Eri si sarebbe preso gioco. Ormai Mario era un uomo, sarebbe riuscito a tenerle testa senza problemi. E si augurò che ciò che la donna aveva da dirgli fosse davvero così importante.



 
* * *



Quando Mario varcò la soglia della hall del Continental Hotel, se ne sentì stranamente intimorito.
Non era certo uno dei posti che frequentava con più assiduità nel suo quotidiano, e vedere tutte quelle persone agghindate e con una certa eleganza, fece aumentare in lui quel forte disagio che si era portato dietro dal Rainbow, quando con una scusa, aveva detto che sarebbe andato a trovare Hanae, per passare qualche ora lieta.
Magari fosse stata quella la sua vera destinazione!
E invece avrebbe dovuto non solo rivedere una vecchia e scomoda conoscenza, ma doveva anche accertarsi che non fosse stato un viaggio inutile. E trattandosi di Eri, tutto poteva essere possibile.
Una volta chiesto alla portineria, rosso in volto per sentirsi gli occhi di tutti puntati addosso, della sua ospite, venne liquidato con sufficienza ad attenderlo nel salone adiacente, quello dove le vetrate facevano un gioco di colori meraviglioso rendendo la stanza ancora più pomposa di quanto già non fosse di suo.
Sempre più intimorito e a disagio, Mario si addentrò nella sala, con le mani in tasca e il capo chino, la coppola abbassata strategicamente sugli occhi. 
Avrebbe tanto voluto fumarsi una sigaretta, ma come minimo lo avrebbero preso per un maleducato grossolano, perciò dovette abbandonare l'idea controvoglia.
Mario aveva deciso che sarebbe passato inosservato fino all'arrivo di Eri, nascondendosi dietro qualche colonna o sedendosi nel posto più nascosto della sala, quando una voce femminile lo chiamò per nome, con stupore.
Il cuore balzò così forte in gola, che per poco Mario non ebbe la sensazione di sputarlo per intero, preso in contropiede.
A fatica, si voltò verso la proprietaria di quella voce, ma restò sorpreso nel constatare che non era stata Eri a chiamarlo.
«Mario? Sei tu, n'est-ce pas?».
Per un solo breve attimo, il diaspro delle sue pupille vibrò, colpito da quella visione.
La donna che in quei giorni, assieme a quell'altro nome straniero, aveva occupato i suoi pensieri senza permesso, riempiendogli la testa di domande difficili ed ingombranti, era seduta su una poltroncina anni ‘20 rosa scuro con ghirigori dorati. Indossava un abito bianco e una cintura blu in vita, un cappellino dello stesso colore alla francese da cui i lunghi capelli acconciati fuoriuscivano in boccoli grossolani. Erano lievemente striati di grigio, ma più che darle un'aria trascurata, le infondevano un certo rispetto, almeno così sembrava agli occhi di Mario.
Il ragazzo non poté non socchiudere gli occhi, trattenendo tra i denti un'imprecazione improvvisa.
Avrebbe voluto far finta di niente, evitarla, ma qualcosa in cuor suo gli aveva suggerito che se l'avesse fatto, si sarebbe comportato da villano, e non gli sembrò il caso. Prese quell'incontro come un segno, come un invito a rilassarsi, a non pensare all'incontro che avrebbe avuto con Eri e che gli aveva arrecato un forte malessere interiore.
Si avvicinò così con passo incerto alla poltrona dove Eloïse era seduta, incerto sulle prossime mosse da fare, guardandosi intorno confuso.
«B-Bruno-san?». Pronunciare quel cognome gli costò fatica, come se avesse esaurito tutte le riserve d'aria a disposizione.
«Ti prego, solo Eloïse» gli sorrise la donna, con aria materna. Con un gesto elegante della mano, lo invitò a sedersi alla poltroncina più piccola, mostrandosi accomodante.
Mario non se lo lasciò ripetere due volte. Era talmente nervoso che per poco non scivolò mentre era intento a sedersi.
«Vuoi prendere qualcosa?» le chiese Eloïse con affabilità, a Mario gli venne il vago sentore che lo stesse trattando come un bambino spaventato.
Buttò in fuori il petto e cercò di darsi un tono, per quanto riuscisse ad essere presente a sé stesso.
«No, grazie, sono a posto» declinò gentilmente l'invito, ricambiandole un sorriso impacciato.
Eloïse lo fissò per qualche secondo con quei suoi occhi profondi e materni, gentili. 
Era così bella e semplice che a Mario metteva una forte soggezione addosso.
«Ultimamente siamo destinati ad incontrarci spesso» constatò la donna, posando la rivista di moda che stava sfogliando prima dell'arrivo del giovane.
Mario si limitò a risponderle con un ennesimo sorriso da ebete, temendo che se avesse aperto bocca, avrebbe inesorabilmente rovinato l'atmosfera. Ma per quel poco che riusciva, voleva almeno dimostrarsi cordiale e a modo. 
«Siete un' ospite dell'hotel?» chiese, con voce incrinata. Tossicchiò per schiarirsi la gola, sentiva la bocca arsa.
Eloïse scosse il capo educatamente.
«Ah nono, ho accompagnato mio cognato a fare una riunione. Non avevo molta voglia di uscire, ma siccome oggi mi ha vista particolarmente triste, e a casa ero da sola, mi ha chiesto di fargli compagnia».
C'era qualcosa nella voce di quella donna che sembrava incutere così tanta calma e serenità, nonostante, a suo dire, fosse la prima a non sentirsi dell'umore.
Mario si lasciò travolgere da quella confessione intima e delicata, come se a parlargliene fosse stata un'amica di vecchia data, e non una semplice sconosciuta, che lo trattava con massimo garbo e gentilezza.
«Come mai, se posso chiedere?».
Mario non voleva davvero saperlo, o in parte sì, voleva saperlo, ma soltanto per distrarsi dal pensiero di Eri. Sentir parlare Eloïse gli infondeva calma e lucidità.
Eloïse sorrise con mestizia alla sua domanda.
«Perché oggi mio figlio avrebbe compiuto quarant'anni, ma… sono ormai tre anni che non si festeggia più nulla in casa nostra».
Una lacrima le scivolò lenta sulla guancia, che Eloïse provvide ad asciugarla con l'indice guantato. 
Anche Mario sorrise amaro alle sue parole.
Anche in casa nostra non abbiamo più nessuno da festeggiare da tre anni a questa parte.
Realizzare quel pensiero fu lampante, ed estremamente doloroso.
«Quaranta? A che età lo avete avuto? Sembrate una ragazzina!».
Eloïse rise di gusto nel sentire quella battuta pronunciata ingenuamente da Mario.
Aveva colto le vere intenzioni del ragazzo, e lo ringraziò internamente per aver stemperato, anche se di poco, l'aria pesante che si era accumulata intorno a loro, a causa di quel triste ricordo.
«In effetti ero piuttosto giovane quando Attilio è nato… avevo ventun’anni, ed ero sposata da un anno con mio marito».
Mario s'incupì nel sentire nuovamente quel nome. Senza volerlo, aveva ottenuto una conferma importante: Eloïse e Attilio erano imparentati tra loro, i suoi sospetti si erano mostrati fondati.
«Mi perdoni, ha detto Attilio?».
Tuttavia, Mario non poté trattenersi dal chiedere ulteriori specificazioni. Aveva elucubrato così tanto in quei giorni, che lasciar perdere sul più bello non gli sembrò il caso, anche se avrebbe significato riportare quella cappa di tristezza di nuovo sulle loro teste, anche se a fin di bene.
«Sì, Attilio. Attilio Bruno, era… è il mio primogenito». 
Mario l'aveva colta quella nota d'incertezza nella scelta del verbo giusto, quell'incertezza dettata solo dal cuore di una madre afflitta per il dolore della perdita del proprio figlio.
Un figlio di cui chissà se sapeva ogni cosa, oppure ignorava alcuni suoi aspetti fondamentali.
Come il fatto di poter essere stato complice di qualcosa di losco, o peggio… 
Complice, mandante, o addirittura artefice di un omicidio.
«Lo so, voi giapponesi non siete abituati ai nostri nomi occidentali… perfino Rokurota all'inizio sbagliava a pronunciarlo. Ricordo che storpiava il suo nome con Arutirio, Arutìo… al solo ricordarlo, mi viene da sorridere».
Così presa dal ricordo, Eloïse non si accorse del cambio di espressione che a Mario gli si dipinse in volto, all'improvviso. 
Sentì nuovamente il fiato corto, la testa girare. Un principio di attacco di panico gli stava riafforando in mente, e sarebbe certamente esploso, se Eloïse non gli avesse preso le mani, richiamandolo al presente.
«Mario! Tutto bene?» chiese, improvvisamente allarmata. Cercò di prendere il mento del ragazzo, affinché la guardasse dritto negli occhi, ma Mario si scostò, prendendo quel gesto come un segnale per riprendersi da solo. Lo avrebbe trattenuto, lo avrebbe soppresso dentro di sé quel dolore riemerso dal nulla, al solo sentir pronunciare il nome della persona più importante della sua vita.
«Sì, mi scusi» disse così, a corto di fiato.
Eloïse si affrettò a riempirgli un bicchiere d'acqua che le avevano portato in precedenza, assieme al caffè d'orzo che aveva ordinato poco prima.
«No, non ce n'è alcun bisogno…»
«Non farti pregare, bevi! Sei pallido come un cencio!» lo esortò Eloïse, costringendolo a prendere il bicchiere colmo d'acqua tra le mani che tremavano impercettibilmente.
Mario non poté sottrarsi all'ordine di berlo, anche se con fatica.
Eloïse non gli tolse gli occhi di dosso nemmeno per un istante, accertandosi che riprendesse colore ad ogni sorsata.
«Va meglio adesso?» si volle accertare, col cuore in mano.
Mario annuì solo per tranquillizzarla. Non era pronto a sentir pronunciare il nome di Rokurota con tanta naturalezza da una persona estranea, da qualcuno con cui non condivideva normalmente il suo quotidiano.
«Sì, non si preoccupi, niente di che» chiosò, poggiando il bicchiere con la mano guantata che tremava ancora, e le doleva, sentendola rigida come un pezzo di legno.
«Mi dispiace» si scusò la donna, mortificata.
«Ho parlato senza riflettere…»
«No, non è colpa sua, stia tranquilla».
Piano piano, l'inquietudine si stava calmando, sebbene le emozioni fossero ancora a briglia sciolta nella testa e nello stomaco del ragazzo.
«Non volevo trasmetterti la mia malinconia… sono un vero disastro!» si giustificò Eloïse, ridendo nervosa. Quella risata intenerì Mario, che si decise a guardarla in quegli occhi ambrati ricchi di dolcezza e raffinatezza. 
Era così elegante e posata, che Mario faticò a credere che fosse tanto in là negli anni. 
«Nessun problema» tagliò corto il ragazzo, muovendo la mano buona in segno di noncuranza, come a voler scacciare un moscerino di torno.
Nel frattempo, Eloïse si ricompose, sistemandosi meglio tra i cuscini del divano vecchio stile.
«È che non sono abituato a sentire il nome di Rokurota dalla bocca di altre persone, se non per ascoltare denigrazioni o maldicenze».
Mario si morse la lingua a quella inaspettata confessione. Si aspettò che Eloïse lo fissasse sorpresa, invece restò di stucco nel constatare che nel suo sguardo si celasse consapevolezza, mista a dispiacere. E non si trattava di un dispiacere di circostanza, Mario lo aveva avvertito reale, presente. Come se fosse stata partecipe anche lei di quel dolore.
«Purtroppo lo so bene» disse infatti, mesta e con disappunto.
«Ho sentito dire cose assurde sul suo conto… nulla di più falso. Ma sono certa che tu questo lo sappia già, non è così, Mario?».
Quelle parole, sporcate lievemente dalla cadenza francese, funsero da carezza benevola all'anima martoriata di Mario, che la fissò con infinita riconoscenza.
Era bello, per una volta, non dover alzare la voce per dimostrare la sua verità, e in casi estremi, arrivare alle mani.
Era bello sentirsi compresi, anche se da una sconosciuta, che a quanto pare sapeva molte più cose rispetto ad altri, e possedeva molta più disponibilità ad ascoltare la vera voce dei fatti.
«Ci sono delle cose che vorrei chiederle, donna Eloïse».
La straniera lo fissò sorpresa, ma con attenzione.
Mario deglutì, era consapevole di star facendo un azzardo, che non era né il momento, né il luogo giusto. Ma tentare la sorte non avrebbe nuociuto a nessuno.
«Ho bisogno di sapere in che rapporti si trovassero suo figlio e mio-»
«Ah, Eloïse, sei qui!».
Una voce potente, altera, arrivò alle orecchie di entrambi. Un uomo abbastanza grosso, con la capigliatura grigia, coperta da un cappello dalla visiera larga, e lo sguardo truce si avvicinò al tavolino dove vi erano poggiati la caraffa d'acqua, il bicchiere e la tazza di caffè d'orzo ormai fredda ordinati da Eloïse qualche ora prima.
«Angelo!» esclamò la donna sorpresa, alzandosi in piedi per accoglierlo.
Mario notò solo vagamente che anche quell'uomo non aveva tratti orientali.
Doveva trattarsi del cognato di cui la donna aveva fatto menzione in precedenza.
Nonostante la presenza dura e arcigna, Mario non avvertì pericolo, a giudicare anche dal modo in cui Eloïse lo aveva chiamato.
Dietro di lui, una donna silenziosa, dagli occhi affilati come lame taglienti, i capelli ramati raccolti in un codino lasco e l'aria sprezzante, fissò Mario con iniziale diffidenza, per poi tramutarsi in stupore evidente.
«Avete fatto in fretta!» commentò Eloïse, affabile, sorridendo alla volta della donna più giovane. Ma lei era troppo intenta a fissare Mario con insistenza, che iniziò a sfidarla anche lui, fissandola a sua volta, in guardia.
«Sì, non c'è stato molto da discutere… e questo giovanotto? Chi è?».
Quando l'uomo di nome Angelo rivolse lo sguardo accigliato verso Mario, quest'ultimo distolse il suo da quello della donna che lo fissava con insistenza. 
Si alzò anche lui, come se avesse ricevuto un ordine segreto di mettersi sull'attenti. 
«Una vecchia conoscenza» lo presentò Eloïse, carezzandogli la spalla come una parente premurosa.
La donna dallo sguardo minaccioso non smise di squadrarlo dalla testa ai piedi, interdetta.
«Assomiglia al kamikaze…» mormorò all'orecchio di Angelo, che affilò la vista alle sue parole.
Nel cogliere quell'epiteto, a Mario mancò nuovamente il respiro per qualche secondo.
«In effetti…» mormorò Angelo, più a sé stesso che in risposta all'altra.
Mario si sentì improvvisamente a disagio nel constatare di essere diventato l'oggetto d'interesse di quei due apparsi all'improvviso.
Avrebbe preferito di gran lunga sprofondare sotto terra, piuttosto che restare lì impalato, lasciando a quei due adito di commentare sul suo conto.
«Perdonami, giovanotto» rispose poi l'uomo, l'influenza straniera non era neanche lontanamente vicina a quella francese, come quella di Eloïse. Era più musicale, ritmata. 
«Somigli tanto ad una persona…» gli confessò, studiando il viso di Mario, neanche fosse stato un ritratto in marmo esposto in chissà quale museo.
Fu Eloïse ad intervenire, a favore di Mario.
«La merceria potrebbe chiudere a momenti, sarà meglio affrettarci» propose la donna, non perdendo la sua calma e la sua compostezza.
«Non serviva qualcosa anche a te, Egle? Avevi fatto menzione a della carta copiativa per i progetti della fabbrica…».
Nell'udire il rimando alla fabbrica, Mario ritornò con la mente alla sera prima, e all'incontro fortuito avvenuto con quei due ragazzini gaijin, il cui cognome, guarda caso, risultava essere sempre Bruno.
Che fossero anche loro imparentati con quelle persone?
Mario fu seriamente sul punto di chiederlo, se non fosse che un'intromissione inaspettata spuntò fuori dal nulla. D'altronde, avrebbe dovuto aspettarselo, da un momento all’altro.
«Mario-kun! Ti sei degnato di farti vedere, quale onore!».
Tutti e quattro si voltarono verso quella donna bellissima ed ammaliante, che aveva appena fatto il nome di Mario in modo tanto plateale.
«Hai fatto amicizia mentre mi aspettavi?».
Mario aveva sempre detestato quel modo di fare da civetta che Eri Hagino attuava puntualmente nei suoi riguardi, senza badare alle circostanze.
«Al contrario, ho chiesto io a Mario di farmi compagnia… la rivista mi stava annoiando» commentò a suo favore Eloïse, guadagnandosi le occhiate storte del cognato e della donna di nome Egle. Avrebbero voluto sapere esattamente cosa stesse frullando nella sua testa, Angelo sicuramente avrebbe indagato meglio, una volta tornati a casa. 
«Oh! Allora non posso che esservi riconoscente per non avergli dato modo di scappare, signora…?» ed Eri inclinò la testa, invitando la donna straniera a fornirle il nome.
«Bruno, Eloïse Bruno» chinò il capo la signora, con riverenza. «Loro sono mio cognato, Angelo Bruno, e la sua capo manovale, Egle Büvall».
Entrambi chinarono il capo con riguardo, accondiscendenti, sebbene Egle non avesse smesso di essere guardinga nei confronti sia di Mario che di quella sconosciuta giapponese appena arrivata.
Nel riconoscere quel cognome, Mario si accorse che Eri aveva cambiato leggermente espressione, ammutolendosi di colpo. Era la prima volta che la vedeva in difficoltà; solitamente, con la lingua biforcuta che si ritrovava, Eri non si faceva problemi a destreggiarsi anche negli ambienti a lei più ostili.
Forse c'era stato un qualcosa che l'aveva scossa a tal punto da tirare indietro la testa come le tartarughe. Oppure l'eleganza semplice e moderata della straniera l'aveva stupita e lasciata senza parole. 
«Meglio non trattenerlo troppo allora… mia cognata sa essere molto chiacchierona quando trova la compagnia adatta» tagliò corto l'uomo occidentale, parlando così lentamente in giapponese, che a Mario diede la forte impressione che temesse di pronunciare una parola per un'altra.
«Con permesso» si congedò poi Angelo, porgendo il braccio ad Eloïse, a cui si aggrappò velocemente, sorridendogli cortese.
Allungò poi una mano verso la spalla di Mario, sorridendo anche a lui.
«Alla prossima, caro!» si congedò Eloïse, inchinando poi il capo verso Eri, accondiscendente. «Signora, è tutto vostro!».
Mario seguì con la coda dell'occhio l'uscita di quei tre dalla hall, con la testa ancora più piena di domande rispetto a prima.
Avrebbe preferito seguirli e tornarsene a casa anche lui, molto volentieri. 
«Vedo che il tuo interesse verso le donne mature non è affatto scemato! Devo proprio aver fatto un ottimo lavoro con te, a suo tempo!» ridacchiò Eri, portandosi la mano curata verso le labbra tinte di rossetto. Mario la fissò, infastidito. Era così bella da darle il voltastomaco.
«Anch'io vedo che la tua sfacciataggine è alquanto peggiorata!» la rimbeccò Mario, arrivato già al suo limite. La calma che Eloïse gli aveva trasmesso si era già esaurita nel giro di pochi secondi.
«Non ho a disposizione tutta la serata, perciò dimmi quello che mi devi dire» la intimò ancora, seccato. Eri tornò a ridere come un'oca giuliva.
«Cos'è tutta questa fretta? Non vuoi neanche un thé?» gli chiese Eri, canzonatoria. Gli occhi a mandorla perfettamente truccati le davano l'impressione di essere un'attrice da cinematografo bella e sensuale, pericolosamente attraente. 
«Non voglio niente, Eri! Dimmi soltanto cosa vuoi, e poi sparisci per sempre dalla mia vita!».
Eri lo fissò dritta negli occhi, mostrandosi ferita da quel suo comportamento. Mario però sapeva benissimo che fosse tutta una recita la sua, l'aveva conosciuta fin troppo bene per poterne dubitare. 
«E io che volevo soltanto ricordare i bei tempi in tua compagnia…» miagolò lei, facendo il labbruccio tremante tipico di chi si sarebbe messo a piangere da un momento all'altro.
Quel gesto portò definitivamente Mario all'esasperazione.
«Lo sapevo! È l'ennesima presa per il culo!» e fece per superarla e andarsene, lasciandola indietro, ma Eri fu più lesta afferrandolo per un braccio, e cercando di bloccare la sua fuga.
«Ehi, Mario, aspet-»
«Santo cielo Eri, vuoi lasciarmi in pace?» sbraitò il ragazzo, strattonandosi con violenza, «Non voglio restare qui a farmi prendere per i fondelli da una come te!».
Mario si accorse troppo tardi di essersi attirato con le sue grida lo sguardo curioso di tutti i presenti, che iniziarono a vociferare tra loro sgomenti. 
Non contento, diede un calcio ad un vaso Ming che stava lì per bellezza, che per sua fortuna si spostò solo di qualche centimetro. Se fosse caduto in mille pezzi, non sarebbe bastato ipotecare il Rainbow e racimolare il proprio affitto e quello degli altri ragazzi insieme per ripagare il danno. 
«Ti calmi, per favore?» lo ammonì Eri, quasi spaventata a vederlo tanto furioso. 
Mario la fissò con occhi iniettati di sangue e la mandibola serrata.
«Va’ a prendere in giro qualcun altro!» sbottò di nuovo, ormai in preda all'ira più nera.
Avendo gli occhi di tutto l'hotel addosso, tra personale e ospiti, Eri cercò allora di salvare il salvabile, calmando le acque come meglio poté fare.
«Mario, ascolta… ti chiedo scusa, va bene? Però adesso calmati, cerchiamo di non dare spettacolo più di quanto non stiamo già facendo».
Nonostante fosse ancora altamente diffidente nei suoi confronti, Mario cercò ugualmente di darsi una regolata. Dopotutto, se le voci di un alterco con un'ospite del Continental Hotel fossero arrivate fino alle orecchie dei suoi amici, o peggio ancora, alle orecchie di Lily, stavolta non se la sarebbe cavata soltanto con una tirata d'orecchi e una strigliata.
Si appellò così al suo buon senso, anche se a fatica. Con Eri era fin troppo facile perdere le staffe. Quella donna non cambiava mai, lo sapeva fin troppo bene.
Si portò la mano guantata sugli occhi, inspirando piano.
«Forza, seguimi» lo incitò la donna, prendendolo per un braccio, senza tirarlo.
Mario si lasciò guidare, ma non si trattenne dal lanciare uno sguardo di puro odio verso gli spettatori, che continuavano a sparlare dell'evento con grande interesse. 
«Che avete da guardare? Non avete niente di meglio da fare che interessarvi delle vite altrui?».
Eri stralunò lo sguardo nel sentirlo sbottare a quel modo, strattonandolo per invitarlo a seguirla, possibilmente in silenzio.
Imboccate le scale, Mario abbassò il capo e non proferì più parola.



«Prendi, ti distenderà i nervi».
Eri gli porse il bicchiere di cognac con disinvoltura, sebbene stesse ancora in guardia su eventuali alzate di cresta del più giovane.
«Ho i nervi in perfetto stato, tranquilla» bofonchiò in rimando Mario, seduto sulla poltroncina della stanza da letto, con la schiena ingobbita e un braccio appoggiato sul bracciolo.
Eri ridacchiò, sorseggiando lei stessa il bicchiere che aveva porto a Mario neanche due secondi prima.
«Non sei cambiato affatto… metti il broncio proprio come anni fa, quando correvi dietro a Lily per nasconderti dalla strega cattiva».
Mario capì che si stesse riferendo a lei quando la vide compiere un gesto eloquente di presentazione con la mano libera.
«Però davvero, non ho intenzione di vederti adirato per tutta la sera. Cosa posso fare per convincerti a rilassarti?» esclamò la donna, sedendosi proprio di fronte a Mario, sullo sgabello della ballerina, incrociando lentamente le gambe snelle e lisce, appetibili proprio come Mario le ricordava. Si morse l'interno guancia per non cadere nella trappola dei ricordi.
«Va meglio, non preoccuparti» si limitò ad avvisarla, laconico.
«Magari se arrivassi dritta al punto mi faresti un immenso piacere» aggiunse poi, dopo qualche minuto di silenzio.
Eri si accomodò meglio sullo sgabello, portandosi le mani curate all'altezza del ginocchio, intrecciando le dita tra loro.
L'alone nerastro tra medio e anulare della mano destra saltò tristemente allo sguardo sospettoso del ragazzo. 
«Ti fai ancora di eroina?». 
Non riuscì a celare del tutto la propria preoccupazione. D'altronde, Mario non era davvero così insensibile come appariva sempre, in ogni situazione.
Eri buttò uno sguardo fugace alla mano incriminata, sollevando l'angolo destro delle labbra in un ghigno.
«Ogni tanto, qualche volta… quando non ho niente di meglio da fare» e poi lasciò scorrere languidamente lo sguardo su Mario, con interesse «… o da farmi» aggiunse infatti, trattenendo un sorriso sulle labbra strette.
Mario imitò quel suo sorriso, con impaccio e senza malizia.
«Preferisco i solitari a quella robaccia» dichiarò, come se avesse appena decretato l'ovvio supremo.
«Lo so cosa preferisci, tu» la risposta di Eri arrivò immediata, senza perdere la sua punta di sarcasmo nella voce.
«Il dunque, Eri».
Tuttavia, con un savoir faire di cui non sapeva di essere così capace a padroneggiare, Mario richiamò la sua ex prima amante al presente, non concedendole neanche un attimo di distrazione.
«Bene, arriviamo subito al dunque, allora» iniziò così la donna, alzandosi dal suo sgabello, raggiungendo l'appendiabiti dove era appesa una borsetta elegante fucsia. Una volta presa e aperta, cacciò fuori un elegante astuccio d'argento, da cui estrasse una sigaretta bianca e sottile, molto diversa da tutte quelle che Mario aveva visto circolare in giro.
Gli porse l'astuccio aperto, ma Mario diniegò il capo, fissandola dritta negli occhi.
«Non c'è traccia di oppio in esse, puoi stare tranquillo» ci tenne a precisare la donna, conscia del fatto che i suoi precedenti potessero incutere in Mario dei sospetti giustificati.
«Non amo particolarmente le sigarette straniere, peggio ancora se sono di provenienza statunitense. Preferisco il mio tabacco sfuso».
Eri tornò a sogghignare nel sentire la giustificazione di Mario alla sua ritrosia. 
«C'è ancora qualcosa di veramente giapponese in giro? Beviamo e mangiamo roba di provenienza estera, fumiamo sigarette straniere…»
«… vi scopate uomini stranieri…».
Eri cambiò espressione del viso nel sentire Mario proferire quelle parole, rendendo il suo bello sguardo ancora più allungato e sottile di quanto già non fosse. 
«Già… chi meglio di te può dirlo, il vostro in particolare è un vizio di famiglia».
Nonostante se lo fosse aspettato, Mario rimase ugualmente spiazzato da quel commento. Eri si era sempre saputa difendere, da chiunque avesse osato ferirla e metterla con le spalle al muro. Era stato un gesto di autodifesa che aveva messo da parte soltanto una volta nella sua vita, con una persona in particolare, che poi l'aveva ferita indelebilmente, anche se involontariamente.
«Sei di nuovo andata fuori strada, Eri».
Quello fu l'unico modo per Mario di non arrivare a toccare una delle poche cose preziose che le era rimasta al mondo: la sua famiglia.
Eri fece un ghigno di approvazione, sebbene non si sentisse chissà quanto soddisfatta di non aver potuto dire di più, colpire di più dove avrebbe voluto, forse anche guidata da un pizzico di cattiveria.
«Stavolta però hai cominciato tu» alzò comunque le mani Eri, ritenendosi al di sopra di ogni accusa.
«Comunque» tossicchiò, portandosi alle labbra la mano con l'alone nerastro tra le dita «Ho deciso di trasferirmi. Andrò a Bangkok per un po’ di tempo».
Si accese la sigaretta con un accendino Dupont argentato, Mario lo aveva riconosciuto subito: sapeva chi glielo aveva regalato.
«E quanto ti fermerai?» chiese, più per prendere tempo che per mero interesse. 
Eri buttò fuori lentamente una nuvoletta di fumo biancastra tra le labbra schiuse.
«Non saprei… forse per qualche mese, forse per sempre, chissà. Questa terra mi ha stancata».
Mario annuì alle sue parole, e uno strano moto di compassione gli si divampò in petto.
Eri gli aveva sempre incuto timore e soggezione, ma c'era stato un attimo, un momento in cui aveva intravisto in lei qualcosa di simile alla tenerezza. 
Dopotutto, il destino non era stato clemente nemmeno con lei.
Dopo la caduta in disgrazia della sua famiglia, suo padre, uno degli uomini più influenti della prefettura, l'aveva venduta ai soldati americani per ripagare i debiti accumulati durante la guerra.
Eri si era rassegnata a quella vita senza ribellarsi, aiutata anche dall'abuso di droghe che le faceva sopportare quella vergogna senza impazzire e dare di matto. 
Si era mostrata forte e disinibita con tutti, nascondendo fragilità e paure dietro una passata di rossetto scuro, una ritoccata di rimmel, veli di cipria e vestiti appariscenti.
Aveva covato l'odio verso le cose genuine e semplici, verso l'amore e i sentimenti, convinta di non meritarli, e per questo si era imposta di non elemosinarne a nessuno. 
Ma il cuore non seguiva quasi mai le leggi dettate dalla testa, era una realtà irremovibile contro cui qualsiasi essere umano doveva scendere a patti, prima o poi.
«Beh, auguri» si complimentò Mario, dando un taglio ai pensieri che lo avevano portato a ritroso nel tempo.
«Quindi volevi dirmi definitivamente addio?». Mario quasi ci sperò che in quella battuta si nascondesse un fondo di verità.
Per quello studiò alacremente il viso di Eri, per captare eventuali messaggi che le sue espressioni facciali avrebbero prodotto di conseguenza.
Ma, in tutta risposta, Eri avanzò verso di lui, sedendogli al fianco, con la sigaretta ancora fumante tra le dita. Il bel vestito di satin rosa gli si modellava sulle curve perfettamente.
Lo fissò, poi, così dritto negli occhi che a Mario venne naturale deglutire.
«Ho bisogno di soldi, Mario» e poggiò dolcemente la bella mano curata sul ginocchio sinistro del ragazzo, provocandogli un leggero sussulto.
«Di molti soldi».
L'enfasi esercitata sulla quantità della cifra eventuale fece insospettire nuovamente Mario, che si ritrovò a fissarla quasi in cagnesco.
«E…». 
Si rifiutò di credere che Eri gli stesse chiedendo denaro così spudoratamente. 
Quest'ultima abbozzò il suo classico sorriso ammiccante.
«… e so che tu conosci un modo per ottenere facilmente denaro».
Mario scostò il ginocchio dal tocco della donna, come scottato. 
«Non so di cosa tu stia-»
«Ti fai chiamare Pugno sinistro, è corretto?».
Mario sbiancò di botto nel sentire quell'epiteto, sbucato dalle labbra di Eri così all'improvviso.
Si ricordò immediatamente di tutti i motivi che lo avevano portato a detestarla, riaffiorati alla memoria uno per uno, tutti in fila indiana.
«Tu che ne sai di questa storia?» chiese Mario, accigliato. 
Eri diede un'altra boccata alla sigaretta, soffiando fumo dalle narici.
«Ho i miei informatori» commentò spavalda, poggiando il viso sulle nocche con fare fintamente sbarazzino.
Mario non ci mise molto a capire di chi potesse trattarsi.
«Ad Ao basta vedere mezza coscia nuda per rivelare pure il nome di sua madre al primo che passa, incredibile!» constatò sconcertato.
Eri ridacchiò a quella sua invettiva, compiaciuta di sè.
«Ricordo perfettamente come la visione delle mie gambe ti fece esplodere l'alzabandiera! Posseggo un'arma non indifferente» continuò a darsi arie Eri, fissando maliziosa il cavallo dei pantaloni di Mario. 
Per riflesso, il ragazzo si chiuse leggermente le cosce, avvampando in viso come un pomodoro.
Riportare alla memoria quell'episodio imbarazzante di cinque anni prima gli fece montare la voglia di lasciare quella stanza il prima possibile.
«Io ero un moccioso inesperto, Ao dovrebbe essere navigato a riguardo». Ciononostante, di darla vinta a quella donna, Mario non ne aveva assolutamente intenzione.
Eri lo guardò con sufficienza, rigirandosi una ciocca di capelli tinti di castano tra le dita.
«Voi uomini non fate alcuna eccezione… se siete affamati, vi fate andare bene tutto».
Anche Mario la fissò con altrettanta sufficienza, quasi avesse voluto farle rimangiare quella frase seduta stante.
«Sappiamo anche rifiutarlo un invito, non siamo così dipendenti dalla vostra figa» e Mario regalò ad Eri un sorriso sprezzante, acido. 
Eri annuì, perdendo poco a poco terreno. Un ricordo molesto era tornato a infastidirla, lasciandole solo amarezza.
«Lo so… li conosco i vostri no.».
Mario abbassò lo sguardo a quel commento carico di malinconia. Si fissò le mani, stringendole a pugno più e più volte.
Aveva accettato di partecipare a qualche match per guadagnare i soldi necessari per aiutare il Rainbow e le persone che venivano a chiedere il loro aiuto, ma in cuor suo sapeva, in realtà, che quella non era altro che la scusa ufficiale per poter tornare a battersi ancora, per avvertire ancora la presenza dell'adrenalina in circolo per il corpo.
Sapeva di rischiare ad ogni incontro, che la sua mano destra non avrebbe retto per molto, ma finché vi era anche una sola possibilità di farcela, Mario l'avrebbe tenuta stretta al petto fino all'ultimo secondo.
«Perché vuoi che sia proprio io a fornirti quei soldi? Non puoi chiederli al comandante Hagino?». Mario aveva voluto farle quella domanda dal primo momento in cui aveva ricevuto quella richiesta insolita, a tratti assurda.
Eri rise sprezzante nel sentir interpellato il comandante.
«Mio fratello è l'ultima persona a cui voglio chiedere favori. Lui e i suoi principi morali… penserà che gli chiedo denaro per farmi di eroina».
«E non è forse la verità?». Mario non aveva nessuna intenzione di toccarla piano. Voleva sfondare il muro direttamente con un calcio ben assestato, lo stesso che aveva lanciato verso quel povero vaso Ming situato nella hall, poche ore prima. 
Eri sollevò un sopracciglio, interdetta.
«Quando ne ho voglia, i soldi per togliermi lo sfizio li ho. A me servono per la partenza e assicurarmi un nuovo alloggio in Thailandia» spiegò precisa Eri, spegnendo la cicca della sigaretta nel posacenere sul comodino adiacente.
Toccò a Mario fissarla interdetto a quel giro.
«Sii sincera, Eri» la richiamò, ottenendo la sua attenzione «stai scappando da qualcuno?».
Eri, per qualche istante, spalancò le palpebre, sorpresa. Ma riuscì poco dopo a dissimulare, scostandosi una ciocca corta e ribelle dietro l'orecchio. 
«T'interessa saperlo?» chiese disinvolta, giocherellando con le unghie pur di non doverlo guardare negli occhi. 
Anche Mario tornò a fissare le proprie mani, con più naturalezza rispetto ad Eri.
«Voglio solo capire se, oltre ai soldi ti servirebbe anche altro».
Eri lasciò andare le unghie, sogghignando.
«No, per quello ho già fatto…» rispose Eri, alludendo ai documenti falsi «l'Airone Rosso ha già provveduto a tutto».
Mario aggrottò la fronte nel sentire quel nome. Aveva un qualcosa di familiare…
«Comunque non credo di essere in grado di poterti aiutare» tagliò corto poi, facendosi per alzare dal divano. Eri lo bloccò per il polso della mano offesa, obbligandolo a fermarsi in piedi, di fianco a lei. 
«Suvvia, Mario… infondo, io e te, siamo due anime simili». E nel dire ciò, lasciò scivolare la mano lungo quella offesa di Mario, lambendo con i polpastrelli la parte di pelle che iniziava a cicatrizzarsi, poco dopo l'osso capitato.
Mario scostò solo il volto, infastidito.
«Perciò ti sei avvicinato a me quel giorno… sapevi che ero l'unica che poteva comprendere il tuo vuoto interiore».
Eri gliela sussurrò all'orecchio quella frase, suadente. Con la punta della lingua, toccò leggermente il padiglione dell'orecchio di Mario, sapeva perfettamente che quello era un suo punto debole.
Ma Mario si limitò a scuotere il capo, allontanandosi da quel gesto che, in un'altra occasione, lo avrebbe infervorato più del necessario.
«Entrambi volevamo chi non potevamo più avere… e non ci è restato altro che colmare quei vuoti a modo nostro».
Mario si liberò dalla presa della donna, senza però risultare sgarbato. Lo fece con cautela, anche se la nausea stava tornando di nuovo ad investirlo.
«Non abbiamo fatto altro che aumentarli, quei vuoti» dichiarò, iniziando a tremare al solo ricordo della sua prima volta con Eri, e quei pensieri sconci e indecenti che gli avevano attraversato la mente in quei mesi…
«Facciamo che ti aiuto, ma poi devi sparire dalla mia vita, per sempre».
Mario non disse quelle cose perché detestava la presenza di Eri. Detestava il fatto di non aver potuto fare niente di concreto per lei e per sé stesso, a suo tempo.
Non erano problemi che riguardavano te, non potevi farci nulla, aveva provato a consolarlo Lily a quel tempo, tra una carezza e una parola di conforto. E di nuovo quel senso di colpa atavico, di chi dalla vita aveva ottenuto più di quanto meritasse, era tornato a palesarsi, aumentando di secondo in secondo nella testa e nel cuore di Mario. 
Eri, nel frattempo, giunse le mani in preghiera, socchiudendo gli occhi, riconoscente.
«Grazie, grazie infinite».
Mario vi percepì sollievo in quelle parole, ma preferì non voltarsi, per non mostrarsi per quello che era: un perfetto codardo.
«Entro quanto ti servono?» domandò poi, alzando lo sguardo verso le tende eleganti della grande finestra, mentre si massaggiava le mani con estrema lentezza.
«Se riesci entro due settimane, sarebbe preferibile» gli raccomandò la donna, cercando di recuperare la sua classica aplomb da donna impeccabile e affascinante.
Mario storse il naso a quell'affermazione.
«Farò il possibile, ma ad una condizione»
«Certo, chiedi pure.»
«Non venirmi a cercare, e non chiamare al Rainbow. Mi farò vivo io».
Nonostante il possibile fallimento, Mario decise di giocarsi quella carta, sperando di avere la sorte dalla sua parte ancora una volta.
Poco prima di uscire dalla stanza, Eri lo bloccò di nuovo, stavolta con una richiesta insolita.
«Come se la passa Jeoffrey?». 
Prima di afferrare la maniglia della porta, Mario si voltò verso di lei, sbalordito.
Eri puntava lo sguardo ovunque, meno che nel diaspro delle pupille spalancate del giovane.
«Si ricorda di me, ogni tanto?».
Mario addolcì lo sguardo senza volere.
«Sì, ogni tanto lo sento parlare di te» mentì spudoratamente. Ma Eri sembrò credergli, o almeno gli diede quella parvenza.
«Bene, come mi aspettavo» ma aveva la voce rotta Eri, nel dirlo.
Mario uscì dalla stanza senza troppi convenevoli, e con testa e cuore in un disordine intricato. 
Una parte di lui avrebbe voluto tirarsi indietro e lasciare che Eri se la sbrogliasse da sola, ma dall'altra parte ebbe come il presentimento che se non l'avesse fatto, se ne sarebbe pentito amaramente in futuro.
Chiuse quei pensieri in un angolo, e attraversò il sontuoso corridoio dell'albergo a testa bassa, stando bene attento a non incrociare lo sguardo di nessuno, abbassando tatticamente l'immancabile coppola fin sopra gli occhi.
 

Rimasta da sola in stanza, Eri si accese una seconda sigaretta, sedendosi sull'elegante davanzale della finestra. 
Rimase a fissare attonita l'accendino Dupont che portava con sé da sempre, primo e unico pegno d'amore ricevuto nei suoi trentanove anni di vita.
Ricordò la stanza del suo alloggio alla base, immersa nel buio, dove solo la luce fioca della luna illuminava il pavimento attraverso il vetro sporco della finestra, il respiro cadenzato di Jeoffrey che le solleticava la fronte, e la fiammella improvvisa prodotta da quel maledetto accendino…
Un moto d'ira la investì, tanto da scaraventare l'oggetto oltre la testiera del letto, seguito da un urlo straziante.
Colta dal fiatone, Eri si accasciò al suolo, lasciandosi andare alle lacrime e alla sconfitta. Provando, però, una profonda gratitudine verso Mario, per averle regalato un'ultima, ingannevole, illusione, su di un amore naufragato e inabissato nei meandri dei ricordi e del tempo.






 
Salve a tutti 😊 che bellissima sensazione tornare a casa dopo sette lunghi mesi!
Questo capitolo è un gioiello, e non lo dico solo per vanto personale, ma perché è stata una vera seduta d'analisi per me e per il mio povero animo martoriato di questi mesi 🤗
Questa storia per me è un po’ come quell'amico che non senti spesso ma a cui pensi sempre e che quando trascorri del tempo assieme a lui, tutto assume un significato diverso, intenso quasi 😊
Mario in questo capitolo mi ha stupita tanto: lo sento più cresciuto e accondiscendente, sebbene resti sempre una testa calda e scattante, irrecuperabile insomma 🤭 
I capitoli di questa storia hanno bisogno dei loro tempi per esprimersi, e va benissimo così. Quando ho temuto di non poter essere più capace di dar loro una voce, mi hanno fatta ricredere con prepotenza, e gliene sarò sempre grata per questo.
La revisione dei capitoli precedenti poi mi è stata di grande aiuto, ha portato a ciò che a brevissimo arriverà, e non vedo l'ora dell'entrata in scena di determinati personaggi, che porteranno tanto brio, ma anche tanti guai!
Ma dopotutto ai ragazzi del Rainbow un po’ di sussulti non fanno poi così male 🤣
Ringrazio infinitamente chi continuerà a dare il suo sostegno a PL, anche se questo significa dover aspettare un po’, ma vi giuro, ne varrà fottutamente la pena!
Un bacio e alla prossima 🥰💋
   
 
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