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Autore: minimelania    13/02/2024    1 recensioni
Rigor Mortis, come il freddo ghiaccio della morte. Ad un Claude Frollo ormai disilluso viene annunciato che La Esmeralda, a due anni dal loro ultimo incontro, è morta in cella. E allora vecchi e nuovi fantasmi tornano a danzare a passo di quadriglia dentro al suo cuore, e una danza infernale accende vecchi e nuovi roghi. Tornare sulle ceneri di un amore ormai sopito per darle l’ultimo bacio della morte? Oppure tacere e fare finta che niente sia più di quel niente informe che ormai sono le sue giornate? Claude Frollo piange le sue amare lacrime, fredde come i ghiacci della morte. Solo un bacio di carne può sciogliere il suo segreto. Quell’ultimo bacio di carne che le sue labbra non hanno mai assaggiato, quell’ultimo fuoco che adesso sembra impossibile.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Claude Frollo, La Esmeralda
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Fu facilissimo portarla via di lì; bastò dire che era morta di peste, e tutti i chiavistelli si dischiusero uno dopo l’altro, magicamente. Lui la peste l’aveva già avuta, un anno e mezzo prima, davvero; era passata lasciandogli pochissimi segni, se non una leggera vertigine che non se n’era più andata. L’aveva presa a Marsiglia, dove era andato a visitare dei loschi ambasciatori travestiti da mercanti di tappeti, per conto del Re. Ma quelli venivano da Tunisi, e prima ancora chissà da dove. C’erano state delle morti nel quartiere, cinque persone in neanche trentasei ore che erano lì: lui ci aveva parlato, alcune lettere erano passate di mano, e poi lo scambio di alcune monete e un paio di involti che contenevano materiale prezioso, da recapitare subito a corte. Due giorni dopo aveva cominciato a sentir salire la febbre; si era barricato nella cella del convento dove i domenicani lo ospitavano; aveva detto che gli lasciassero fuori dalla porta un boccale di acqua e un pane ogni giorno; e che se avessero visto che a un tratto nessuno li prendeva più, venissero con cautela a sotterrarlo. Ma il decimo giorno era uscito, dimagrito, ancora stanco e sfebbrato. Solo una traccia violacea alla base dell’addome mostrava il segno di quella peste passata lievissima sopra il suo corpo che avrebbe desiderato solo di morire; lieve ma abbastanza da farlo stare male ancora settimane. Aveva sibilato “bruciate tutto quel che trovate nella stanza”, il che si riduceva a un letto, a un saccone di paglia e a un lenzuolo. Si era fatto prestare una tunica, era montato a cavallo ed era tornato a Parigi. 
Per questo adesso poteva senza alcuna preoccupazione tenere in braccio un involto con dentro un cadavere e dire ai carcerieri che lo lasciassero passare subito, che era meglio per tutti. Per qualche ora si diffuse nelle carceri la solita isteria della peste; tirarono un secchio d’acqua nella cella dove era morta la zingara, nessuno morì e non se ne parlo più. Ma intanto Claude Frollo era fuori, con la sua amata tra le braccia. Non poteva ancora capacitarsi della fortuna irreale che lei avesse perso la memoria, che accettasse di fingersi morta per farsi portare tra le braccia da lui, portare fuori da tutto questo, fuori dall’inferno del carcere e della vita infernale a cui lui l’aveva condannata per troppo desiderio. Si sentiva stranamente stanco, stanco come se avesse vissuto due secoli in quelle poche ore, stanco come non si era mai sentito in vita sua, ma anche elettrizzato mentre stringeva a sé le povere carni di quella che era stata il suo amore, il suo incubo, la sua dannazione e che ora era sua, solo sua, sua per sempre. 
Non ci volle molto perché, con il favore delle tenebre, riuscisse a introdurla nella torre campanaria dove aveva il suo studio. Lei a quel punto era talmente sfinita che dormiva di un sonno più simile alla morte, e lui ne approfittò per adagiarla delicatamente su un tappeto vicino al fuoco, per mettere a bollire un po’ d’acqua dentro a una pentola di coccio sul camino e andare a prendere uno straccio pulito. Lui si lavava sempre così, ma senza scaldare l’acqua. Per lei invece ci voleva attenzione; adesso più che mai. Era magra da far paura, denutrita, distrutta dalle privazioni e dal freddo. Ma ora non le sarebbe mancato mai più niente, perché era con lui. Mentre l’acqua si scaldava, ma non troppo perché non voleva certo ustionarla, si guardò intorno impaziente per vedere se c’era rimasto qualcosa da mangiare. Lui non prendeva quasi mai i pasti nel suo studio, perché il cibo attirava i topi e i topi sono nemici dei libri, ma fortunatamente quel giorno la buona stella lo assisteva: il giorno prima si era portato con sé alcune mele, e un pezzo di pane perché voleva stare alzato fino a tardi e non voleva scendere alla pure ricca tavola che condivideva con gli altri prelati e canonici. Ora pensò con disappunto a tutti i piccoli piatti di crema dolce, alle uova, al latte, al miele, ai panini al burro su cui neanche i suoi occhi si posavano; il cibo gli dava la nausea, sempre di più man mano che invecchiava. Ma ora cosa avrebbe dato per avere subito con sé un po’ di miele, qualcosa di dolce con cui scaldare un po’ di latte, qualcosa di più buono da offrire alle sue labbra adorabili che non un tozzo di pan secco e un paio di mele brunastre. Ma per il momento doveva accontentarsi. Così mise le mele vicino alla pentola, perché si ammorbidissero un po’, e poi toltala dal fuoco cominciò a soffiarci sopra perché il calore dell’acqua non fosse troppo.
Non si può dire il brivido di amore, di desiderio, di tenerezza, di paura che ebbe quando cominciò a stracciarle l’immondo sudario di dosso per liberarla, e poterla pulire. Dal lembo di stoffa marcita veniva su un odore nauseabondo, orrendamente nauseabondo anche per lui che era abituato ai cadaveri, per cui si affrettò a tagliar via tutto con un coltello, stando bene attento a non ferirla, e lo gettò col fuoco. Sentì una sensazione di sollievo al vedere la vampa che inghiottiva quell’immondizia, e tanto fu il sollievo che per un istante non ricordò ciò che lo aspettava appena voltati gli occhi. Lei era nuda sotto di lui, distesa sul tappeto, scheletrica, meravigliosamente bella, svenuta, sporchissima. Fu in quel momento che anni e anni di studio, anni e anni di ascesi forse per l’unica volta in vita sua gli riuscirono in qualche grado utili, perché pur con sforzo disumano riuscì a non gettarlesi addosso. Chinò un secondo la testa; prese un respiro. Aspettò. E quando sentì le pulsazioni del suo cuore non dico calmarsi, ma almeno decelerare un poco, intinse lo straccio pulito dentro l’acqua tiepida e cominciò a massaggiarle la pelle. 
Lei era sventa ma il calore le fece bene; lui cominciò dalle gambe, toccando delicatamente con le sue lunghe dita che erano abituate a sfogliare manoscritti quella pelle ancora più traslucida di come la ricordava; in più punti ora coperta di lividi, di graffi, di punture di cimici e di morsi di qualcosa che lui sperò ardentemente non fossero topi. Povera bambina innocente. Lo straccio diventò grigio in pochi secondi, tanta era la sporcizia; e molto presto l’operazione dell’acqua dovette essere ripetuta perché si stava già intorbidendo. La prima pentola fu sufficiente a lavare sommariamente le gambe, la seconda le braccia e il viso, la terza il busto – e fu la parte in assoluto più difficile perché le sue piccole magnifiche areole erano ancora rosa pur con tutto quel lezzo, erano ancora pallide e trasparenti come la pancia di un cucciolo, e Claude dovette letteralmente affondarsi le unghie nel palmo per non baciarle subito, per non morirci attaccato. C’era tempo, si disse, per quello. E nel momento in cui lo diceva un empito di trionfo eccitato, torbido, estremo gli fece gonfiare le pupille e torcere quel poco che gli restava di labbra in una specie di sorriso estasiato. Lei intanto dormiva, e dopo averla girata su un fianco per procedere a una pur sommaria pulizia della schiena e del resto (Dio onnipotente, passare uno straccio su quelle bianchissime natiche, due piccole pallidissime sfere che sembravano levigate nel marmo!), dopo aver preso un altro respiro, giudicò che per quella sera la pulizia poteva bastare. La prese tra le braccia e la adagiò, nuda com’era, nel lettuccio su cui a volte lui stesso si buttava per qualche ora a tarda notte, quando era troppo stanco per tornare nella sua stanza.
A vederle la testa sul cuscino si rese conto che la matassa dei capelli era ancora un unico blocco di sporcizia e di lerciume; probabilmente aveva i pidocchi, ma anche soltanto l’idea di prendere una forbice e tagliare quella meravigliosa massa di fili che gli riempivano gli occhi gli fece male; decise che il giorno dopo, se fosse stata più in forze, avrebbe provato a lavarli e a districarli in qualche modo; forse con l’olio, forse con qualche unguento che poteva trovare nei suoi libri. Ma nel frattempo lui era stanchissimo e lei era viva; era viva.
Si fermò solo un istante vicino al suo letto, dalla paura che il desiderio lo travolgesse. Non voleva pensare al suo corpo nudo appena sotto la ruvida coperta, non voleva pensare a entrare dentro di lei; sapeva che quella stessa notte, anzi anche in quell’istante medesimo, avrebbe potuto forzarla, ma non voleva. Voleva che lei lo guardasse come aveva già fatto qualche ora prima nella cella. Voleva che lei lo chiamasse ancora ‘mio sposo’. E non fu deluso, perché poco prima di uscire dalla cella, alla ricerca di un indumento caldo per coprirla e di qualcosa che potesse funzionare da scarpe per quando lei si fosse alzata, sentì che gli prendeva la mano.
- Non lasciarmi qui sola - sussurrò, senza neanche aprire gli occhi, con voce rochissima – non lasciarmi amore mio. Lui sentì che il cielo ai suoi piedi si apriva; sentì che qualsiasi dolore e fatica gli scivolavano via di dosso come se Dio stesso lo avesse benedetto come fa coi suoi santi e i suoi martiri. Si inginocchiò accanto al cuscino dove lei teneva la testa. Fece di sì con il capo e non ebbe la forza di dir niente; scoppiò a piangere. Ma lei era già di nuovo affondata nel sonno senza sogni di chi è appena scampato alla morte.
  
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