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Autore: Guntxr    16/02/2024    0 recensioni
un amore può cambiare la propria vita?
non dirò altro
buona avventura in questa storia scritta alla cieca, senza trama né finale preimpostati
non è un romance
ma nemmeno un horror
sarà il mio solito libro psicologico
Genere: Drammatico, Malinconico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il tutto ebbe inizio a gennaio, nell’anno 2024.
 
La ragazza s’era appena destata da un lungo sonno, il giorno prima aveva avuto la notizia che non avrebbe più dovuto lavorare nel posto in cui era stata da poco assunta. La cosa l’aveva alquanto scossa, tanto che aveva cominciato a chiudersi a riccio e accumulare parecchia ansia e malumore.
 
A rassicurarla, però, c’era il fatto che qualche giorno dopo avrebbe avuto un appuntamento con la propria terapista di fiducia; perciò, avrebbe sfogato con lei tutte quelle emozioni negative che la stavano tenendo bloccata a letto. Corvino, che s’era appisolato sulle sue gambe durante la notte, alzò il capo e la guardò con occhio serio, quasi come se volesse dire che da lì non si sarebbe mosso per nessun motivo al mondo. «Mi spiace piccolo, ma ho promesso a Giulia che sarei andata a lezione oggi. Non puoi tenermi anche questa volta in ostaggio.», lo disse ridacchiando e accarezzando il gatto che nel mentre continuava a fissarla in silenzio. Lo prese poi di peso e lo spostò sull’altro lato del letto, il tutto mentre lui la giudicava con lo sguardo.
 
Uscì dalle coperte con uno scatto energico e dopo essersi resa conto di essere in ritardo, iniziò a correre da tutte le parti. Andò in bagno a lavarsi i denti, il viso e truccarsi. Mise il suo solito maglioncino grigiastro, dei pantaloni larghi color terra e delle scarpe nere da ginnastica. Si pettinò i capelli, ma non avendo il tempo di sistemarsi le trecce decise di andare a scuola con i capelli sciolti. Raccolse da terra la propria ventiquattrore e dopo aver controllato che Corvino non la stesse seguendo sgattaiolò fuori casa.
 
Finì di mettersi addosso il proprio cappotto invernale e caldo, poi iniziò a camminare verso l’auto, non accorgendosi di essere seguita dal suo piccolo amico peloso. Ignara della cosa mise le chiavi nel quadrante e partì verso casa dell’amica. Una volta arrivata di fronte alle porte del giardino, parcheggiò e con un movimento svelto prese il proprio cellulare in mano. Digitò il numero di telefono che ormai aveva imparato a memoria e dopo una serie di squilli continui e varie chiamate andate non a buon fine, Giulia rispose. «Sono qui, dammi un secondo! Sempre così di fretta!», la telefonata durò poco, subito dopo, infatti, venne chiusa dalla ragazza stessa.
 
«E poi sarei io quella sempre in ritardo. Tu che dici Corvino?», si voltò parlando al gatto, quasi come se fosse consapevole che lui si trovava lì nonostante i suoi tentativi di non farlo uscire di casa. «Aspetta un attimo! Tu che ci fai qui?», passò la sua mano fredda, dalle dita affusolate e lunghe sul pelo morbido e caldo dell’animale. «Non riesco a prendermela con te, non riesco proprio. Sei troppo adorabile.», sospirò accendendosi l’ennesima sigaretta e guardandolo con la coda dell’occhio mentre abbassava il finestrino alla sua sinistra. «Ormai dovrei rinunciare nel tentare e ritentare di tenerti in casa. Tu ormai sei la mia ombra, il mio angelo custode, la mia spalla.»
 
«E io cosa sarei, scusa?», disse Giulia, la migliore amica della ragazza che s’era affacciata al finestrino che la stessa aveva appena abbassato per poter fumare e non far rimanere la nebbia nell’auto. «Buongiorno, comunque.», lo disse sorridendo, ma si vedeva benissimo ch’era stanca e provata. Le due, infatti, erano rimaste quasi tutta la notte sveglie a studiare per uno dei tanti esami che avrebbero poi svolto in quel periodo di sessione.
 
La ragazza ridacchiò ricambiando il saluto e il sorriso, poi continuò. «Tu sei…diciamo che sei la mia spalla umana, lui è la mia spalla felina. Siamo un perfetto trio, non trovi?», l’amica annuì non aggiungendo altro. «Oggi, comunque…», esordì la stessa, «…dovrebbe esserci il nuovo professore di pittura, finalmente quella mummia di Roselli –non era questo il suo vero cognome, lo storpiavo ogni volta per errore– se ne va in pensione. Non che le sue lezioni mi dispiacciano, anzi, è anche bravo a spiegare e insegnare, ma i suoi modi di fare con noi sono rimasti a quando c’era il duce. È anche un po’ nostalgico, sai che l’hanno beccato con il busto di tu sai chi in casa? Non dico che non me l’aspettavo, ma a dir la verità mi ha stupita come cosa.» Nel mentre continuava a guidare, pensando e ripensando a quanto le persone possano sempre sorprendere, che sia in bene o in male.
 
Giulia guardò l’amica che guidava con una mano e finiva la propria sigaretta con l’altra. «Ce lo aspettavamo tutti, ma in fondo le persone non finiscono mai di deludere. Con quel signore ci ho avuto a che fare nei laboratori di arte nel primo anno, mi ha fermata e mi ha trattenuta parlandomi di come la nostra generazione sia allo sbaraglio e di come il mondo stia andando alla rovina. Tu che ne pensi?»
 
L’amica lasciò cadere il mozzicone in un bicchiere di plastica dura che usava come posacenere, ormai stracolmo di sigarette morte. «Io penso che non sia la nostra generazione il problema e nemmeno la loro, siamo tutti un po’ parte del problema; semplicemente a tutti piace puntare il dito a quelli nati prima o nati dopo, perché è più facile avere un nemico comune da odiare, piuttosto che puntare il dito verso il pulpito e capire di essere parte del marasma in cui viviamo. Quelli che noi chiamiamo vecchiacci sono una generazione che ha vissuto la guerra e la fame, indottrinati da comportamenti tossici. Gli stessi a loro volta hanno indottrinato la generazione dopo, riversando tutto il loro dolore, rabbie represse e problemi come se quelli dopo fossero soltanto bambole di pezza. Quella generazione, cresciuta in una società che non si cura della propria igiene mentale ha riversato tutto il proprio male verso quella dopo. Qui entriamo in azione noi, figli incompresi e cresciuti da genitori che non hanno mai avuto a che fare con genitori davvero amorevoli. Sono tutti cresciuti a pane e mazzate e credono sia la cosa giusta da fare. Noi siamo il punto delle generazioni dove la linea di repressione si spezza, perché abbiamo sulle spalle il peso di tre generazioni e anche quella dopo la nostra. Il mondo non è in mano a noi, il mondo è sotto i piedi di tutti e se non ci spostiamo tutti insieme continuerà a essere lì sotto a lungo.»
 
Nel mentre la ragazza aveva trovato il parcheggio perfetto e dopo aver accostato la propria auto e averla spenta le due si guardarono negli occhi. Ci fu un attimo di silenzio, poi la stessa riprese a parlare, concludendo la cosa. «Non è colpa nostra se il mondo va a puttane, è colpa di tutti, sarà colpa nostra se non lo rimettiamo in sesto e continuiamo ad accettare questa società con tutti i suoi problemi. Siamo noi il futuro, no? Lo dicono anche loro, ascoltiamoli una buona volta, magari dicono il vero.», scesero entrambe dall’auto. «Comunque siamo in ritardo per la lezione di pittura con Fersini. Dato che è la sua ultima lezione non vedo l’ora di perdermela. Vieni con me al bar?», nel mentre sfilò l’ennesima sigaretta dal pacchetto.
 
Giulia andò di fronte a lei e gliela strappò via dalle labbra guardandola negli occhi. «Questa roba ti ammazza, lo sai vero?», lei rispose sarcasticamente, dicendo che non aspettava altro. Riprese poi la sigaretta e dopo essersela accesa si incamminò verso il bar, seguita da Corvino e Giulia. «In ogni caso, anche io la penso più o meno come te. Molte volte mi metto a pensare a tutte le cose che stanno succedendo nel mondo, hai visto la situazione in Palestina? Oppure in Ucraina? Per non parlare poi di tutti casi di femminicidio in solo pochissimi mesi in Italia e non solo. Io sono stanca di questo mondo, voglio soltanto che tutto possa andare meglio. Le persone muoiono e l’intero pianeta si comporta come si stessero spezzando dei semplici fasci di erba.»
 
Ci fu una pausa in cui entrambe si mutarono, stavano aspettando che il semaforo dall’altro lato della strada cambiasse in verde. Regnava il silenzio.
 
 
«Piume d’oca.» disse la ragazza rispondendo a Giulia.
 
«Come scusa?»
 
«Piume d’oca. Sai, le oche perdono gran parte del loro piumaggio ogni due settimane circa, potrei sbagliarmi sulla precisione della cosa, ma il punto è un altro. Noi siamo come delle piume d’oca, abbiamo un peso unico, comparato al resto delle cose non è niente, ma ogni piuma ha il suo peso e la sua importanza.», nel frattempo un signore anziano sulla settantina si avvicinò a loro, che intanto s’erano sedute al tavolo di un bar.
 
Quest’ultimo si sistemò i pochi bianchi capelli che aveva dietro la testa, raddrizzò gli spessi occhiali da vista e dopo aver preso un taccuino dal proprio grembiule nero si rivolse alle ragazze con tono gentile. «Buongiorno a voi.», riconobbe poi la ragazza, le sorrise e continuò. «Mi chiedevo dove fossi finita, lei e la signorina…Giulia, giusto? Non stavate venendo e quindi mi son quasi preoccupato. Cosa vi posso portare? Un caffè corto e un cappuccino, giusto?», le due annuirono, poi quando l’uomo si allontanò continuarono la loro conversazione.
 
La ragazza sospirò guardando l’amica. «Spero vivamente che le cose migliorino, sai cosa diceva mia nonna? Quando le cose peggiorano in realtà ti stanno dando solo il pretesto per migliorare. Tu sei una persona molto empatica e questo si vede, stai male per i problemi che succedono ad altri, ma ti ricordo di non ignorare i tuoi. Non accumularli e sfogati quando puoi.»
 
Giulia sorrise, accarezzò la mano dell’altra e in un sorriso la conversazione si chiuse in un bocciolo di rosa. «Al momento sto bene, a dir la verità, ma forse ancora non hai capito il perché.», l’altra chiese quindi quale fosse il motivo del suo buon umore che lei non riusciva a comprendere, lei subito rispose. «Sei tu. Io sto bene quando sto con te, ma tu ancora non ci arrivi da sola, hai sempre bisogno che io te lo ricordi. Credi di essere sempre inferiore a ciò che sei, ma per me, e lo dico genuinamente senza secondi fini, sei la migliore amica che io potessi mai incontrare.»
 
Dopo qualche secondo, le raggiunse lo stesso uomo anziano che prima aveva preso le ordinazioni. «Scusate per l’attesa signorine, ma sono solo qui.», da non molto, infatti, l’uomo aveva perduto la moglie che s’era fatta parecchio anziana e che aveva contratto una brutta malattia.
 
 
 
La primavera era ormai lì e il dolce suono degli uccelli accompagnava le persone in ogni dove e in ogni come. La storia che vi sto per raccontare non mi riguarda, non l’ho vissuta, ma mi è stata raccontata con tale passione che mi son sentita innamorata anche io stessa. Spero anche voi possiate vivere le belle emozioni che ho provato nel sentirla.
 
Un ragazzo dai lunghi capelli ricci e biondi si avvicinò a quello che era il suo bar preferito, era accolto non solo dal giovane cameriere poco più grande di lui, ma anche dalla musica celestiale che il grammofono all’entrata stava cantando. Si sedette a uno dei tavoli liberi dopo aver chiesto il suo solito caffè corretto con un po’ di sambuca all’interno. Tutto filava liscio, molte persone lo salutavano passando al suo fianco, altre si limitavano a sorridergli, ma una cosa era certa: era ben conosciuto e sprigionava simpatia in ogni mossa che faceva. Era il 1963 e mentre continuava a godersi le dolci note di una sinfonia a lui sconosciuta una ragazza poco più grande di lui gli passò di fianco. Non lo salutò e non gli sorrise, ma lui rimase inebriato dalla sua grazia, sembrava essere accompagnata da una nuvola di dolcezza e di eleganza.
 
Aveva dei lunghi capelli neri raccolti in uno chignon, degli occhi verdi che avevano lo stesso sentimento di un caldo bacio e mentre il cameriere cercava di chiamare l’attenzione del ragazzo, quest’ultimo era distratto dalla magnificenza di quella sconosciuta così tanto bella.
 
«Massimo, mi stai ascoltando?»
 
«Ignazio.», esordì lui, «Tu conosci quella tanto graziosa fanciulla?» Il cameriere però era già andato via e non era più lì per rispondere alle sue domande. «Fa niente.», commentò lui sottovoce, «Vediamo un po’ come si chiama colei che pare essere l’unica persona qui a non conoscermi.», s’alzò spostando la sedia sul quale era seduto e portando con sé la propria tazzina di caffè si avvicinò al bancone. Lui e la dolce ragazza si scambiarono un paio di occhiate e un sorriso sconosciuto. «Posso chiedere il nome a questa madreperla fuori mare?»
 
Lei ridacchiò imbarazzata. «Lucia, Lucia Vosai. Da chi ho il piacere d’esser corteggiata?», chiese lei in modo diretto, cercando di spezzare il ghiaccio. Il ragazzo rimase basito, non s’aspettava che il suo tentativo di conoscere una così bella dolcezza fosse scoperto e inteso come corteggiamento.
 
«Corteggiarla? Io?», fece un sorriso ch’era più un ghigno, «Signorina lei mi ha quasi scoperto, ma non del tutto a dir la verità, la mia era della genuina bontà verso una dolce e bellissima fanciulla. Io, in ogni caso, mi chiamo Massimo. Solo Massimo, per il momento. Posso offrirle un caffè?»
 
Lei ridacchiò ringraziandolo per le dolci parole che lui le aveva dedicato, poi lo guardò con il sorriso stampato in volto. «Non bevo caffè, mi spiace, sono qui per delle questioni di famiglia, non le interesserebbe quindi le evito la noia di starmi ad ascoltare. Ora, però, debbo andar via, è stato un piacere incontrarla, Massimo, sembra lei sia molto conosciuto da queste parti.»
 
Lui annuì e con malincuore salutò e vide allontanarsi quell’angelo che aveva scosso qualcosa in lui. Lasciò la tazzina bianca sul bancone del bar, nonostante non ne avesse ancora bevuto nemmeno un sorso e raggiunse la bella ragazza che era appena oltre l’uscio del portone. «Lucia.», iniziò lui richiamando la sua attenzione e il suo nome, «Posso invitarla a degustare un bel calice con un po’ di Chopin alla cantina di mio padre? Abbiamo degli ottimi vini e per lei offre la casa, ovviamente.», lei ci pensò su un attimo, poi disse che la cosa le interessava e non poco. Accettò l’invito e di rimando invitò lui ad accompagnarla sulla strada di casa in quel momento.
 
Massimo alzò quindi il gomito e invitò la ragazza a mettere il suo braccio sotto di esso. Insieme iniziarono quindi a camminare verso la strada sottobraccio. «Mi parli un po’ di lei.», disse Lucia, per poi continuare. «Ha detto che suo padre possiede una cantina, se non vado errando, lei, invece, di cosa si occupa? Se posso domandarlo, è ovvio.»
 
«Il mio lavoro non le interesserebbe, in tutta onestà, faccio l’architetto, ma da un po’ di tempo desidererei aprire un bar tutto mio, progettato e creato da me chiaramente. Molti dicono che erro, che dovrei continuare la mia vita da architetto, ma questi sono i progetti che i miei genitori avevano per me e non che io avevo per il mio futuro. Lei, invece, di cosa si occupa?»
 
La ragazza ridacchiò guardandolo e gli rispose continuando a ridere con leggerezza. «Non mi crederà se glielo dico, ma anche io avevo intenzione di aprire un bar tutto mio. Al momento non ho un’occupazione, sbrigo le faccende di casa insieme alle mie due sorelle, mia madre è molto malata e ho poco tempo, ma vorrei così tanto essere libera anche io di poter fare ciò che vorrei. Loro non si aspettano molto da me, come può immaginare, noi donne non abbiamo così tante aspettative in questo mondo fatto a misura d’uomo.»
 
Massimo si fermò di colpo, poi rispose. «Non sono d’accordo. Voi donne potete dare al mondo cose che noi uomini non possiamo nemmeno immaginare. Un mondo a misura d’uomo è possibile solo grazie a voi donne. Desidererei che voi veniate più ascoltate e apprezzate. Lei crede in dio?»
 
«Certo!», esclamò lei con gran gioia, «E gli sono tanto grato della vita che mi ha donato. Non sono molto praticante, ma ammetto di essere tanto devota e che punto a essere una brava cristiana, di amare Dio e di metterlo a primo posto tra tutti.», poi lo guardò con occhio dubbioso, «Ma perché me lo chiede? Lei non crede nel santo padre?»
 
Lui scosse il capo dicendo di non crederci affatto. «Ma non è questo il punto. L’importante è che ci creda tu. Vedi, nei sacri testi viene detto che la donna è stata creata dalla costola dell’uomo e io non ci credo, ma non perché io non creda in ciò che dice la Bibbia. Piuttosto, dico io, è stata la donna a creare l’uomo, dio a mio parere, se proprio dovesse esistere sarebbe una donna. L’uomo è stato l’atto di amore di una grande donna, poi quel che viene dopo è tutto fuffa. L’uomo non ha mai apprezzato di sentirsi inferiore alla donna, quando in realtà era al pari merito. L’uomo, quindi, invidioso della donna, l’ha zittita, messa in gabbia, come un uccellino che canta troppo. Perché ha paura dell’uguaglianza di cui nemmeno si accorge.»
 
Lucia sorrise. «Lei è un uomo saggio. Ma quanti anni ha? Se posso chiederglielo? Io…e ora te lo dico…anche se non si chiede l’età a una signora e anche se non me l’hai chiesto…ho ventisette anni.», lui rispose di averne solo uno in meno, dicendo fieramente di essere figlio di un grande partigiano. «Ma guardi un po’, anche mio padre è partigiano, anzi…», in questo punto della frase sembrò rallentare tutto, il modo in cui parlava, in cui si muoveva e respirava. Non sorrideva nemmeno più come prima. «…lo era. È stato ucciso con la faccia contro il muro, davanti agli occhi miei e della mamma.
 
 
 
 
Era l’inverno del lontano 1944. La storia che le sto per raccontare mi riguarda, io c’ero e la ricordo così bene che tutt’ora sento le voci.
 
Bussarono quattro volte alla porta di casa nostra, lo fecero con forza, un rumore tanto detestabile quanto temibile. Quando mia madre la aprì, si fece spazio un soldato tedesco che irruppe in casa senza nemmeno salutare, non chiese permesso e nemmeno buongiorno. Arrivò nell’ufficio di mio padre, lui fumava il suo sigaro mentre mi disegnava il ritratto dell’uccellino che mi aveva regalato e che tenevamo in una gabbietta in soggiorno. I due si guardarono negli occhi, lui gli parlò in tedesco e l’altro gli rispose allo stesso modo. Il grande uomo ch’era mio padre poi s’alzò, diede un bacio a me e uno a mia madre e mentre l’altro lo ammanettava mia madre gli corse contro piangendo. Io non capivo, ero piccola e non capii nemmeno il perché quello stesso soldato stesse ammanettando anche mia madre, che scoprii essere complice di mio padre, anche lei partigiana. Ci portarono in una piazza dove mi lanciarono nella folla di spettatori, dove una donna mi coprì gli occhi e mi tenne il viso coperto per tutto l’atto. Mia madre venne liberata non so per quale motivo, ma mio padre no. Lui venne fucilato e io riuscì a riconoscere lo sparo preciso che lo uccise. Morì d’inverno, al freddo e non aveva nemmeno una coperta. Te ne rendi conto? Era solo e al gelo.»
 
Si asciugò poi le lacrime che erano cadute coraggiose sul suo dolce viso e sforzandosi di sorridere cercò di ricomporsi. «Mi perdoni, sono molto legata a mio padre e mi manca ogni giorno di più. Spero lei riesca a capirmi.»
 
Continuarono poi la loro passeggiata e una volta arrivatз davanti alla casa di lei si separarono, per poi però reincontrarsi qualche ora dopo alla cantina del padre di Massimo. Entrambз erano sedutз ad un tavolo di legno dal colore chiaro e sorseggiavano insieme lo stesso vino bianco. Cominciarono a parlare di musica e l’argomento era entrato in gioco proprio perché prima che lei arrivasse il ragazzo aveva preparato dei vinili di musica classica che poi ascoltarono insieme. Lucia diceva di preferire Wagner, Massimo, invece, Vivaldi e tutta la musica nostrana.
 
Le loro vite così iniziarono a congiungersi, unirsi all’unisono in una passeggiata che durò un’intera esistenza. L’anno dopo, fecero insieme il loro viaggio dei sogni, volando verso il Giappone durante il periodo dei ciliegi in fiore e proprio sotto l’ombra di uno di essi lui si inginocchiò davanti a lei e con un piccolissimo cofanetto rosso in mano, dentro al quale si nascondeva un anello, le chiese di sposarlo. Rispose di sì. Il resto è storia.
 
«Quando morì.», disse lui alle ragazze che lo stavano ascoltando parlare, «Era inverno e fuori c’era la neve. Mi guardò negli occhi e mi disse “Grazie, con te la mia vita ha avuto più senso di quella che avrebbe avuto normalmente.” Poi chiuse gli occhi, dicendo che finalmente si sarebbe riunita al padre e la madre e concluse la sua vita donandomi un ultimo “Ti amo”. Non ci baciammo come nei film, non ci baciavamo da un po’ di anni, a dir la verità, ma a mio parere quando raggiungi una certa età d’amore, le manifestazioni d’amore diventano così scontate che l’unica cosa che rimane è l’amore stesso.», s’asciugò la lacrima che era caduta dal suo unico occhio buono, (l’altro era di vetro), poi si voltò e tornò al bancone.
 
Prima che ci arrivasse, però, la ragazza lo fermò. «Signor Massimo, se ha bisogno di una mano con il bar io sono disoccupata al momento, potrei provare a lavorare con lei. Ho anche una certa esperienza in merito.», lui rispose che gli avrebbe fatto tanto piacere, dopo di che si sedette al tavolo con loro e insieme cominciarono a parlare di lavoro, di stipendio e quant’altro. La conversazione non durò molto, perché subito dopo entrarono un bel po’ di clienti e l’uomo dovette alzarsi per andare a servirli. «Domani si inizia.», concluse lei guardando l’amica e sorseggiando il proprio caffè.
 
 
   
 
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