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Autore: Mikirise    29/02/2024    1 recensioni
I video che più si avvicinano alla parte umana di Deku sono quelli girati durante il funerale di All Might. Se Deku si fosse trovato o avesse avuto un’agenzia normale alle sue spalle, quei video sarebbero stati cancellati dalla faccia della terra e molte persone sarebbero state denunciate per un comportamento così cattivo nei suoi confronti, ma Deku è l’agenzia di eroi All Might, una one-man agency in cui non solo non ci sono spalle, non ci sono nemmeno avvocati, non ci sono curatori dell’immagine personale online e nella vita reale o consulenti esterni. Perché l’agenzia è soltanto Deku e perché per lui è inutile danneggiare il rapporto con le persone per piccolezze come lo stalking, quei video sono così facili da trovare da far salire il sangue al cervello per la rabbia.
In effetti, era solo questione di tempo prima che Deku perdesse la testa, in una situazione del genere.
«Come faccio a tirarti fuori da lì?» borbotta Katsuki.
O, dopo la morte di All Might le strade di Bakugou e Midoriya si incrociano di nuovo nonostante siano in due fasi differenti della vita
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Best Jeanist, Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Katsuki sbatte le palpebre un paio di volte prima di alzare lo sguardo verso sua mamma che legge le notizie sul cellulare come se non fosse stata lei a lasciargli un cazzo di dossier davanti. «Che cazzo è?» chiede, spingendo il dossier verso sua madre con la punta delle dita. Si stropiccia gli occhi, è appena tornato a casa dopo un turno di diciotto ore, è stanco e anche irritato, assonnato al meglio e distrutto al peggio, ma il suo istinto non sbaglia e appena escono queste parole dalla sua bocca e vede il dito di sua madre scattare accanto all’avambraccio, pronta ad aprire la mano e alzarla contro Katsuki, lui è pronto a scattare un po’ indietro con la sedia. Ma la mano della mamma non si alza e lui non si tira indietro. «Cos’è?» ripete, ruotando gli occhi.

La mamma, Mitsuki, mantiene le braccia incrociate. Lascia il cellulare sul tavolo, con calma, con tanta lentezza che fa quasi paura. Non spinge il dossier verso Katsuki, appoggia le spalle alla sedia e sospira, piuttosto. «Appuntamenti al buio» spiega. «Sono profili di ragazze che si sono iscritte al programma di appuntamenti al buio.»

Katsuki aggrotta le sopracciglia, tirando verso di sé il dossier con un’aria confusa. Forse il troppo sonno gli sta dando alla testa e adesso sente cose che non sono reali. Forse sta sognando, o sta avendo qualche incubo e si deve pizzicare e si risveglierà nel bel mezzo della strada, tra dei rifiuti mentre lo guardano dei ragazzini che si chiedono che tipo di eroe lui sia. Non sarebbe nemmeno la prima volta. Gli formicolio le braccia e sente quel fantasma di dolore alla schiena che gli rende difficile pensare con lucidità. «E cosa c’entra questo con me?» chiede, accarezzandosi il ponte del naso. Appena chiude gli occhi sente un po’ di sollievo e la voglia di abbandonare la testa sul tavolo e dormire, senza sentire troppe stupidaggini. Doveva tornare al dormitorio. Lui lo sapeva che sarebbe dovuto tornare al dormitorio. Non succede mai niente di buono quando decide di tornare a casa.

«Con te?» la mamma sbuffa una risata, scuotendo la testa. «Ti potessi mandare a degli appuntamenti al buio lo avrei già fatto, non pensi? Ma hai ventinove anni, sei ancora una spalla, non hai una casa, vivi coi tuoi genitori, e guadagni una miseria. Quale donna sana di mente ti sposerebbe? Sarebbe troppo umiliante mandare mio figlio incapace e buono a nulla a questi incontri.»

Katsuki sbatte piano le palpebre. «Non guadagno poi così male» è l’unica obiezione che riesce a tirare fuori dalle labbra. Si gratta sotto l’occhio e alza un po’ il mento. Non ha intenzione di convincere sua mamma che è un buon partito, sarebbero solo più grattacapi. Il motivo per cui ancora non ha aperto una sua agenzia, il motivo per cui ancora non è del tutto un eroe e per cui non è ancora andato via di casa sono un misto di decisioni prese da lui e sfortuna che non è facile spiegare e che non vuole certo rendere noti a sua mamma. Nemmeno gli importa più. Vorrebbe solo andare in camera sua e dormire. «E quindi. Perché mi stai dando questo?»

«Devi darlo a Inko-chan.» Mitsuki scuote un po’ la testa e sul suo viso sembra essere nata un’espressione di rara compassione. Cerca tra le tasche del pantalone, abbassando lo sguardo per controllare meglio dove vanno a finire le sue mani. Tira fuori delle sigarette che rigira tra le dita con aria assorta, la apre con aria pensierosa e si porta una sigaretta alle labbra con una punta di sollievo sulla sua espressione piena di compassione. «La poverina ha un figlio che può mandare agli appuntamenti al buio. Ventinove anni, alto nella classifica degli eroi, economicamente indipendente e nemmeno una ragazza al suo fianco. Inko-chan vorrebbe dei nipotini.» Accende la sigaretta, coprendo una risata sarcastica. «Poverina.»

«Che vuoi dire?» Doveva tornarsene al dormitorio.

Mitsuki, la mamma, posa il suo sguardo su suo figlio. Fuma. Ispira, con due dita allontana la sigaretta dalle labbra, espira e crea una nuvoletta di fumo tra lei e suo figlio. Nonostante il fumo tra loro, Mitsuki riesce a vedere Katsuki e Katsuki riesce a vedere sua mamma. «Tu sei un figlio con molti difetti» gli dice. «Rispondi male, sei incompetente, mangi troppo e sei troppo rumoroso. Magari non sei ancora un vero adulto e non ti sai tenere sulle tue gambe da solo, ma non sei comunque difettoso come lo è Izuku-kun. Ho sempre pensato che fosse un bravo bambino, fin da quando era piccolo, intelligente, obbediente, diligente, mi è sempre sembrato che dovesse rimediare a un difetto più grande di tutti i tuoi difetti.» Giocherella con la sigaretta tra le dita, con lo sguardo basso. «Tu sai che anche io voglio dei nipotini.»

Katsuki chiude gli occhi. Si passa entrambe le mani sul viso e sospira. Mitsuki non deve dire le cose che non è giusto che siano dette ad alta voce. Ha capito. Ha troppo sonno per poter affrontare tutto questo in questo momento. «Mi hai rotto il cazzo» borbotta.

«Ricordati di consegnare il dossier.» La mamma nemmeno lo guarda. Continua a fumare, alzando un po’ il mento per soffiare sul fumo e sostituirlo con altro fumo. «Sono gesti inutili, è vero, ma Inko-chan è una mia amica. Le voglio bene.»

Katsuki si trascina in camera.

È stanco, gli fa male la schiena.

 

 


 

 

Katsuki arriva in ufficio e sente il dossier pesare nel suo zaino più di quanto pesino le bottiglie d’acqua. Posa lo zaino sulla scrivania che Best Jeanist gli ha consegnato qualche anno fa e si guarda intorno, la stanza vuota con le luci spente e sempre meno persone che conosce. 

A volte ha la sensazione che siano solo lui e Best Jeanist a rimanere in quest’ufficio, mentre tutto intorno a loro cambia e tutto intorno a loro passa. Le classifiche degli eroi cambiano, gli eroi che prima erano in alto alla classifica scivolano verso il basso ed eroi più giovani guadagnano posizioni, le persone si ammalano e poi guariscono, ragazzini guadagnano la loro licenza e vigilanti vengono arrestati ed eppure Best Jeanist rimane lì, seduto alla sua scrivania, con un pettine in mano e un’espressione serena e ogni mattina, quando lo vede entrare in ufficio gli chiede: «Quanti bambini hai salvato venendo qui?» e Katsuki, nonostante siano passati anni da quando hanno iniziato a lavorare insieme, ancora non ha capito se è una frase ironica o una domanda genuina.

Katsuki guarda Best Jeanist. Aggrotta le sopracciglia. «Che domanda del cazzo» borbotta, come ogni mattina prima di camminare verso la scrivania di Best Jeaninst e lasciargli un bicchiere di carta alto e pieno di latte e caffè, uguale al suo che tiene nell’altra mano. «Sbaglio o qua siamo sempre meno? Non dovresti fare qualcosa per tenere alto il tuo nome in classifica, piuttosto che stare qui a farmi domande di merda?»

«Stanno lavorando al caso del cimitero al centro. Cercano di aiutare i guardiani e tranquillizzare i parenti dei morti finché il guasto non sarà riparato.»

Katsuki sbuffa una risata sarcastica. «Chissà se compiti così sveglieranno quei buoni a nulla» borbotta, togliendosi la giacca e buttandola sulla sedia. «Beh, almeno non sono dovuto andarci io.»

«È normale che gli eroi finiscano in fondo alla classifica dopo una certa età» riprende il discorso con calma Best Jeanist. Si riscalda le mani posandole sul bicchiere di carta pieno di caffè. Non sorride e nemmeno sembra triste. È solo lì, con il suo ciuffo di capelli sulla fronte e un colletto fatto di denim che quasi gli copre le labbra. Beve il suo caffè come se stessero discutendo del tempo. «Se anche ci impegnassimo di più, sarebbe impossibile lavorare come lavorano gli eroi più giovani, alcune missioni richiedono delle capacità fisiche che non possono essere mantenute per tutta la vita ed è più facile, con l’età, rimanere indietro piuttosto che tirarsi avanti.»

Best Jeanist non ha nemmeno quarant'anni.

Katsuki si siede davanti alla scrivania del suo capo, accavalla le gambe e si lascia scivolare verso il basso in una posizione scorretta per sedersi. Guarda Best Jeanist bere il suo caffè con calma e pensa che quando lo ha incontrato credeva fosse un vecchio decrepito a un passo dalla tomba. Best Jeanist aveva meno della sua età quando lo ha preso sotto la sua ala, gli ha piastrato i capelli e gli ha cercato di insegnare un po’ di buone maniere, fallendo miseramente. 

Con l’età che avanza, le persone adulte ti sembrano bambini, e Katsuki non può non pensare che Best Jeanist era un ragazzino mentre raccoglieva cani randagi in giro per le scuole di eroi, così come era un ragazzino quando ha ricevuto la sua licenza da eroe. C’è sempre un pericolo, un’emergenza, una catastrofe che spinge le scuole di eroi a mandare in campo i suoi studenti con licenze provvisorie. 

Katsuki ha iniziato il suo lavoro da eroe a quindici anni, ed era un ragazzino, Best Jeanist ha iniziato a tredici ed era un ragazzino ancora più piccolo. Per tutta la sua vita è stato un eroe, non conosce altro se non essere un eroe, la voce gli è cambiata mentre stava sul campo di battaglia, è diventato più alto mentre combatteva e il suo cervello è maturato mentre raccoglieva spalle perché non finissero nella parte sbagliata della storia. Quando si è ammalato ha continuato a essere un eroe, quando era a un passo dalla morte ha continuato a essere un eroe, nessuno ricorda nemmeno il suo vero nome prima di diventare Best Jeanist, e tutti lo hanno acclamato, la gente comprava le sue figurine e le attaccava dietro al telefono, i suoi poster da tenere in camera e i giornali che pubblicavano le sue interviste per tenere le sue parole sempre con loro. E adesso di tutto questo sono rimaste qualche spalla, Katsuki e dei coglioni buoni a nulla che non fanno che piangere, un ufficio e delle figurine che sono preziose non perché ritraggono Best Jeanist ma perché sono vintage.

Best Jeanist non ha nemmeno quarant’anni.

«La maggior parte del lavoro lo fai comunque tu, qui» continua Best Jeanist, posando la tazza sulla scrivania. «E ho intenzione di ritirarmi. Volevo aspettare che anche l’ultima spalla se ne andasse, prima di parlartene, ma ho intenzione di ritirarmi e non ho mai avuto il coraggio di prepararti all’eventualità. Tu fai la maggior parte del lavoro, ti occupi della pattuglia e delle missioni, hanno iniziato a chiamarti Best Jeanist Jr…»

Katsuki ruota gli occhi. «Che cagata» borbotta, portandosi il caffè alle labbra.

«Vorrei che tu prendessi l’agenzia in mano e anche il mio nome» continua Best Jeanist, ignorandolo.

Nell’ufficio cala il silenzio. Katsuki ha quasi sempre le sopracciglia aggrottate e questa volta le aggrotta ancora di più, lasciando a mezz’aria il caffè mentre cerca di capire le parole che sono state appena pronunciate. Guarda Best Jeanist, Hakamada Tsunagu, si tira a sedere con la schiena dritta, composto per una volta per lo spavento che sta provando. Sente che la maggior parte del sangue che stava fluendo sul suo viso è sceso alle sue gambe, per lo spavento che sta provando.

«La tua decisione non influenzerà la mia.» Best Jeanist ha ancora cose da dire, a quanto pare. «Che tu prenda o non prenda in mano quest’agenzia, ho intenzione di ritirarmi. La mia salute si è deteriorata col tempo e non sono più utile come eroe, i ragazzi non vengono più da me per sentirsi al sicuro e non ho più molti sponsor per mantenere l’attività. Ho risparmiato, come facciamo tutti, per poterci permettere una vita umile dopo l’eroismo, nel caso ci fosse una vita dopo l’eroismo, e non ho rimpianti. Solo, volevo che tu sapessi che l’unica persona che può ereditare il mio nome da eroe, l’unica persona di cui mi fido perché non porti disonore a Best Jeanist, quello sei tu. Puoi rifiutare. Il nome rimarrebbe privatamente tuo dopo il mio ritiro.» 

Katsuki lascia il bicchiere di carta sulla scrivania di Best Jeanist. Si alza in piedi e torna alla sua scrivania per prendere lo zaino in cui tiene il dossier degli appuntamenti al buio di Deku. Quando ha conosciuto Best Jeanist pensava che fosse un vecchio decrepito a un passo dalla tomba e adesso Best Jeanist gli ha detto che anche lui la pensa in questo modo. Gli eroi diventano eroi a quindici anni, più o meno e si ritirano, quelli che riescono a sopravvivere, intorno ai trentacinque anni, pochi arrivano ai quaranta. Prima di quel momento, sono solo eroi, non c’è altro nella loro vita che non sia essere eroi e la gente li ama, li adora tanto quanto i cattolici adorano i loro santi. Solo che i santi non invecchiano e non muoiono più, mentre gli eroi invecchiano e passano di moda e muoiono e tutti li dimenticano. Katsuki sbatte le palpebre. Si gira verso la scrivania di Best Jeanist, lo indica con un dito. «Vaffanculo» dice trai denti. Si infila lo zaino sulle spalle ed esce dall’ufficio sbattendo la porta.

Non è vero che la maggior parte degli eroi risparmia per una vita dopo l’eroismo. 

Gli eroi muoiono essendo eroi, alcuni sul campo di battaglia, alcuni in ospedale tra sangue e così tanto dolore che la morte sembra essere un’amica, ma muoiono indossando il proprio mantello. Ritirarsi, andare in pensione, non è possibile.

Non c’è vita né prima né dopo l’eroismo.

 

 


 

 

«Fare la raccolta differenziata è un po’ un gioco» spiega Deku con un sorriso tra le labbra. Ha una bambina seduta sul ginocchio e un bambino seduto accanto a lui e, intorno a loro, ci sono tanti altri bambini con un cappellino giallo e il grembiule blu, che provano ad avvicinarsi al grande eroe Deku, che ormai tutti chiamano All Might. Deku ha i capelli scompigliati e la vecchia tuta che gli ha cucito la mamma, indossa la sua pazienza sul viso ed è così tanto tempo che Katsuki non lo vede che quasi fa un passo indietro al vedere il suo viso meno tondo, le sue spalle un po’ più larghe e sentire la sua voce un po’ più profonda. È dal giorno del diploma che non lo vede. «Ogni cosa ha il suo posto. Come mangiate il pranzo? Lo usate il sistema triangolare?»

I bambini iniziano a parlare. Sì, sì. Sì! Sì, certo, non esiste un altro modo. Il sorriso di Deku si scioglie un po’ di più e annuisce. Alza lo sguardo per vedere i bambini più lontani. Non vede le maestre dell’asilo, con le orecchie rosse e le mani davanti alle labbra per nascondere il loro sorriso, non vede la sua figurina attaccata sul telefono di una delle maestre, non vede nemmeno quel maestro che ha smesso di respirare nella speranza che nessuno si renda conto che si trova qui. Lo sguardo di Deku incontra gli occhi di Katsuki e di nuovo il suo sorriso si congela, prima di tornare a guardare i bambini. Nessuno si rende conto di niente. Tutti continuano a pendere dalle sue labbra.

«Come per il sistema triangolare per mangiare a pranzo, le cose da buttare hanno un loro ordine e un loro posto. Ad esempio, dove mettiamo questa bottiglia? Nel recipiente blu? In quello giallo? In quello verde? Oppure lo mettiamo in quello marrone?» Deku prende in mano una bottiglia di plastica. Sorride ai bambini, indossa la sua pazienza sulle guance. «Per rispondere, dobbiamo sapere che ogni colore rappresenta un certo tipo di spazzatura…»

A Katsuki non importa molto seguire una lezione di riciclaggio. Si siede su una panchina del parco e prende in mano il cellulare, controllando la sua agenda per capire più o meno quanto tempo ha prima di dover tornare in ufficio a ignorare qualsiasi cosa Best Jeanist abbia da dire. Lancia uno sguardo a Deku, che ha preso a ignorarlo, e pensa che anche lui ogni tanto deve andare nelle scuole materne a fare stupide lezioni di riciclaggio a dei bambini che fanno troppe domande e che non sono per niente carini. È uno dei lavori che di solito gli eroi lasciano alle spalle della propria agenzia, Best Jeanist amava farlo di persona, forse perché gli piacciono i bambini, ma col tempo ha dovuto rinunciare a molti lavori e Katsuki è dovuto subentrare come se fosse il principe ereditario dell’agenzia. A volte lo chiamavano così, le altre spalle. Il principe ereditario. Il figlio preferito, l’erede, il capetto, lo dicevano con così tanto affetto e sollievo che Katsuki li ha sempre ignorati senza litigare nemmeno una volta per difendere la sua individualità o negare il suo legame con Best Jeanist. Il vero principe ereditario, però, la persona che ha ricevuto il primo posto da eroe e che ha saputo tenerselo e che ama aver ricevuto il nome del suo eroe, è Deku.

È uno importante Deku, cazzo.

Katsuki blocca il cellulare. Sospira. Non si vedono dal giorno del diploma, lui e Deku. Vuol dire che non si vedono da più di dieci anni e sono successe così tante cose tra di loro, sono successe così tante cose a loro, che Katsuki aveva pensato sarebbe stato meglio continuare a non vedersi. Il giorno del diploma, Deku gli ha detto con quel suo sorriso di circostanza che gli augurava ogni bene ma che forse sarebbe stato meglio dividersi per un po’. Sono amici, Deku per qualche motivo considerava Katsuki il suo amico d’infanzia quindi quello rimarranno, certo, ma…

Quando Deku era piccolo era un bersaglio facile, perché indossava le sue emozioni sul viso tutto il tempo. Piangeva, piangeva sempre, aveva gli occhi grandi e pieni di lacrime in continuazione, quando aveva paura i suoi occhi erano pieni di paura e lacrime e quando veniva spinto per terra i suoi occhi erano pieni di confusione e lacrime. Era facile farlo piangere. Katsuki sa quanto fosse facile farlo piangere. Ma era così facile anche farlo ridere! Quando era felice, il suo viso brillava, quando era incuriosito sembrava che una scossa di elettricità salisse sulla punta dei suoi piedi fino alla punta dei suoi capelli e quando rideva, rideva a voce così alta che chiunque sentiva la sua risata e aveva voglia di ridere. Era onesto, quando erano piccoli. C’erano cose strane nel suo modo di esprimersi, questo sì. Katsuki non capisce perché piangesse sempre in silenzio e perché ridesse sempre rumorosamente, ma perché sono cresciuti insieme, riconosce i sorrisi di Deku da prima di riconoscere i kanji. 

Al liceo, Deku piangeva ancora. Era un po’ più raro, è vero, e i suoi occhi erano un po’ meno grandi, quindi era più difficile vedere le sue lacrime raggrupparsi davanti all’iride, ma era comunque facile farlo piangere. Vista l’influenza diretta di All Might, era facile vederlo con gli occhi pieni di lacrime e una smorfia sulle labbra che doveva essere un sorriso ma sembrava essere un ringhio. Mostrava i denti quando aveva paura e cercava di sorridere come rideva quando era piccolo, ma per quanto fosse facile farlo piangere, quando è entrato al liceo era più difficile farlo ridere. Non ci riusciva Faccia Tonda, non ci riusciva Sonic e di sicuro non ci riusciva Metà e Metà. Ottenevano un sorriso, a volte, una risata premeditata, una pacca sulla spalla. Non conoscendo Deku prima del liceo, nessuno di loro si è reso conto che stava fingendo. Non che importasse.

Dicono che dopo il diploma il sorriso di Deku sia molto migliorato. Dicono anche che nessuno lo ha più visto piangere. Non ha pianto al funerale di All Might, ad esempio, nonostante le telecamere fossero puntate su di lui nella speranza di vederlo spezzarsi davanti a loro. Adesso è rimasto solo il sorriso plastico di Deku l’eroe, l’erede di All Might.

Katsuki si morde l’interno delle guance.

«Se hanno mandato te, devono essere disperati.»

Katsuki alza lo sguardo verso Deku, che tiene in braccio due bambini delle materne. I due bambini, un maschietto e una femminuccia, hanno il moccio al naso e gli occhi lacrimosi. Abbracciano Deku, il bambino gli abbraccia il collo e la bambina gli abbraccia le mani, pulendosi lacrime e moccio sulla cintura di Deku. E Deku, un Deku più alto di quando si sono incontrati l’ultima volta, un Deku con gli occhi un po’ più piccoli e meno lacrimosi, con le lentiggini che iniziano a sembrare delle macchie più profonde dopo tutto il tempo che ha passato sotto il sole, e che sembra essere cresciuto e aver finalmente riempito lo spazio sotto il suo mantello, lancia loro un’occhiata, tira fuori un fazzoletto dalla cintura e si abbassa per posarlo sul naso della bambina e mimarle di soffiare.

«Mi manda mia madre. Per gli appuntamenti al buio.» Katsuki non pensa che Deku abbia capito perché è qui. Non pensa nemmeno di voler sapere chi pensava che lo avesse mandato. Apre il suo zaino e muove da parte lettere e documenti per prendere il dossier di un bianco immacolato con sopra il nome Midoriya Izuku. Glielo passa con una mano e guarda Deku mettere giù il bambino che non vuole lasciargli andare il collo. Gli sorride, lo mette per terra, gli dice che non andrà da nessuna parte e che può aspettare seduto sulla panchina o giocare con gli altri bambini ma che promette, lo promette con giurin giurello, non se ne andrà senza salutare. Katsuki rimane con il dossier a mezz’aria, in attesa di consegnare una cartella troppo pesante per lui. Torna a parlare soltanto quando Deku prende il dossier in mano e lo gira tra le mani, con un sorriso plastico. «Me ne vado» lo informa, chiudendo lo zaino e alzandosi in piedi.

Deku annuisce e china leggermente la testa per salutarlo e Katsuki fa lo stesso, ma, una volta in piedi, rimane pietrificato sul posto. Sente come se qualcosa lo tirasse indietro e si morde l’interno delle guance. Sente di non doversene andare. Come se, se andasse via adesso, senza dire niente, nonostante avesse accettato di non parlare più con Deku, nonostante fosse stato così bravo a stare lontano dalla sua vita per più di dieci anni, sarebbe successo qualcosa di terribile.

Katsuki continua a mordersi l’interno delle guance. Cerca di pensare a un argomento di conversazione, un qualsiasi argomento o frase di circostanza. Si sono mai fermati a parlare loro due? Di cosa? Parlavano di voti a scuola? No. No, non erano mai abbastanza calmi per parlare di voti o di scuola. Parlavano di All Might? Hanno mai parlato di All Might? Katsuki aggrotta le sopracciglia, si gratta dietro l’orecchio con un dito e sospira. Non hanno mai parlato, loro due? Si sono mai detti qualcosa di mondano, qualcosa di personale? «Ci andrai?» chiede alla fine. Indica il dossier con il mento. Appena fa la domanda si rende conto di aver toccato l’unico argomento che sia lui che Deku avevano concordato a non toccare mai. 

Deku sbatte le palpebre. Lo fa una volta. Lentamente. Poi sbatte le palpebre più velocemente, come se fosse stato colpito da uno schizzo d’acqua. Le sue labbra piegate in un sorriso di circostanza, per una frazione di secondo, si piega verso il basso. Torna, sul suo viso, un sorriso plastico. «Non penso che siano affari tuoi» risponde.

Katsuki ruota gli occhi perché non è abituato a chiedere scusa. Alza la mano per salutarlo e fermarlo dal parlare. Sa già di aver fatto un errore, non vuol dire che vuole sentire qualcuno essere arrabbiato con lui. Non è il periodo giusto, non ne ha voglia. «Ho da fare» borbotta. Scuote la testa, si chiede perché avrebbe voluto parlare con lui, perché rimanere qui più tempo del necessario. «Lascia perdere.» Sistema lo zaino sulle spalle e va via quasi marciando. Ha le orecchie rosse di rabbia e imbarazzo e aveva giurato che non si sarebbe più avvicinato a Deku per un motivo.

Non si gira per guardare indietro.

Non vede cosa fa Deku quando lui decide di andare via.

 

 


 

 

«Ci sono diversi motivi per cui non puoi lasciarmi il nome» inizia Katsuki con le sopracciglia aggrottate e lo sguardo basso su Best Jeanist che sistema dei cerotti intorno alle unghie delle dita.  

Katsuki ha la brutta abitudine di mangiarsi le unghie. Non lo fa spesso, non lo fa davanti a nessuno. Morde le unghie e si mette a pensare alle cose che sono andate male e sono fuori dal suo controllo. Sua madre che vuole nipoti, Inko-chan che vuole che Deku si sposi e Deku che non ha risposto alla sua domanda e ancora non ha intenzione nemmeno di conversare con lui. Pensa a Best Jeanist che non ha trentotto anni e l’intenzione di morire, o abbandonare il mantello, che è più o meno la stessa cosa. Si stava grattando le pellicine accanto alle unghie quando Best Jeanist lo ha trovato, stava pensando, cercando di capire che cosa sta succedendo nella sua vita. Stava contando su quante persone può appoggiarsi e con chi si può confidare per togliersi questo peso di dosso. Il conto è arrivato a 0. Non gli è venuto in mente nessuno con cui parlare.

Best Jeanist ha acceso la luce dell’ufficio ed è entrato da quella porta quando Katsuki è arrivato a questa conclusione. Non può parlare con nessuno. Bam. Best Jeanist appare.

Le spalle fanno il turno di guardia al cimitero, non c’è nessuno al di fuori di Katsuki e Best Jeanist. Se la situazione persiste, Katsuki dovrà chiamare Scintilla e chiedergli se è già a lavoro sul caso o se può andare a controllare quei buoni a nulla delle spalle di Best Jeanist. Magari vedere le sue spalle lavorare nell’ufficio può far rinsavire Best Jeanist. Magari la soluzione a questo problema sono quegli inutili, maleducati, imbranati ragazzini.

«Per prima cosa, hai sempre detto che non avresti lasciato che un moccioso maleducato diventasse Best Jeanist. Dov’è finita questa determinazione, uh?»

Best Jeanist gli sistema un cerotto sul mignolo, un gesto che è un po’ una punizione e un po’ un modo per prendersi cura di Katsuki. Alza lo sguardo, Best Jeanist, e posa il dito indice tra le sopracciglia di Katsuki per sciogliere il nodo di rughe di confusione sul viso della sua spalla. «Falla finita» lo rimprovera. «Sei un adulto.»

Katsuki abbassa la testa.

«Non ti ho detto che mi sarei ritirato per tirare fuori la parte immatura di te» dice, ed eppure sembra divertito dall'immaturità di Katsuki, cosa che lo incazzare, gli fa salire il sangue alle orecchie e gli fa pizzicare il naso. Best Jeanist abbassa il dito e tiene tra le mani una mano di Katsuki. Osserva la sua spalla, nasconde le sue espressioni dietro il colletto denim, ma i suoi occhi sono un po’ curvato con affetto. Gli posa una mano sulla spalla e gli dà una pacca che sta tra il forte e il gentile. Una via di mezzo tra un incoraggiamento e un gesto di conforto. «Te l'ho detto solo perché voglio che tu lo sappia.»

Katsuki serra la mascella e vorrebbe potersi grattare via le pellicine intorno alle unghie dal nervosismo. «Perché?»

Il pomo di Adamo di Best Jeanist sale e poi scende. Abbassa lo sguardo, sembra star pensando. Scuote la testa. «Ci arriverai» risponde. Scuote un po’ la testa e non sembra sperare che succeda così presto. «Sei un adulto. Non ti devo dare tutte le risposte.»

«Vaffanculo.»

 

 


 

 

«Mitsucchi!»

«Inko-chan!»

Una volta, sua madre gli ha tirato il braccio così forte da dislocarglielo. 

Katsuki sta in piedi dietro sua mamma, con le buste della spesa in mano, e guarda le due donne abbracciarsi con affetto mentre un ricordo del genere gli riaffiora da uno dei posti più nascosti della sua memoria e si dice a mente: uau, una volta sua mamma lo ha tirato così forte dal braccio che gli ha dislocato una spalla. Non è stato un atto di cattiveria, cerca di ricordare, sua mamma non è mai stata delicata con lui. Erano appena tornati dal supermercato, Katsuki aveva quattro o cinque anni e non voleva portare la spesa a casa, voleva tornare a giocare al parco. Aveva iniziato a fare i capricci. Voleva andare a giocare coi suoi amici, non voleva tornare dentro quell'appartamento, e la mamma, con poca pazienza e ancora meno voglia di sopportarlo, lo aveva preso dal braccio e lo aveva trascinato con lei. Katsuki non sa in quale momento di preciso sotto quella presa qualche cosa è sembrata scivolare via dentro le sue ossa, non ricorda nessun rumore e niente che non sia il viso di sua mamma, mentre il dolore iniziava a spargersi per tutto il braccio e intorno a tutta la spalla. Non ha pianto. O forse ha pianto. Non ricorda come sono finiti in ospedale, ma hanno visto un medico e Katsuki ricorda vagamente un gesso al braccio. Ricorda con lucidità solo il dolore e il viso di sua mamma, che non è cambiato in nessun momento, lasciando quell'ombra di fastidio e rabbia che era presente dal momento in cui Katsuki ha iniziato a fare i capricci.

Non è strano che un bambino si dislochi la spalla se tirato da un adulto, ha detto il medico mentre controllava il braccio di Katsuki. Le ossa dei bambini sono elastiche e più mobili di quelle di un adulto sano, sotto pressione le ossa si muovono con facilità e si spezzano con più facilità. È vero che si curano più in fretta ed è vero che con un giusto trattamento tutto tornerà come prima. Si deve fare attenzione, però, perché la velocità di ricovero non è collegata a una mancanza di dolore. Un bambino che si spezza un osso soffre nello stesso modo in cui soffre un adulto quando si spezza un osso. Bakugo Mitsuki ha riso davanti alle parole del medico con una punta di sarcasmo. Non mi dica come crescere mio figlio, ha detto. Ha riportato a casa Katsuki. Ha preparato omurice per cena. Entrambi hanno dimenticato l’accaduto. Fino ad adesso.

Katsuki passa il peso del corpo da una gamba all'altra. Si chiede se può tornare a casa prima, senza dover rimanere tra le scale ad ascoltare sua madre parlare con una sua amica. Non ha voglia di passare le sue poche ore libere a sentire due donne parlare di cose che non lo riguardano e si sente un po’ a disagio a guardare Inko-chan, adesso, dopo aver visto il dossier degli appuntamenti al buio e aver sentito le parole di sua mamma. Pensava che le cose fossero diverse tra Inko-chan e Deku. Non sa perché sente un peso sulla bocca dello stomaco, qualcosa che vuole dire ma non può dire. E Inko-chan era lì il giorno in cui sua mamma gli ha dislocato la spalla, Katsuki non sa perché questo è diventato un dettaglio importante.

«Sei cresciuto tantissimo!» lo saluta Inko-chan. Ha in mano una borsa e nient’altro. Ha un sorriso genuino che una volta era uguale a quello di Deku. E Katsuki abbassa lo sguardo, si morde l’interno delle guance per non farsi scappare nemmeno una parola fuori luogo. «Ti ricordi quando pensavi che avrebbe preso dalla famiglia di tuo marito e non avrebbe superato il metro e sessanta?» Inko-chan si porta una mano sulle labbra per nascondere con gentilezza una risata e i denti bianchi scoperti da questa. «Io sono sempre sorpresa quando ricordo che potevamo tenerli in braccio a lui e a Izuku. Adoravano stare in braccio e io mi sentivo stanca, con le braccia doloranti, e adesso non posso che pensare che mi piacerebbe riprendere in braccio Izuku come quando era piccolo.» Inko-chan ha gli occhi lacrimosi di Deku anche quando ride di se stessa. «Che sciocca, vero?»

«Io non vedo l’ora che questo parassita se ne vada da casa mia» risponde la mamma. Prende le mani di Inko-chan e lascia passare qualche momento prima che entrambe scoppino a ridere come se avesse detto la cosa più stupida in questo mondo. «Dopo l'incidente ho perso le speranze.»

«Se volete parlare male di me con calma, posso anche andarmene» borbotta Katsuki, indicando con la testa il corridoio del condominio. Ha le mani rosse a causa del peso delle buste della spesa e Best Jeanist gli ha detto di riposare in caso dovesse succedere qualcosa e dovesse prendere il turno di notte. Non ha voglia di rimanere qui, anche questo è da aggiungere. Gli è iniziata a far male la schiena, gli sembra difficile rimanere in piedi e non ha voglia di mostrare un lato debole di lui fuori dalla sua camera da letto.

Sua mamma gli lancia uno sguardo così pieno di rimprovero da far scattare indietro Katsuki, mentre le guance di Inko-chan diventano rosse, come se avesse bevuto troppo. «No, no. Mitucchi non ha mai parlato male di te.»

«Tutte le madri hanno il diritto di parlare male dei propri figli» ribatte la mamma, facendo un gesto vago con la mano verso Katsuki. «È uno dei modi in cui dimostriamo la nostra preoccupazione. E, a proposito. Come sta Izuku-kun? Avete iniziato a organizzarvi con le ragazze per gli appuntamenti al buio? Ti è sembrato entusiasta all’idea? Oppure fa i capricci e finalmente ha parlato di qualcuno che voleva già portare a casa? Non lo vedo molto spesso nel quartiere nelle ultime settimane.»

Inko-chan abbassa lo sguardo e sembra sentirsi in colpa. Lascia andare le mani della mamma e inizia a giocare con le dita con fare nervoso, un pochino agitato. «Izuku fa tutto quello che gli chiedo» inizia a dire con una voce bassa, come se stesse confidando un segreto. «Mi ha detto che sarebbe andato agli appuntamenti, che avrebbe conosciuto le ragazze se questo era quello che io volevo e che prima o poi si sposerà e che non mi devo preoccupare. Ma la verità è che non era questa la risposta che volevo da lui. Avrei voluto che si arrabbiasse, che mi dicesse che non sarebbe andato agli appuntamenti al buio. O che andasse agli appuntamenti per sua volontà, per conoscere qualcuno di nuovo e per non annegare in questo mondo da… io non ho mai voluto che lui fosse un eroe, è l’unica volta che non ha ascoltato quello che gli ho detto. E quando mi ha chiesto di sostenerlo nel suo sogno, mi era sembrato di nuovo felice. Ma gli eroi hanno portato via così tante cose da Izuku e da me.» Le sue labbra diventano una linea sottile. È composta anche in questo momento, la mamma di Deku. Si assomigliano molto nei modi più strani, Inko-chan e Deku. «All Might mi ha portato via mio figlio, prima di morire.»

La mamma sospira e posa una mano sulla spalla di Inko-chan, che comunque le dedica un sorriso. Sorride anche se è un po’ triste. Scuote la testa e scrolla le spalle, mentre la mamma la guarda con occhi vuoti, pensando chissà a che cosa.

«Vorrei un po’ di normalità nella sua vita. Un motivo per tornare a casa, o per tornare a vivere. Fare qualcosa oltre a essere un eroe. Vorrei che vedesse la bellezza delle piccole cose, la bellezza in dormire in un letto caldo e non in un letto a castello tra un turno e l’altro, mangiare con gusto, riprendersi quelle piccolezze che fanno parte della gioia della vita.» Scuote la testa. «Non sono ingenua. So che il matrimonio non porta alla felicità, ma ho paura che a un certo punto Izuku si renda conto di essere solo. Se si fosse arrabbiato all’idea degli appuntamenti al buio, mi sarei sentita più tranquilla, ma adesso sono terrorizzata al pensiero di morire prima di lui e lasciarlo da solo.»

Katsuki stringe le mani in due pugni intorno alle buste della spesa. Sua mamma consola Inko-chan dicendo che Deku è un ragazzo intelligente e che non rimarrà mai solo.

Quando Inko-chan va via, dicendo che deve andare da qualche parte, la mamma rimane a guardarla scendere le scale con degli occhi pieni di compassione, mentre scuote un pochino la testa e incrocia le braccia. «Suo figlio è tutto al di fuori di normale» borbotta. «Se Hisashi non l’avesse lasciata a crescere quel ragazzino da sola, le avrei suggerito di fare un altro bambino perché avesse almeno un figlio normale. Fortunatamente, almeno in questo, non mi hai mai dato problemi.»

Katsuki serra la mascella. 

Non risponde. Lascia le buste della spesa sul tavolo della cucina, piuttosto, e cerca di massaggiarsi le spalle nella speranza di darsi un po’ di sollievo dal dolore.

 

 


 

 

Katsuki chiude gli occhi per abituare gli occhi all'oscurità intorno a lui. 

Fuori dal cimitero, proprio fuori dalle mura, non sembra esserci nessun guasto e i lampioni brillano come hanno sempre fatto nei giorni precedenti. Non è un problema che ha che fare con l’elettricità, gli ha spiegato Scintilla, controllando i monitor e muovendo i mouse come un idiota che non sa quello che sta facendo. Il problema è che qualsiasi cosa si trovi all’interno del cimitero assorbe ogni tipo di luce, rendendo impossibile usare l’elettricità che forma energia luminosa. Per questo i lampioni dentro il cimitero sono spenti, per questo è impossibile usare i cellulari ma per questo è possibile usare walkie-talkie e rimanere in contatto con chiunque sia dall’altra parte dell’apparecchio.

Katsuki cammina nel buio, il walkie-talkie in mano e gli occhi che sono ancora un po’ ciechi nel bel mezzo di quello che doveva essere un cimitero sempre pieno di persone, di fiori e di sassi. Katsuki, quando cammina, tiene le ginocchia alte e gli occhi ben aperti. Sta attento a non finire contro i monumenti e le lapidi e allunga la mano per essere sicuro di non sbattere il naso contro nulla.

Il Cimitero degli Eroi, costruito nel bel mezzo della città per seppellire e commemorare gli eroi giapponesi più importanti, più che un cimitero viene utilizzato come un parco in cui passeggiare mano nella mano e ignorare le lapidi e mangiare sulle panchine, mentre ti lamenti perché non vuoi fare i compiti di matematica, dimenticando di star sbriciolando il panino sulla tomba di una persona.

Il Cimitero degli Eroi è uno dei simboli più importanti della potenza della città e del paese. In tempi di pace, la potenza di un paese non viene dimostrato dal suo esercito ma dagli atleti mandati a competere in eventi come le Olimpiadi, dalle agenzie che diventano multinazionali e portano con loro il nome del proprio paese e dalla forza dei propri eroi. Che il Cimitero degli Eroi, parco simbolo della potenza degli eroi giapponesi negli ultimi cento anni, rimanga senza luce la notte, che non sia possibile entrarci, che chiunque ci entri la notte viene del tutto isolato dal mondo, potrebbe essere un attacco alle fondamenta del paese stesso, per questo una squadra di eroi si è dovuta fare avanti per capire cosa sta succedendo e per questo Katsuki ha passato più di mezz’ora a convincere Scintilla e altri eroi professionisti a far entrare lui nel cimitero e lasciare che siano le spalle di Best Jeanist a fare da guardia alle mura del cimitero. 

Le spalle di Best Jeanist stanno lavorando sul caso dalla primissima segnalazione di guasto, due settimane fa. Hanno pattugliato il cimitero notte e giorno, controllato i sistemi di comunicazione e gli impianti elettrici ogni giorno e scritto rapporti dettagliati su ogni giornata passata al cimitero. Sono dei buoni a nulla diligenti e Katsuki si fida abbastanza di loro da lasciarli fare la guardia mentre il resto degli eroi professionisti legge i loro rapporti e cerca di formulare ipotesi sull’origine del malfunzionamento, sperando che non sia un attacco da parte di liberazionisti.

Katsuki, mentre cammina con le ginocchia alte nel bel mezzo di cespugli che non aveva notato, con gli occhi che iniziano a riconoscere qualche forma intorno a lui, sa che dietro questo buio non ci sono liberazionisti, non ci sono ribelli e non ci sono hacker. Dietro quest’oscurità, Katsuki ha la certezza, non c’è qualcuno che odia gli eroi e non c’è qualcuno che vuole distruggere la loro difettosa società.

Ha già visto questo tipo di buio, quando era piccolo.

Cercando di orientarsi, cammina per i sentieri del cimitero e cerca uno spazio senza monumento, un prato che sarebbe vuoto se non fosse per un’umile lapide, situata al lato, sotto un albero che deve ancora diventare alto e imponente, ma che è forte e giovane e pieno di vita. Katsuki ha le sopracciglia aggrottate, cercando di guardarsi intorno, cammina con calma e stringe il walkie talkie in mano e sa di non starsi sbagliando, sa che cosa deve trovare e inizia a pensare a un motivo per non far entrare eroi professionisti, giornalisti o ficcanaso nel cimitero fino a quando non troverà una soluzione a un problema in cui forse lui non dovrebbe ficcare il naso.

Sotto i suoi piedi, i sassolini bianchi del sentiero scrocchiano, cercando di contrastare il silenzio che sarebbe altrimenti assoluto del parco. Katsuki cammina con calma, non sente il silenzio intorno a lui e nemmeno il rumore sotto i suoi piedi. La sua mente gira e rigira, i suoi pensieri sono così tanti da riempire il cimitero senza che lui debba prestare attenzione ad altro. Si ferma davanti all’unica parte del cimitero in cui è possibile vedere il cielo senza posare lo sguardo su un monumento. Stringe le mani in due pugni e cerca di mantenere un respiro regolare.

Katsuki si inumidisce le labbra e pensa a quanto era grande All Might quando era in vita. Era alto più di due metri, riusciva a sollevare decine di persone con la sola forza delle braccia, sembrava poter volare per quanto saltava in alto e, ogni volta che qualcuno era nei guai, arrivava con un sorriso che faceva dimenticare il pericolo istantaneamente. Era grande come una montagna, All Might, quando era vivo. A Katsuki sembrava immenso, All Might quando era vivo. L’eroe di tutti, l’eroe che salva tutti. Quando si è ritirato, dedicandosi all’educazione dei suoi studenti e a Deku in particolare, sembrava piccolo come una formica, fragile come un ramoscello secco, ed è stato facile per la vecchia e nuova generazione dimenticare quanto immenso fosse stato. Hanno dimenticato quanto quel sorriso li aveva fatti sentire al sicuro, quanto la sua risata faceva tremare chiunque avesse cattive intenzione e quanto calorose e tenere fossero quelle braccia che portavano le persone al sicuro.

Quando Deku ha ricevuto il nome di All Might, ha ereditato un nome vuoto, dimenticato, e una posizione che poteva pesare soltanto sulle sue spalle. Quando Deku ha scelto di usare il nome di All Might, lo ha fatto perché non voleva che All Might venisse del tutto dimenticato e ha fatto di tutto per ricordare il suo mentore, qualsiasi fosse la sua posizione o situazione.

Quando All Might è morto, le telecamere erano presenti al suo funerale non per rendere omaggio a un eroe caduto che aveva fatto così tanto per le persone ma per vedere Deku, come si sarebbe comportato e se avrebbe mantenuto un comportamento eroico anche in un momento così delicato della sua vita. Deku quel giorno ha portato la bara su una spalla e mantenuto uno sguardo vuoto. I suoi occhi erano annebbiati mentre salutava All Might e non ha versato nemmeno una lacrima davanti a nessuno. Si è inchinato davanti alla foto del suo mentore, è rimasto seduto composto accanto a Gran Torino, ricevendo le condoglianze di amici e sconosciuti, e non un comportamento era stato fuori luogo, non una parola di disperazione era uscita dalle sue labbra. L’unica particolarità nel suo comportamento era il suo abito. Tutti si sono presentati in nero, come da tradizione, mentre Deku si era vestito di bianco. Ha vegliato sul corpo di All Might giorno e notte, scelto la lapide e pagato per i servizi funebri. Ha accompagnato All Might nel Cimitero degli Eroi, è rimasto con lui, dicono, nel suo abito bianco, coi capelli scompigliati e gli occhi vuoti, inginocchiato, per un’altra settimana. Chiunque entrasse nel Cimitero degli Eroi lo poteva vedere accompagnare All Might perché la sua anima andasse nell’Aldilà in pace, ci sono foto e video dell’eroe Deku in lutto. In nessuna di queste foto Deku piange e in nessuno di quei video sembra essere disperato. Sotto l’occhio del pubblico, Deku è rimasto silenzioso, rispettoso e obbediente, come un eroe giapponese deve essere.

Finito il periodo di lutto, Deku si è presentato tra le strade come eroe e da quel giorno non si è mai fermato. Sorride come un eroe e ride come un eroe e non ha pace, come un eroe giapponese deve essere.

Sulla lapide di All Might c’è scritto Toshinori Yagi - Eroe e mentore. Non hanno voluto che su quella lapide ci fosse il suo nome da eroe, ed è così strano, perché in vita nessuno ricordava il suo nome da civile, nessuno era interessato nemmeno a sapere che tipo di persona fosse. Ci sono fiori, intorno alla lapide, ci sono i sassi più lisci e belli posati sulla lapide, e, vicino alla tomba, sdraiato come se fosse l’unico posto che gli appartiene in questo mondo, come se si trovasse nel letto dei suoi genitori, Deku, di fianco, coperto da un lenzuolo leggero, dorme vicino al suo eroe.

Katsuki sospira, lasciandosi cadere seduto vicino alla tomba di All Might. Si porta il walkie-talkie davanti alle labbra e preme il bottone per iniziare la comunicazione con gli eroi professionisti fuori dalle mura del cimitero. «Ho trovato l’origine del guasto» informa. Usa la formula che gli ha insegnato Best Jeanist, delle frasi già dette e ripetute che dal tanto doverle dire ad alta voce escono quasi in automatico dalle labbra di Katsuki. «È l’unicità fuori controllo di un bambino spaventato. Viene qui per non creare problemi al resto della città. Per non creare ulteriori complicazioni, chiedo che lasciate che l’agenzia di Best Jeanist si occupi del caso. Vi prego di fidarvi del mio giudizio.» Senza pensarci, china leggermente in avanti la testa, come se avesse davanti a lui gli eroi a cui ha fatto la richiesta.

«Ricevuto. Lascia fare a me» risponde Scintilla.

Katsuki spegne il walkie-talkie e lo lascia cadere sul prato. Ha le spalle rigide, si sente un po’ stanco e lascia che la testa gli cada indietro. Deve controllare la respirazione per non causare fitte di dolore lungo la schiena.

Deku non sembra sereno, mentre dorme. Stringe una mano intorno all’erba e ha le sopracciglia aggrottate, a volte si muove come se stesse cercando una posizione migliore per dormire. Se fosse rimasto il bambino di tanto tempo fa, avrebbe pianto e tutto si sarebbe risolto. Ora che sono adulti le cose sembrano essersi complicate un pochino.

 
  
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