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Autore: Afaneia    01/03/2024    1 recensioni
Link viene condannato ingiustamente per alto tradimento.
Impa e i Campioni escogitano l'unico, folle piano possibile per salvarlo.
Succedono cose.
La mattina del terzo giorno Zelda è stata confinata nei suoi appartamenti dalle guardie e a Link è stato ricordato senza mezzi termini che, rifiutando un ordine diretto del re, rischiava la corte marziale. Senza scomporsi, Link ha pranzato con calma, ha indossato la divisa della guardia reale, ha congedato il suo attendente e si è seduto nei suoi alloggi ad aspettare che venissero ad arrestarlo; ha scritto qualche lettera, nel frattempo, e ha annotato delle idee sulle mappe che campeggiano da mesi sul suo tavolo da lavoro. Quando i soldati mortificati si sono presentati con l’ordine d’arresto, ha chiesto solo la cortesia di non essere ammanettato, ha deposto la Spada sul tavolo e li ha seguiti senza opporre resistenza.
Revalink, ovviamente.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Impa, Link, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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II – Patibolo
 
E poi, soprattutto, è riposante, la tragedia, perché si sa che non c’è più speranza, la sporca speranza; che si viene presi, che alla fine si viene presi come un topo, con tutto il cielo sopra di noi […]. Nel dramma, ci si dibatte perché si spera di uscirne. È ignobile, è utilitario. È gratuito, questo. È per i re. E non c’è più niente da tentare, alla fine!
Jean Anouilh, Antigone.
 
    È troppo frastornato per avere paura. Sta succedendo tutto così in fretta.
    I soldati non hanno il coraggio di guardarlo negli occhi. Lo riportano in cella ammanettato per ordine dei superiori: hanno paura della sua forza, non i soldati, ma i generali, si rende conto Link fissando le proprie mani dure, callose, coperte di cicatrici al di sotto delle manette; guardarle lo aiuta a mantenere il contatto con la realtà. Hanno paura che si ribelli, che afferri una spada da un fodero qualsiasi, il più vicino, e si difenda: allora non potrebbero nulla, lo sanno come lo sa lui. Con la spada, anche contro decine di nemici, è invincibile. Per questo hanno dato ordine di ammanettarlo: perché sono vigliacchi, ma le manette sono l’unica infamia che Link avrebbe voluto che gli fosse risparmiata.
    Avrebbe potuto dir di sì, naturalmente. Sarebbe stato facile, forse bello, persino: sposare Zelda, e… in fondo, le vuol bene come a una sorella, una creatura votata a Hyrule quanto lui, gemella al suo destino. Ma per aver salva la vita, per dir di sì, avrebbe dovuto rinunciare a una parte troppo grande di sé, che non avrebbe ritrovato mai più: non sa se abbia un nome, quella parte di lui, o se si possa dire a parole; comunque, sarebbe stato meschino. Come strisciare nella polvere e supplicar pietà; dire che farebbe tutto quello che vogliono, purché lo lascino vivere, e…
    In fondo sarebbe dovuto morire quel giorno a Hebra, colle cime aguzze dei monti, lividi, ai margini del suo campo visivo, e gli intestini in mano, come tanti soldati prima di lui: tutto quello che ha avuto dopo quel giorno è stato un di più, un omaggio che non ricorda di essersi guadagnato o meritato; quel dipiù è finito, evidentemente. Non ci sarebbe neppure da prendersela, perché ha vissuto più di quanto molti soldati abbiano ricevuto in sorte, in nome del vigore del suo braccio e della Spada che esorcizza il male; ma gli dispiace dover morire così, ignominiosamente, giustiziato in un cortile interno del castello. A quel punto sarebbe stato meglio quel giorno a Hebra, con Lelek di fianco, fiducioso, incrollabile; ma non ci è sempre dato scegliere.
    Ripete tutto questo a se stesso, ininterrottamente, perché la realtà è troppo orribile e ingiusta da affrontare. La realtà d’esser stato ricattato e condannato per poter giustificare col suo presunto tradimento la possibile sconfitta futura, d’esser stato rinnegato dal re, dai più alti ranghi dell’esercito: fronteggiare tutto questo dentro di sé sarebbe troppo grande e doloroso, insensato, e la sua mente non può tollerare di soffermarvisi. Vuole restare calmo, che tutti lo ricordino così; non è semplice, ma ribellarsi e urlare, del resto, sarebbe inutile e controproducente. Non ha spada né scudo; gli hanno legato le mani. Non può combattere nel solo modo che conosca, mentre le armi della diplomazia e della politica, nelle sue mani, sono prive di significato.
    I soldati lo conducono in carcere col massimo rispetto e gli tolgono le manette non appena possibile. Tengono gli occhi bassi, mortificati, e gli chiedono scusa. Gli portano subito il pranzo, tenuto in caldo, addirittura, e Link mangia macchinalmente senza pensare né guardare cosa stia mangiando; poi vomita nel secchio per i bisogni. Inizia a rendersi conto della condanna solo quando si ritrova appoggiato contro il muro cogli occhi lacrimanti per lo sforzo, spalancati, e la bocca acida.
    Passa una parte del pomeriggio a vomitare. I soldati si guardano smarriti, entrano ed escono dalla cella in spregio a qualsiasi regolamento; gli portano acqua da bere e per lavarsi, gli dicono parole che hanno accenti di conforto. Uno si offre di andare a chiamare il medico militare; a quell’idea quasi gli viene da ridere. Si trattiene soltanto perché questi ragazzi vorrebbero davvero aiutarlo e non sanno come fare – e perché neanche loro realizzano in pieno che domani morirà. Scuote soltanto la testa. Lo supplicano almeno di mangiare del pane, per bloccare i conati, a dir loro, e Link mangia per accontentarli. Si sente un po’ meglio.
    Verso sera torna Lelek. È agitato, gli tremano le mani, e si guarda attorno nervosamente perché è ovvio che non dovrebbe essere qui; Link vorrebbe sgridarlo, davvero, ma al solo vederlo gli si gonfia in petto come un abisso di sollievo. Gli sorride persino. Vorrebbe ringraziarlo, abbracciarlo, ma le parole, in questo momento, non gli vengono; gli prende la mano.
    «Capitano, non vi arrabbiate» gli dice come prima cosa Lelek: è pallido e risoluto. «I miei cugini sono ancora in allarme… basta una parola e tra un’ora possono essere qui… per favore, per favore, fate come vi ho chiesto. Vi prego.»
    La proposta di scappare suona così più tentatrice rispetto a ieri, ora che la prospettiva della morte s’è fatta reale e tangibile e concreta, ed è questione di ore, neppure di giorni; continuare a dire di no gli richiede più forza di quanta gliene sia occorsa mai. Link si sforza di sostenere lo sguardo dei suoi occhi colmi di speranza quando dice: «Lelek, basto io. Non vi permetterò di correre questo rischio per me. Non voglio più tornare sull’argomento.»
    Lelek ha un fremito d’impazienza e di disperazione; i suoi occhi corrono continuamente al corridoio. «Capitano, per favore…»
«Lelek» mormora Link stringendo brevemente la sua mano. «Ti prego, non lasciamoci così. Non farò nulla che possa mettervi in pericolo e non intendo cambiare idea. Ti prego, non insistere.»
    Lelek rimane in silenzio per un po’. È affranto, abbattuto, come svuotato interamente; china lo sguardo sulle proprie ginocchia e si prende la testa tra le mani. Poiché non è riuscito a salvarlo, ora sente d’aver fallito; sentendosi stringere il cuore, Link si china su di lui e lo scuote per costringerlo a guardarlo. «Voglio che mi ricordi come adesso. Me lo prometti?»
    Cogli occhi pieni di lacrime, Lelek annuisce faticosamente, ma questo a Link non basta; lo scuote ancora: «Ascoltami! Non venire domani. Prometti che non verrai. Devi ricordarmi calmo come sono ora. Sono sereno, vedi, e non ce l’ho con nessuno; non ho paura, ma tu promettimi che non verrai a vedere…»
    «Non faranno passare nessuno» balbetta Lelek. «Hanno dato ordine così… di tenere tutti fuori, di impedire il passaggio anche ai Campioni…»
    «Va bene» mormora Link. «È meglio così, devi credermi.» Ma il suo cuore sprofonda un poco a quelle parole: sarà completamente solo, dunque. «Ascoltami. Non domani e forse non presto, ma, quando la situazione sarà tornata calma, cerca di avvicinare la principessa Zelda. Se avrai modo di parlarle, vorrei che le dicessi che mi dispiace per tutto. Che avrei voluto che le cose andassero diversamente…»
    Non riesce a finire di parlare. D’improvviso arriva correndo un soldato semplice, trafelato, e batte sulle sbarre della cella per attirare la loro attenzione; il regolamento, ormai, è gettato alle ortiche, ma Link non è più nella posizione per rimproverare nessuno.
    «Lelek! Sono venuti a cercarti nei tuoi alloggi» esclama.
    Se sono venuti a chiedere esplicitamente di Lelek, potrebbero aver saputo che è venuto a trovare lui. Link lo afferra per le spalle e gli ordina: «Vai subito, Lelek, e non tornare più tardi. Siamo intesi?»
    No che non sono intesi, dicono gli occhi del ragazzo; vorrebbe tenergli compagnia, salutarlo per l’ultima volta; ma Link non può permettergli di affrontare un processo. In tempi normali non sarebbe irreparabile, forse comporterebbe, al massimo, una sanzione; ma è evidente che di normale adesso non c’è niente. Link lo scrolla. «Torna nei tuoi alloggi e fai finta di nulla, ma se ti interrogano, a quel punto dì la verità. Dì solo che eri dispiaciuto per me e che volevi dirmi addio. Se lo sanno già, è meglio se confessi: te la caverai con un’ammonizione scritta, al massimo una sospensione… ora però vai.»
    Avrebbe voluto salutarlo meglio, per lui più che se stesso; avrebbe voluto ringraziarlo ancora per Hebra, per quel giorno in cui lo ha pregato di restare sveglio e di continuare a vivere; ma anche questa volta non gli è dato decidere. Lo abbraccia soltanto una volta per non dargli il tempo di protestare, si dicono addio in fretta, poi lo spinge via; Lelek barcolla fuori frastornato più che mai. Link rimane solo per l’ultima volta.
 
    Lo portano al patibolo senza bisogno di trascinarlo; solo, ogni tanto, lo sorreggono nel lividore dell’alba. Ha affrontato la morte tante volte, in battaglia, e non gli ha fatto paura mai; o meglio quella paura buona delle battaglie, quella che ti mantiene in vita – ma è diverso, adesso. Vorrebbe che ci fosse l’adrenalina, qualcosa in grado di scatenarla, proprio come in guerra, ma non c’è niente: solo squallore.
    D’un tratto, mentre attraversano una corte interna, Link sente vociare a non grande distanza; rallenta senza volere per gettare un’occhiata. C’è un po’ di confusione. I soldati che lo scortano non sembrano provare il minimo desiderio dimettergli fretta.
     «Protestano per voi» mormora uno di loro.
    Da questa notizia Link vorrebbe trarre gioia o conforto, ma tutto quel che prova è un senso di commosso sgomento. Non sa cosa dire, forse non capisce neppure; avanza come nella stuporosa nebbia di un sogno. Lo toccano appena ed egli riprende a camminare, ciecamente; tutto è orribile come in un incubo dal quale non riesce né fa niente per svegliarsi. Non c’è risveglio, non più, ormai, e Link cammina attraverso le ali del castello come se avanzasse nel sonno.
    Alla vista del patibolo, suo malgrado, si ferma; è spaventoso anche per lui, inappellabile; è l’ultima cosa che vedrà mai, la corda che pende sotto il cielo grigio come acciaio. Ci sono solo militari, anche oggi, e il re che attende nell’ombra; ma Link non riconosce nessuno con chiarezza per quanto li guardi. Sono indistinti e anonimi come la folla in un sogno. Spera soltanto che non ci sia Lelek. Non vuole che lo veda morire così. È orribile morire così: questa è la prima volta che concede a se stesso di pensarlo. Che come ringraziamento per il suo sangue, per i suoi tormenti, gli hanno riservato una morte orribile e infamante. Che non è giusto.
    Lo fanno salire sul patibolo e gli passano il collo attraverso il cappio; Link li fissa tutti senza capire. Leggono la condanna: ne distingue appena alcuni stralci, senza capire, tuttavia; sente solo qualche parola: cavaliere, alto tradimento, con la firma dei seguenti consiglieri di corte… fa del suo meglio per concentrarsi, a queste parole, e riesce ad ascoltare persino i nomi: non c’è quello di Impa, o quantomeno lui non l’ha sentito. Impa non l’ha tradito, dunque; non che abbia importanza, adesso. Chiude gli occhi per lunghi momenti durante la lettura, come se aprendoli potesse non trovarsi più lì; ma è lì sempre e la lettura non cessa. Impiccagione finché morte non sopraggiunga; dovrebbero essere le ultime parole; poi ci saranno il vuoto e la pace, finalmente. Chiudendo gli occhi, Link si sforza di richiamare alla memoria l’immagine delle cime aguzze dei monti di Hebra ai margini del suo sguardo, vi si concentra con ogni fibra di se stesso e tutta la propria attenzione: è una buona immagine, quella, per morire e non pensare a quello che sta accadendo intorno a lui. Sente: impiccagione finché…
    Poi sente gridare: «Fermi!»
    Link spalanca gli occhi nell’aria livida del mattino. È la voce di Impa.
    Le guardie tentano di trattenerla con poca convinzione, perché sanno che sarebbe in grado di sconfiggerli con un colpo, se solo volesse; ma non è lì in veste di guerriera, ora. È arrivata di corsa; è sconvolta, ansante, e non è sola: l’accompagna un Rito alto, corpulento, che le arranca dietro con l’aria di qualcuno che decisamente non si aspettava di dover fare tutta quell’attività fisica di prima mattina. Link sbatte le palpebre più e più volte perché non riesce a credere alla sua presenza, o meglio ci crede, perché è innegabile; ma non sa spiegarsela. È l’ambasciatore dei Rito. Può intercedere per lui, forse; ma con quale autorità?
    Il re deve pensare la stessa cosa, evidentemente, perché i suoi occhi si appuntano prima su Impa e poi sull’ambasciatore con profondo disappunto.
    «Lady Impa» esordisce con sussiego. «Ambasciatore Mazli. Presumo che abbiate una buona motivazione per interrompere un’esecuzione marziale.»
    «Maestà» risponde l’ambasciatore inchinandosi. I suoi occhi vagano verso il patibolo con una certa preoccupazione. «Devo chiedervi di interrompere l’esecuzione finché non potrò produrre le prove che questa condanna è ingiusta. Il Campione dei Rito sarà di ritorno tra poco dal nostro Borgo con un certificato che prova che, quando gli è stato imposto l’ordine di sposare la principessa, il cavaliere Link era già sposato.»
    Link deve esercitare un inumano controllo su se stesso per impedirsi di spalancare la bocca per la sorpresa. È un piano quasi geniale, a tal punto che quasi si sorprende che non sia venuto in mente a lui – un matrimonio invaliderebbe l’intero processo perché nessuno, neppure il re, avrebbe potuto ordinargli di rompere un giuramento fatto alla Dea, e perché obbligherebbe la corte marziale a tener conto anche della giurisprudenza dei Rito. Ci sono solo due piccolissimi problemi: il primo è che Link non ha mai menzionato un matrimonio durante il processo. Il secondo è che, per essere valido, un certificato di matrimonio deve presentare la sua firma; e il re conosce la sua firma. Ma quando Impa, fingendo di gettarsi indietro i capelli, si scherma il volto con le braccia per un istante e strizza l’occhio nella sua direzione, Link si convince per un istante che la salvezza sia possibile. 
    Di questi problemi il re è consapevole come lo è lui. Non può ridere in faccia a un ambasciatore, ovviamente; ma persino lui deve sforzarsi per controllarsi.
    «Un matrimonio» ripete. Il sarcasmo della sua voce è malcelato e sferzante, seppur trattenuto. «E il fatto che questo matrimonio riguardi nientemeno che l’ambasciatore dei Rito è dovuto al fatto che sarebbe sposato con…»
    L’ambasciatore ha la precisa espressione di qualcuno che sia costretto a mordere un limone estremamente forte, a lungo, e soprattutto malvolentieri. «Col Campione dei Rito, il maestro Revali.»
    Link si sbagliava: la salvezza non è possibile. Questo è il piano più ridicolo che sia mai stato formulato.
 
    Ecco la promessa fatta a Fiulopis mesi fa: scrivere finalmente su uno dei miei trope preferiti, uno decente e allegro, per una volta. E poiché, negli ultimi mesi, ho iniziato a leggere quasi esclusivamente fake marriage, ho deciso che avrei fatto questo tentativo per me assolutamente folle e avrei provato a scriverne una tutta mia. Ho timore che ne verrà fuori una gigantesca cringiata, ma, in fin dei conti, finché non ci provi non lo sai. Grazie a An13Uta per il suo sostegno, davvero <3, sperando che non vada sprecato!
    Un’ultima cosa. Ci tenevo moltissimo a pubblicare questo capitolo proprio oggi perché – rullo di tamburi – è il quindicesimo anniversario del mio account su EFP! E considerando che compirò trent’anni ad aprile, in pratica metà della mia vita è trascorsa su questo sito. Perciò, anche se questo non è un capitolo particolarmente significativo o simbolico, volevo a tutti i costi postare qualcosa oggi. È il mio equivalente di una torta con quindici candeline.
    Un enorme abbraccio a tutti!
   
 
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