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Autore: Afaneia    25/02/2024    1 recensioni
Link viene condannato ingiustamente per alto tradimento.
Impa e i Campioni escogitano l'unico, folle piano possibile per salvarlo.
Succedono cose.
La mattina del terzo giorno Zelda è stata confinata nei suoi appartamenti dalle guardie e a Link è stato ricordato senza mezzi termini che, rifiutando un ordine diretto del re, rischiava la corte marziale. Senza scomporsi, Link ha pranzato con calma, ha indossato la divisa della guardia reale, ha congedato il suo attendente e si è seduto nei suoi alloggi ad aspettare che venissero ad arrestarlo; ha scritto qualche lettera, nel frattempo, e ha annotato delle idee sulle mappe che campeggiano da mesi sul suo tavolo da lavoro. Quando i soldati mortificati si sono presentati con l’ordine d’arresto, ha chiesto solo la cortesia di non essere ammanettato, ha deposto la Spada sul tavolo e li ha seguiti senza opporre resistenza.
Revalink, ovviamente.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Impa, Link, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Salvezza per uomini morti
 
I - Carcere
 
[…] questo rumore lo sento, mi pervade
come un tradimento fatto da me stesso a me stesso,
quel me stesso che avevo esercitato e temprato
nell’illusorio orgoglio del coraggio invincibile – quale coraggio,
se nel profondo ci governa la nostra vita estranea, la nostra morte estranea?
No, non c’è alcuna umiliazione. Se sono stato sconfitto, sono stato sconfitto
non dagli uomini, ma solo dagli dei. Nessuna vittoria o sconfitta ci appartiene.
 
Ghiannis Ritsos, Aiace.
 
 
    Il suo attendente viene a trovarlo la terza sera. È riuscito a portargli delle mele, con la complicità evidente delle guardie che fingono di non vederle: Link lo ringrazia con gli occhi perché grazie a sufficienza non potrà mai dirgliene. Ne addenta subito una. Non mangia frutta né verdura da giorni: in carcere non ne passano. Per quanto i soldati gli stiano usando ogni riguardo possibile, non hanno potere sulla scelta del cibo.
    Lelek si siede in silenzio davanti a lui: è un bravo ragazzo. L’ha servito sempre fedelmente, con più ammirazione per lui di quanta Link abbia mai sentito di meritarsi, e il dolore nei suoi occhi è tale ch’egli sente quasi d’avergli fatto un torto. Alle sue spalle, al di là delle sbarre, la guardia getta un’occhiata nella cella e dice a bassa voce: «Cinque minuti, Lelek. Siamo intesi?»
    Lelek rimane a osservare la guardia finché questa non scompare nel corridoio principale, fuori portata d’orecchio, dopodiché si volta verso di lui e tira fuori un fagotto scuro da sotto il mantello.
    «È per domani» mormora porgendoglielo. «Nascondetelo da qualche parte fino a domani sera. Guardano sotto il materasso?»
    È un vecchio mantello liso, marrone, del tutto anonimo. Gli sfugge quasi un sorriso a vederlo. Link si asciuga le mani dal succo di mela sul petto, con calma, serenamente, e risponde: «Mettilo via, Lelek, prima che qualcuno lo veda.»
    La mascella di Lelek s’irrigidisce mentre i suoi occhi s’accendono di panico. Getta uno sguardo disperato verso il corridoio, là dove una spalla della guardia s’intravede appena dietro un angolo, e sibila a denti stretti: «Capitano, per favore!»
    «Lelek…»
    «È già tutto organizzato. Domani notte sono di turno i ragazzi della squadra. Vi faranno uscire loro. Fuori dalla prigione ci saranno i miei cugini con un carro coperto, se tutto va bene sarete a Vappesca prima di…»
    «Lelek» ripete Link. «Metti via quel mantello e dì ai tuoi cugini che domani sera possono restare a dormire. Non scapperà nessuno. Tantomeno io.»
    La scarsa sicurezza che Lelek ha tanto faticato a racimolare per venire qui a dirglielo sta venendo meno.
    «Capitano, vi prego» mormora. Gli trema la voce di pianto. È solo un ragazzo, in fin dei conti, e l’esercito è la sola famiglia che conosce. Link sa di essere per lui insieme un capo, un fratello e un eroe, e dovergli dire di no, ora, è assurdamente doloroso. «Vi prego. Non potete lasciare che vi facciano questo. Lo sapete che hanno già deciso.»
    Link posa la mano sul mantello che gli porge, dolcemente, e spinge indietro la sua mano. Non vuole ferirlo né mostrargli ingratitudine; ma bisogna che Lelek capisca.
    «Se mi aiutate a scappare, per voi c’è la corte marziale. Non posso permettervi di farlo, perciò mettilo via. È un ordine» aggiunge a bassa voce, sorridendo appena, nel tentativo di alleggerire quella tensione dolorosa che si è stabilita tra loro, nella cella; ma il suo scherzo, a quanto pare, non è divertente.
    Lelek lo guarda con occhi pieni di disperazione. «Non sono tenuto a obbedirvi. Siete in arresto.»
    «Hai ragione» riconosce Link. «Allora te lo chiedo come un amico che chiede un favore a un amico. Per favore, ringrazia i ragazzi e dì loro che sono grato per quello che volevate fare, e poi annulla tutto e non parlatene mai più, nemmeno tra di voi. Hai corso già abbastanza rischi venendo qui. Non venire più, siamo intesi?»
    Lelek ha continuato a porgergli il mantello per tutto questo tempo, testardamente, col braccio proteso verso di lui; ma alla fine anche il suo coraggio gli viene meno. Abbassa il braccio lentamente mordendosi le labbra per non piangere.
    «Perché lasciate che vi facciano questo?» mormora.
    Link non sa che altro fare per consolarlo: il suo dolore gli pare più grande del suo, in questo momento, e forse è l’unico vero dolore che sia riuscito a provare da giorni a questa parte. Lo attira a sé, contro il proprio petto, e lo culla tra le braccia mentre è scosso dai singhiozzi.
    «Sht» sussurra contro il suo orecchio come faceva sua madre con lui, come lui ha fatto tante volte coi suoi ragazzi troppo giovani che piangevano il primo giorno di leva, le notti prima delle battaglie. «È perché ho giurato di servire Hyrule sempre. Non piangere, non piangere. Andrà tutto bene, Lelek, e si risolverà tutto, ma ora ho bisogno che tu mi prometta che tu e gli altri ragazzi non farete nulla di stupido per me, va bene?»
    «Avete combattuto per Hyrule quando ve l’hanno chiesto! E adesso…»
    Lo interrompe la guardia che torna ad affacciarsi dall’altro lato delle sbarre. Getta una rapida occhiata dentro la cella, forse per accertarsi che siano ancora lì, e torna subito a distogliere lo sguardo, forse per imbarazzo o per evitare di dover mentire se dovesse trovarsi a testimoniare sul loro incontro.
    «Mi dispiace, Lelek» dice ad alta voce, schierandosi davanti a loro con le spalle alla cella. «Cinque minuti. Non posso fare di più.»
    Lelek è l’unico che sia venuto a trovarlo. Non è per colpa degli altri: ai Campioni non è permesso scendere quaggiù, mentre Zelda, se non è cambiato niente, è ancora trattenuta dai soldati nelle sue stanze. Impa, forse, sarebbe potuta venire; ma Link reprime quel pensiero dentro di sé perché è troppo doloroso da affrontare, e al dolore, ora, non può permettersi di abbandonarsi. Credere che i suoi compagni d’armi siano stati trattenuti è in fondo meno spaventoso che accettare di essere stato abbandonato. Allontana Lelek da sé con delicatezza.
    «Vai, ora» mormora. Vorrebbe suonare incoraggiante e fiducioso, infondergli coraggio, come sul campo di battaglia; ma gli occhi di Lelek sono enormi e smarriti come quelli di una bestia spaventata. Non vorrebbe lasciarlo perché non sa quando lo rivedrà. «Stai tranquillo. Domani c’è solo il processo. Non è ancora detto niente.»
    Glielo legge negli occhi che non solamente non ci crede, ma che è ben consapevole, precisamente come lo è lui, che in realtà tutto è già detto e prestabilito dal momento in cui lo hanno arrestato e gettato in carcere; che questi giorni di attesa, che il processo, domani, sono soltanto formalità e finzioni che servono per mantenere una parvenza di legalità in tutto ciò; che tutti sanno già perfettamente quello che accadrà, come nella sequenza di eventi determinata da un meccanismo.
    Lelek si aggrappa alle sue spalle perché non vuole lasciarlo andare.
    «Abbiamo fatto una colletta» sussurra. «Vi faranno avere del vero cibo, qua dentro, per qualche giorno.»
    Chissà perché è questo, dell’inferno degli ultimi giorni, a fargli venire un groppo alla gola che minaccia di farlo piangere. Più dell’umiliazione dell’arresto, più del pensiero dell’abbandono, sono i suoi soldati che hanno fatto di tutto per fargli avere del cibo decente in carcere. Vorrebbe ringraziarlo, abbracciarlo di nuovo; vorrebbe piangere; ma tutto quello che concede a se stesso di fare è stringerlo brevemente a sé per un istante e posare la fronte contro la sua.
    «Non fatelo più» dice guardandolo negli occhi. «È troppo pericoloso per voi, Lelek. Non devono potervi accusare di avermi aiutato. Non fatelo più, promesso?»
    Lelek è stato al suo fianco, insonne, nelle tende ai margini del campo di battaglia, per anni; aveva quattordici anni il giorno della loro prima battaglia; era un bambino. Ha pulito le sue armi incrostate di viscere e fango, ha ascoltato i suoi piani di battaglia interminabili nella notte, fingendo di riuscire a seguire i suoi ragionamenti per non spezzare il filo ininterrotto dei suoi pensieri; una volta s’è spinto per due miglia su terreno scoperto, senza avvisarlo, per procurarsi il pesce per la sua cena; Link s’è arrabbiato, quella volta, e gli ha inflitto anche una punizione, sebbene troppo lieve rispetto all’infrazione, secondo i regolamenti militari, perché correre un rischio del genere per procurare la cena del capitano era inaccettabile: Lelek si è finto dispiaciuto e ha accettato la punizione a testa bassa, con un’espressione contrita eppure stranamente compiaciuta, perché anche lui sapeva che il regolamento avrebbe prescritto una sanzione ben più grave e che Link gli stava soltanto mostrando clemenza, quel giorno. Ha trasgredito gli ordini anche un’altra volta: quando combattevano a Hebra, nella neve, e Link ha ricevuto una lancia nell’addome che gli ha perforato gli intestini. Era certo di morire, quella volta: ne aveva visti troppi uomini cadere così. Ha ritirato la mano dall’addome, riverso al suolo nella polvere, e se l’è vista sporca di sangue e feci fuoriuscite attraverso la ferita: era una condanna a morte, quella. Tutti gridavano intorno a lui e lui aspettava invano, colla vista che gli si appannava e le orecchie ovattate, di non vederci più del tutto, di non sentir più dolore mai; e d’un tratto Lelek è spuntato dal nulla nel clamore della battaglia e gli ha messo una mano nella ferita per tenere al loro posto gli intestini e bloccare la fuoriuscita di sangue. Aveva sedici anni, quel giorno, quasi diciassette, e gli occhi enormi d’orrore; era convinto di morire anche lui restando lì, esposto, al suo fianco; eppure non s’è allontanato. Vai ha mormorato Link muovendo appena le labbra, ritirata ha ordinato nella folle idea che forse Lelek avrebbe obbedito a un ordine diretto impartito in termini militari; lasciami qui ha bisbigliato con le labbra screpolate e secche, la bocca piena di sangue e di terra, e Lelek ha continuato a ripetere ininterrottamente, terrorizzato, sforzandosi di guardarlo sempre negli occhi e di non abbassare mai, neppure per un momento, lo sguardo sulla propria mano affondata nel sangue e nelle feci: «Revali ha avvertito Mipha, capitano. Sta arrivando, deve solo superare la barricata. È a un miglio da qui. Dovete solo avere pazienza. Resto io qui con voi, ma voi dovete rimanere sveglio. Per favore, per favore, rimanete sveglio.» L’accento disperato della sua voce era cullante come una melodia, e Link pensava che lo avrebbe aiutato a perdere lentamente coscienza, cullato dalla monotonia della sua voce; andarsene di fianco a quel ragazzo buono e coraggioso era poi meglio che morire solo come un cane con le ossa schiacciate dagli Hinox, ma ascoltandolo Link non è riuscito a lasciarsi morire. Continuava a pensare che uno dei suoi ragazzi avrebbe dovuto ritirarsi e invece era lì, che stava trasgredendo un ordine diretto e perciò forse lui sarebbe stato costretto a infliggergli una punizione; e il cielo sa quanto Link odiasse punire i suoi ragazzi. Alla fine è stato questo pensiero a salvarlo, Link ne è certo: perché a un tratto, dopo minuti che si facevano interminabili nel clamore della battaglia e nella nenia ripetuta del suo attendente che lo supplicava, egli ha visto spuntare dal nulla Mipha con due medici militari e un corpo di soldati Zora rinforzo che li ha protetti con gli scudi mentre loro lo ricucivano e lei, per l’ennesima volta, lo salvava. Lelek è rimasto al suo fianco anche mentre lo ricucivano. Link ha ottenuto per lui una medaglia, per questo, e una sera lo ha fatto chiamare nei suoi appartamenti e gli ha donato la spada di suo padre. Lelek non voleva accettarla, all’inizio: continuava a dire che quella spada era troppo importante, che non se la meritava; che sarebbe servita a lui, un giorno, quando avesse dovuto riporre nella Foresta la Spada che esorcizza il male… ma Link è stato irremovibile. Ha voluto che Lelek avesse quella spada perché è stato l’unico a credere che potesse sopravvivere persino quella volta quando a vivere lui non credeva neanche più, ed era pronto a lasciarsi andare senza lottare oltre, tra il fango e il sangue, sotto i monti di Hebra; e ora che la sua morte è divenuta un fatto certo e incontestabile, qualcosa che è stato dato in pasto alla macchina burocratica del regno e dell’esercito e che proseguirà per la sua strada malgrado la volontà di chiunque, Link è ancora più felice di avergli donato quella spada; ma proprio per questo dirgli addio è un dolore terribile.
    Con la fronte premuta contro la sua, Lelek ricambia il suo sguardo e risponde: «Mi dispiace, capitano. Questo proprio non posso promettervelo.»
    Link non fa in tempo a risponder nulla, forse nemmeno ne ha le forze. Lelek si alza, batte la mano sulle sbarre e si fa aprire dalla guardia. Non si volta più a guardarlo perché ha gli occhi rossi di pianto.
    Link rimane solo seduto sulla sua branda, a ricordare con gli occhi chiusi il giorno di quella battaglia e le cime innevate di Hebra che spuntavano ai margini del suo campo visivo, sotto il cielo limpido e azzurro, mentre stava disteso nel fango in attesa di morire. Non è stato sempre bello, essere vivo; ma è stato intenso, e combattere era la sua vita. Forse avrebbe preferito morire così, combattendo; ma non ci è dato sempre scegliere.
    Vengono a portargli la cena, dopo un po’: è sera, dunque; nei sotterranei del carcere è difficile tener traccia del tempo che passa. La guardia entra a portargli la ciotola con aria profondamente colpevole; eppure non è colpa sua, questa.
    «Sono riusciti a farvi avere della vera carne, stasera, capitano» dice a voce bassa come se dovesse scusarsi di qualcosa. «Anche per domattina, penso. Almeno sarete in forze per affrontare il processo.»
    Link si sforza di mostrargli un po’ di gratitudine. Ha sempre cercato di essere un esempio per i soldati, fin da quando gli hanno dato il comando. «Grazie, Ronan. Non dovreste farlo, ma grazie. Lo apprezzo enormemente.»
    «Domattina verranno a svegliarvi prima del solito e vi porteranno dell’acqua pulita. Almeno potrete lavarvi prima di… Mi dispiace che non possiamo fare altro, capitano, ma se c’è qualcosa, chiedete. Vedremo quello che possiamo fare.»
    «Non sono più capitano» gli ricorda Link strofinandosi gli occhi.
    «Mi dispiace, capitano» borbotta la guardia tornando al suo posto. «Non sono d’accordo con voi.»
    Link si appoggia di spalle contro la parete e torna a chiudere gli occhi per un istante, beandosi soltanto della sensazione della scodella calda e pesante tra le sue mani. È stato destituito, disonorato, imprigionato, e di certo verrà messo a morte; ma è bello sapere che i suoi soldati serberanno un bel ricordo di lui, anche dopo. È un pensiero confortante cui aggrapparsi, adesso.
 
    È successo tutto in maniera così sottile, subdola, che è stato difficile tener conto degli eventi finché non è stato troppo tardi; e a quel punto non gli è rimasto che restare a guardare gli eventi accadere uno dopo l’altro, precipitando dall’alto come massi dalla cima dei monti. Forse è iniziato tutto molto tempo fa, quando hanno saputo del ritorno della Calamità, e forse chissà, a dar retta al re ancora prima, diecimila anni fa, quando la Calamità è nata e per la prima volta, nel passato, un eroe e una principessa l’hanno combattuta e hanno vinto; non saprebbe dirlo più. Forse non lo ha veramente capito.
    I teologi di corte hanno continuato a studiare le antiche leggende per tutto questo tempo, nella speranza di trovarvi qualcosa in grado di aiutarli a combattere la Calamità: hanno formulato teorie, compulsato testi antichi, confrontato varianti e lezioni discordanti della tradizione manoscritta alla ricerca di qualsiasi cosa potesse fornir loro un indizio su quanto sarebbe accaduto; Link li ha ascoltati col massimo rispetto quando gli hanno esposto le loro opinioni, di tanto in tanto, e sempre col massimo rispetto ha dimenticato le loro parole subito dopo. Tutto molto interessante, certamente; ma la Calamità andava combattuta, e combattuta con la spada e con gli alleati; null’altro.
    I loro studi non lo hanno mai riguardato fino al giorno in cui i teologi non hanno proposto un’interpretazione della leggenda totalmente nuova, alla quale Impa e gli altri Sheikah si sono opposti con tutta la loro forza; ma il buonsenso delle loro argomentazioni si è scontrato e infranto contro la suggestione della leggenda. L’eroe e la principessa si amavano, hanno iniziato ad affermare i teologi, l’eroe e la principessa erano sposati, nelle ere passate; è per questo che i poteri della principessa Zelda non si destano: perché non possono farlo in queste condizioni. Era una stupidaggine, una sciocchezza: la prima volta che ha sentito quella teoria, nei corridoi del Castello, Impa s’è infervorata a smontarla; è una Sheikah, e queste leggende fanno parte della sua cultura e se n’è imbevuta fin da bambina; ma non era una teologa, le è stato risposto. Era una consigliera e una guerriera, hanno obiettato i teologi, e forse avrebbe fatto meglio a restare al suo posto e a occuparsi di quel che le competeva. Del resto, Impa non ci voleva perdere poi molto tempo: erano questioni oziose e inutili, o almeno così sembrava per i primi tempi, e lei aveva realmente altro a cui pensare.
   Il problema è sorto quando quelle questioni non sono rimaste poi così oziose come sembrava all’inizio; quando i teologi hanno cominciato a mormorare nelle orecchie del re, mostrandogli codici manoscritti risalenti a secoli addietro, che forse avevano frustrato ogni tentativo di Zelda già in partenza, costringendola a sfiancarsi ed estenuarsi in preghiere prive di scopo e di senso, perché se non avesse sposato l’eroe i suoi poteri non avrebbero potuto svegliarsi mai; che l’errore non stava in lei, ma nelle premesse…
    Il resto è venuto da sé. Il re ha passato giorni a osservare Zelda incupito, inasprito verso di lei e verso se stesso; è diventato intrattabile, roso dal dubbio d’averla incolpata per qualcosa su cui non poteva avere controllo né responsabilità; e poi è passato a osservare Link, altrettanto intrattabile ma più curioso. Lo ha chiamato più volte, al termine dei suoi allenamenti, e Link ha risposto alle sue domande nel modo più rispettoso ed esauriente possibile, un po’ sorpreso, ma neppure più di tanto: non c’era poi nulla di strano. Non erano domande insolite per il cavaliere addetto alla sicurezza personale della principessa, sulle cui spalle pareva destinato a pesare il destino di Hyrule.
    Ha capito troppo tardi che i teologi e il re parlavano la stessa lingua, in quei giorni; una lingua che non gli era dato comprendere, a quanto pareva, o che forse è stato troppo sordo per ascoltare con attenzione. Il primo vero accenno è stato quando un generale gli ha fatto le congratulazioni, come se parlasse di qualcosa noto a entrambi: Link si è soffermato a guardarlo con attenzione, poi, rispettosamente, ha chiesto a che cosa fossero dovute. Il generale ha riso e ha detto che ammirava la sua discrezione, ma che ormai era cosa nota.
    A quanto pareva, era cosa nota a tutti tranne che a lui, ma non per molto. Quella sera stessa il re lo ha convocato nelle sue stanze; c’erano con lui i più alti ranghi dell’esercito, che apparivano tronfi e compiaciuti e piuttosto convinti di dargli una splendida notizia; parlando a voce bassa, amareggiata, il re ha detto: «Riteniamo che sia tempo che voi sposiate la principessa ed entriate a far parte della nostra famiglia in modo che entrambi possiate adempiere al vostro destino.»
    Se quel riteniamo fosse riferito al re, come plurale di maestà, o se piuttosto non vi si celassero dietro i teologi di corte, Link non avrebbe saputo dirlo. Si è limitato ad aspettare la fine del discorso, pensierosamente, e quando è stato evidente che nessuno avrebbe più parlato e che ci si aspettava da lui un’incondizionata approvazione, ha chiesto: «La principessa Zelda acconsente?»
    «La principessa» ha risposto gravemente il re «È ben consapevole del suo ruolo e dei doveri che da lei ci si aspettano. Riteniamo perciò che acconsentirà come a cosa necessaria per il benessere e la salvezza di Hyrule.»
    Di questo, rispettosamente, Link si permetteva di dubitare; ma la cosa, comunque, era al di fuori del suo controllo. Non poteva rispondere che per se stesso, perciò ha risposto: «Ho prestato giuramento di difendere e di servire Hyrule con la mia spada per tutta la mia vita, e non intendo venir meno alla mia parola; ma il mio giuramento riguardava soltanto la mia vita nell’esercito. La mia vita privata non è coinvolta nel mio giuramento. La mia risposta è no.»
    Hanno cercato di convincerlo con le buone, all’inizio. Hanno parlato tutti, prima accavallandosi e poi a turno, ragionevolmente, cercando di dimostrargli che da quel matrimonio non potevano derivarne che benefici a lui personalmente, a Zelda, ma soprattutto al regno intero; Link ha approvato le loro parole, sentendo sempre più aggravarsi la sua situazione, e ha continuato a dir di no. Gli hanno dato tre giorni per riflettere; in quei giorni Zelda è riuscita a sfuggire per qualche minuto alla scorta armata che il re aveva messo alle sue porte, con la scusa della sua protezione, per venire a parlargli di nascosto: era confusa eppure fiduciosa. Forse non credeva davvero che suo padre avrebbe portato la faccenda fino in fondo; persino a lui un matrimonio forzato, come non usano da secoli addietro, doveva sembrare troppo. «Forse basterà rifiutare» gli ha detto in un momento di speranzosa follia, solo un poco inquieta. «Non possono obbligarci.»
    Potevano. La mattina del terzo giorno Zelda è stata confinata nei suoi appartamenti dalle guardie e a Link è stato ricordato senza mezzi termini che, rifiutando un ordine diretto del re, rischiava la corte marziale. Senza scomporsi, Link ha pranzato con calma, ha indossato la divisa della guardia reale, ha congedato il suo attendente e si è seduto nei suoi alloggi ad aspettare che venissero ad arrestarlo; ha scritto qualche lettera, nel frattempo, e ha annotato delle idee sulle mappe che campeggiano da mesi sul suo tavolo da lavoro. Quando i soldati mortificati si sono presentati con l’ordine d’arresto, ha chiesto solo la cortesia di non essere ammanettato, ha deposto la Spada sul tavolo e li ha seguiti senza opporre resistenza.
    Lo processano il quarto giorno dopo il suo arresto. Proprio come il soldato di guardia gli ha annunciato ieri sera, vengono la mattina presto a portargli acqua pulita, appena tiepida, e una divisa di ricambio. Questo non è regolamentare: Link se la rigira tra le mani sorpreso e alza lo sguardo sui soldati, ma loro girano gli occhi attorno fingendo di non sapere come possa essersi procurato abiti puliti in carcere. La loro fedeltà lo commuove oltre ogni dire. Non vorrebbe che fossero costretti a questo: è quasi più doloroso per loro che per lui. Gli danno le spalle per qualche minuto mentre si lava e si riveste: l’acqua è fredda, ma in fondo, quand’era soldato semplice, ci era abituato. Non è poi tanto diverso da allora.
    Quando lo scortano nell’aula designata per il suo processo, si sorprende di vederla tanto vuota: avrebbe creduto che la caduta del cavaliere che brandisce la Spada che esorcizza il male avrebbe fatto più rumore, che in tanti sarebbero venuti a vedere la sua rovina; ma poi l’improvvisa portata di questa realizzazione lo atterrisce come un colpo in pieno petto. È un processo a porte chiuse. Forse non cambierà molto, perché in fondo già sa come andrà a finire al suo ennesimo rifiuto di sposare la principessa; ma avrebbe voluto che ci fosse almeno qualcuno a sentire la sua versione dei fatti. Tutto quello che uscirà da questa corte, invece, sarà che lui è stato condannato per alto tradimento come se avesse tramato per rovesciare il regno. Non c’è nessuno dei Campioni, né dei suoi sottoposti; Zelda è assente, ancora nelle sue stanze, probabilmente; non c’è nessun consigliere di corte, dunque è logico che manchi anche Impa. È un tribunale strettamente militare, del resto, dunque per quale motivo avrebbero dovuto essere presenti? C’è solo il re, ma non prende mai la parola. Si limita a osservare, in fondo all’aula, e non lo guarda mai negli occhi.
    Il processo si svolge in modo farsesco eppure apparentemente regolare, con sapiente maestria. Gli viene chiesto perché si sia opposto a un ordine diretto del re, ma non viene esplicitato quale, in modo che non venga messo a verbale; poiché è una domanda diretta, non gli rimane che rispondere che quell’ordine esulava dal servizio e dunque lui non era tenuto a obbedirvi. Gli viene chiesto se persista nel suo rifiuto di obbedire all’ordine del re e dei suoi generali, e Link non può che rispondere che a quell’ordine non può obbedire. Potrebbe aggiungere molte cose, riguardo a questo: per esempio che quell’ordine esula dalla legalità e dai fini del servizio, che non ci sono precedenti, che in nessun regolamento militare è possibile processare un ufficiale per non voler prendere una moglie che non desidera e che non lo desidera a sua volta; ma non spreca voce né tempo. Sapeva fin dal momento del suo arresto che il modo per condannarlo, se avesse continuato a dir di no, lo avrebbero trovato senza problemi; e le sue parole non usciranno da quest’aula. Se ci fosse stato qualcun altro sarebbe stato diverso: avrebbe almeno provato a difendersi, non per salvarsi, ma perché la sua versione dei fatti, l’ingiustizia di quel processo, continuasse a vivere anche dopo di lui; non è così. È solo di fronte a questi militari anziani, spaventati dalla Calamità e dalla loro incapacità a combatterla, convinti in qualche misura che se perderanno sarà perché lui non ha obbedito agli ordini e alle leggende, e dunque già pronti ad assolversi con e dalla sua condanna.
    La corte impiega quasi venti minuti per deliberare, il che è un bene, a suo modo di vedere – non perché cambi qualcosa, ma perché vuol dire che probabilmente c’è ancora qualcuno, tra quegli anziani generali di corpo d’armata, che non è pienamente convinto della sua colpevolezza o della necessità di metterlo a morte; forse persino qualcuno che si sta spendendo per la sua difesa; gli piacerebbe sapere chi è, per ringraziarlo cogli occhi, quantomeno.
    Quando rientrano in aula decretano che venga condannato a morte per impiccagione e che la sentenza venga eseguita all’alba del giorno seguente.

 
    Quando ho finito, di recente, la mia fanfiction più strutturata e ambiziosa, ho provato un senso di smarrimento violentissimo che è perdurato per giorni: avevo paura che non avrei più scritto qualcosa di simile e che mi desse altrettanta soddisfazione.
    Quella paura, intendiamoci, non è scemata; ma ho deciso di combatterla ripromettendo a me stessa, nonché a mia sorella e alla mia instancabile beta Fiulopis, che mi sarei impegnata a scrivere anche cose più rassicuranti e meno angst del mio solito. Giuro che, anche se per ora non sembra, questa storia è scritta proprio per mantenere la mia promessa: perciò, anche se per ora c’è puzza del mio solito angst (la sento pure io!) vi prometto che la rassicurazione verrà, anche se non sono sicura che sarò in grado di scriverla. Ma, in fin dei conti, pazienza: intendo fare del mio meglio per uscire dai miei soliti schemi e per scrivere anch’io su qualcuno dei trope melensi e rassicuranti che di solito amo leggere. Spero che vorrete accompagnarmi in questo tentativo al di fuori della mia comfort zone, avendo pazienza se ne uscirà uno schifo.
    Una piccola avvertenza prima di proseguire:i sarete ovviamente resi conto che l'ambiente reale di questa storia sarà, ovviamente, un tantino più soffocante e rigido che in BOTW e in Hyrule Warriors: Age of Calamity. Ho pensato di riprendere e sviluppare un'idea che avevo appena abbozzato durante l'ultimo Writober: presto scoprirerte quale.
    Nell’attesa di scoprire che cosa ne uscirà, un bacio a tutti!
  Afaneia
   
 
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