Salvezza per uomini morti
I -
Carcere
[…] questo rumore lo
sento,
mi pervade
come un tradimento fatto da
me stesso a me stesso,
quel me stesso che avevo
esercitato e temprato
nell’illusorio orgoglio
del
coraggio invincibile – quale coraggio,
se nel profondo ci governa
la nostra vita estranea, la nostra morte estranea?
No, non c’è
alcuna
umiliazione. Se sono stato sconfitto, sono stato sconfitto
non dagli uomini, ma solo
dagli dei. Nessuna vittoria o sconfitta ci appartiene.
Ghiannis Ritsos, Aiace.
Il
suo attendente viene a trovarlo la terza sera. È riuscito a
portargli delle
mele, con la complicità evidente delle guardie che fingono
di non vederle: Link
lo ringrazia con gli occhi perché grazie a sufficienza non
potrà mai dirgliene.
Ne addenta subito una. Non mangia frutta né verdura da
giorni: in carcere non
ne passano. Per quanto i soldati gli stiano usando ogni riguardo
possibile, non
hanno potere sulla scelta del cibo.
Lelek
si siede in silenzio davanti a lui: è un bravo ragazzo.
L’ha servito sempre
fedelmente, con più ammirazione per lui di quanta Link abbia
mai sentito di
meritarsi, e il dolore nei suoi occhi è tale
ch’egli sente quasi d’avergli
fatto un torto. Alle sue spalle, al di là delle sbarre, la
guardia getta
un’occhiata nella cella e dice a bassa voce:
«Cinque minuti, Lelek. Siamo
intesi?»
Lelek
rimane a osservare la guardia finché questa non scompare nel
corridoio
principale, fuori portata d’orecchio, dopodiché si
volta verso di lui e tira
fuori un fagotto scuro da sotto il mantello.
«È
per domani» mormora porgendoglielo. «Nascondetelo
da qualche parte fino a
domani sera. Guardano sotto il materasso?»
È
un vecchio mantello liso, marrone, del tutto anonimo. Gli sfugge quasi
un
sorriso a vederlo. Link si asciuga le mani dal succo di mela sul petto,
con
calma, serenamente, e risponde: «Mettilo via, Lelek, prima
che qualcuno lo
veda.»
La
mascella di Lelek s’irrigidisce mentre i suoi occhi
s’accendono di panico.
Getta uno sguardo disperato verso il corridoio, là dove una
spalla della
guardia s’intravede appena dietro un angolo, e sibila a denti
stretti:
«Capitano, per favore!»
«Lelek…»
«È
già tutto organizzato. Domani notte sono di turno i ragazzi
della squadra. Vi
faranno uscire loro. Fuori dalla prigione ci saranno i miei cugini con
un carro
coperto, se tutto va bene sarete a Vappesca prima
di…»
«Lelek»
ripete Link. «Metti via quel mantello e dì ai tuoi
cugini che domani sera
possono restare a dormire. Non scapperà nessuno. Tantomeno
io.»
La
scarsa sicurezza che Lelek ha tanto faticato a racimolare per venire
qui a
dirglielo sta venendo meno.
«Capitano,
vi prego» mormora. Gli trema la voce di pianto. È
solo un ragazzo, in fin dei
conti, e l’esercito è la sola famiglia che
conosce. Link sa di essere per lui
insieme un capo, un fratello e un eroe, e dovergli dire di no, ora,
è
assurdamente doloroso. «Vi prego. Non potete lasciare che vi
facciano questo.
Lo sapete che hanno già deciso.»
Link
posa la mano sul mantello che gli porge, dolcemente, e spinge indietro
la sua
mano. Non vuole ferirlo né mostrargli ingratitudine; ma
bisogna che Lelek
capisca.
«Se
mi aiutate a scappare, per voi c’è la corte
marziale. Non posso permettervi di
farlo, perciò mettilo via. È un ordine»
aggiunge a bassa voce, sorridendo
appena, nel tentativo di alleggerire quella tensione dolorosa che si
è
stabilita tra loro, nella cella; ma il suo scherzo, a quanto pare, non
è
divertente.
Lelek
lo guarda con occhi pieni di disperazione. «Non sono tenuto a
obbedirvi. Siete
in arresto.»
«Hai
ragione» riconosce Link. «Allora te lo chiedo come
un amico che chiede un
favore a un amico. Per favore, ringrazia i ragazzi e dì loro
che sono grato per
quello che volevate fare, e poi annulla tutto e non parlatene mai
più, nemmeno
tra di voi. Hai corso già abbastanza rischi venendo qui. Non
venire più, siamo
intesi?»
Lelek
ha continuato a porgergli il mantello per tutto questo tempo,
testardamente,
col braccio proteso verso di lui; ma alla fine anche il suo coraggio
gli viene
meno. Abbassa il braccio lentamente mordendosi le labbra per non
piangere.
«Perché
lasciate che vi facciano questo?» mormora.
Link
non sa che altro fare per consolarlo: il suo dolore gli pare
più grande del
suo, in questo momento, e forse è l’unico vero
dolore che sia riuscito a
provare da giorni a questa parte. Lo attira a sé, contro il
proprio petto, e lo
culla tra le braccia mentre è scosso dai singhiozzi.
«Sht»
sussurra contro il suo orecchio come faceva sua madre con lui, come lui
ha
fatto tante volte coi suoi ragazzi troppo giovani che piangevano il
primo
giorno di leva, le notti prima delle battaglie. «È
perché ho giurato di servire
Hyrule sempre. Non piangere, non piangere. Andrà tutto bene,
Lelek, e si
risolverà tutto, ma ora ho bisogno che tu mi prometta che tu
e gli altri
ragazzi non farete nulla di stupido per me, va bene?»
«Avete
combattuto per Hyrule quando ve l’hanno chiesto! E
adesso…»
Lo
interrompe la guardia che torna ad affacciarsi dall’altro
lato delle sbarre.
Getta una rapida occhiata dentro la cella, forse per accertarsi che
siano
ancora lì, e torna subito a distogliere lo sguardo, forse
per imbarazzo o per
evitare di dover mentire se dovesse trovarsi a testimoniare sul loro
incontro.
«Mi
dispiace, Lelek» dice ad alta voce, schierandosi davanti a
loro con le spalle
alla cella. «Cinque minuti. Non posso fare di
più.»
Lelek
è l’unico che sia venuto a trovarlo. Non
è per colpa degli altri: ai Campioni
non è permesso scendere quaggiù, mentre Zelda, se
non è cambiato niente, è
ancora trattenuta dai soldati nelle sue stanze. Impa, forse, sarebbe
potuta
venire; ma Link reprime quel pensiero dentro di sé
perché è troppo doloroso da
affrontare, e al dolore, ora, non può permettersi di
abbandonarsi. Credere che
i suoi compagni d’armi siano stati trattenuti è in
fondo meno spaventoso che
accettare di essere stato abbandonato. Allontana Lelek da sé
con delicatezza.
«Vai,
ora» mormora. Vorrebbe suonare incoraggiante e fiducioso,
infondergli coraggio,
come sul campo di battaglia; ma gli occhi di Lelek sono enormi e
smarriti come
quelli di una bestia spaventata. Non vorrebbe lasciarlo
perché non sa quando lo
rivedrà. «Stai tranquillo. Domani
c’è solo il processo. Non è ancora
detto
niente.»
Glielo
legge negli occhi che non solamente non ci crede, ma che è
ben consapevole,
precisamente come lo è lui, che in realtà tutto
è già detto e prestabilito dal momento
in cui lo hanno arrestato e gettato
in carcere; che questi giorni di attesa, che il processo, domani, sono
soltanto
formalità e finzioni che servono per mantenere una parvenza
di legalità in
tutto ciò; che tutti sanno già perfettamente
quello che accadrà, come nella
sequenza di eventi determinata da un meccanismo.
Lelek
si aggrappa alle sue spalle perché non vuole lasciarlo
andare.
«Abbiamo
fatto una colletta» sussurra. «Vi faranno avere del
vero cibo, qua dentro, per
qualche giorno.»
Chissà
perché è questo, dell’inferno degli
ultimi giorni, a fargli venire un groppo
alla gola che minaccia di farlo piangere. Più
dell’umiliazione dell’arresto,
più del pensiero dell’abbandono, sono i suoi
soldati che hanno fatto di tutto
per fargli avere del cibo decente in carcere. Vorrebbe ringraziarlo,
abbracciarlo di nuovo; vorrebbe piangere; ma tutto quello che concede a
se
stesso di fare è stringerlo brevemente a sé per
un istante e posare la fronte
contro la sua.
«Non
fatelo più» dice guardandolo negli occhi.
«È troppo pericoloso per voi, Lelek.
Non devono potervi accusare di avermi aiutato. Non fatelo
più, promesso?»
Lelek
è stato al suo fianco, insonne, nelle tende ai margini del
campo di battaglia,
per anni; aveva quattordici anni il giorno della loro prima battaglia;
era un
bambino. Ha pulito le sue armi incrostate di viscere e fango, ha
ascoltato i
suoi piani di battaglia interminabili nella notte, fingendo di riuscire
a
seguire i suoi ragionamenti per non spezzare il filo ininterrotto dei
suoi
pensieri; una volta s’è spinto per due miglia su
terreno scoperto, senza
avvisarlo, per procurarsi il pesce per la sua cena; Link
s’è arrabbiato, quella
volta, e gli ha inflitto anche una punizione, sebbene troppo lieve
rispetto
all’infrazione, secondo i regolamenti militari,
perché correre un rischio del
genere per procurare la cena del capitano era inaccettabile: Lelek si
è finto
dispiaciuto e ha accettato la punizione a testa bassa, con
un’espressione
contrita eppure stranamente compiaciuta, perché anche lui
sapeva che il
regolamento avrebbe prescritto una sanzione ben più grave e
che Link gli stava
soltanto mostrando clemenza, quel giorno. Ha trasgredito gli ordini
anche
un’altra volta: quando combattevano a Hebra, nella neve, e
Link ha ricevuto una
lancia nell’addome che gli ha perforato gli intestini. Era
certo di morire,
quella volta: ne aveva visti troppi uomini cadere così. Ha
ritirato la mano
dall’addome, riverso al suolo nella polvere, e se
l’è vista sporca di sangue e
feci fuoriuscite attraverso la ferita: era una condanna a morte,
quella. Tutti
gridavano intorno a lui e lui aspettava invano, colla vista che gli si
appannava
e le orecchie ovattate, di non vederci più del tutto, di non
sentir più dolore
mai; e d’un tratto Lelek è spuntato dal nulla nel
clamore della battaglia e gli
ha messo una mano nella ferita per tenere al loro posto gli intestini e
bloccare la fuoriuscita di sangue. Aveva sedici anni, quel giorno,
quasi
diciassette, e gli occhi enormi d’orrore; era convinto di
morire anche lui
restando lì, esposto, al suo fianco; eppure non
s’è allontanato. Vai
ha mormorato Link muovendo appena le
labbra, ritirata ha ordinato nella
folle idea che forse Lelek avrebbe obbedito a un ordine diretto
impartito in
termini militari; lasciami qui ha
bisbigliato con le labbra screpolate e secche, la bocca piena di sangue
e di
terra, e Lelek ha continuato a ripetere ininterrottamente,
terrorizzato,
sforzandosi di guardarlo sempre negli occhi e di non abbassare mai,
neppure per
un momento, lo sguardo sulla propria mano affondata nel sangue e nelle
feci:
«Revali ha avvertito Mipha, capitano. Sta arrivando, deve
solo superare la barricata.
È a un miglio da qui. Dovete solo avere pazienza. Resto io
qui con voi, ma voi
dovete rimanere sveglio. Per favore, per favore, rimanete
sveglio.» L’accento
disperato della sua voce era cullante come una melodia, e Link pensava
che lo
avrebbe aiutato a perdere lentamente coscienza, cullato dalla monotonia
della
sua voce; andarsene di fianco a quel ragazzo buono e coraggioso era poi
meglio
che morire solo come un cane con le ossa schiacciate dagli Hinox, ma
ascoltandolo Link non è riuscito a lasciarsi morire.
Continuava a pensare che
uno dei suoi ragazzi avrebbe dovuto ritirarsi e invece era
lì, che stava
trasgredendo un ordine diretto e perciò forse lui sarebbe
stato costretto a
infliggergli una punizione; e il cielo sa quanto Link odiasse punire i
suoi
ragazzi. Alla fine è stato questo pensiero a salvarlo, Link
ne è certo: perché
a un tratto, dopo minuti che si facevano interminabili nel clamore
della
battaglia e nella nenia ripetuta del suo attendente che lo supplicava,
egli ha
visto spuntare dal nulla Mipha con due medici militari e un corpo di
soldati
Zora rinforzo che li ha protetti con gli scudi mentre loro lo
ricucivano e lei,
per l’ennesima volta, lo salvava. Lelek è rimasto
al suo fianco anche mentre lo
ricucivano. Link ha ottenuto per lui una medaglia, per questo, e una
sera lo ha
fatto chiamare nei suoi appartamenti e gli ha donato la spada di suo
padre.
Lelek non voleva accettarla, all’inizio: continuava a dire
che quella spada era
troppo importante, che non se la meritava; che sarebbe servita a lui,
un
giorno, quando avesse dovuto riporre nella Foresta la Spada che
esorcizza il
male… ma Link è stato irremovibile. Ha voluto che
Lelek avesse quella spada
perché è stato l’unico a credere che
potesse sopravvivere persino quella volta
quando a vivere lui non credeva neanche più, ed era pronto a
lasciarsi andare
senza lottare oltre, tra il fango e il sangue, sotto i monti di Hebra;
e ora
che la sua morte è divenuta un fatto certo e incontestabile,
qualcosa che è
stato dato in pasto alla macchina burocratica del regno e
dell’esercito e che
proseguirà per la sua strada malgrado la volontà
di chiunque, Link è ancora più
felice di avergli donato quella spada; ma proprio per questo dirgli
addio è un
dolore terribile.
Con
la fronte premuta contro la sua, Lelek ricambia il suo sguardo e
risponde: «Mi
dispiace, capitano. Questo proprio non posso promettervelo.»
Link
non fa in tempo a risponder nulla, forse nemmeno ne ha le forze. Lelek
si alza,
batte la mano sulle sbarre e si fa aprire dalla guardia. Non si volta
più a
guardarlo perché ha gli occhi rossi di pianto.
Link
rimane solo seduto sulla sua branda, a ricordare con gli occhi chiusi
il giorno
di quella battaglia e le cime innevate di Hebra che spuntavano ai
margini del
suo campo visivo, sotto il cielo limpido e azzurro, mentre stava
disteso nel
fango in attesa di morire. Non è stato sempre bello, essere
vivo; ma è stato
intenso, e combattere era la sua vita. Forse avrebbe preferito morire
così,
combattendo; ma non ci è dato sempre scegliere.
Vengono
a portargli la cena, dopo un po’: è sera, dunque;
nei sotterranei del carcere è
difficile tener traccia del tempo che passa. La guardia entra a
portargli la
ciotola con aria profondamente colpevole; eppure non è colpa
sua, questa.
«Sono
riusciti a farvi avere della vera carne, stasera, capitano»
dice a voce bassa
come se dovesse scusarsi di qualcosa. «Anche per domattina,
penso. Almeno
sarete in forze per affrontare il processo.»
Link
si sforza di mostrargli un po’ di gratitudine. Ha sempre
cercato di essere un
esempio per i soldati, fin da quando gli hanno dato il comando.
«Grazie, Ronan.
Non dovreste farlo, ma grazie. Lo apprezzo enormemente.»
«Domattina
verranno a svegliarvi prima del solito e vi porteranno
dell’acqua pulita.
Almeno potrete lavarvi prima di… Mi dispiace che non
possiamo fare altro,
capitano, ma se c’è qualcosa, chiedete. Vedremo
quello che possiamo fare.»
«Non
sono più capitano» gli ricorda Link strofinandosi
gli occhi.
«Mi
dispiace, capitano» borbotta la guardia tornando al suo
posto. «Non sono
d’accordo con voi.»
Link
si appoggia di spalle contro la parete e torna a chiudere gli occhi per
un
istante, beandosi soltanto della sensazione della scodella calda e
pesante tra
le sue mani. È stato destituito, disonorato, imprigionato, e
di certo verrà
messo a morte; ma è bello sapere che i suoi soldati
serberanno un bel ricordo
di lui, anche dopo. È un pensiero confortante cui
aggrapparsi, adesso.
È
successo tutto in maniera così sottile, subdola, che
è stato difficile tener
conto degli eventi finché non è stato troppo
tardi; e a quel punto non gli è
rimasto che restare a guardare gli eventi accadere uno dopo
l’altro,
precipitando dall’alto come massi dalla cima dei monti. Forse
è iniziato tutto
molto tempo fa, quando hanno saputo del ritorno della
Calamità, e forse chissà,
a dar retta al re ancora prima, diecimila anni fa, quando la
Calamità è nata e
per la prima volta, nel passato, un eroe e una principessa
l’hanno combattuta e
hanno vinto; non saprebbe dirlo più. Forse non lo ha
veramente capito.
I
teologi di corte hanno continuato a studiare le antiche leggende per
tutto
questo tempo, nella speranza di trovarvi qualcosa in grado di aiutarli
a
combattere la Calamità: hanno formulato teorie, compulsato
testi antichi,
confrontato varianti e lezioni discordanti della tradizione manoscritta
alla
ricerca di qualsiasi cosa potesse fornir loro un indizio su quanto
sarebbe
accaduto; Link li ha ascoltati col massimo rispetto quando gli hanno
esposto le
loro opinioni, di tanto in tanto, e sempre col massimo rispetto ha
dimenticato
le loro parole subito dopo. Tutto molto interessante, certamente; ma la
Calamità andava combattuta, e combattuta con la spada e con
gli alleati;
null’altro.
I
loro studi non lo hanno mai riguardato fino al giorno in cui i teologi
non
hanno proposto un’interpretazione della leggenda totalmente
nuova, alla quale
Impa e gli altri Sheikah si sono opposti con tutta la loro forza; ma il
buonsenso delle loro argomentazioni si è scontrato e
infranto contro la
suggestione della leggenda. L’eroe
e la
principessa si amavano, hanno iniziato ad affermare i
teologi, l’eroe e la principessa
erano sposati, nelle
ere passate; è per questo che i poteri della principessa
Zelda non si destano:
perché non possono farlo in queste condizioni. Era una stupidaggine, una sciocchezza: la prima
volta che ha sentito
quella teoria, nei corridoi del Castello, Impa s’è
infervorata a smontarla; è
una Sheikah, e queste leggende fanno parte della sua cultura e se
n’è imbevuta
fin da bambina; ma non era una teologa, le è stato risposto.
Era una
consigliera e una guerriera, hanno obiettato i teologi, e forse avrebbe
fatto
meglio a restare al suo posto e a occuparsi di quel che le competeva.
Del resto,
Impa non ci voleva perdere poi molto tempo: erano questioni oziose e
inutili, o
almeno così sembrava per i primi tempi, e lei aveva
realmente altro a cui
pensare.
Il
problema è sorto quando quelle questioni non
sono rimaste poi così oziose come sembrava
all’inizio; quando i teologi hanno
cominciato a mormorare nelle orecchie del re, mostrandogli codici
manoscritti
risalenti a secoli addietro, che forse avevano frustrato ogni tentativo
di
Zelda già in partenza, costringendola a sfiancarsi ed
estenuarsi in preghiere
prive di scopo e di senso, perché se non avesse sposato
l’eroe i suoi poteri
non avrebbero potuto svegliarsi mai; che l’errore non stava
in lei, ma nelle
premesse…
Il resto è venuto da sé. Il re ha passato giorni
a
osservare Zelda incupito, inasprito verso di lei e verso se stesso;
è diventato
intrattabile, roso dal dubbio d’averla incolpata per qualcosa
su cui non poteva
avere controllo né responsabilità; e poi
è passato a osservare Link,
altrettanto intrattabile ma più curioso. Lo ha chiamato
più volte, al termine
dei suoi allenamenti, e Link ha risposto alle sue domande nel modo
più
rispettoso ed esauriente possibile, un po’ sorpreso, ma
neppure più di tanto:
non c’era poi nulla di strano. Non erano domande insolite per
il cavaliere
addetto alla sicurezza personale della principessa, sulle cui spalle
pareva
destinato a pesare il destino di Hyrule.
Ha capito troppo tardi che i teologi e il re
parlavano la stessa lingua, in quei giorni; una lingua che non gli era
dato
comprendere, a quanto pareva, o che forse è stato troppo
sordo per ascoltare
con attenzione. Il primo vero accenno è stato quando un
generale gli ha fatto
le congratulazioni, come se parlasse di qualcosa noto a entrambi: Link
si è
soffermato a guardarlo con attenzione, poi, rispettosamente, ha chiesto
a che
cosa fossero dovute. Il generale ha riso e ha detto che ammirava la sua
discrezione, ma che ormai era cosa nota.
A quanto pareva, era cosa nota a tutti tranne che a
lui, ma non per molto. Quella sera stessa il re lo ha convocato nelle
sue
stanze; c’erano con lui i più alti ranghi
dell’esercito, che apparivano tronfi
e compiaciuti e piuttosto convinti di dargli una splendida notizia;
parlando a
voce bassa, amareggiata, il re ha detto: «Riteniamo che sia
tempo che voi
sposiate la principessa ed entriate a far parte della nostra famiglia
in modo
che entrambi possiate adempiere al vostro destino.»
Se quel riteniamo fosse riferito
al re, come plurale di maestà, o se piuttosto non vi si
celassero dietro i
teologi di corte, Link non avrebbe saputo dirlo. Si è
limitato ad aspettare la
fine del discorso, pensierosamente, e quando è stato
evidente che nessuno
avrebbe più parlato e che ci si aspettava da lui
un’incondizionata
approvazione, ha chiesto: «La principessa Zelda
acconsente?»
«La principessa» ha risposto gravemente il re
«È
ben consapevole del suo ruolo e dei doveri che da lei ci si aspettano.
Riteniamo perciò che acconsentirà come a cosa
necessaria per il benessere e la
salvezza di Hyrule.»
Di questo, rispettosamente, Link si permetteva di
dubitare; ma la cosa, comunque, era al di fuori del suo controllo. Non
poteva
rispondere che per se stesso, perciò ha risposto:
«Ho prestato giuramento di
difendere e di servire Hyrule con la mia spada per tutta la mia vita, e
non
intendo venir meno alla mia parola; ma il mio giuramento riguardava
soltanto la
mia vita nell’esercito. La mia vita privata non è
coinvolta nel mio giuramento.
La mia risposta è no.»
Hanno cercato di convincerlo con le buone,
all’inizio. Hanno parlato tutti, prima accavallandosi e poi a
turno,
ragionevolmente, cercando di dimostrargli che da quel matrimonio non
potevano
derivarne che benefici a lui personalmente, a Zelda, ma soprattutto al
regno
intero; Link ha approvato le loro parole, sentendo sempre
più aggravarsi la sua
situazione, e ha continuato a dir di no. Gli hanno dato tre giorni per
riflettere; in quei giorni Zelda è riuscita a sfuggire per
qualche minuto alla
scorta armata che il re aveva messo alle sue porte, con la scusa della
sua
protezione, per venire a parlargli di nascosto: era confusa eppure
fiduciosa.
Forse non credeva davvero che suo padre avrebbe portato la faccenda
fino in
fondo; persino a lui un matrimonio forzato, come non usano da secoli
addietro,
doveva sembrare troppo. «Forse basterà
rifiutare» gli ha detto in un momento di
speranzosa follia, solo un poco inquieta. «Non possono
obbligarci.»
Potevano. La mattina del terzo giorno Zelda è stata
confinata nei suoi appartamenti dalle guardie e a Link è
stato ricordato senza
mezzi termini che, rifiutando un ordine diretto del re, rischiava la
corte
marziale. Senza scomporsi, Link ha pranzato con calma, ha indossato la
divisa
della guardia reale, ha congedato il suo attendente e si è
seduto nei suoi
alloggi ad aspettare che venissero ad arrestarlo; ha scritto qualche
lettera,
nel frattempo, e ha annotato delle idee sulle mappe che campeggiano da
mesi sul
suo tavolo da lavoro. Quando i soldati mortificati si sono presentati
con
l’ordine d’arresto, ha chiesto solo la cortesia di
non essere ammanettato, ha
deposto la Spada sul tavolo e li ha seguiti senza opporre resistenza.
Lo processano il quarto giorno dopo il suo arresto.
Proprio come il soldato di guardia gli ha annunciato ieri sera, vengono
la
mattina presto a portargli acqua pulita, appena tiepida, e una divisa
di
ricambio. Questo non è regolamentare: Link se la rigira tra
le mani sorpreso e
alza lo sguardo sui soldati, ma loro girano gli occhi attorno fingendo
di non
sapere come possa essersi procurato abiti puliti in carcere. La loro
fedeltà lo
commuove oltre ogni dire. Non vorrebbe che fossero costretti a questo:
è quasi
più doloroso per loro che per lui. Gli danno le spalle per
qualche minuto
mentre si lava e si riveste: l’acqua è fredda, ma
in fondo, quand’era soldato
semplice, ci era abituato. Non è poi tanto diverso da allora.
Quando lo scortano nell’aula designata per il suo
processo, si sorprende di vederla tanto vuota: avrebbe creduto che la
caduta
del cavaliere che brandisce la Spada che esorcizza il male avrebbe
fatto più
rumore, che in tanti sarebbero venuti a vedere la sua rovina; ma poi
l’improvvisa portata di questa realizzazione lo atterrisce
come un colpo in
pieno petto. È un processo a porte chiuse. Forse non
cambierà molto, perché in
fondo già sa come andrà a finire al suo ennesimo
rifiuto di sposare la
principessa; ma avrebbe voluto che ci fosse almeno qualcuno a sentire
la sua
versione dei fatti. Tutto quello che uscirà da questa corte,
invece, sarà che
lui è stato condannato per alto tradimento come se avesse
tramato per
rovesciare il regno. Non c’è nessuno dei Campioni,
né dei suoi sottoposti;
Zelda è assente, ancora nelle sue stanze, probabilmente; non
c’è nessun
consigliere di corte, dunque è logico che manchi anche Impa.
È un tribunale
strettamente militare, del resto, dunque per quale motivo avrebbero
dovuto essere
presenti? C’è solo il re, ma non prende mai la
parola. Si limita a osservare,
in fondo all’aula, e non lo guarda mai negli occhi.
Il processo si svolge in modo farsesco eppure
apparentemente regolare, con sapiente maestria. Gli viene chiesto
perché si sia
opposto a un ordine diretto del re, ma non viene esplicitato quale, in
modo che
non venga messo a verbale; poiché è una domanda
diretta, non gli rimane che
rispondere che quell’ordine esulava dal servizio e dunque lui
non era tenuto a
obbedirvi. Gli viene chiesto se persista nel suo rifiuto di obbedire
all’ordine
del re e dei suoi generali, e Link non può che rispondere
che a quell’ordine
non può obbedire. Potrebbe aggiungere molte cose, riguardo a
questo: per
esempio che quell’ordine esula dalla legalità e
dai fini del servizio, che non
ci sono precedenti, che in nessun regolamento militare è
possibile processare
un ufficiale per non voler prendere una moglie che non desidera e che
non lo
desidera a sua volta; ma non spreca voce né tempo. Sapeva
fin dal momento del
suo arresto che il modo per condannarlo, se avesse continuato a dir di
no, lo
avrebbero trovato senza problemi; e le sue parole non usciranno da
quest’aula.
Se ci fosse stato qualcun altro sarebbe stato diverso: avrebbe almeno
provato a
difendersi, non per salvarsi, ma perché la sua versione dei
fatti,
l’ingiustizia di quel processo, continuasse a vivere anche
dopo di lui; non è
così. È solo di fronte a questi militari anziani,
spaventati dalla Calamità e
dalla loro incapacità a combatterla, convinti in qualche
misura che se
perderanno sarà perché lui non ha obbedito agli
ordini e alle leggende, e
dunque già pronti ad assolversi con e dalla sua condanna.
La corte impiega quasi venti minuti per deliberare,
il che è un bene, a suo modo di vedere – non
perché cambi qualcosa, ma perché
vuol dire che probabilmente c’è ancora qualcuno,
tra quegli anziani generali di
corpo d’armata, che non è pienamente convinto
della sua colpevolezza o della
necessità di metterlo a morte; forse persino qualcuno che si
sta spendendo per
la sua difesa; gli piacerebbe sapere chi è, per ringraziarlo
cogli occhi,
quantomeno.
Quando rientrano in aula decretano che venga
condannato a morte per impiccagione e che la sentenza venga eseguita
all’alba
del giorno seguente.
Quando
ho finito, di recente, la mia fanfiction più strutturata e
ambiziosa, ho
provato un senso di smarrimento violentissimo che è
perdurato per giorni: avevo
paura che non avrei più scritto qualcosa di simile e che mi
desse altrettanta
soddisfazione.
Quella
paura, intendiamoci, non è scemata; ma ho deciso di
combatterla ripromettendo a
me stessa, nonché a mia sorella e alla mia instancabile beta
Fiulopis, che mi
sarei impegnata a scrivere anche cose più rassicuranti e
meno angst del mio
solito. Giuro che, anche se per ora non sembra, questa storia
è scritta proprio
per mantenere la mia promessa: perciò, anche se per ora
c’è puzza del mio
solito angst (la sento pure io!) vi prometto che la rassicurazione
verrà, anche
se non sono sicura che sarò in grado di scriverla. Ma, in
fin dei conti,
pazienza: intendo fare del mio meglio per uscire dai miei soliti schemi
e per
scrivere anch’io su qualcuno dei trope melensi e rassicuranti
che di solito amo
leggere. Spero che vorrete accompagnarmi in questo tentativo al di
fuori della
mia comfort zone, avendo pazienza se ne uscirà uno schifo.
Una piccola avvertenza prima di proseguire:i sarete ovviamente resi conto che l'ambiente reale di questa storia sarà, ovviamente, un tantino più soffocante e rigido che in BOTW e in Hyrule Warriors: Age of Calamity. Ho pensato di riprendere e sviluppare un'idea che avevo appena abbozzato durante l'ultimo Writober: presto scoprirerte quale.
Una piccola avvertenza prima di proseguire:i sarete ovviamente resi conto che l'ambiente reale di questa storia sarà, ovviamente, un tantino più soffocante e rigido che in BOTW e in Hyrule Warriors: Age of Calamity. Ho pensato di riprendere e sviluppare un'idea che avevo appena abbozzato durante l'ultimo Writober: presto scoprirerte quale.
Nell’attesa
di scoprire che cosa ne uscirà, un bacio a tutti!
Afaneia