CAPITOLO 7
FANTASMI
Sicilia,
Isola di Santo Stefano
Luglio 2015
Vittoria
sollevò le
palpebre e subito le richiuse di scatto quando la luce violenta del
sole le
ferì gli occhi. Rimase ferma, distesa nel letto in un
groviglio di lenzuola, la
pelle sudata e bruciante per il caldo, immersa in quello stato di
torpore e confusione
che segue il risveglio. A mano a mano che usciva dal sonno e acquisiva
consapevolezza della realtà, si rendeva conto che
c’era qualcosa di strano: il
materasso sotto di lei era più duro del solito, come se
fosse stato usato meno,
e il lenzuolo attorcigliato intorno al suo corpo aveva un profumo
nuovo,
diverso da quello che la accoglieva ogni mattina appena sveglia.
Riaprì gli
occhi con cautela, cercando di abituarsi piano alla luce, e quasi nello
stesso
momento ricordò. Non era nella sua stanza, a Milano, ma
nella camera per gli
ospiti della dépendance di Rosa e
Alberto, la coppia di amici dei suoi
genitori che si era offerta di ospitarli a Santo Stefano.
Sospirò, si stropicciò
gli occhi e si mise a sedere nel letto, guardandosi intorno. Le
persiane della
portafinestra che affacciava sul giardino erano abbassate solo a
metà e
lasciavano entrare la luce del mattino a fiotti densi e caldi. La sera
prima
doveva aver dimenticato di chiuderle. Era esausta, come se non avesse
chiuso
occhio. Il viaggio in auto da Milano a Civitavecchia, poi in traghetto
fino a
Palermo e da Palermo a Santo Stefano, era stato lungo e faticoso. La
sera prima
la stanchezza le era piombata addosso all’improvviso. Aveva
cenato a malapena,
poi aveva fatto una doccia e si era buttata sul letto senza neanche
aprire le valigie.
Il suo trolley viola se ne stava ben chiuso davanti
all’armadio e sembrava
rimproverarla silenziosamente.
Si stiracchiò,
allungando i muscoli contratti e ancora addormentati mentre scendeva
dal letto.
Alla stanchezza del viaggio si era sommata la tensione che era
cresciuta sempre
di più a mano a mano che si avvicinavano alla meta. Anche se
con lei i suoi genitori
si mostravano sempre sereni, erano diventati sempre più seri
e cupi. L’arrivo
sull’isola, però, era stato bello. Vittoria
l’aveva guardata avvicinarsi a poco
a poco dal ponte del traghetto, una sagoma di un azzurro polveroso e
dal
profilo frastagliato che si stagliava contro l’azzurro chiaro
e intenso del
cielo estivo e diventava sempre più netta e definita. Quando
il traghetto si
era avvicinato abbastanza aveva visto le coste alte e rocciose tagliate
da
piccole spiagge e calette sassose che si incuneavano come profonde
ferite nella
roccia. Portosalvo, l’unico porto e il principale centro
abitato dell’isola, si
era rivelato all’improvviso, quando il traghetto aveva fatto
una virata un po’
brusca verso est che aveva strappato a Vittoria un sussulto allo
stomaco: un
gruppo di case antiche dipinte a colori sbiaditi dal tempo (rosa,
azzurro,
giallo, verdino) strette tra loro come una nidiata di pulcini appena
nati,
addossate alle rocce e attraversate da stradine e viuzze in pendenza
che
sembravano precipitare verso il mare e ogni tanto, a sorpresa, si
aprivano su
uno slargo dove gli anziani sedevano in cerchio a chiacchierare.
Dal porto si
raggiungeva la polverosa piazza centrale percorrendo una strada che
dopo pochi
passi si trasformava in un vicolo e poi, dopo la piazza, si allargava
di nuovo.
Sulla piazza affacciavano una chiesa barocca dedicata al patrono
dell’isola,
una stazione di polizia che sembrava abbandonata e un bar
dall’aria antica con
tavolini e sedie colorate all’aperto. Dal 1950,
recitava l’insegna
appesa sulla porta a vetri. Nelle stradine strette e tortuose ogni
tanto
comparivano tra le case uno squarcio di mare e sole e le macchie
bianche delle
barche sulle onde.
Claudia e Stefano erano
scesi dal traghetto con due identiche espressioni di ghiaccio che si
erano
sciolte solo un pochino dopo aver visto Rosa e Alberto che li
aspettavano al
porto. Avevano sorriso appena davanti al calore e
all’entusiasmo della loro
accoglienza e Claudia era rimasta piuttosto rigida anche quando Rosa
l’aveva
stretta in un abbraccio energico. Si conoscevano dalla prima media,
erano
andate a scuola insieme ed erano state inseparabili fino a quando
Claudia aveva
abitato sull’isola. Dopo che lei si era trasferita, il loro
rapporto era
rimasto immutato. Anche se Claudia non tornava a Santo Stefano da tanti
anni,
avevano continuato a sentirsi quasi ogni giorno e a vedersi ogni volta
potevano. Rosa andava a trovarli spesso con Alberto, il suo compagno, e
un paio
di volte avevano anche fatto le vacanze insieme.
«Vittoria!» La voce di
sua madre le giunse attraverso la porta chiusa, scuotendola
definitivamente dal
sonno. Sentì che i passi si avvicinavano alla stanza, ma poi
si fermarono.
«Vittoria?»
«Sono sveglia, mamma»
borbottò lei a mezza voce, controvoglia.
«Ok, ti aspettiamo di
là.»
I passi si
allontanarono. Dal patio che girava intorno alla dépendance
proveniva un
saliscendi di voci, risate ed esclamazioni. Dovevano essere
già tutti in piedi.
Vittoria si costrinse ad alzarsi e ad aprire il trolley per tirare
fuori
vestiti e biancheria. Non aveva voglia di mettere tutto a posto,
così si limitò
a prendere quello che le serviva e a lasciare il resto per
metà nella valigia e
per metà sparpagliato sul letto. Ci avrebbe pensato dopo,
tanto i suoi erano
abituati al disordine che regnava in camera sua, a casa.
Aprì la porta, passò
accanto alla stanza matrimoniale e si infilò in bagno. La
casa di Alberto e Rosa
era immersa nella campagna, lontana dal centro abitato: un edificio di
pietra,
basso e squadrato, a cui si accedeva da un cancello incastonato tra due
alte
siepi che sottraevano la casa alla vista dalla strada. Lo circondava un
giardino mediterraneo dall’aria selvaggia: aranci, limoni,
palme, bouganville,
cespugli di erica, oleandri e mirto tra cui serpeggiavano due vialetti
di
pietra che si incrociavano e si allontanavano tracciando un arabesco
grigio in
mezzo ai colori vivaci dei fiori; nell’angolo est, un
pergolato di rose dava
ombra a due panchine e, dal lato opposto, c’era una piccola
vasca circolare con
una fontana zampillante. Sul retro della casa una grande terrazza, a
cui si
accedeva da uno dei viali tramite un cancelletto basso, si apriva a
picco sul
mare, offrendo una vista splendida sul versante nord-ovest
dell’isola.
Vittoria e i suoi
genitori si erano sistemati in quella che Rosa e Alberto chiamavano la dépendance
con una scherzosa aria di importanza, una piccola struttura
che in passato
era stata usata come granaio, stalla e deposito di attrezzi. Rosa
l’aveva
ristrutturata e trasformata in una specie di villino con due camere da
letto,
un bagno e un salottino con cucina a vista.
Vittoria fece una
rapida doccia, indossò un paio di shorts di jeans, una
maglietta azzurra con
inserti di pizzo bianco sulle spalle e sulle maniche, passò
una riga di
eyeliner sugli occhi e raccolse i capelli in una treccia alta sopra la
testa.
Mentre si infilava le All Star bianche sentì di nuovo la
voce di Claudia.
«Vittoria! È tardi!»
«Arrivo!»
Controllò velocemente
che il ciondolo con la farfalla fosse al suo posto (sentiva di averne
particolarmente bisogno, quella mattina) e attraversò la dépendance.
Come la casa principale, era arredata in bianco e in tutti i toni del
blu e
dell’azzurro. Appena arrivata Vittoria aveva pensato che i
mobili fossero molto
vecchi, a giudicare dal loro aspetto, ma poi sua madre, che era
laureata in
storia dell’arte e lavorava in una casa d’aste, le
aveva spiegato che era uno
stile particolare, che i mobili erano volutamente consumati e che era
considerato un arredamento molto raffinato. Ovunque c’erano
decorazioni che
rimandavano al mare: la rete da pesca decorata da conchiglie attaccata
a una
parete del salottino, l’enorme stella marina che fungeva da
centrotavola in
cucina, i pezzi di legno raccolti sulla spiaggia usati per costruire
mensole
fissate ai muri, i pesci stilizzati dipinti nel bagno. Uscì
sul patio e trovò i
suoi genitori a un tavolo rettangolare di ferro battuto insieme a Rosa
e
Alberto, che dovevano essere venuti a portare la colazione: su un
vassoio blu
al centro del tavolo c’erano caffè, tre tipi di
latte (normale, all’avena e
alla mandorla) e un piatto di cornetti.
«… buttare giù tutto e
rifare da zero. E poi c’è il problema della
manutenzione delle palme, che sono
state attaccate da un virus l’anno scorso» stava
dicendo Alberto, la voce che
si faceva più forte e chiara a mano a mano che Vittoria si
avvicinava. «In
certi momenti invidio chi vive in un bell’appartamento e non
ha tutte queste
preoccupazioni.»
«Perché non hai a che
fare con le beghe di condominio» ribatté Claudia
in tono eloquente.
«Buongiorno» disse
Vittoria, uscendo sul patio.
Alberto la guardò con
un gran sorriso. Rosa era coetanea di Claudia, mentre lui aveva 48
anni,
eppure, con i capelli sale e pepe sempre arruffati,
l’espressione quasi
invariabilmente allegra e uno spirito entusiasta che gli illuminava il
viso
sembrava un ragazzino intrappolato nel corpo di un uomo maturo.
«Ecco la Bella
Addormentata» la salutò, mentre si alzava per
cederle la sua sedia. Era così
alto e magro che quasi toccava il soffitto del patio con la testa.
Vittoria sedette in
mezzo ai genitori e Rosa, dall’altra parte del tavolo, le
allungò una tazza.
«Come stai? Hai dormito bene?»
Vittoria ricambiò
spontaneamente il suo sorriso aperto e giovale che si estendeva fino
agli occhi
di un verde intenso. «Abbastanza. È
che… il rumore del mare è bello, ma
all’inizio non riuscivo ad addormentarmi.»
Sua madre fece un
sorriso malinconico, abbassando gli occhi sulla tazza che stringeva tra
le
mani. «Pensa che da bambina non riuscivo a chiudere occhio se
non sentivo il
rumore delle onde.»
Rosa ebbe un attimo di
esitazione, poi si sistemò dietro l’orecchio una
ciocca scura sfuggita al suo
bob disordinato. «Bisogna solo addiccarisi.[1]
Poi diventa rilassante.»
Vittoria aggrottò la
fronte, mentre si versava il caffè da un bricco di
porcellana blu. «Bisogna che?»
Non conosceva per
niente il siciliano, i suoi genitori non usavano mai termini dialettali
e non
avevano neppure la cadenza tipica della regione. Stefano, che aveva
lasciato
l’isola da bambino, l’aveva persa completamente.
Claudia ne conservava una
vaghissima traccia quando pronunciava alcune parole. Vittoria aveva
sempre
pensato che fossero bene attenti a non usare mai il siciliano neanche
per caso
e che quello fosse l’ennesimo modo per chiudere con il loro
passato sull’isola.
«Abituarsi» spiegò
Alberto, ridendo con leggerezza. «Se davvero volete ripartire
domenica non farà
in tempo ad abituarsi… né a imparare il
siciliano» aggiunse poi. «È solo
venerdì.» Era poggiato a uno dei pilastri che
sostenevano le arcate del portico
e si stava passando distrattamente la mano tra i capelli,
scompigliandoli
ancora di più. «Dovete restare un po’ di
più.»
Stefano e Claudia si
scambiarono uno sguardo sopra la spalla di Vittoria. I loro amici
avevano
sempre desiderato ospitarli sull’isola, per ricambiare le
numerose occasioni in
cui erano stati dai Ruggero a Milano. Però sapevano che
tornare a Santo Stefano
per loro era una specie di tabù, così non avevano
mai insistito più di tanto.
Ora che finalmente si era presentata l’occasione di averli a
casa loro, erano
raggianti e soprattutto Alberto non sembrava accettare di buon grado
che
andassero via così presto. La sera precedente aveva
già preso l’argomento due
volte, mentre cenavano nel giardino. Ogni volta Rosa era rimasta in
silenzio
per un po’, poi gli aveva scoccato un’occhiata
ammonitrice. Dopo un attimo di
confusione, lui aveva spostato la conversazione su altro con
un’aria contrita
che lo faceva somigliare più che mai a un bambino cresciuto
di botto e che
Vittoria aveva trovato molto comica.
Lei, però, sospettava
che i suoi tentativi fossero completamente inutili: i suoi genitori
avevano
pianificato il soggiorno a Santo Stefano quasi minuto per minuto, come
se avere
un piano di marcia ferreo e sapere sempre in anticipo, con esattezza,
cosa
sarebbe accaduto e quando sarebbe accaduto li tranquillizzasse. La
partenza era
fissata per domenica, in modo da trascorrere sull’isola solo
un week end: un
tempo breve, ma sufficientemente lungo da dare soddisfazione ai padroni
di casa
e accontentare l’entusiasmo di Alberto. Stefano aveva
telefonato al baglio già
due settimane prima per prendere appuntamento per venerdì
mattina e la sera
precedente aveva richiamato per avere conferma, ignorando Vittoria che
lo
fissava con le sopracciglia sollevate. Neanche quando organizzava un
viaggio di
lavoro a Londra o a New York era così nervoso. Sabato
sarebbero andati al mare
e domenica mattina avrebbero preso il traghetto per tornare a Palermo.
Vittoria
dubitava che anche una catastrofe naturale di qualche genere potesse
far
saltare il piano di fuga.
Suo padre si schiarì la
voce. «Ci piacerebbe, ma non posso lasciare il lavoro troppo
a lungo.»
«Io ti conosco da dieci
anni, ma ancora lo devo capire che lavoro fai» rispose
Alberto e tutti risero.
«Se lo capisci,
spiegalo anche a me» disse Stefano e Alberto gettò
indietro la testa e rise
ancora di più. Vittoria non poteva dargli torto, dato che
neanche lei capiva
nulla del lavoro di suo padre in banca e, sospettava, neppure sua
madre. Sapeva
vagamente che aveva a che fare con numeri e soldi, tantissimi soldi, e
azioni
da comprare e vendere al momento giusto per far guadagnare la banca, ma
era
tutto molto confuso. Le sembrava un mondo lontanissimo da quello reale.
«Comunque, se mai
cambiaste idea, l’invito è sempre valido. Potete
restare quanto volete»
aggiunse Alberto, soffocando uno sbadiglio.
Rosa si alzò. «Non
insistere» lo ammonì e gli lanciò
un’occhiata significativa. Alberto assunse di
nuovo la sua aria da ragazzino colto con le mani nel vasetto della
marmellata e
Vittoria dovette nascondere un sorriso divertito dietro la tazza.
«A che ora
avete appuntamento?» chiese Rosa, cambiando argomento.
Stefano sfiorò lo
schermo del telefono con un dito. «Tra
mezz’ora.»
«Allora è meglio se vi
lasciamo.» Rosa, rivolta al compagno, fece un segno con la
testa verso casa.
«Andiamo? Così scriviamo la lista della
spesa.»
Lui si raddrizzò e
assentì di malavoglia. «A pranzo grigliata di
pesce, che dite? Ci penso io»
aggiunse con un sorrisetto che gli fece guadagnare una smorfia da parte
di
Rosa. Lei era una frana in cucina, quindi era quasi sempre Alberto a
occuparsene. «E per Vittoria parmigiana di melanzane. Ricetta
segreta di mia
nonna, è una bomba.»
Vittoria gli rivolse un
gran sorriso. Adorava Alberto, la faceva sempre ridere. «Ci
sto.»
«Perfetto» esclamò
Rosa. Prese Alberto sottobraccio, poi guardò verso Claudia e
dopo un attimo le
sorrise. Vittoria si girò appena in tempo per vedere
l’espressione contratta di
sua madre distendersi subito in un sorriso teso, come in risposta a un
invito
silenzioso. «Ci vediamo dopo.»
Si allontanarono
attraverso il giardino, camminando vicini e scambiando qualche parola a
bassa
voce. Sembrava che Rosa stesse rimproverando Alberto. Lui rispose con
un
borbottio sommesso e un’alzata di spalle, poi disse qualcosa
e Rosa rise.
Intorno al tavolo, sul patio, era caduto il silenzio. Gli uccellini
cinguettavano nel giardino e un venticello caldo muoveva piano le
fronde degli
alberi. Vittoria osservò i suoi genitori, che la stavano
palesemente ignorando:
lui tamburellava con le dita sul tavolo, lei guardava verso il mare con
aria
distratta. Bevve un sorso del suo caffellatte con latte di avena e
moltissimo
caffè, come piaceva a lei. Non era latte con il
caffè, la prendeva sempre in
giro suo padre, era caffè con una goccia di latte. Si
schiarì sommessamente la
voce.
«Spero che abbiate
fatto testamento.»
Stefano fissò lo
sguardo su di lei, perplesso. «Come?»
«Sì, dato che stiamo
andando al patibolo.»
Lui parve sorpreso
ancora per un istante, poi le rivolse uno dei suoi sorrisi smaglianti
da
pubblicità di un dentista. Si mosse sulla sedia e si
sistemò il colletto aperto
della camicia di lino bianco. «No, è
che… È strano essere di nuovo qui.»
Vittoria annuì, questa volta seria. Lo capiva, ma non poteva
fare a meno di
cercare di sdrammatizzare. Era nella sua natura.
L’espressione di suo padre
divenne più attenta mentre si focalizzava su di lei.
«E tu? Non sei per niente
nervosa?»
Vittoria mandò giù
l’ultimo sorso e posò la tazza sul tavolo.
«Uhm… Un po’, ma più che
altro sono…
curiosa. Non so cosa aspettarmi esattamente.»
Stefano emise una mezza
risata tagliente, del tutto priva di allegria. «Non
aspettarti troppo» rispose,
lapidario. Vittoria sentì sua madre sussultare leggermente.
Guardò Stefano, un
po’ sorpresa, e per un lungo momento lui resse il suo
sguardo, immobile, poi
fece un respiro calmo, mentre quel sorriso sgradevole si spegneva.
«Scusami»
disse a bassa voce.
Vittoria strinse le
dita intorno al manico della tazza. «So che non vi va di
stare qui» mormorò con
sincerità, abbassando lo sguardo. «Mi
dispiace.»
«No, tesoro» ribatté
subito suo padre, deciso. «Abbiamo deciso noi di lasciare la
scelta a te.»
«Ok, però…» Vittoria
sospirò, mentre seguiva con un dito il profilo della
tovaglietta da colazione
di fronte a lei, in bambù bianco e azzurro. Il profumo dei
fiori riempiva
l’aria ed era così intenso da dare alla testa.
Chissà perché, le venne in mente
Marco, che era allergico al polline e avrebbe considerato quel giardino
adorabile una specie di piccolo inferno personale. Era un po’
che non lo
sentiva e pensarci le faceva male, così cercò di
concentrarsi sulla
discussione. «Tu hai tutte le ragioni del mondo per avercela
con Edoardo e non
pretendo che cambi qualcosa solo perché io gli
darò una possibilità. È
diverso.» Era lì per conoscere suo nonno e avere
qualche risposta alle sue
domande, ma non voleva rendere le cose troppo difficili ai genitori,
soprattutto a suo padre, che aveva già sofferto abbastanza
per colpa di
Edoardo. Avrebbe ottenuto quello che cercava senza coinvolgerli troppo
o almeno
così sperava. Stefano rimase in silenzio a osservarla per un
po’, poi fece un
mezzo sorriso vagamente malinconico.
«Sei diventata saggia.»
Vittoria ci rifletté su
un istante. Non aveva mai pensato a se stessa in quel modo.
“Saggia” era una
parola che suonava vecchia, da associare a un’anziana signora
con gli occhiali,
le rughe e il bastone per camminare. Era una parola da adulti,
però, e questo
le trasmise una piccola scarica di soddisfazione.
«Mi è spuntato un
capello bianco, stamattina. Sarà per questo»
esclamò, vivace, e i suoi genitori
risero di nuovo. Poi Stefano gettò un’occhiata al
telefono e si alzò.
«Dobbiamo andare»
disse, con la stessa malavoglia con cui si sarebbe alzato per andare
dal
dentista. Vittoria emise un piccolo sospiro. Neanche le sue battute
potevano
migliorare l’umore di suo padre in quel momento. Si
alzò a sua volta e guardò
Claudia. Lei non li avrebbe accompagnati al baglio, ne avevano
già parlato.
Aveva detto a Vittoria che avrebbe solo complicato le cose e in fondo a
lei non
dispiaceva: se doveva cercare di avvicinarsi al nonno e farsi dare
qualche
risposta, era meglio avere intorno un solo genitore invece di due. Le
rivolse
un sorriso luminoso e si sporse per darle un bacio sulla guancia.
«Andiamo a divertirci
senza di te» le disse in tono scherzoso.
Stefano fece una risata
brusca. «Sicuro. Sarà uno spasso.»
****
Seduta al posto
del
passeggero nella Mercedes di suo padre che sfrecciava lungo la
litoranea,
Vittoria distolse lo sguardo dalla campagna bruciata dal sole e
controllò il
telefono con cui stava giocherellando nervosamente senza rendersene
conto.
Accese il display con l’impronta digitale, poi fece un
sospiro breve e
scontento. Ancora nessun messaggio da Marco. Strinse le labbra. Era una
settimana che non le mandava neanche un’emoji e negli ultimi
messaggi vocali la
sua voce aveva un tono strano, a metà tra la freddezza e
l’allegria forzata.
Vittoria gli aveva inviato un messaggio di buongiorno, la mattina
precedente,
prima di salire sul traghetto a Palermo, che lui aveva visualizzato
senza
rispondere. Eppure fino a poco prima avevano avuto
l’abitudine di scriversi
quasi di continuo, per qualsiasi sciocchezza. Che diamine gli stava
succedendo?
Aveva anche controllato i social di Marco, ma non aveva trovato nulla
di
insolito. Doveva chiedere a Daniela se sapeva qualcosa.
«Tutto ok?»
La voce di suo padre la
riscosse. Sollevò la testa proprio mentre lui le lanciava
un’occhiata per poi
tornare a fissare la strada. «Tutto ok» rispose
meccanicamente. Non le andava
ancora di parlarne con i genitori, non prima di capire cosa stesse
succedendo.
Il silenzio che seguì
era carico di perplessità e lei non ne fu stupita. Suo padre
riusciva a
leggerla come un libro aperto. Lui però rispettò
la sua riservatezza e non
chiese altro. Vittoria guardò fuori, cercando di distrarsi.
A sinistra la
distesa azzurro scuro del mare era punteggiata di barche, pescherecci,
un yatch
solitario che filava in lontananza diretto verso lidi più
movimentati e
increspature bianche che i gabbiani sorvolavano pigramente. Sulla
destra la
campagna era scomparsa per lasciare posto a un vigneto che sembrava non
avere
confini. L’auto proseguiva e i filari di uva si succedevano
all’infinito.
«Sono questi i vigneti
dei Falconeri?»
«Sì» fu la risposta
neutra di suo padre dopo un attimo di pausa.
Vittoria inarcò le
sopracciglia. «Sono… molto grandi.»
«Parecchie persone
lavorano per loro, sull’isola. D’altronde non ci
sono molte alternative.»
Quando superarono i
vigneti tornò la campagna, intervallata dal giallo allegro
dei campi di grano
che contrastava con l’azzurro luminoso del cielo estivo, poi,
finalmente, dopo
una curva, apparve il profilo massiccio e squadrato di una struttura,
in cima a
una specie di collinetta. Vittoria capì subito che doveva
essere la casa dei
Falconeri. La osservò con curiosità e una leggera
soggezione mentre si
avvicinavano all’imponente cancello di ferro decorato da
viticci intrecciati.
Subito arrivò un ragazzo dalla pelle ambrata, con due grossi
guanti da lavoro,
che si precipitò ad aprire il cancello e li
salutò con un sorriso. Stefano gli
rivolse un cenno con la testa, poi parcheggiò
l’auto sotto una tettoia ornata
di piante rampicanti. Vittoria scese lentamente, guardandosi intorno:
l’enorme
cortile quadrato attraversato da due viali perpendicolari, al centro un
pozzo
che sembrava vecchio di qualche secolo, le aiuole ben tenute racchiuse
tra i
viali e in fondo due grandi ombrelloni bianchi quadrati che offrivano
tregua
dal sole a tavolini e sedie di ferro battuto. Seguì con lo
sguardo il ballatoio
di pietra che sembrava abbracciare il cortile, chiudendolo in una
morsa.
Deglutì.
«È qui che abitano?»
domandò a bassa voce.
«Sembra…»
Stava per dire che le
ricordava uno di quei resort extra lusso situati in edifici antichi che
si
vedevano sui dépliant delle agenzie di viaggio. Qualche anno
prima era stata in
un posto simile con i suoi.
«È un baglio, una
masseria fortificata. Le chiamano così, in
Sicilia» spiegò Stefano. «Questa
risale al Seicento.»
«Ed è sempre
appartenuta alla famiglia?» Vittoria guardò suo
padre, che si limitò a un breve
cenno affermativo del capo. Fece un sospiro di pura sorpresa. Non aveva
idea
che la famiglia di origine di suo padre fosse così antica.
Anche Stefano si
guardava intorno, ma gli occhiali da sole Armani nascondevano la sua
espressione. «È tutto uguale» disse poi,
con un filo di voce. «Non è cambiato
niente. Non cambia mai niente, qui.»
Vittoria non sapeva
bene che cosa rispondere. Non riusciva neppure a immaginare quanto
dovesse
essere strano per lui trovarsi in quella casa. Aprì la
bocca, pensando
vagamente di dirgli qualcosa, anche solo che capiva e le dispiaceva, ma
in quel
momento da una delle portefinestre che si affacciavano sul ballatoio
uscì una
donna. Per qualche istante li osservò da lontano, portandosi
una mano sugli
occhi per schermarli dalla luce intensa, poi scese in fretta la scala e
li
raggiunse. Aveva un passo sicuro che faceva pensare alla marcia di un
soldato
molto determinato.
«Dottor Ruggero? È un
piacere accoglierla qui. E tu devi essere Vittoria» disse con
voce alta e un
marcato accento siciliano, ancora prima di fermarsi. Tese subito la
mano,
offrendo una stretta breve e decisa che quasi lasciò un
po’ intorpidite le dita
della ragazza. «Ben arrivati. Sono Rosalia Scanno, mi occupo
della casa da
cinque anni. Parlammo al telefono» aggiunse, rivolta a
Stefano. Aveva una
corporatura minuta, indossava una semplice gonna blu e una camicia
bianca
leggera e i capelli neri erano raccolti in una coda bassa e ordinata.
Il viso
dall’espressione seria, magro e spigoloso, era marcato da un
imponente naso
aquilino e da rughe sottili, ma evidenti. Doveva avere
all’incirca cinquanta
anni.
Stefano intanto si era
sfilato gli occhiali e le aveva rivolto un sorriso.
«Sì, ricordo. Lieto di
conoscerla.»
Se Rosalia trovò
bizzarra quella totale mancanza di entusiasmo non lo diede a vedere:
mantenne
un’espressione neutra e andò avanti come se nulla
fosse. Vittoria sospettò che
non avrebbe avuto alcuna reazione neanche se suo padre si fosse messo a
fare
capriole nel bel mezzo del cortile.
«Accomodatevi» disse,
indicando la casa con un cenno della testa, e si incamminarono insieme.
Sulla
destra, in cima a tre gradini rivestiti di piastrelle di cotto,
c’era una porta
di ingresso di legno scuro, alta, massiccia e dall’aspetto
antico. Rosalia,
però, la superò senza fermarsi e li condusse su
per la scala di pietra, sulla
terrazza, poi li precedette in casa attraverso la stessa portafinestra
da cui
era uscita. Si ritrovarono in un ampio salotto fresco e luminoso.
«Non è cambiato niente»
mormorò Stefano, come se parlasse a se stesso, lanciando
tutto intorno
un’occhiata quasi esitante. «Né le
abitudini né… tutto il resto.»
Rosalia si era fermata.
Gli indirizzò uno sguardo perplesso.
«Come?»
Anche Vittoria guardava
suo padre, curiosa. Lui esitò, come rendendosi conto
all’improvviso di aver
detto a voce alta qualcosa che avrebbe dovuto essere soltanto pensato.
Poi
espirò e la sua espressione si distese appena.
«Voglio dire… L’arredamento è
identico
a quello che ricordo. E… non c’è mai
stata l’abitudine di usare la porta di
ingresso. Si entrava sempre dalla terrazza. Ed è ancora
così» disse in tono
incolore. «Sono cresciuto qui, da bambino»
aggiunse, rivolto a Rosalia, che lo
fissava ancora con le sopracciglia sottili un po’ inarcate,
l’unico tratto del
suo viso che lasciava trasparire un’emozione evidente.
«Lo so. Me lo dissero»
rispose la donna, dopo un attimo di imbarazzante silenzio. Vittoria si
domandò
cosa sapesse esattamente di suo padre. Sapeva che era l’altro
figlio di Edoardo
Falconeri? Prese nota mentalmente di chiederlo a Stefano appena
possibile.
«Vero è, questi mobili sono qui da
cinquant’anni. E la porta principale è
chiusa quasi sempre. Da quando sono qui non ho avuto nessuna buona
ragione per
cambiare questa abitudine.» Cadde di nuovo un silenzio
pesante. Rosalia
incrociò le mani davanti a sé e
accennò un sorriso freddo. «Posso offrirvi
qualcosa di fresco da bere?»
Stefano guardò
Vittoria, che scosse piano la testa, pensierosa. «No, grazie,
siamo a posto
così. Come sta… il signor Falconeri?»
chiese poi e lei ebbe l’impressione che
fosse una pura e semplice domanda di circostanza.
«Non ci sono stati
grandi cambiamenti, ultimamente. La sua
situazione…»
Vittoria smise quasi
subito di ascoltare, occupata a osservare l’eleganza antica
dei mobili e
dell’ambiente senza girare troppo la testa di qua e di
là per non sembrare una
turista. Era quello che si era aspettata di trovare e che si addiceva
perfettamente alla casa: i mobili massicci di legno scuro, le
tappezzerie verde
e oro, la rosa dei venti sul pavimento di maioliche così
lustre che avrebbe
potuto usarle per specchiarsi, l’enorme lampadario che
pendeva dal soffitto…
Poi gli occhi le caddero su qualcosa che catturò
completamente, inesorabilmente
tutta la sua attenzione: un pianoforte a coda nell’angolo
accanto alla
portafinestra. Era lucido e splendente, senza neppure un granello di
polvere,
come se qualcuno avesse appena terminato di spolverarlo con cura.
Gli si avvicinò
automaticamente, senza riflettere, come tirata da un filo invisibile.
Sul
leggio c’era uno spartito ingiallito e sgualcito, un
po’ strappato agli angoli.
Doveva essere piuttosto vecchio e preferì non toccarlo, ma
non poté trattenere
la tentazione di allungare un dito e passarlo sulla superficie liscia
del
pianoforte. Sfiorò il coperchio della tastiera, poi la
sollevò e la sua mano
scivolò sui tasti componendo gli accordi iniziali del Notturno
di Chopin
che aveva suonato da solista al saggio di fine anno. Lo ricordava alla
perfezione, perché aveva continuato a lavorarci anche dopo
il saggio, per
migliorare quello che era andato storto. Daniela aveva preso
l’abitudine
fastidiosa di dirle «Salutami Chopin» ogni volta
che si separavano o chiudevano
una telefonata.
«Vittoria?»
Fu come se qualcuno la
strattonasse con violenza. Trasalì e le sue dita si
contrassero sulla tastiera,
troncando la musica di colpo. Il silenzio suonò assordante
ora che le note non
riempivano più l’aria. Vittoria avvertì
un senso di vuoto familiare che le
stringeva lo stomaco. Le capitava ogni volta quando smetteva di
suonare. Sollevò
gli occhi e incrociò quelli di suo padre e Rosalia che la
fissavano.
«Vittoria» la chiamò di
nuovo Stefano, la voce bassa e priva di un’inclinazione
particolare, ma lei
intuì che era contrariato. «Non si toccano le cose
senza permesso.»
Lei tolse le mani dalla
tastiera, mentre sentiva un calore salire alle guance, e richiuse piano
il
coperchio. «Sì, mi dispiace»
borbottò e tornò sui suoi passi, a disagio.
Stefano
continuò a fissarla finché Vittoria non fu di
nuovo accanto a lui, poi distolse
gli occhi. Le parve che con quel semplice, banale gesto del capo lui
avesse
alzato un muro, chiudendola fuori. Doveva essere infastidito
perché lo stava
mettendo in imbarazzo, proprio lì, in casa di Edoardo.
«Brava sei» disse
Rosalia. Vittoria rispose con un mezzo sorriso. «Il
pianoforte era già qui
quando ho iniziato a lavorare in questa casa, ma non lo avevo mai
ascoltato.
Nessuno sa suonare, in famiglia. Credo che sia molto vecchio.»
Vittoria era tentata di
fare altre domande, ma suo padre intervenne. «Sarebbe meglio
andare. Siamo
attesi» disse, con un tono rigido e velato di ironia che
spinse Rosalia a
scoccargli uno sguardo indagatore.
«Certo» rispose subito.
«Da questa parte.» Si avviò verso una
porta che conduceva fuori dal salotto.
Quando ebbe girato le spalle, Vittoria guardò suo padre,
catturando il suo
sguardo, e bisbigliò “Scusa” quasi senza
voce, muovendo solo le labbra. Lui la
fissò per un momento, poi il suo volto accuratamente neutro
si aprì in un
sorriso debole, ma carico di affetto. Le circondò le spalle
con un braccio,
stringendola a sé.
«Non ti preoccupare»
mormorò e se la tirò dietro.
Dal salotto passarono
alla sala da pranzo, altrettanto vasta, luminosa e arredata nello
stesso stile,
poi in un lungo corridoio scandito da finestre che affacciavano
all’esterno del
baglio, sul mare di un colore intensissimo che faceva pensare
all’azzurro
tempera gettato sulla tela di un pittore, senza sfumature. Il pavimento
di
cotto e maioliche continuava ininterrotto, le pareti erano di un bianco
immacolato e piante ornamentali, alcune in vaso, altre che si
arrampicavano sui
muri, riempivano gli spazi vuoti tra le finestre. Vittoria camminava
cercando
istintivamente di non fare troppo rumore sulle piastrelle, come avrebbe
fatto
in un museo o qualcosa del genere.
«Questo posto è…»
sussurrò a suo padre, mentre passavano sotto
un’apertura ad arco e si avviavano
su per una scala. Non riuscì a finire la frase: gli occhi le
erano caduti sul
corrimano di ferro battuto decorato da ghirigori elaborati. Non
riusciva
neanche a immaginare quanto potesse costare una cosa del genere. Era
abituata
al lusso, dato che i suoi genitori erano più che benestanti,
eppure tutto
questo, tutto insieme, la lasciava comunque senza fiato.
«Lo so» fu la risposta
asciutta di Stefano.
Intanto avevano
svoltato a destra subito dopo la scala e dopo qualche metro Rosalia
finalmente
si fermò davanti a una porta. Era solo accostata e lasciava
uscire una lama di
luce forte e netta che tagliava la penombra del corridoio. Da dentro
giunse
come un tuono una voce roca e tesa, da anziano, che frantumò
la quiete e fece
trasalire Vittoria.
«Rosalia! Rosalia!»
La donna bussò due
volte in rapida successione, poi spinse la porta ed entrò.
La stanza era
quadrata, grande, inondata dalla luce che entrava a fiotti da una
portafinestra
spalancata. I mobili erano scuri e pesanti come tutti quelli che
Vittoria aveva
visto finora: un letto matrimoniale curiosamente alto, un armadio
imponente, un
cassettone lungo e stretto e due comodini ai lati del letto. Qua e
là si
scorgevano i segni distintivi della camera da letto di un malato: una
sedia a
rotelle in un angolo, confezioni di medicine ordinatamente disposte sul
cassettone, una flebo accanto al letto e un macchinario con un monitor
che
forse serviva per gli elettrocardiogrammi. Vittoria deglutì.
Non aveva mai
avuto a che fare con persone anziane o malate e vedere quegli oggetti
la
innervosiva un po’. In fondo, la portafinestra era
incorniciata da tende
bianche e svolazzanti e dava su una terrazza dove qualcuno sedeva di
spalle in
un’ampia poltrona di pelle, sotto un ombrellone bianco.
Rosalia guidò Stefano e
Vittoria verso la terrazza. Lei sentiva il braccio di suo padre intorno
alle
spalle irrigidirsi sempre di più e pensò di
dirgli qualcosa per
tranquillizzarlo, anche se non avrebbe saputo neanche da dove iniziare.
Poi,
mentre attraversavano la camera, colse un lampo di luce con la coda
dell’occhio. Si voltò in fretta, cercando di
capire cosa fosse prima che suo
padre la tirasse via con sé: era la cornice
d’argento di una fotografia. Riuscì
appena a intravedere un profilo femminile prima di passare oltre.
Uscirono
sulla terrazza e fu costretta a strizzare gli occhi, accecata dal sole
per un
momento.
«I suoi ospiti arrivarono,
signor Falconeri» disse Rosalia.
Vittoria sentì che suo
padre allentava lentamente la presa intorno alle sue spalle, fino a
lasciarla
andare del tutto, ma le rimase comunque attaccato e la seguì
mentre lei girava
intorno all’ombrellone, come per non perderla di vista. Lei
sentì un tuffo al
cuore e si ritrovò a muoversi lentamente, come se
all’improvviso i piedi
fossero diventati pesanti. Era il momento, stava per conoscerlo
davvero. Era lì
ed era tutto vero, eppure le sembrava di essere in un sogno e che da un
momento
all’altro si sarebbe riscossa, svegliandosi di soprassalto,
si sarebbe
ritrovata a casa, nel suo letto, e tutto sarebbe svanito.
Sbatté le palpebre,
ma era ancora lì, con suo padre che la tallonava come un
secondino con il
prigioniero. La poltrona di pelle era rivolta verso il mare e quando
lei
incontrò gli occhi di Edoardo Falconeri le sembrò
che lo riflettessero come due
specchi. Osservò il suo volto in silenzio.
I lineamenti erano
sfatti e deformati dalle rughe, ma si intuiva che in
gioventù dovevano essere
stati marcati e attraenti. I capelli erano brizzolati e perfettamente
in ordine
e il corpo rattrappito dava l’impressione di essere svuotato,
privo di sangue.
A quel pensiero macabro Vittoria sentì un fiotto di nausea e
si sforzò di
reprimerlo. Era chiaramente un uomo anziano e molto malato, eppure
sedeva più
eretto possibile, avvolto in un pigiama di seta grigio scuro e una
vestaglia
color rosso cupo che faceva pensare a un cardinale e sembrava troppo
pesante
per una caldissima giornata di luglio. Le mani pallide e affusolate
erano
ancorate ai braccioli della poltrona con decisione, come se Edoardo
pensasse di
potersi alzare, guarito e ringiovanito, da un momento
all’altro. Lui la fissò
immobile per qualche secondo, studiandola a sua volta. Solo il petto
magro di
alzava e si abbassava a un ritmo irregolare, lasciando uscire un
respiro roco e
pesante.
«Chi è stato?» domandò
con voce ansimante, ma imperiosa, e un accento siciliano
così marcato che
Vittoria faticò a capire le parole. «Chi
suonò il pianoforte?»
Calò un gelo immediato.
Vittoria lanciò un’occhiata a Rosalia, che era sul
punto di rispondere con
un’espressione titubante. «Io»
balbettò, a disagio. Si schiarì la gola.
«Sono
stata io.» Se Edoardo era arrabbiato, doveva prendersela con
lei. Lui, però, non
ebbe alcuna reazione apparente. Anzi, parve che
all’improvviso la risposta non
gli interessasse più. Poi le sue labbra esangui si aprirono
in un sorriso
simile a un ghigno.
«Vittoria» mormorò in
un soffio. «Tu sei, picciridda.»[2]
Il suo sguardo si spostò su Stefano, che era rimasto in
piedi accanto a lei,
fermo e zitto, e anche questa volta non mostrò alcuna
emozione, come se non lo
avesse visto davvero.
A qualche passo da
loro, Rosalia si mosse appena. «Se non avete bisogno di
niente, vi lascio
soli.» Sembrava che non vedesse l’ora di andarsene.
Edoardo fece un breve
cenno con il capo e lei rientrò in casa, rivolgendo un
sorriso freddo a
Vittoria e a Stefano mentre passava. I suoi passi veloci svanirono in
fretta e
sul gruppetto scese un silenzio opprimente come la cappa di calore che
incombeva sul baglio. Sulla terrazza, fortunatamente, era mitigata dal
venticello fresco e piacevole che arrivava dal mare e doveva essere per
questo
che il vecchio sedeva lì fuori. Vittoria guardò
suo padre, sottraendosi
all’esame attento di Edoardo, senza sapere che cosa fare: il
suo viso era
impassibile, privo di espressione dietro gli occhiali da sole. Il tempo
passava, il nonno non le toglieva gli occhi di dosso e per un folle
attimo
pensò che le sarebbe sfuggita una risata isterica. Poi
Edoardo ruppe il
silenzio all’improvviso.
«Sei stata tu?» chiese
a bruciapelo. Lei ci mise un attimo a capire che parlava ancora del
pianoforte.
Annuì brevemente, preoccupata che il nonno si agitasse di
nuovo. Invece
l’espressione tesa del suo viso si rilassò.
«Allora non l’ho immaginato,
stavolta.» Il suo sguardo si appannò, mentre si
lasciava andare contro lo
schienale imbottito della poltrona. Per un po’ parve che la
sua mente fosse lontanissima
da lì. Forse erano le medicine a fargli
quell’effetto: Stefano le aveva
spiegato che la cura che stava seguendo era molto pesante, anche se
ormai era
solo un palliativo. Poi, di colpo, Edoardo puntò di nuovo
gli occhi su di lei.
«Non pensavo che saresti venuta. Che ti avrei visto, prima di
morire» disse,
continuando a fissarla con uno sguardo acuto che la metteva a disagio.
Era come
se la trapassasse da parte a parte. «Pensavo di non avere
più nemmeno questa
speranza.»
L’amarezza che
avvolgeva le sue parole la colpì. Strinse una mano a pugno,
ricambiando quello
sguardo azzurro che la trafiggeva, identico al suo, identico a quello
di suo
padre. Lo aveva ereditato da una persona che vedeva in quel momento per
la
prima volta. Prese aria.
«Era giusto farlo»
rispose, alzando le spalle.
Sul volto stanco di
Edoardo apparve un sorriso strano, obliquo, del tutto privo di gioia.
Poi fu
scosso da un sussulto e il sorriso si trasformò in una mezza
risata, breve e
secca, stroncata quasi subito da un forte colpo di tosse. Quando fu
passato, il
vecchio si raddrizzò di nuovo sulla poltrona, respirando
affannosamente.
«Se non sapessi di chi
sei figlia, non penserei che sei una Falconeri. In questa casa nessuno
ha mai
saputo cosa fosse giusto.»
Vittoria lanciò di
nuovo un’occhiata a Stefano, dubbiosa. Non aveva capito
l’osservazione del
nonno, ma il volto di suo padre non le rivelò nulla. Stefano
continuava a
guardare Edoardo con quella che sembrava soltanto indifferenza. Il
vecchio
seguì la direzione del suo sguardo e sorrise di nuovo con
aria sardonica verso
suo figlio.
«Come stai?» gli chiese
Stefano, il tono rigido, dopo una pausa che a Vittoria parve eterna.
Edoardo fece una
smorfia. «Lo vedi, come sto. Da quanto tempo non ci
incontriamo… Sei un uomo,
ormai. Ma io so tutto di te, di quello che hai fatto. Il lavoro, il
matrimonio…
Vittoria…» aggiunse, dopo una brevissima
esitazione. «Le voci corrono in fretta,
qui. Si dice che sei il dirigente più giovane che la tua
banca abbia mai avuto.
Ti faccio i miei complimenti. Devi essere molto fiero di te
stesso.»
Dalla sua posizione,
Edoardo guardava Stefano dal basso, eppure aveva l’aria di un
re che riceve uno
dei suoi vassalli, e le sue parole in apparenza gentili erano permeate
da
un’ironia sottile, ma evidente. Vittoria aggrottò
la fronte. In lui c’era qualcosa
di contraddittorio che non riusciva a capire. Perché mai
avrebbe dovuto
ironizzare sui successi di Stefano? Lui, però, non sembrava
toccato in alcun
modo. Osservò suo padre in silenzio per un attimo, poi fece
un mezzo sorriso,
mostrando i denti bianchi e perfetti.
«Smettila» disse
soltanto, tranquillo, come se fosse stanco di uno scherzo che andava
avanti da
troppo tempo. «Volevi lei, giusto?» Fece un cenno
verso Vittoria. «Adesso l’hai
vista.»
Lei provò l’istinto di
ritrarsi quando suo padre la indicò, ma si trattenne. Non
voleva peggiorare la
situazione. Si sentì gelare sotto il sole implacabile di
luglio. E si sentiva
una stupida. Non si era aspettata un incontro affettuoso, aveva sempre
saputo
che i rapporti tra suo padre e suo nonno erano glaciali, eppure essere
lì e
vedere tutto con i suoi occhi era diverso.
L’ostilità vibrava in mezzo a loro
come una cosa viva e tangibile e lei aveva la sensazione che ogni
singola
parola avesse un altro significato che non conosceva. Era soltanto la
spettatrice di una schermaglia carica di sottintesi e non le piaceva.
Edoardo emise un
sospiro roco e pesante che parve costargli una grande fatica.
«Non hai ancora
smesso di odiarmi. Grazie di avermela portata… anche se
forse lei mi odia
quanto te, con tutto quello che le avrai raccontato.»
«No» rispose lei
istintivamente. Scosse la testa. «Non ti conosco
nemmeno.» Si accorse che suo
padre la fissava, ma non ricambiò lo sguardo.
«Hai ragione» assentì
Edoardo, chinando la testa, «ma non è colpa mia se
andò così.»
Vittoria si morse il
labbro inferiore. Non era del tutto d’accordo. Suo padre
aveva chiuso i
rapporti con Edoardo e anche con Enrico, il suo fratellastro, ma loro
non lo
avevano mai considerato una parte della famiglia ed Edoardo non si era
mai
preoccupato di fargli da padre. Non gli aveva mai dato neppure dei
soldi e
Stefano aveva sempre fatto tutto da solo, contando su se stesso e sulla
sua
brillante intelligenza. Fu sul punto di ribattere, poi però
osservò il viso sfatto
e grigiastro di suo nonno, la sofferenza che piegava i suoi tratti
verso il
basso e annacquava l’azzurro degli occhi e
all’improvviso capì che non aveva
senso recriminare il passato a qualcuno che forse aveva ancora solo
qualche
settimana di vita davanti a sé. Fece un respiro profondo.
«Adesso sono qui.
Possiamo rimediare. Io… potrei tornare. Posso suonare un
po’ il pianoforte, se…
se ti fa piacere.» La voce le morì
sull’ultima sillaba, travolta dalla sua
stessa sorpresa. L’idea era nata ancora prima che se ne
rendesse conto, le
parole erano scivolate fuori prima che potesse riflettere.
Lasciò passare
qualche secondo, ma non sentì arrivare alcun pentimento.
Forse poteva essere
una buona idea, per conoscere un po’ il nonno e avere qualche
risposta alle sue
domande. E a lui avrebbe fatto sicuramente piacere. Dalla sua reazione,
quando
le aveva chiesto se era stata lei a suonare, le era sembrato che ci
tenesse
molto, a quel pianoforte. Accanto a lei sentì suo padre
irrigidirsi di colpo.
«Dobbiamo partire
domenica» disse subito, la voce calma, ma ferma.
Lei lo guardò. La stava
fissando con espressione seria e concentrata, gli occhi che mandavano
un unico
messaggio, forte e chiaro: no. Vittoria
cercò di riflettere velocemente.
Forse quella era l’unica possibilità che aveva di
raggiungere l’obiettivo per
cui era arrivata fino a lì. Non poteva perderla.
«Ma… solo per qualche
giorno. Non hai ancora delle ferie da recuperare?»
Stefano scosse la
testa, piano. «Vittoria, no. Non è il
caso.»
«Ma io voglio farlo.
Cioè, mi piacerebbe. Non è per questo che sono
qui, per conoscerlo?» Ebbe una
lieve esitazione e lanciò un’occhiata rapida a
Edoardo, ma non sembrava che li
stesse ascoltando: aveva di nuovo un’espressione assente,
persa in chissà quali
pensieri o ricordi.
«Lo hai conosciuto»
ribatté Stefano a denti stretti, la voce gelida.
«Direi che è sufficiente.»
Vittoria lo guardò
male. «Mi stai prendendo in giro? Non ci siamo detti neanche
due parole!»
Lui scosse di nuovo la
testa, senza cambiare espressione, e Vittoria pensò che
forse non la stava
nemmeno ascoltando, che sembrava aver chiuso la mente, rifiutando la
possibilità di accontentarla.
«Per favore, papà.»
Stefano aveva il
respiro teso e più veloce del normale. Il suo volto sembrava
scolpito nella
pietra tanto era impassibile, ma nei suoi occhi era ben visibile
un’ombra di
angoscia che ne oscurava la solita luminosità. A Vittoria
venne in mente una
superficie di cristallo che inizia pian piano a ricoprirsi di piccole
crepe per
poi esplodere e frantumarsi. Di colpo si sentì una stronza,
mentre il senso di
colpa si mescolava a quella scintilla di ribellione che la coglieva
davanti ai
silenzi dei suoi genitori sugli argomenti che non volevano affrontare
con lei.
Non voleva fare del male a suo padre, ma non era neppure disposta a
cedere. Se
avesse perso quell’occasione, avrebbe perso anche tutto il
resto. Mentre
Stefano la fissava con rabbia pensò che le avrebbe urlato
contro, anche se era
una cosa che suo padre non faceva mai. Invece emise un respiro brusco e
profondo, come se gettasse fuori qualcosa.
«Bene» sbottò a bassa
voce. «Bene.»
Si girò e rientrò in
casa a passo fermo. Lei fece per scattargli dietro, ma qualcosa si
strinse
intorno al suo polso, bloccandola dov’era: la mano secca e
rugosa di Edoardo,
incredibilmente forte e salda per un uomo così anziano e
malato. Edoardo cercò
gli occhi di lei con i propri e quando Vittoria li incrociò
vi scorse
un’espressione vacua.
«Lo sapevo» bisbigliò,
a voce così bassa che Vittoria riuscì appena a
udirla. «Sapevo che mi avresti
portato qualcosa di lei.»
Vittoria aggrottò la
fronte, ma in quel momento non aveva il tempo di chiedere spiegazioni o
riflettere su quelle parole, che forse non avevano neppure un senso.
Forse
Edoardo non sapeva cosa diceva, la mente annebbiata dalle medicine.
Ricambiò la
stretta della sua mano. «Tornerò domani, te lo
prometto.»
Liberò le dita e corse
dietro a suo padre, rifacendo il percorso a ritroso e sperando di
ricordare la
strada. Sulle scale incrociò una ragazza con una divisa da
cameriera azzurro
chiaro, un lampo di capelli scuri e un’espressione
stupefatta, che si tirò da
parte un istante prima di essere travolta.
«Scusa!» le gridò
Vittoria, scendendo in fretta i gradini. Ripercorse il corridoio con le
finestre che davano sul mare, la sala da pranzo, il salotto,
varcò la
portafinestra. Sulla terrazza strizzò gli occhi, colpiti
all’improvviso dal
sole: suo padre stava andando verso la macchina, sempre con passo fermo
e
risoluto.
«Papà!» chiamò, mentre
scendeva la scala del ballatoio. A quel punto lui si fermò,
a pochi passi
dall’auto, e rimase di spalle ad aspettarla.
«Papà, non ti
arrabbiare… Cerca di capire, ti prego» disse
Vittoria, affannata, non appena lo
ebbe raggiunto, nel mezzo del cortile. Stefano non si girò,
ma lei sapeva che
stava ascoltando. «Non posso andarmene così, non
ha senso… Voglio soltanto
conoscerlo un po’.»
«Non era questo il
patto» ribatté lui, ancora prima che Vittoria
finisse di parlare. Si voltò con
un movimento brusco. «L’accordo era che saremmo
venuti, ti avrebbe vista e ce
ne saremmo andati. Fine. Niente altro» disse lentamente,
scandendo le parole con
tono rigido. «Ma Edoardo se ne frega, ottiene quello che
vuole, come sempre.
Starà anche per morire, ma non è cambiato di una
virgola.»
«Non mi ha chiesto lui
di tornare, sono stata io che…»
«Ti sbagli, Vittoria!»
sbottò Stefano, esasperato. «Questo è
quello che Edoardo ti fa credere, di
essere tu che decidi, ma è lui che conduce il gioco.
Manipola le persone, le
sposta come le pedine su una scacchiera, lui…» Si
interruppe di colpo, rimase per
un istante a guardare Vittoria con il respiro affannoso, le labbra
strette, il
corpo teso per la rabbia, soffocando parole che non voleva o forse non
poteva
far uscire. Poi sembrò che una consapevolezza misteriosa lo
investisse
all’improvviso. Tirò un respiro profondo, scosse
la testa e si passò le mani
sul viso, come per recuperare il controllo. Ci fu un lungo silenzio.
Chiazze di
luce filtravano tra i rami degli alberi che ombreggiavano la tettoia
delle
auto, le cicale frinivano, un uccello lanciò un richiamo. Da
qualche parte
intorno al baglio, in lontananza, un cane abbaiava. Stefano
abbassò le mani.
«Tu non capisci» continuò, guardando
Vittoria con aria triste.
«Fammelo capire,
allora.»
Lui rimase in silenzio
ancora per un po’. Distolse gli occhi da lei e prese a
guardare un punto
indefinito, come per stabilire una distanza, tracciare un confine. Poi
parlò
lentamente, con calma, scegliendo le parole a una a una.
«Edoardo non è come
sembra. So che lo vedi come un povero vecchio debole, malato e
inoffensivo, ma
non lo è. Credimi. Ti farà del male, se
potrà» aggiunse con forza, puntando di
nuovo gli occhi su di lei e Vittoria trasalì. «Ti
farà del male per ferire me.»
Vittoria rimase ferma,
come bloccata dov’era, mentre un’ansia sottile le
riempiva velocemente lo
stomaco. Prese un respiro esitante, chiedendosi se davvero suo padre
non avesse
ragione, se non si stesse infilando in qualcosa di più
grande di lei. Serrò le
labbra. Aveva percepito qualcosa di strano in Edoardo, sebbene fosse
stata
insieme a lui solo per qualche minuto, ma la reazione di suo padre non
era un
po’ esagerata? E se fosse andata via in quel momento non
avrebbe mai potuto
farsi la sua opinione sul nonno e scoprire qualcosa sul misterioso
passato
della sua famiglia. Era stufa di lasciare che fossero i suoi genitori a
decidere
per lei su quella faccenda e se c’era il rischio che Edoardo
facesse lo stronzo,
forse valeva la pena correrlo. Cosa poteva succedere, dopotutto? Forse
suo
padre era ancora ferito per il modo in cui Edoardo lo aveva rifiutato
da
bambino e proiettava su di lei il suo timore, ma Edoardo non la
conosceva
nemmeno: cosa poteva farle? Strofinò la punta della scarpa
sul vialetto di
pietra.
«Sputa anche fiamme
dalle narici, per caso?»
Suo padre le lanciò
un’occhiataccia. «Sono serio, Vittoria.»
Lei sospirò ancora. «Ok,
allora… starò attenta. Promesso.»
Stefano la fissò per un
attimo e Vittoria capì che non aveva intenzione di mollare.
«È meglio che tu
non abbia a che fare con queste persone. Fidati di me.».
«Io mi fido di te,
vorrei solo… avere una possibilità.»
Non era certa che lui avesse compreso il
significato di quelle parole, anche se non avrebbe saputo cosa
aggiungere senza
dire troppo. Non poteva certo confessare il suo piano o si sarebbe
ritrovata su
un traghetto per Palermo prima di rendersene conto. Negli occhi di suo
padre,
però, comparve la consapevolezza, mescolata a una leggera
malinconia.
«Lo so. Lo capisco. Ma
lui rovinerà tutto» rispose Stefano con voce
triste, come se avesse già capito
che i suoi tentativi erano inutili e si preparasse ad affrontare
qualcosa di spiacevole.
«Se scappi allora
penserà davvero di poterlo fare. Non dargli questa
soddisfazione. Dimostragli
che sei più forte.»
Lui appariva sempre più
triste. «Ma non è così»
mormorò. Un angolo della sua bocca si sollevò in
una
specie di smorfia. «Io non sono il più forte.
Forse… forse c’è stato un momento
in cui lo ero, ma adesso, in un certo senso… mi sento di
nuovo un bambino.»
Vittoria lo studiò in
silenzio per un po’. «Mi dispiace,
papà» disse poi, a voce molto bassa. Non sapeva
cosa altro dire. Quello non era il solito atteggiamento di suo padre,
per
niente: lui era sempre coraggioso, forte e sfrontato e accoglieva le
sfide con
un sorriso, ma in quel momento sembrava che qualcosa dentro di lui si
fosse
sgonfiato. Se era l’effetto che gli faceva Edoardo, allora
Vittoria capiva
perché gli stesse alla larga.
Stefano scosse la
testa. «È questo posto… è
pieno di fantasmi.» Percorse con lo sguardo cupo il
baglio e il cortile, inondati dal sole e immersi in una quiete
immobile, come
se scorgesse davvero delle presenze affacciate fra le tende bianche
gonfiate da
una folata di vento improvvisa. Vittoria rabbrividì.
«Pensavo che ormai anche
Edoardo fosse un fantasma del passato, ma la verità
è che il passato può sempre
tornare.»
«Non è meglio
affrontarlo, allora?» chiese Vittoria, sollevando le
sopracciglia. «Sarebbe poi
così terribile?»
Suo
padre guardò
lontano ancora per un istante, poi spostò gli occhi su di
lei. Ci fu una pausa
silenziosa, mentre il cane continuava ad abbaiare, da qualche parte
nella
campagna intorno alla casa. «Non lo so. Preferisco non
scoprirlo.»