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Autore: Cathy Holland    05/03/2024    1 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
A causa di un problema tecnico, l'aggiornamento della storia è sospeso fino a martedì 21 maggio, poi riprenderà regolarmente.
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 7
FANTASMI

 

 

Sicilia, Isola di Santo Stefano
Luglio 2015

 

 

Vittoria sollevò le palpebre e subito le richiuse di scatto quando la luce violenta del sole le ferì gli occhi. Rimase ferma, distesa nel letto in un groviglio di lenzuola, la pelle sudata e bruciante per il caldo, immersa in quello stato di torpore e confusione che segue il risveglio. A mano a mano che usciva dal sonno e acquisiva consapevolezza della realtà, si rendeva conto che c’era qualcosa di strano: il materasso sotto di lei era più duro del solito, come se fosse stato usato meno, e il lenzuolo attorcigliato intorno al suo corpo aveva un profumo nuovo, diverso da quello che la accoglieva ogni mattina appena sveglia. Riaprì gli occhi con cautela, cercando di abituarsi piano alla luce, e quasi nello stesso momento ricordò. Non era nella sua stanza, a Milano, ma nella camera per gli ospiti della dépendance di Rosa e Alberto, la coppia di amici dei suoi genitori che si era offerta di ospitarli a Santo Stefano.
Sospirò, si stropicciò gli occhi e si mise a sedere nel letto, guardandosi intorno. Le persiane della portafinestra che affacciava sul giardino erano abbassate solo a metà e lasciavano entrare la luce del mattino a fiotti densi e caldi. La sera prima doveva aver dimenticato di chiuderle. Era esausta, come se non avesse chiuso occhio. Il viaggio in auto da Milano a Civitavecchia, poi in traghetto fino a Palermo e da Palermo a Santo Stefano, era stato lungo e faticoso. La sera prima la stanchezza le era piombata addosso all’improvviso. Aveva cenato a malapena, poi aveva fatto una doccia e si era buttata sul letto senza neanche aprire le valigie. Il suo trolley viola se ne stava ben chiuso davanti all’armadio e sembrava rimproverarla silenziosamente.
Si stiracchiò, allungando i muscoli contratti e ancora addormentati mentre scendeva dal letto. Alla stanchezza del viaggio si era sommata la tensione che era cresciuta sempre di più a mano a mano che si avvicinavano alla meta. Anche se con lei i suoi genitori si mostravano sempre sereni, erano diventati sempre più seri e cupi. L’arrivo sull’isola, però, era stato bello. Vittoria l’aveva guardata avvicinarsi a poco a poco dal ponte del traghetto, una sagoma di un azzurro polveroso e dal profilo frastagliato che si stagliava contro l’azzurro chiaro e intenso del cielo estivo e diventava sempre più netta e definita. Quando il traghetto si era avvicinato abbastanza aveva visto le coste alte e rocciose tagliate da piccole spiagge e calette sassose che si incuneavano come profonde ferite nella roccia. Portosalvo, l’unico porto e il principale centro abitato dell’isola, si era rivelato all’improvviso, quando il traghetto aveva fatto una virata un po’ brusca verso est che aveva strappato a Vittoria un sussulto allo stomaco: un gruppo di case antiche dipinte a colori sbiaditi dal tempo (rosa, azzurro, giallo, verdino) strette tra loro come una nidiata di pulcini appena nati, addossate alle rocce e attraversate da stradine e viuzze in pendenza che sembravano precipitare verso il mare e ogni tanto, a sorpresa, si aprivano su uno slargo dove gli anziani sedevano in cerchio a chiacchierare.
Dal porto si raggiungeva la polverosa piazza centrale percorrendo una strada che dopo pochi passi si trasformava in un vicolo e poi, dopo la piazza, si allargava di nuovo. Sulla piazza affacciavano una chiesa barocca dedicata al patrono dell’isola, una stazione di polizia che sembrava abbandonata e un bar dall’aria antica con tavolini e sedie colorate all’aperto. Dal 1950, recitava l’insegna appesa sulla porta a vetri. Nelle stradine strette e tortuose ogni tanto comparivano tra le case uno squarcio di mare e sole e le macchie bianche delle barche sulle onde.
Claudia e Stefano erano scesi dal traghetto con due identiche espressioni di ghiaccio che si erano sciolte solo un pochino dopo aver visto Rosa e Alberto che li aspettavano al porto. Avevano sorriso appena davanti al calore e all’entusiasmo della loro accoglienza e Claudia era rimasta piuttosto rigida anche quando Rosa l’aveva stretta in un abbraccio energico. Si conoscevano dalla prima media, erano andate a scuola insieme ed erano state inseparabili fino a quando Claudia aveva abitato sull’isola. Dopo che lei si era trasferita, il loro rapporto era rimasto immutato. Anche se Claudia non tornava a Santo Stefano da tanti anni, avevano continuato a sentirsi quasi ogni giorno e a vedersi ogni volta potevano. Rosa andava a trovarli spesso con Alberto, il suo compagno, e un paio di volte avevano anche fatto le vacanze insieme.
«Vittoria!» La voce di sua madre le giunse attraverso la porta chiusa, scuotendola definitivamente dal sonno. Sentì che i passi si avvicinavano alla stanza, ma poi si fermarono. «Vittoria?»
«Sono sveglia, mamma» borbottò lei a mezza voce, controvoglia.
«Ok, ti aspettiamo di là.»
I passi si allontanarono. Dal patio che girava intorno alla dépendance proveniva un saliscendi di voci, risate ed esclamazioni. Dovevano essere già tutti in piedi. Vittoria si costrinse ad alzarsi e ad aprire il trolley per tirare fuori vestiti e biancheria. Non aveva voglia di mettere tutto a posto, così si limitò a prendere quello che le serviva e a lasciare il resto per metà nella valigia e per metà sparpagliato sul letto. Ci avrebbe pensato dopo, tanto i suoi erano abituati al disordine che regnava in camera sua, a casa. Aprì la porta, passò accanto alla stanza matrimoniale e si infilò in bagno. La casa di Alberto e Rosa era immersa nella campagna, lontana dal centro abitato: un edificio di pietra, basso e squadrato, a cui si accedeva da un cancello incastonato tra due alte siepi che sottraevano la casa alla vista dalla strada. Lo circondava un giardino mediterraneo dall’aria selvaggia: aranci, limoni, palme, bouganville, cespugli di erica, oleandri e mirto tra cui serpeggiavano due vialetti di pietra che si incrociavano e si allontanavano tracciando un arabesco grigio in mezzo ai colori vivaci dei fiori; nell’angolo est, un pergolato di rose dava ombra a due panchine e, dal lato opposto, c’era una piccola vasca circolare con una fontana zampillante. Sul retro della casa una grande terrazza, a cui si accedeva da uno dei viali tramite un cancelletto basso, si apriva a picco sul mare, offrendo una vista splendida sul versante nord-ovest dell’isola.
Vittoria e i suoi genitori si erano sistemati in quella che Rosa e Alberto chiamavano la dépendance con una scherzosa aria di importanza, una piccola struttura che in passato era stata usata come granaio, stalla e deposito di attrezzi. Rosa l’aveva ristrutturata e trasformata in una specie di villino con due camere da letto, un bagno e un salottino con cucina a vista.
Vittoria fece una rapida doccia, indossò un paio di shorts di jeans, una maglietta azzurra con inserti di pizzo bianco sulle spalle e sulle maniche, passò una riga di eyeliner sugli occhi e raccolse i capelli in una treccia alta sopra la testa. Mentre si infilava le All Star bianche sentì di nuovo la voce di Claudia.
«Vittoria! È tardi!»
«Arrivo!»
Controllò velocemente che il ciondolo con la farfalla fosse al suo posto (sentiva di averne particolarmente bisogno, quella mattina) e attraversò la dépendance. Come la casa principale, era arredata in bianco e in tutti i toni del blu e dell’azzurro. Appena arrivata Vittoria aveva pensato che i mobili fossero molto vecchi, a giudicare dal loro aspetto, ma poi sua madre, che era laureata in storia dell’arte e lavorava in una casa d’aste, le aveva spiegato che era uno stile particolare, che i mobili erano volutamente consumati e che era considerato un arredamento molto raffinato. Ovunque c’erano decorazioni che rimandavano al mare: la rete da pesca decorata da conchiglie attaccata a una parete del salottino, l’enorme stella marina che fungeva da centrotavola in cucina, i pezzi di legno raccolti sulla spiaggia usati per costruire mensole fissate ai muri, i pesci stilizzati dipinti nel bagno. Uscì sul patio e trovò i suoi genitori a un tavolo rettangolare di ferro battuto insieme a Rosa e Alberto, che dovevano essere venuti a portare la colazione: su un vassoio blu al centro del tavolo c’erano caffè, tre tipi di latte (normale, all’avena e alla mandorla) e un piatto di cornetti.
«… buttare giù tutto e rifare da zero. E poi c’è il problema della manutenzione delle palme, che sono state attaccate da un virus l’anno scorso» stava dicendo Alberto, la voce che si faceva più forte e chiara a mano a mano che Vittoria si avvicinava. «In certi momenti invidio chi vive in un bell’appartamento e non ha tutte queste preoccupazioni.»
«Perché non hai a che fare con le beghe di condominio» ribatté Claudia in tono eloquente.
«Buongiorno» disse Vittoria, uscendo sul patio.
Alberto la guardò con un gran sorriso. Rosa era coetanea di Claudia, mentre lui aveva 48 anni, eppure, con i capelli sale e pepe sempre arruffati, l’espressione quasi invariabilmente allegra e uno spirito entusiasta che gli illuminava il viso sembrava un ragazzino intrappolato nel corpo di un uomo maturo. «Ecco la Bella Addormentata» la salutò, mentre si alzava per cederle la sua sedia. Era così alto e magro che quasi toccava il soffitto del patio con la testa.
Vittoria sedette in mezzo ai genitori e Rosa, dall’altra parte del tavolo, le allungò una tazza. «Come stai? Hai dormito bene?»
Vittoria ricambiò spontaneamente il suo sorriso aperto e giovale che si estendeva fino agli occhi di un verde intenso. «Abbastanza. È che… il rumore del mare è bello, ma all’inizio non riuscivo ad addormentarmi.»
Sua madre fece un sorriso malinconico, abbassando gli occhi sulla tazza che stringeva tra le mani. «Pensa che da bambina non riuscivo a chiudere occhio se non sentivo il rumore delle onde.»
Rosa ebbe un attimo di esitazione, poi si sistemò dietro l’orecchio una ciocca scura sfuggita al suo bob disordinato. «Bisogna solo addiccarisi.[1] Poi diventa rilassante.»
Vittoria aggrottò la fronte, mentre si versava il caffè da un bricco di porcellana blu. «Bisogna che
Non conosceva per niente il siciliano, i suoi genitori non usavano mai termini dialettali e non avevano neppure la cadenza tipica della regione. Stefano, che aveva lasciato l’isola da bambino, l’aveva persa completamente. Claudia ne conservava una vaghissima traccia quando pronunciava alcune parole. Vittoria aveva sempre pensato che fossero bene attenti a non usare mai il siciliano neanche per caso e che quello fosse l’ennesimo modo per chiudere con il loro passato sull’isola.
«Abituarsi» spiegò Alberto, ridendo con leggerezza. «Se davvero volete ripartire domenica non farà in tempo ad abituarsi… né a imparare il siciliano» aggiunse poi. «È solo venerdì.» Era poggiato a uno dei pilastri che sostenevano le arcate del portico e si stava passando distrattamente la mano tra i capelli, scompigliandoli ancora di più. «Dovete restare un po’ di più.»
Stefano e Claudia si scambiarono uno sguardo sopra la spalla di Vittoria. I loro amici avevano sempre desiderato ospitarli sull’isola, per ricambiare le numerose occasioni in cui erano stati dai Ruggero a Milano. Però sapevano che tornare a Santo Stefano per loro era una specie di tabù, così non avevano mai insistito più di tanto. Ora che finalmente si era presentata l’occasione di averli a casa loro, erano raggianti e soprattutto Alberto non sembrava accettare di buon grado che andassero via così presto. La sera precedente aveva già preso l’argomento due volte, mentre cenavano nel giardino. Ogni volta Rosa era rimasta in silenzio per un po’, poi gli aveva scoccato un’occhiata ammonitrice. Dopo un attimo di confusione, lui aveva spostato la conversazione su altro con un’aria contrita che lo faceva somigliare più che mai a un bambino cresciuto di botto e che Vittoria aveva trovato molto comica.
Lei, però, sospettava che i suoi tentativi fossero completamente inutili: i suoi genitori avevano pianificato il soggiorno a Santo Stefano quasi minuto per minuto, come se avere un piano di marcia ferreo e sapere sempre in anticipo, con esattezza, cosa sarebbe accaduto e quando sarebbe accaduto li tranquillizzasse. La partenza era fissata per domenica, in modo da trascorrere sull’isola solo un week end: un tempo breve, ma sufficientemente lungo da dare soddisfazione ai padroni di casa e accontentare l’entusiasmo di Alberto. Stefano aveva telefonato al baglio già due settimane prima per prendere appuntamento per venerdì mattina e la sera precedente aveva richiamato per avere conferma, ignorando Vittoria che lo fissava con le sopracciglia sollevate. Neanche quando organizzava un viaggio di lavoro a Londra o a New York era così nervoso. Sabato sarebbero andati al mare e domenica mattina avrebbero preso il traghetto per tornare a Palermo. Vittoria dubitava che anche una catastrofe naturale di qualche genere potesse far saltare il piano di fuga.
Suo padre si schiarì la voce. «Ci piacerebbe, ma non posso lasciare il lavoro troppo a lungo.»
«Io ti conosco da dieci anni, ma ancora lo devo capire che lavoro fai» rispose Alberto e tutti risero.
«Se lo capisci, spiegalo anche a me» disse Stefano e Alberto gettò indietro la testa e rise ancora di più. Vittoria non poteva dargli torto, dato che neanche lei capiva nulla del lavoro di suo padre in banca e, sospettava, neppure sua madre. Sapeva vagamente che aveva a che fare con numeri e soldi, tantissimi soldi, e azioni da comprare e vendere al momento giusto per far guadagnare la banca, ma era tutto molto confuso. Le sembrava un mondo lontanissimo da quello reale.
«Comunque, se mai cambiaste idea, l’invito è sempre valido. Potete restare quanto volete» aggiunse Alberto, soffocando uno sbadiglio.
Rosa si alzò. «Non insistere» lo ammonì e gli lanciò un’occhiata significativa. Alberto assunse di nuovo la sua aria da ragazzino colto con le mani nel vasetto della marmellata e Vittoria dovette nascondere un sorriso divertito dietro la tazza. «A che ora avete appuntamento?» chiese Rosa, cambiando argomento.
Stefano sfiorò lo schermo del telefono con un dito. «Tra mezz’ora.»
«Allora è meglio se vi lasciamo.» Rosa, rivolta al compagno, fece un segno con la testa verso casa. «Andiamo? Così scriviamo la lista della spesa.»
Lui si raddrizzò e assentì di malavoglia. «A pranzo grigliata di pesce, che dite? Ci penso io» aggiunse con un sorrisetto che gli fece guadagnare una smorfia da parte di Rosa. Lei era una frana in cucina, quindi era quasi sempre Alberto a occuparsene. «E per Vittoria parmigiana di melanzane. Ricetta segreta di mia nonna, è una bomba.»
Vittoria gli rivolse un gran sorriso. Adorava Alberto, la faceva sempre ridere. «Ci sto.»
«Perfetto» esclamò Rosa. Prese Alberto sottobraccio, poi guardò verso Claudia e dopo un attimo le sorrise. Vittoria si girò appena in tempo per vedere l’espressione contratta di sua madre distendersi subito in un sorriso teso, come in risposta a un invito silenzioso. «Ci vediamo dopo.»
Si allontanarono attraverso il giardino, camminando vicini e scambiando qualche parola a bassa voce. Sembrava che Rosa stesse rimproverando Alberto. Lui rispose con un borbottio sommesso e un’alzata di spalle, poi disse qualcosa e Rosa rise. Intorno al tavolo, sul patio, era caduto il silenzio. Gli uccellini cinguettavano nel giardino e un venticello caldo muoveva piano le fronde degli alberi. Vittoria osservò i suoi genitori, che la stavano palesemente ignorando: lui tamburellava con le dita sul tavolo, lei guardava verso il mare con aria distratta. Bevve un sorso del suo caffellatte con latte di avena e moltissimo caffè, come piaceva a lei. Non era latte con il caffè, la prendeva sempre in giro suo padre, era caffè con una goccia di latte. Si schiarì sommessamente la voce.
«Spero che abbiate fatto testamento.»
Stefano fissò lo sguardo su di lei, perplesso. «Come?»
«Sì, dato che stiamo andando al patibolo.»
Lui parve sorpreso ancora per un istante, poi le rivolse uno dei suoi sorrisi smaglianti da pubblicità di un dentista. Si mosse sulla sedia e si sistemò il colletto aperto della camicia di lino bianco. «No, è che… È strano essere di nuovo qui.» Vittoria annuì, questa volta seria. Lo capiva, ma non poteva fare a meno di cercare di sdrammatizzare. Era nella sua natura. L’espressione di suo padre divenne più attenta mentre si focalizzava su di lei. «E tu? Non sei per niente nervosa?»
Vittoria mandò giù l’ultimo sorso e posò la tazza sul tavolo. «Uhm… Un po’, ma più che altro sono… curiosa. Non so cosa aspettarmi esattamente.»
Stefano emise una mezza risata tagliente, del tutto priva di allegria. «Non aspettarti troppo» rispose, lapidario. Vittoria sentì sua madre sussultare leggermente. Guardò Stefano, un po’ sorpresa, e per un lungo momento lui resse il suo sguardo, immobile, poi fece un respiro calmo, mentre quel sorriso sgradevole si spegneva. «Scusami» disse a bassa voce.
Vittoria strinse le dita intorno al manico della tazza. «So che non vi va di stare qui» mormorò con sincerità, abbassando lo sguardo. «Mi dispiace.»
«No, tesoro» ribatté subito suo padre, deciso. «Abbiamo deciso noi di lasciare la scelta a te.»
«Ok, però…» Vittoria sospirò, mentre seguiva con un dito il profilo della tovaglietta da colazione di fronte a lei, in bambù bianco e azzurro. Il profumo dei fiori riempiva l’aria ed era così intenso da dare alla testa. Chissà perché, le venne in mente Marco, che era allergico al polline e avrebbe considerato quel giardino adorabile una specie di piccolo inferno personale. Era un po’ che non lo sentiva e pensarci le faceva male, così cercò di concentrarsi sulla discussione. «Tu hai tutte le ragioni del mondo per avercela con Edoardo e non pretendo che cambi qualcosa solo perché io gli darò una possibilità. È diverso.» Era lì per conoscere suo nonno e avere qualche risposta alle sue domande, ma non voleva rendere le cose troppo difficili ai genitori, soprattutto a suo padre, che aveva già sofferto abbastanza per colpa di Edoardo. Avrebbe ottenuto quello che cercava senza coinvolgerli troppo o almeno così sperava. Stefano rimase in silenzio a osservarla per un po’, poi fece un mezzo sorriso vagamente malinconico.
«Sei diventata saggia.»
Vittoria ci rifletté su un istante. Non aveva mai pensato a se stessa in quel modo. “Saggia” era una parola che suonava vecchia, da associare a un’anziana signora con gli occhiali, le rughe e il bastone per camminare. Era una parola da adulti, però, e questo le trasmise una piccola scarica di soddisfazione.
«Mi è spuntato un capello bianco, stamattina. Sarà per questo» esclamò, vivace, e i suoi genitori risero di nuovo. Poi Stefano gettò un’occhiata al telefono e si alzò.
«Dobbiamo andare» disse, con la stessa malavoglia con cui si sarebbe alzato per andare dal dentista. Vittoria emise un piccolo sospiro. Neanche le sue battute potevano migliorare l’umore di suo padre in quel momento. Si alzò a sua volta e guardò Claudia. Lei non li avrebbe accompagnati al baglio, ne avevano già parlato. Aveva detto a Vittoria che avrebbe solo complicato le cose e in fondo a lei non dispiaceva: se doveva cercare di avvicinarsi al nonno e farsi dare qualche risposta, era meglio avere intorno un solo genitore invece di due. Le rivolse un sorriso luminoso e si sporse per darle un bacio sulla guancia.
«Andiamo a divertirci senza di te» le disse in tono scherzoso.
Stefano fece una risata brusca. «Sicuro. Sarà uno spasso.»

 

****

 

Seduta al posto del passeggero nella Mercedes di suo padre che sfrecciava lungo la litoranea, Vittoria distolse lo sguardo dalla campagna bruciata dal sole e controllò il telefono con cui stava giocherellando nervosamente senza rendersene conto. Accese il display con l’impronta digitale, poi fece un sospiro breve e scontento. Ancora nessun messaggio da Marco. Strinse le labbra. Era una settimana che non le mandava neanche un’emoji e negli ultimi messaggi vocali la sua voce aveva un tono strano, a metà tra la freddezza e l’allegria forzata. Vittoria gli aveva inviato un messaggio di buongiorno, la mattina precedente, prima di salire sul traghetto a Palermo, che lui aveva visualizzato senza rispondere. Eppure fino a poco prima avevano avuto l’abitudine di scriversi quasi di continuo, per qualsiasi sciocchezza. Che diamine gli stava succedendo? Aveva anche controllato i social di Marco, ma non aveva trovato nulla di insolito. Doveva chiedere a Daniela se sapeva qualcosa.
«Tutto ok?»
La voce di suo padre la riscosse. Sollevò la testa proprio mentre lui le lanciava un’occhiata per poi tornare a fissare la strada. «Tutto ok» rispose meccanicamente. Non le andava ancora di parlarne con i genitori, non prima di capire cosa stesse succedendo.
Il silenzio che seguì era carico di perplessità e lei non ne fu stupita. Suo padre riusciva a leggerla come un libro aperto. Lui però rispettò la sua riservatezza e non chiese altro. Vittoria guardò fuori, cercando di distrarsi. A sinistra la distesa azzurro scuro del mare era punteggiata di barche, pescherecci, un yatch solitario che filava in lontananza diretto verso lidi più movimentati e increspature bianche che i gabbiani sorvolavano pigramente. Sulla destra la campagna era scomparsa per lasciare posto a un vigneto che sembrava non avere confini. L’auto proseguiva e i filari di uva si succedevano all’infinito.
«Sono questi i vigneti dei Falconeri?»
«Sì» fu la risposta neutra di suo padre dopo un attimo di pausa.
Vittoria inarcò le sopracciglia. «Sono… molto grandi.»
«Parecchie persone lavorano per loro, sull’isola. D’altronde non ci sono molte alternative.»
Quando superarono i vigneti tornò la campagna, intervallata dal giallo allegro dei campi di grano che contrastava con l’azzurro luminoso del cielo estivo, poi, finalmente, dopo una curva, apparve il profilo massiccio e squadrato di una struttura, in cima a una specie di collinetta. Vittoria capì subito che doveva essere la casa dei Falconeri. La osservò con curiosità e una leggera soggezione mentre si avvicinavano all’imponente cancello di ferro decorato da viticci intrecciati. Subito arrivò un ragazzo dalla pelle ambrata, con due grossi guanti da lavoro, che si precipitò ad aprire il cancello e li salutò con un sorriso. Stefano gli rivolse un cenno con la testa, poi parcheggiò l’auto sotto una tettoia ornata di piante rampicanti. Vittoria scese lentamente, guardandosi intorno: l’enorme cortile quadrato attraversato da due viali perpendicolari, al centro un pozzo che sembrava vecchio di qualche secolo, le aiuole ben tenute racchiuse tra i viali e in fondo due grandi ombrelloni bianchi quadrati che offrivano tregua dal sole a tavolini e sedie di ferro battuto. Seguì con lo sguardo il ballatoio di pietra che sembrava abbracciare il cortile, chiudendolo in una morsa. Deglutì.
«È qui che abitano?» domandò a bassa voce. «Sembra…»
Stava per dire che le ricordava uno di quei resort extra lusso situati in edifici antichi che si vedevano sui dépliant delle agenzie di viaggio. Qualche anno prima era stata in un posto simile con i suoi.
«È un baglio, una masseria fortificata. Le chiamano così, in Sicilia» spiegò Stefano. «Questa risale al Seicento.»
«Ed è sempre appartenuta alla famiglia?» Vittoria guardò suo padre, che si limitò a un breve cenno affermativo del capo. Fece un sospiro di pura sorpresa. Non aveva idea che la famiglia di origine di suo padre fosse così antica.
Anche Stefano si guardava intorno, ma gli occhiali da sole Armani nascondevano la sua espressione. «È tutto uguale» disse poi, con un filo di voce. «Non è cambiato niente. Non cambia mai niente, qui.»
Vittoria non sapeva bene che cosa rispondere. Non riusciva neppure a immaginare quanto dovesse essere strano per lui trovarsi in quella casa. Aprì la bocca, pensando vagamente di dirgli qualcosa, anche solo che capiva e le dispiaceva, ma in quel momento da una delle portefinestre che si affacciavano sul ballatoio uscì una donna. Per qualche istante li osservò da lontano, portandosi una mano sugli occhi per schermarli dalla luce intensa, poi scese in fretta la scala e li raggiunse. Aveva un passo sicuro che faceva pensare alla marcia di un soldato molto determinato.
«Dottor Ruggero? È un piacere accoglierla qui. E tu devi essere Vittoria» disse con voce alta e un marcato accento siciliano, ancora prima di fermarsi. Tese subito la mano, offrendo una stretta breve e decisa che quasi lasciò un po’ intorpidite le dita della ragazza. «Ben arrivati. Sono Rosalia Scanno, mi occupo della casa da cinque anni. Parlammo al telefono» aggiunse, rivolta a Stefano. Aveva una corporatura minuta, indossava una semplice gonna blu e una camicia bianca leggera e i capelli neri erano raccolti in una coda bassa e ordinata. Il viso dall’espressione seria, magro e spigoloso, era marcato da un imponente naso aquilino e da rughe sottili, ma evidenti. Doveva avere all’incirca cinquanta anni.
Stefano intanto si era sfilato gli occhiali e le aveva rivolto un sorriso. «Sì, ricordo. Lieto di conoscerla.»
Se Rosalia trovò bizzarra quella totale mancanza di entusiasmo non lo diede a vedere: mantenne un’espressione neutra e andò avanti come se nulla fosse. Vittoria sospettò che non avrebbe avuto alcuna reazione neanche se suo padre si fosse messo a fare capriole nel bel mezzo del cortile.
«Accomodatevi» disse, indicando la casa con un cenno della testa, e si incamminarono insieme. Sulla destra, in cima a tre gradini rivestiti di piastrelle di cotto, c’era una porta di ingresso di legno scuro, alta, massiccia e dall’aspetto antico. Rosalia, però, la superò senza fermarsi e li condusse su per la scala di pietra, sulla terrazza, poi li precedette in casa attraverso la stessa portafinestra da cui era uscita. Si ritrovarono in un ampio salotto fresco e luminoso.
«Non è cambiato niente» mormorò Stefano, come se parlasse a se stesso, lanciando tutto intorno un’occhiata quasi esitante. «Né le abitudini né… tutto il resto.»
Rosalia si era fermata. Gli indirizzò uno sguardo perplesso. «Come?»
Anche Vittoria guardava suo padre, curiosa. Lui esitò, come rendendosi conto all’improvviso di aver detto a voce alta qualcosa che avrebbe dovuto essere soltanto pensato. Poi espirò e la sua espressione si distese appena. «Voglio dire… L’arredamento è identico a quello che ricordo. E… non c’è mai stata l’abitudine di usare la porta di ingresso. Si entrava sempre dalla terrazza. Ed è ancora così» disse in tono incolore. «Sono cresciuto qui, da bambino» aggiunse, rivolto a Rosalia, che lo fissava ancora con le sopracciglia sottili un po’ inarcate, l’unico tratto del suo viso che lasciava trasparire un’emozione evidente.
«Lo so. Me lo dissero» rispose la donna, dopo un attimo di imbarazzante silenzio. Vittoria si domandò cosa sapesse esattamente di suo padre. Sapeva che era l’altro figlio di Edoardo Falconeri? Prese nota mentalmente di chiederlo a Stefano appena possibile. «Vero è, questi mobili sono qui da cinquant’anni. E la porta principale è chiusa quasi sempre. Da quando sono qui non ho avuto nessuna buona ragione per cambiare questa abitudine.» Cadde di nuovo un silenzio pesante. Rosalia incrociò le mani davanti a sé e accennò un sorriso freddo. «Posso offrirvi qualcosa di fresco da bere?»
Stefano guardò Vittoria, che scosse piano la testa, pensierosa. «No, grazie, siamo a posto così. Come sta… il signor Falconeri?» chiese poi e lei ebbe l’impressione che fosse una pura e semplice domanda di circostanza.
«Non ci sono stati grandi cambiamenti, ultimamente. La sua situazione…»
Vittoria smise quasi subito di ascoltare, occupata a osservare l’eleganza antica dei mobili e dell’ambiente senza girare troppo la testa di qua e di là per non sembrare una turista. Era quello che si era aspettata di trovare e che si addiceva perfettamente alla casa: i mobili massicci di legno scuro, le tappezzerie verde e oro, la rosa dei venti sul pavimento di maioliche così lustre che avrebbe potuto usarle per specchiarsi, l’enorme lampadario che pendeva dal soffitto… Poi gli occhi le caddero su qualcosa che catturò completamente, inesorabilmente tutta la sua attenzione: un pianoforte a coda nell’angolo accanto alla portafinestra. Era lucido e splendente, senza neppure un granello di polvere, come se qualcuno avesse appena terminato di spolverarlo con cura.
Gli si avvicinò automaticamente, senza riflettere, come tirata da un filo invisibile. Sul leggio c’era uno spartito ingiallito e sgualcito, un po’ strappato agli angoli. Doveva essere piuttosto vecchio e preferì non toccarlo, ma non poté trattenere la tentazione di allungare un dito e passarlo sulla superficie liscia del pianoforte. Sfiorò il coperchio della tastiera, poi la sollevò e la sua mano scivolò sui tasti componendo gli accordi iniziali del Notturno di Chopin che aveva suonato da solista al saggio di fine anno. Lo ricordava alla perfezione, perché aveva continuato a lavorarci anche dopo il saggio, per migliorare quello che era andato storto. Daniela aveva preso l’abitudine fastidiosa di dirle «Salutami Chopin» ogni volta che si separavano o chiudevano una telefonata.
«Vittoria?»
Fu come se qualcuno la strattonasse con violenza. Trasalì e le sue dita si contrassero sulla tastiera, troncando la musica di colpo. Il silenzio suonò assordante ora che le note non riempivano più l’aria. Vittoria avvertì un senso di vuoto familiare che le stringeva lo stomaco. Le capitava ogni volta quando smetteva di suonare. Sollevò gli occhi e incrociò quelli di suo padre e Rosalia che la fissavano.
«Vittoria» la chiamò di nuovo Stefano, la voce bassa e priva di un’inclinazione particolare, ma lei intuì che era contrariato. «Non si toccano le cose senza permesso.»
Lei tolse le mani dalla tastiera, mentre sentiva un calore salire alle guance, e richiuse piano il coperchio. «Sì, mi dispiace» borbottò e tornò sui suoi passi, a disagio. Stefano continuò a fissarla finché Vittoria non fu di nuovo accanto a lui, poi distolse gli occhi. Le parve che con quel semplice, banale gesto del capo lui avesse alzato un muro, chiudendola fuori. Doveva essere infastidito perché lo stava mettendo in imbarazzo, proprio lì, in casa di Edoardo.
«Brava sei» disse Rosalia. Vittoria rispose con un mezzo sorriso. «Il pianoforte era già qui quando ho iniziato a lavorare in questa casa, ma non lo avevo mai ascoltato. Nessuno sa suonare, in famiglia. Credo che sia molto vecchio.»
Vittoria era tentata di fare altre domande, ma suo padre intervenne. «Sarebbe meglio andare. Siamo attesi» disse, con un tono rigido e velato di ironia che spinse Rosalia a scoccargli uno sguardo indagatore.
«Certo» rispose subito. «Da questa parte.» Si avviò verso una porta che conduceva fuori dal salotto. Quando ebbe girato le spalle, Vittoria guardò suo padre, catturando il suo sguardo, e bisbigliò “Scusa” quasi senza voce, muovendo solo le labbra. Lui la fissò per un momento, poi il suo volto accuratamente neutro si aprì in un sorriso debole, ma carico di affetto. Le circondò le spalle con un braccio, stringendola a sé.
«Non ti preoccupare» mormorò e se la tirò dietro.
Dal salotto passarono alla sala da pranzo, altrettanto vasta, luminosa e arredata nello stesso stile, poi in un lungo corridoio scandito da finestre che affacciavano all’esterno del baglio, sul mare di un colore intensissimo che faceva pensare all’azzurro tempera gettato sulla tela di un pittore, senza sfumature. Il pavimento di cotto e maioliche continuava ininterrotto, le pareti erano di un bianco immacolato e piante ornamentali, alcune in vaso, altre che si arrampicavano sui muri, riempivano gli spazi vuoti tra le finestre. Vittoria camminava cercando istintivamente di non fare troppo rumore sulle piastrelle, come avrebbe fatto in un museo o qualcosa del genere.
«Questo posto è…» sussurrò a suo padre, mentre passavano sotto un’apertura ad arco e si avviavano su per una scala. Non riuscì a finire la frase: gli occhi le erano caduti sul corrimano di ferro battuto decorato da ghirigori elaborati. Non riusciva neanche a immaginare quanto potesse costare una cosa del genere. Era abituata al lusso, dato che i suoi genitori erano più che benestanti, eppure tutto questo, tutto insieme, la lasciava comunque senza fiato.
«Lo so» fu la risposta asciutta di Stefano.
Intanto avevano svoltato a destra subito dopo la scala e dopo qualche metro Rosalia finalmente si fermò davanti a una porta. Era solo accostata e lasciava uscire una lama di luce forte e netta che tagliava la penombra del corridoio. Da dentro giunse come un tuono una voce roca e tesa, da anziano, che frantumò la quiete e fece trasalire Vittoria.
«Rosalia! Rosalia!»
La donna bussò due volte in rapida successione, poi spinse la porta ed entrò. La stanza era quadrata, grande, inondata dalla luce che entrava a fiotti da una portafinestra spalancata. I mobili erano scuri e pesanti come tutti quelli che Vittoria aveva visto finora: un letto matrimoniale curiosamente alto, un armadio imponente, un cassettone lungo e stretto e due comodini ai lati del letto. Qua e là si scorgevano i segni distintivi della camera da letto di un malato: una sedia a rotelle in un angolo, confezioni di medicine ordinatamente disposte sul cassettone, una flebo accanto al letto e un macchinario con un monitor che forse serviva per gli elettrocardiogrammi. Vittoria deglutì. Non aveva mai avuto a che fare con persone anziane o malate e vedere quegli oggetti la innervosiva un po’. In fondo, la portafinestra era incorniciata da tende bianche e svolazzanti e dava su una terrazza dove qualcuno sedeva di spalle in un’ampia poltrona di pelle, sotto un ombrellone bianco.
Rosalia guidò Stefano e Vittoria verso la terrazza. Lei sentiva il braccio di suo padre intorno alle spalle irrigidirsi sempre di più e pensò di dirgli qualcosa per tranquillizzarlo, anche se non avrebbe saputo neanche da dove iniziare. Poi, mentre attraversavano la camera, colse un lampo di luce con la coda dell’occhio. Si voltò in fretta, cercando di capire cosa fosse prima che suo padre la tirasse via con sé: era la cornice d’argento di una fotografia. Riuscì appena a intravedere un profilo femminile prima di passare oltre. Uscirono sulla terrazza e fu costretta a strizzare gli occhi, accecata dal sole per un momento.
«I suoi ospiti arrivarono, signor Falconeri» disse Rosalia.
Vittoria sentì che suo padre allentava lentamente la presa intorno alle sue spalle, fino a lasciarla andare del tutto, ma le rimase comunque attaccato e la seguì mentre lei girava intorno all’ombrellone, come per non perderla di vista. Lei sentì un tuffo al cuore e si ritrovò a muoversi lentamente, come se all’improvviso i piedi fossero diventati pesanti. Era il momento, stava per conoscerlo davvero. Era lì ed era tutto vero, eppure le sembrava di essere in un sogno e che da un momento all’altro si sarebbe riscossa, svegliandosi di soprassalto, si sarebbe ritrovata a casa, nel suo letto, e tutto sarebbe svanito. Sbatté le palpebre, ma era ancora lì, con suo padre che la tallonava come un secondino con il prigioniero. La poltrona di pelle era rivolta verso il mare e quando lei incontrò gli occhi di Edoardo Falconeri le sembrò che lo riflettessero come due specchi. Osservò il suo volto in silenzio.
I lineamenti erano sfatti e deformati dalle rughe, ma si intuiva che in gioventù dovevano essere stati marcati e attraenti. I capelli erano brizzolati e perfettamente in ordine e il corpo rattrappito dava l’impressione di essere svuotato, privo di sangue. A quel pensiero macabro Vittoria sentì un fiotto di nausea e si sforzò di reprimerlo. Era chiaramente un uomo anziano e molto malato, eppure sedeva più eretto possibile, avvolto in un pigiama di seta grigio scuro e una vestaglia color rosso cupo che faceva pensare a un cardinale e sembrava troppo pesante per una caldissima giornata di luglio. Le mani pallide e affusolate erano ancorate ai braccioli della poltrona con decisione, come se Edoardo pensasse di potersi alzare, guarito e ringiovanito, da un momento all’altro. Lui la fissò immobile per qualche secondo, studiandola a sua volta. Solo il petto magro di alzava e si abbassava a un ritmo irregolare, lasciando uscire un respiro roco e pesante.
«Chi è stato?» domandò con voce ansimante, ma imperiosa, e un accento siciliano così marcato che Vittoria faticò a capire le parole. «Chi suonò il pianoforte?»
Calò un gelo immediato. Vittoria lanciò un’occhiata a Rosalia, che era sul punto di rispondere con un’espressione titubante. «Io» balbettò, a disagio. Si schiarì la gola. «Sono stata io.» Se Edoardo era arrabbiato, doveva prendersela con lei. Lui, però, non ebbe alcuna reazione apparente. Anzi, parve che all’improvviso la risposta non gli interessasse più. Poi le sue labbra esangui si aprirono in un sorriso simile a un ghigno.
«Vittoria» mormorò in un soffio. «Tu sei, picciridda.»[2] Il suo sguardo si spostò su Stefano, che era rimasto in piedi accanto a lei, fermo e zitto, e anche questa volta non mostrò alcuna emozione, come se non lo avesse visto davvero.
A qualche passo da loro, Rosalia si mosse appena. «Se non avete bisogno di niente, vi lascio soli.» Sembrava che non vedesse l’ora di andarsene.
Edoardo fece un breve cenno con il capo e lei rientrò in casa, rivolgendo un sorriso freddo a Vittoria e a Stefano mentre passava. I suoi passi veloci svanirono in fretta e sul gruppetto scese un silenzio opprimente come la cappa di calore che incombeva sul baglio. Sulla terrazza, fortunatamente, era mitigata dal venticello fresco e piacevole che arrivava dal mare e doveva essere per questo che il vecchio sedeva lì fuori. Vittoria guardò suo padre, sottraendosi all’esame attento di Edoardo, senza sapere che cosa fare: il suo viso era impassibile, privo di espressione dietro gli occhiali da sole. Il tempo passava, il nonno non le toglieva gli occhi di dosso e per un folle attimo pensò che le sarebbe sfuggita una risata isterica. Poi Edoardo ruppe il silenzio all’improvviso.
«Sei stata tu?» chiese a bruciapelo. Lei ci mise un attimo a capire che parlava ancora del pianoforte. Annuì brevemente, preoccupata che il nonno si agitasse di nuovo. Invece l’espressione tesa del suo viso si rilassò. «Allora non l’ho immaginato, stavolta.» Il suo sguardo si appannò, mentre si lasciava andare contro lo schienale imbottito della poltrona. Per un po’ parve che la sua mente fosse lontanissima da lì. Forse erano le medicine a fargli quell’effetto: Stefano le aveva spiegato che la cura che stava seguendo era molto pesante, anche se ormai era solo un palliativo. Poi, di colpo, Edoardo puntò di nuovo gli occhi su di lei. «Non pensavo che saresti venuta. Che ti avrei visto, prima di morire» disse, continuando a fissarla con uno sguardo acuto che la metteva a disagio. Era come se la trapassasse da parte a parte. «Pensavo di non avere più nemmeno questa speranza.»
L’amarezza che avvolgeva le sue parole la colpì. Strinse una mano a pugno, ricambiando quello sguardo azzurro che la trafiggeva, identico al suo, identico a quello di suo padre. Lo aveva ereditato da una persona che vedeva in quel momento per la prima volta. Prese aria.
«Era giusto farlo» rispose, alzando le spalle.
Sul volto stanco di Edoardo apparve un sorriso strano, obliquo, del tutto privo di gioia. Poi fu scosso da un sussulto e il sorriso si trasformò in una mezza risata, breve e secca, stroncata quasi subito da un forte colpo di tosse. Quando fu passato, il vecchio si raddrizzò di nuovo sulla poltrona, respirando affannosamente.
«Se non sapessi di chi sei figlia, non penserei che sei una Falconeri. In questa casa nessuno ha mai saputo cosa fosse giusto.»
Vittoria lanciò di nuovo un’occhiata a Stefano, dubbiosa. Non aveva capito l’osservazione del nonno, ma il volto di suo padre non le rivelò nulla. Stefano continuava a guardare Edoardo con quella che sembrava soltanto indifferenza. Il vecchio seguì la direzione del suo sguardo e sorrise di nuovo con aria sardonica verso suo figlio.
«Come stai?» gli chiese Stefano, il tono rigido, dopo una pausa che a Vittoria parve eterna.
Edoardo fece una smorfia. «Lo vedi, come sto. Da quanto tempo non ci incontriamo… Sei un uomo, ormai. Ma io so tutto di te, di quello che hai fatto. Il lavoro, il matrimonio… Vittoria…» aggiunse, dopo una brevissima esitazione. «Le voci corrono in fretta, qui. Si dice che sei il dirigente più giovane che la tua banca abbia mai avuto. Ti faccio i miei complimenti. Devi essere molto fiero di te stesso.»
Dalla sua posizione, Edoardo guardava Stefano dal basso, eppure aveva l’aria di un re che riceve uno dei suoi vassalli, e le sue parole in apparenza gentili erano permeate da un’ironia sottile, ma evidente. Vittoria aggrottò la fronte. In lui c’era qualcosa di contraddittorio che non riusciva a capire. Perché mai avrebbe dovuto ironizzare sui successi di Stefano? Lui, però, non sembrava toccato in alcun modo. Osservò suo padre in silenzio per un attimo, poi fece un mezzo sorriso, mostrando i denti bianchi e perfetti.
«Smettila» disse soltanto, tranquillo, come se fosse stanco di uno scherzo che andava avanti da troppo tempo. «Volevi lei, giusto?» Fece un cenno verso Vittoria. «Adesso l’hai vista.»
Lei provò l’istinto di ritrarsi quando suo padre la indicò, ma si trattenne. Non voleva peggiorare la situazione. Si sentì gelare sotto il sole implacabile di luglio. E si sentiva una stupida. Non si era aspettata un incontro affettuoso, aveva sempre saputo che i rapporti tra suo padre e suo nonno erano glaciali, eppure essere lì e vedere tutto con i suoi occhi era diverso. L’ostilità vibrava in mezzo a loro come una cosa viva e tangibile e lei aveva la sensazione che ogni singola parola avesse un altro significato che non conosceva. Era soltanto la spettatrice di una schermaglia carica di sottintesi e non le piaceva.
Edoardo emise un sospiro roco e pesante che parve costargli una grande fatica. «Non hai ancora smesso di odiarmi. Grazie di avermela portata… anche se forse lei mi odia quanto te, con tutto quello che le avrai raccontato.»
«No» rispose lei istintivamente. Scosse la testa. «Non ti conosco nemmeno.» Si accorse che suo padre la fissava, ma non ricambiò lo sguardo.
«Hai ragione» assentì Edoardo, chinando la testa, «ma non è colpa mia se andò così.»
Vittoria si morse il labbro inferiore. Non era del tutto d’accordo. Suo padre aveva chiuso i rapporti con Edoardo e anche con Enrico, il suo fratellastro, ma loro non lo avevano mai considerato una parte della famiglia ed Edoardo non si era mai preoccupato di fargli da padre. Non gli aveva mai dato neppure dei soldi e Stefano aveva sempre fatto tutto da solo, contando su se stesso e sulla sua brillante intelligenza. Fu sul punto di ribattere, poi però osservò il viso sfatto e grigiastro di suo nonno, la sofferenza che piegava i suoi tratti verso il basso e annacquava l’azzurro degli occhi e all’improvviso capì che non aveva senso recriminare il passato a qualcuno che forse aveva ancora solo qualche settimana di vita davanti a sé. Fece un respiro profondo.
«Adesso sono qui. Possiamo rimediare. Io… potrei tornare. Posso suonare un po’ il pianoforte, se… se ti fa piacere.» La voce le morì sull’ultima sillaba, travolta dalla sua stessa sorpresa. L’idea era nata ancora prima che se ne rendesse conto, le parole erano scivolate fuori prima che potesse riflettere. Lasciò passare qualche secondo, ma non sentì arrivare alcun pentimento. Forse poteva essere una buona idea, per conoscere un po’ il nonno e avere qualche risposta alle sue domande. E a lui avrebbe fatto sicuramente piacere. Dalla sua reazione, quando le aveva chiesto se era stata lei a suonare, le era sembrato che ci tenesse molto, a quel pianoforte. Accanto a lei sentì suo padre irrigidirsi di colpo.
«Dobbiamo partire domenica» disse subito, la voce calma, ma ferma.
Lei lo guardò. La stava fissando con espressione seria e concentrata, gli occhi che mandavano un unico messaggio, forte e chiaro: no. Vittoria cercò di riflettere velocemente. Forse quella era l’unica possibilità che aveva di raggiungere l’obiettivo per cui era arrivata fino a lì. Non poteva perderla.
«Ma… solo per qualche giorno. Non hai ancora delle ferie da recuperare?»
Stefano scosse la testa, piano. «Vittoria, no. Non è il caso.»
«Ma io voglio farlo. Cioè, mi piacerebbe. Non è per questo che sono qui, per conoscerlo?» Ebbe una lieve esitazione e lanciò un’occhiata rapida a Edoardo, ma non sembrava che li stesse ascoltando: aveva di nuovo un’espressione assente, persa in chissà quali pensieri o ricordi.
«Lo hai conosciuto» ribatté Stefano a denti stretti, la voce gelida. «Direi che è sufficiente.»
Vittoria lo guardò male. «Mi stai prendendo in giro? Non ci siamo detti neanche due parole!»
Lui scosse di nuovo la testa, senza cambiare espressione, e Vittoria pensò che forse non la stava nemmeno ascoltando, che sembrava aver chiuso la mente, rifiutando la possibilità di accontentarla.
«Per favore, papà.»
Stefano aveva il respiro teso e più veloce del normale. Il suo volto sembrava scolpito nella pietra tanto era impassibile, ma nei suoi occhi era ben visibile un’ombra di angoscia che ne oscurava la solita luminosità. A Vittoria venne in mente una superficie di cristallo che inizia pian piano a ricoprirsi di piccole crepe per poi esplodere e frantumarsi. Di colpo si sentì una stronza, mentre il senso di colpa si mescolava a quella scintilla di ribellione che la coglieva davanti ai silenzi dei suoi genitori sugli argomenti che non volevano affrontare con lei. Non voleva fare del male a suo padre, ma non era neppure disposta a cedere. Se avesse perso quell’occasione, avrebbe perso anche tutto il resto. Mentre Stefano la fissava con rabbia pensò che le avrebbe urlato contro, anche se era una cosa che suo padre non faceva mai. Invece emise un respiro brusco e profondo, come se gettasse fuori qualcosa.
«Bene» sbottò a bassa voce. «Bene.»
Si girò e rientrò in casa a passo fermo. Lei fece per scattargli dietro, ma qualcosa si strinse intorno al suo polso, bloccandola dov’era: la mano secca e rugosa di Edoardo, incredibilmente forte e salda per un uomo così anziano e malato. Edoardo cercò gli occhi di lei con i propri e quando Vittoria li incrociò vi scorse un’espressione vacua.
«Lo sapevo» bisbigliò, a voce così bassa che Vittoria riuscì appena a udirla. «Sapevo che mi avresti portato qualcosa di lei.»
Vittoria aggrottò la fronte, ma in quel momento non aveva il tempo di chiedere spiegazioni o riflettere su quelle parole, che forse non avevano neppure un senso. Forse Edoardo non sapeva cosa diceva, la mente annebbiata dalle medicine. Ricambiò la stretta della sua mano. «Tornerò domani, te lo prometto.»
Liberò le dita e corse dietro a suo padre, rifacendo il percorso a ritroso e sperando di ricordare la strada. Sulle scale incrociò una ragazza con una divisa da cameriera azzurro chiaro, un lampo di capelli scuri e un’espressione stupefatta, che si tirò da parte un istante prima di essere travolta.
«Scusa!» le gridò Vittoria, scendendo in fretta i gradini. Ripercorse il corridoio con le finestre che davano sul mare, la sala da pranzo, il salotto, varcò la portafinestra. Sulla terrazza strizzò gli occhi, colpiti all’improvviso dal sole: suo padre stava andando verso la macchina, sempre con passo fermo e risoluto.
«Papà!» chiamò, mentre scendeva la scala del ballatoio. A quel punto lui si fermò, a pochi passi dall’auto, e rimase di spalle ad aspettarla.
«Papà, non ti arrabbiare… Cerca di capire, ti prego» disse Vittoria, affannata, non appena lo ebbe raggiunto, nel mezzo del cortile. Stefano non si girò, ma lei sapeva che stava ascoltando. «Non posso andarmene così, non ha senso… Voglio soltanto conoscerlo un po’.»
«Non era questo il patto» ribatté lui, ancora prima che Vittoria finisse di parlare. Si voltò con un movimento brusco. «L’accordo era che saremmo venuti, ti avrebbe vista e ce ne saremmo andati. Fine. Niente altro» disse lentamente, scandendo le parole con tono rigido. «Ma Edoardo se ne frega, ottiene quello che vuole, come sempre. Starà anche per morire, ma non è cambiato di una virgola.»
«Non mi ha chiesto lui di tornare, sono stata io che…»
«Ti sbagli, Vittoria!» sbottò Stefano, esasperato. «Questo è quello che Edoardo ti fa credere, di essere tu che decidi, ma è lui che conduce il gioco. Manipola le persone, le sposta come le pedine su una scacchiera, lui…» Si interruppe di colpo, rimase per un istante a guardare Vittoria con il respiro affannoso, le labbra strette, il corpo teso per la rabbia, soffocando parole che non voleva o forse non poteva far uscire. Poi sembrò che una consapevolezza misteriosa lo investisse all’improvviso. Tirò un respiro profondo, scosse la testa e si passò le mani sul viso, come per recuperare il controllo. Ci fu un lungo silenzio. Chiazze di luce filtravano tra i rami degli alberi che ombreggiavano la tettoia delle auto, le cicale frinivano, un uccello lanciò un richiamo. Da qualche parte intorno al baglio, in lontananza, un cane abbaiava. Stefano abbassò le mani. «Tu non capisci» continuò, guardando Vittoria con aria triste.
«Fammelo capire, allora.»
Lui rimase in silenzio ancora per un po’. Distolse gli occhi da lei e prese a guardare un punto indefinito, come per stabilire una distanza, tracciare un confine. Poi parlò lentamente, con calma, scegliendo le parole a una a una. «Edoardo non è come sembra. So che lo vedi come un povero vecchio debole, malato e inoffensivo, ma non lo è. Credimi. Ti farà del male, se potrà» aggiunse con forza, puntando di nuovo gli occhi su di lei e Vittoria trasalì. «Ti farà del male per ferire me.»
Vittoria rimase ferma, come bloccata dov’era, mentre un’ansia sottile le riempiva velocemente lo stomaco. Prese un respiro esitante, chiedendosi se davvero suo padre non avesse ragione, se non si stesse infilando in qualcosa di più grande di lei. Serrò le labbra. Aveva percepito qualcosa di strano in Edoardo, sebbene fosse stata insieme a lui solo per qualche minuto, ma la reazione di suo padre non era un po’ esagerata? E se fosse andata via in quel momento non avrebbe mai potuto farsi la sua opinione sul nonno e scoprire qualcosa sul misterioso passato della sua famiglia. Era stufa di lasciare che fossero i suoi genitori a decidere per lei su quella faccenda e se c’era il rischio che Edoardo facesse lo stronzo, forse valeva la pena correrlo. Cosa poteva succedere, dopotutto? Forse suo padre era ancora ferito per il modo in cui Edoardo lo aveva rifiutato da bambino e proiettava su di lei il suo timore, ma Edoardo non la conosceva nemmeno: cosa poteva farle? Strofinò la punta della scarpa sul vialetto di pietra.
«Sputa anche fiamme dalle narici, per caso?»
Suo padre le lanciò un’occhiataccia. «Sono serio, Vittoria.»
Lei sospirò ancora. «Ok, allora… starò attenta. Promesso.»
Stefano la fissò per un attimo e Vittoria capì che non aveva intenzione di mollare. «È meglio che tu non abbia a che fare con queste persone. Fidati di me.».
«Io mi fido di te, vorrei solo… avere una possibilità.» Non era certa che lui avesse compreso il significato di quelle parole, anche se non avrebbe saputo cosa aggiungere senza dire troppo. Non poteva certo confessare il suo piano o si sarebbe ritrovata su un traghetto per Palermo prima di rendersene conto. Negli occhi di suo padre, però, comparve la consapevolezza, mescolata a una leggera malinconia.
«Lo so. Lo capisco. Ma lui rovinerà tutto» rispose Stefano con voce triste, come se avesse già capito che i suoi tentativi erano inutili e si preparasse ad affrontare qualcosa di spiacevole.
«Se scappi allora penserà davvero di poterlo fare. Non dargli questa soddisfazione. Dimostragli che sei più forte.»
Lui appariva sempre più triste. «Ma non è così» mormorò. Un angolo della sua bocca si sollevò in una specie di smorfia. «Io non sono il più forte. Forse… forse c’è stato un momento in cui lo ero, ma adesso, in un certo senso… mi sento di nuovo un bambino.»
Vittoria lo studiò in silenzio per un po’. «Mi dispiace, papà» disse poi, a voce molto bassa. Non sapeva cosa altro dire. Quello non era il solito atteggiamento di suo padre, per niente: lui era sempre coraggioso, forte e sfrontato e accoglieva le sfide con un sorriso, ma in quel momento sembrava che qualcosa dentro di lui si fosse sgonfiato. Se era l’effetto che gli faceva Edoardo, allora Vittoria capiva perché gli stesse alla larga.
Stefano scosse la testa. «È questo posto… è pieno di fantasmi.» Percorse con lo sguardo cupo il baglio e il cortile, inondati dal sole e immersi in una quiete immobile, come se scorgesse davvero delle presenze affacciate fra le tende bianche gonfiate da una folata di vento improvvisa. Vittoria rabbrividì. «Pensavo che ormai anche Edoardo fosse un fantasma del passato, ma la verità è che il passato può sempre tornare.»
«Non è meglio affrontarlo, allora?» chiese Vittoria, sollevando le sopracciglia. «Sarebbe poi così terribile?»

Suo padre guardò lontano ancora per un istante, poi spostò gli occhi su di lei. Ci fu una pausa silenziosa, mentre il cane continuava ad abbaiare, da qualche parte nella campagna intorno alla casa. «Non lo so. Preferisco non scoprirlo.»

 



[1] Abituarsi.

[2] Piccolina.

   
 
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