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Autore: whitemushroom    13/03/2024    1 recensioni
Un investigatore della Santa Sede indaga sulla scomparsa di un potente magus, muovendosi in una Roma distorta, più interessata a proteggere i propri segreti che a rivelarli. In un' isola poco lontana Njal, un giovane turista, perde una persona di a lui cara e scopre che qualcosa, nel suo corpo, inizia a non comportarsi come dovrebbe.
Il primo ha dedicato la sua intera vita alla caccia di uomini e creature sovrannaturali, il secondo si ritrova suo malgrado in un universo di cui nemmeno conosceva l'esistenza; eppure entrambi rincorrono fantasmi presenti e passati sulla scia di qualcuno che, come un pittore, lascia la sua Firma su degli eventi di cui è impossibile rimanere soltanto passivi spettatori.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stanza in cui aprì gli occhi non era molto grande. Delle tapparelle di legno dalla vernice verde scura ormai incrostata erano accostate, e il grosso della luce veniva da due lampade attaccate al soffitto che puntualmente sembravano perdere corrente. Nell'aria c'era qualcosa di disgustoso. Il primo istinto di Njal fu quello di portarsi le mani al viso, come a contrastare una fastidiosa sensazione di bruciore. Era coperto da un lenzuolo leggero, e nel muoversi lo buttò ai piedi del letto su cui chiaramente era stato portato.
Sentì dei passi, e sulla sua destra notò una donna di mezza età, vestita da infermiera, che dopo avergli lanciato un'occhiata si allontanò verso la porta della stanza e disse qualcosa in italiano. Il ragazzo cercò di voltarsi e capire chi altro fosse presente, ma per muovere il collo sentì una fitta che lo costrinse a rimettersi in posizione supina.
Strizzò gli occhi, sforzandosi di capire dove si trovasse; l'ultima cosa che ricordasse era l'uomo dalla strana maschera di metallo, la sua forza innaturale, e soprattutto… “Astrid!” mormorò.
Si accorse di non avere fiato in gola. La voce gli uscì debole, meno di un sussurro. Come se non bevesse da giorni.
Cercò di mettersi a sedere, ma al primo movimento si ritrovò del sapore strano in bocca e tentò di sputarlo.
Sangue.
A giudicare dalla bacinella accanto a lui, non doveva essere il primo attacco.
Gli occhi gli si riempirono di lacrime prima di liberare un secondo, più potente, espettorato. Se non fosse stato per la debolezza, l'odore del sangue e di qualunque schifezza chimica ci fosse nella stanza lo avrebbero fatto rimettere una terza volta. Si portò la mano nella tasca del pantalone e cercare il cellulare, ma non trovò nulla.
“Ehi”.
L'uomo che lo apostrofò arrivò dalla porta, proprio da dove era sparita l'infermiera. Non indossava un camice da dottore, ma la divisa di un uomo delle forze dell'ordine. Njal provò a sollevarsi su un gomito, infastidito dalla figura, ma quello con un gesto gli impose di rimanere sdraiato.
“Come stai?”
Il suo inglese era stentato. Nonostante fosse a pezzi, a Njal non sfuggì la fatica dell'uomo nell’esprimersi. “Dov'è Astrid?” si limitò a chiedergli a sua volta, soppesando il fastidio che sentiva lungo tutto il corpo.
“Di chi stai parlando?”
“La mia ragazza. Era con me”.
Il poliziotto emise un sospiro. Prese il cellulare, chiamò qualcuno e riattaccò dopo nemmeno dieci secondi. Aprì un armadietto dall'altra parte della stanza, e Njal riconobbe le sue cose: il cellulare, le chiavi del B&B, il portafogli, la sciarpa e, ovviamente, il portadocumenti. L'uomo prese l'ultimo oggetto e ne estrasse la carta di identità. “Sei Njal Njaldsson?” “Sì”.
“Nato a Ta…”
“È in Islanda. E comunque sì, sono io” disse. Pochi giorni lontano da casa e aveva visto tutti gli italiani impazzire davanti ai nomi del suo paese. Cosa molto curiosa, visto che Njal poteva dire altrettanto delle loro strade o delle loro chiese. “Che volete? Perché sono qui?”
“Devo farti qualche domanda” fece il poliziotto, sedendosi sul letto vicino al suo e prendendo nota.
“Ricordi dove ti trovavi la notte dell'otto settembre?”
“Non ho fatto nulla di male!”
“Non aggravare la tua posizione, ragazzo. E sdraiati, che non hai una bella cera. Devi solo rispondere a qualche domanda e poi potrai continuare a dormire”. “Non voglio dormire”.
Tutto questo non gli piaceva affatto. Sentiva ancora quel bruciore fastidioso, stavolta irradiato su tutta la pelle, ma allo stesso tempo provava un grandissimo freddo ai piedi. Cercò di arricciare le dita, ma era come se tutti i movimenti fossero svaniti. O, ancora, fossero “strani”.
Njal non era mai stato davvero male. A parte quando si era slogato la caviglia qualche anno prima, durante un allenamento, l'unica volta in cui era stato costretto a letto era stata una brutta influenza intestinale quando era piccolo, complice del pesce andato a male; era stato quasi un mese oscillante tra il letto ed il bagno, aveva perso oltre dieci chili, ma nonostante tutto la sensazione che provava in quel momento era ben peggiore di allora.
Era come se il suo corpo volesse vomitarsi per intero.
Lo sguardo del poliziotto, l'ospedale e gli odori non stavano contribuendo. “Posso chiamare i miei genitori?”
“Per prassi dobbiamo contattarli noi, ma abbiamo guardato nel telefono e non…”
Njal sbuffò di nuovo. Se c'era una cosa per cui era arrivato una volta a litigare con Astrid era stato quando aveva preteso di leggere le sue chat con gli amici. Figuriamoci un poliziotto. Meno male che la sua lingua non era così conosciuta. “Ve lo dico io qual è. Ma Astrid dov'è?”
“La ragazza che hai nominato prima? Non ne ho idea. Se mi dai il contatto del posto dove alloggiate facciamo una telefonata, magari è corsa lì dopo quello che è successo…”
Doveva aver fatto un'espressione assurda, perché tutto d'un tratto il poliziotto cambiò faccia, corrucciando le sopracciglia e mettendo da parte carta e penna. “Ragazzo, hai fatto un casino ieri sera.
I dottori dicono che non eri ubriaco…”
“Non ho bevuto!” ringhiò Njal, mettendosi di nuovo a sedere. Sentì risalire altro sangue, ma lo inghiottì. Nel limite del possibile, cercò di far vedere all'uomo la sua espressione più truce. “Sono uno sportivo, io! Il coach mi ha vietato di ubriacarmi nella maniera più assoluta!”
“E allora, ragazzo, ti chiedo di fornirmi una spiegazione più che sufficiente al fatto che ieri sera ti hanno visto correre durante la festa a Ponte, gridare e insultare in modo sconnesso, e quando un passante ha cercato di calmarti sai cosa è successo?” disse, alzando il tono della voce “Lo hai aggredito e lo hai spinto giù per gli scogli. Non hai idea in che stato fosse. Gli uomini del pronto soccorso non si sono nemmeno pronunciati. Hai idea di quello che vuol dire, Njal?” Il ragazzo si ributtò sul letto e strizzò gli occhi, alla ricerca di ciò non riusciva chiaramente ad afferrare. La folla la ricordava, ma era connessa all'immagine di Astrid, al profumo della friggitoria, alla sensazione di non respirare per tutte le persone intorno a lui. Ricordava benissimo gli scogli, l'attesa per i fuochi artificio, l'uomo…
“La persona che ho spinto… era un signore grosso? Alto? Con una mezza maschera sulla faccia?”
“No” sospirò il poliziotto “Era un turista. Magro, normale…”
Nulla. Si toccò la base del collo, che in quel momento sembrava pulsare come se fosse infetta, alla disperata ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo. Lui e Astrid si erano allontanati da quella folla, e gli scogli su cui erano saliti erano così bassi che non avrebbe potuto far male a qualcuno nemmeno volendo… e di certo non aveva bevuto. Ne era sicuro, sicurissimo.
Doveva essere tutto un incubo. Tutto, dall’aggressione sulla spiaggia a quel poliziotto.
Strinse i denti e con un colpo di reni si mise seduto sul bordo del letto, costringendosi ad appoggiare i piedi a terra. Formicolavano in maniera incredibile e tutto intorno a lui ondeggiava, ma si concentrò sulla sensazione fredda del pavimento del pronto soccorso. Guardò verso la bacinella, e si stupì di quanto forte fosse l'odore del suo stesso sangue da poterlo sentire anche a quella distanza. Così come era incredibilmente forte l'odore dei disinfettanti, ed anche quello del dopobarba dell'uomo di fronte a lui. L'insieme di tutto gli fece risalire dell'acido proprio alla base della lingua, mista alla sensazione di una grandissima fame.
Fece forza sulle punte, proprio come faceva per slanciarsi sui pattini, e si alzò in piedi.
Di solito, quando aveva degli incubi, funzionava. Magari doveva solo andare in bagno, forse stava così male perché il fritto non era stato cucinato bene e doveva solo svegliarsi, trascinarsi in bagno, rimettere e sarebbe passato tutto. Purtroppo per lui, la mascella squadrata e gli occhi piccoli dell'uomo vicino a lui non scomparvero affatto, anzi, la figura in divisa divenne ancora più nitida e gli venne incontro, allungando le braccia nella sua direzione. Adesso che si trovavano entrambi in piedi, Njal si accorse che l'altro lo superava di oltre una testa. Si sentì afferrare per la spalla, e d'istinto si allontanò. Fece un passo di lato, ancora tutto intorpidito e timoroso del proprio equilibrio, e questo sembrò prendere l'uomo di sorpresa. Gli tornò ancora in mente, con maggiore intensità, la figura dell'uomo della spiaggia ed i suoi occhi dal colore intenso, imponente come il poliziotto davanti a lui; forse per il ricordo, forse per paura, ma il suo corpo reagì di scatto, spingendo indietro l'altro. Per un attimo si ritrovò ancora una volta in spiaggia, con l'acqua del mare fino alle caviglie, sotto il cielo nero costellato di stelle e delle polveri dei fuochi d'artificio. Aveva ancora nelle radici l'odore del sale mescolato a tutta la sua frustrazione.
L'uomo di legge era più alto e più robusto di lui, ma la spinta doveva averlo rovinato il suo equilibrio, perché cadde all’indietro come una persona di tre taglie inferiori. Rovinò su un comodino e poi sul letto che Njal aveva occupato fino a pochi minuti prima, rovesciando il contenuto della bacinella per terra.
Il ragazzo rimase impietrito, la testa ancora frastornata; il poliziotto lanciò un’imprecazione nella sua lingua e fece per tirarsi in piedi, e le gambe insicure e traballanti di Njal fecero il resto. Le mani scattarono sul letto a fianco, dove il poliziotto aveva esposto i suoi oggetti, e afferrò in un istante tutto quello che c'era. Il cuore e lo stomaco presero a battere insieme, e si lanciò verso la porta della stanza con la voce del poliziotto aggredito che senza dubbio gli stava ordinando di fermarsi.
Sapeva solo che doveva trattarsi di un incubo. Doveva, doveva esserlo per forza.
Prese a correre nel corridoio del pronto soccorso, incurante di tutto ; tra i pensieri sconnessi che battevano come martelli, l'unica idea riusciva a seguire era quella di allontanarsi da lì, trovare un posto in cui stare da solo, fare mente locale e chiamare subito i suoi genitori. Strinse tra le dita il telefono, concentrandosi solo su mettere una gamba avanti. La base del collo gli faceva male più di ogni altra parte, e ad ogni passo sembrava estendersi come la puntura di un insetto. Sapeva che la gente lo guardava, che qualcuno avrebbe provato a chiamare qualcuno, sapeva solo che se il poliziotto fosse tornato lo avrebbe portato in prigione.
Non poteva aver spinto un uomo dagli scogli. Non poteva.
Ma non poteva nemmeno aver spinto un uomo più grande di lui, e invece era in corsa proprio per quello.
Vide delle scale e scese.
Fu un solo piano, ma abbastanza per fargli aumentare le vertigini; un giovane infermiere fece il gesto di volergli correre incontro, e gli dovette scoccare lo sguardo più infastidito che trovava. Da lontano vide una porta a vetri enorme che dava verso un cortile con delle autombulanze parcheggiate. Si costrinse a rallentare il fiato per dare meno nell'occhio; ordinò al proprio stomaco di pazientare, mandando giù saliva e sangue ormai trasformati in un'unica massa, unico obiettivo di entrare nel cortile, mescolarsi alla folla e sparire per le strade di Ischia. Era ancora pomeriggio, ma in quell'isola caotica sarebbe stato semplice dileguarsi. Poi… Poi ci avrebbe pensato.
Forse.
Si buttò in un gruppo di gente, notando che in quel marasma in pochi avevano fatto caso a lui. Doveva solo uscire.
Nell'esatto momento in cui lasciò l'edificio, mettendo piede all'esterno, il mondo parve diventare bianco. Tutto esplose come uno schizzo di luce, e gli occhi presero a bruciare. Si portò entrambe le mani in faccia, cercando di non gridare, ma le dita ed il dorso delle mani scoppiarono di dolore e si piegò in due.
Era pronto a giurare che tutta la pelle stesse andando a fuoco. Ma non solo la pelle: i muscoli gli occhi, qualunque cosa stesse succedendo gli stava entrando nelle ossa. La gente intorno a lui si allontanò, qualcuno andò a chiamare soccorsi, ma Njal si contorse, avvicinando una mano alla guancia anche solo per strappare la pelle e farla smettere. Il reflusso si bloccò a metà della gola, cercò di rimettersi in piedi, ma le gambe non rispondevano più. La base del collo sembrava adesso una collana di spine, qualcosa che avrebbe voluto soltanto prendere e strapparsi di dosso.
Non riusciva più a vedere.
Intuì che delle figure, forse degli infermieri, erano corsi verso di lui, ma questo non riuscì a dargli aiuto.
Tentò almeno di rimettersi in piedi, di immaginare la fuga, ma gli parve di esplodere.
Poi sentì una mano afferrare una delle sue, e qualcuno lo tirò indietro con forza.
Gli parve un tocco meraviglioso, come una boccata d'acqua dopo cinque giorni nel deserto.
“Ragazzo, devi tornare subito dentro!”
  
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