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Autore: __0Chia0__    02/04/2024    1 recensioni
Shiho Miyano: una ragazza qualsiasi.
Sherry: una scienziata di alto livello dell'Organizzazione Karasuma.
Shiho Miyano è Sherry, Sherry è Shiho Miyano, ma solo in parte. Quanto di Sherry c'è in Shiho e quanto di Shiho è presente nella sua maschera? Dettagli, piccole sfaccettature, o qualcosa di più?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Akemi Miyano, Gin | Coppie: Shiho Miyano/Ai Haibara
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Capitolo IV

Lampo di cuore in campo di mente

 

Shiho incontrò Whisky, per la prima volta, in laboratorio. A pensarci, le sembrava che quella donna non esistesse al di fuori di lì. Le occasioni in cui la vide altrove si potevano contare sulle dita di una mano. Lavorava per vivere (o, meglio, per sopravvivere, in ogni senso) e viveva per lavorare (perché non può essere altrimenti, se la tua vita dipende da quello). Per quanto si sapesse, non aveva legami con nessuno. Era una donna altera, piuttosto incostante, di certo dotata di un notevole intuito. Aveva concluso da un anno quello che si può definire il “grande capolavoro” di uno scienziato dell’Organizzazione ed era stata dirottata sul progetto denominato, comunemente, Silver Bullet, un po’ perché la ricerca era ferma da anni, un po’ a titolo di onorificenza e un po’ perché andava tenuta impegnata. A dir la verità, Rum non riteneva che fosse adatta a quel compito, ma ben poco gli importava della sorte di Whisky. Era con una certa curiosità sadica e malsana che si chiedeva se chi causa morte e sofferenza sia in grado di favorire la vita. Nonostante ciò, una donna, con le sue capacità, avrebbe potuto vedersela da sola, pure con un compito poco adatto a lei. Loro, di sfide, ne affrontavano tutti i giorni -la loro vita era in pericolo a ogni missione. Quegli scienziati, nella sicurezza del loro laboratorio, erano visti di malocchio da tutti.

L'addestramento di Whisky non la rendeva abbastanza degna, sufficientemente pura, per l'alto progetto che conduceva. Per questo, Ano kata aveva destinato Shiho a quel dipartimento. Lei, comunque, non poteva immaginare che ci fosse un motivo preciso, al di là dei suoi studi.

Atterrata all’aeroporto di Narita, la ragazzina aveva trovato, ad aspettarla, una donna con un cappello nero, a tesa larga, che le copriva, completamente, gli occhi. Shiho, recuperato il suo bagaglio, l'aveva oltrepassata, dirigendosi verso le uscite. Sul tragitto, mentre osservava, distratta, il cielo azzurro, fuori dalle finestre, lasciò cadere, all'apparenza, per sbaglio, una cartelletta di pelle, estraendola dalla borsa. Piagandosi sulle ginocchia, per raccoglierla, disse, in inglese, con voce sufficientemente alta da farsi sentire, nei dintorni più prossimi: «Oh, che sciocca, devo fare più attenzione».

Era un segnale.

Come riprese a camminare, sentì un periodico ticchettio di décolleté dietro di sé. Tutto andava secondo i piani. Fermandosi, appena fuori dall'edificio, per allacciarsi una stringa, si lasciò superare. Shiho prese un respiro profondo, guardandosi attorno. L'emozione era stata tanta, nei giorni precedenti alla sua partenza. Avrebbe dovuto abituarsi a incontrare persone della sua stessa etnia, adattarsi a un clima diverso, a una lingua che non usava quasi mai per parlare e a tradizioni nuove, che avrebbero dovuto essere già le sue, ma le erano, perlopiù, estranee. Ray, solo due sere prima, per augurarle un buon futuro, le aveva offerto la sua prima birra. Non le era piaciuta. Il viaggio in aereo, poi, le era sembrato molto più lungo di quanto fosse stato in realtà. Il cuore le batteva violento nel petto e lo sguardo, rivolto, per ogni minuto, fuori dal finestrino, era inquieto.

Rialzandosi da terra, sentì scivolare via parte della sua ansia. Il primo passo era fatto. Aggirò una folla di turisti e tenne il passo dietro la donna dell'Organizzazione. Quando questa aprì la portiera della sua auto, le indicò con lo sguardo un'altra macchina, nera, a pochi passi di distanza. Arrivata lì, un uomo mise la sua valigia nel bagagliaio e le fece cenno di salire dietro. “Come quando andavo all'università”, pensò, per calmarsi. A un semaforo rosso, l'autista le porse una busta con il suo nome. Le indicazioni erano brevi e concise. Doveva presentarsi, tre giorni dopo, in un laboratorio farmaceutico di periferia. In allegato, era riportato l'elenco dei pullman della zona. Vista la sua tenera età, sarebbe stata facilmente scambiata per una studentessa. “Oh, certo. Non corro più il rischio di essere presa a pugni perché sono giapponese”.

 

Shiho si fermò davanti all'ufficio e attese. Il suo orologio da polso segnava le sette e cinquanta: era in anticipo di dieci minuti. Nervosa, si lisciò il tessuto della gonna a pieghe e aggiustò il cappotto pesante sulle spalle.

All’entrata, si era rivolta a una donna grassoccia e scorbutica della reception, la quale, senza rivolgerle alcuna cortesia, l’aveva spedita in un corridoio qualsiasi, ma deserto, dopo aver azionato un pannello, permettendo il passaggio. La porta che le aveva indicato presentava una targhetta, con scritto “Whisky”. Shiho conosceva abbastanza l’Organizzazione da sapere che iniziare la propria carriera sotto un nome in codice era già di per sé un riconoscimento importante. In altre parole, aveva tredici anni e un enorme macigno sulle spalle, tanto da sfidare Atlante* in un prova di resistenza. Malgrado ciò, riusciva ad allontanare la mente a sufficienza, per mantenere un contegno dignitoso, forse, grazie a una pastiglietta di incoraggiamento. “Le prime impressioni fanno tutto,” si ripeteva di continuo.

Stava per iniziare a spazientirsi, quando un ritmico ticchettio (causato da tacchi bassi, larghi: tipici delle donne in carriera che, pur non rinunciando alla loro femminilità, vogliono restare comode) la distrasse dalla monotonia. A produrlo era una donna alta, molto magra, dal viso allungato e scarno. Una cascata di capelli neri le oscurava gli occhi scuri, contornati da diverse rughe di espressione. La bocca era piegata in un broncio che la abbruttiva, evidenziando le pieghe sul viso. Avanzava in modo sicuro, con uno sguardo scrutatore, quasi feroce, accusatorio, capace di mettere a disagio dopo una singola occhiata. «Shiho Miyano?»

L’interessata annuì, raddrizzando le spalle e alzando il mento, intenzionata ad apparire sicura. Solo la sua superiore avrebbe potuto pronunciare il suo nome con tanta sicurezza, trovandola lì.

Whisky la raggirò, attenta a starle molto lontana. «Bene, iniziamo subito. Il tempo stringe e detesto avere a che fare con i novellini».

Shiho represse l’ondata di fastidio. Sapeva che un nome in codice non l’avrebbe trattata in modo gentile, eppure il distacco dai tutor universitari, che, fin dal primo incontro, avevano apprezzato le sue qualità e il suo atteggiamento maturo, trattandola come tutti gli altri sottoposti adulti, era evidente e irritante. Quando la donna attivò la porta scorrevole del suo ufficio, inserendo un codice e passando un badge nero, Shiho la seguì, in fretta, prima di restare chiusa fuori. Whisky stava appendendo la giacca e indossando un camice bianco. L’interno era un vero e proprio laboratorio privato. La ragazzina osservò, curiosa, le varie provette, divise secondo un ordine preciso, etichettate con cura. Gli strumenti sembravano quasi nuovi, pulitissimi, come i numerosi scaffali, ricolmi di documenti, libri e raccoglitori.

Whisky, truce, le si rivolse con tono monocorde. «Il mio gruppo di ricerca lavora al progetto denominato SBB938. Se ti dimostrerai all’altezza, potrai entrare a farne parte. Le discipline di base sono le tecnologie biomediche, la biologia molecolare e l’ingegneria genetica. Un approccio multidisciplinare è inevitabile, vista la portata della nostra ricerca. Ci sono diverse sezioni, con compiti specifici, che, al bisogno, possono lavorare sullo stesso oggetto. Abbiamo una divisione di ricerca e innovazione, ovvero quella in cui rientrano le menti più brillanti, a sua volta distinta in altri campi minori; ce ne sono altre dedite alla raccolta di dati, specialmente quelli riguardanti effetti collaterali su soggetti sani, oppure all’interferenza dell’SBB938 con altri farmaci, allergie e patologie specifiche; esiste, inoltre, una ridotta componente che studia un modo perché il nostro trattamento possa curare questi disturbi, seppur non sempre sia possibile integrare questi progetti, per cui vengono dirottati a terzi. Molto importante è la sezione tossicologica, che, attualmente, è stata estesa, per verificare l’affidabilità dell’ultimo prototipo. Io, chiaramente, dirigo questi rami, sovrintendendo, in particolar modo, la divisione dei ricercatori, i quali, come avrai capito, sono i membri più importanti, di cui bisogna testare la fedeltà con attenzione. Ano kata ha richiesto il tuo inserimento tra queste menti. Considerati una privilegiata, Miyano, perché, per me, non saresti nemmeno una degna pulisci provette, nel mio progetto».

Shiho sentì le mani prudere. Poteva aspettarselo, anche se nemmeno i suoi insegnanti delle superiori la avevano tanto sottovalutata, per la sua età all’anagrafe. Di solito, la guardavano a malapena.

La donna riprese, non notando la reazione della ragazzina o, semplicemente, ignorandola. «Il nepotismo in questa classe è poco rilevante, Miyano. Non ci saranno favoritismi, né aiuti di alcun tipo. Il nostro livello non accetta esitazioni né errori, richiedo la massima precisione da parte di tutti. Ti è chiaro?»

La tredicenne strinse le labbra, sibilando, tra i denti: «Non ho capito cosa riguarda la ricerca, precisamente».

Whisky la guardò dall’alto al basso. «Principalmente, il ringiovanimento. Verrai informata in seguito dei dettagli».

Shiho impallidì. Il suo masso era più gravoso di quanto pensasse. Con scarso successo, tentò di nascondere il suo stupore. Era davvero possibile andare contro le leggi del tempo? Le pareva… non impossibile, ma strano. Soprattutto, le sembrava sorprendente essere assegnata a un settore così rilevante, quando era ancora alle prime armi. Si aspettavano così tanto da lei o era solo un modo per valutarla? All’improvviso, capiva perché Whisky facesse tanto la sostenuta. Teneva le redini a un cavallo invisibile.

Le parole successive erano trasportate come dal vento. «Gli orari sono poco rilevanti, qui. Ognuno di noi deve essere pronto a sacrificare tutto per l'Organizzazione, senza esitazioni e senza rimpianti. Non c'è spazio per i “se” e per i “ma”. Non voglio sentire dubbi o domande. Ciò che conta è l'obbedienza assoluta e la dedizione totale. La fedeltà e la lealtà devono essere i primi valori in ognuno di noi. Capito?»

Shiho fece un cenno d’assenso. Quelle storielle le venivano propinate da sempre e non ci aveva mai dato grande peso. Di rado si era trovata in contrasto con loro, ribellarsi non le era passato nemmeno per l’anticamera del cervello.

La donna la scrutò per qualche secondo, con occhi inquisitori, per, poi, porre l'attenzione su un'alta pila di fogli sul bancone. Li indicò con un dito. «Questi sono per te. Sono tutti i progressi fatti finora nella ricerca. Studiali entro cinque giorni. Voglio un rapporto, quando avrai finito. Puoi andare».

 

Sobbarcata da una montagna di fogli e fascicoli, una tredicenne minuta e troppo giovane per quei luoghi raggiunse, barcollando, una postazione di lavoro libera. Si liberò del peso con un sospiro. Girò la testa a destra e sinistra, sentendo tutti gli occhi su di sé, ma senza trovare nessuno voltato verso di lei. Decise di ignorare quella sensazione fastidiosa, con cui avrebbe fatto i conti in un altro momento. Stando in piedi, divise le carte per datazione. I primi documenti erano redatti da persone che non conosceva. Li allontanò, prestandogli poca attenzione. La pila più alta risaliva a circa quindici anni prima. Con fretta malcelata, cercò la fine del primo rapporto periodico, firmato da due scienziati. I loro nomi le erano ben noti, eppure le loro voci, il loro profumo, persino i loro volti le erano sconosciuti. Qualsiasi cosa li riguardasse le era estranea. Non aveva radici, perché non aveva genitori, né una vera e propria famiglia.

Passò i polpastrelli sulle loro firme. Elena Miyano aveva una scrittura elegante, ma con pochi fronzoli, invece Atsushi scriveva in stampatello minuscolo, in modo molto piccolo.

Era solo una fotocopia.

 

Shiho si accomodò su un tavolino traballante. Era tardi e solo una decina di sedie erano occupate. Come primo giorno, stava andando bene. Più o meno. 

Facendo la coda, un ragazzo del laboratorio le aveva consigliato caldamente di evitare il ramen e di condire il riso con delle salse in bustine monouso e delle verdure. Lo aveva ringraziato e, un pelo impacciata, aveva fatto come consigliato. Dopotutto, non era male, anche se le bacchette non erano il suo forte. Sfortunatamente, forchette e coltello non sembravano contemplati. 

La ragazzina, da lontano, poteva osservare, durante il pasto, gli altri membri del suo team, disseminati, da soli o in gruppi da due o tre, per l'intera sala. Erano quasi tutti uomini maturi, tanto simili tra loro da poter essere confusi. Sembrava quasi che mirassero proprio a mimetizzarsi. C'erano solo altre due donne, oltre alla nuova arrivata: la più lontana era una trentenne, giovane, ma con l'alterigia e l'acidità di chi è costretto a lavorare con degli incapaci; l'altra scienziata, invece, era più grande: aveva, probabilmente, una cinquantina d'anni, anche se ne dimostrava, almeno, una decina in più. Quando Shiho posò lo sguardo su di lei, questa le rivolse un sottile sorriso. Imbarazzata, la piccola ricambiò, voltandosi in fretta. Era il primo gesto di gentilezza ricevuto da diversi giorni, constatò, con il cuore pesante. Con la coda dell'occhio, notò il ragazzo che, prima, le aveva consigliato il riso. Dopo di lei, doveva essere la recluta più giovane. Al terzo posto, c'era la scienziata acida.

Shiho sobbalzò, quando un vassoio si posò davanti a lei. Sollevando il naso dal piatto, trovò una zazzera scura e due nocciola occhi a mandorla sorridenti. «Non volevo spaventarti. Posso?»

Tentando di nascondere lo stupore, disse, in fretta: «Oh, sì, certo».

Il ragazzo di poco prima le sorrise, tendendo una mano. «Ciao. Tu devi essere la nuova arrivata. Piacere, Daisuke Ito».

Shiho ricambiò la sua stretta, attonita. «Shiho Miyano».

Lui si sedette, annuendo cordiale. «Allora, sei tu la nuova arrivata. Non pensavo che fossi così giovane, quando ci hanno avvisato del tuo arrivo! Devi sentirti almeno un po' disorientata. Se hai bisogno di qualche informazione, chiedimi pure».

Shiho sorrise appena. «Sì, effettivamente, è tutto piuttosto… strano, direi. Solo pochi giorni fa stavo pensando alla discussione di laurea e, adesso, eccomi qui», finì, indicando la sala attorno a sé.

La ragazza riuscì a scorgere un velo di sconcerto, sul volto di Ito. Dopo un colpetto di tosse, sembrava tornato alla normalità. «Caspita, posso immaginare. Iniziare la carriera sotto Whisky, partendo da zero… dev'essere dura».

Shiho sollevò le sopracciglia, curiosa. Le pareva sincero, parlando. «Com’è Whisky? Non ho capito molto, su di lei, dal nostro primo incontro, oltre alla ferrea disciplina che è richiesta da parte dei suoi sottoposti».

Daisuke le fece un occhiolino, prendendo un boccone di riso. «La quasi totalità dei capi di ricerca è uomo. Niente di personale, sono, semplicemente, più meritevoli. E longevi. Whisky è l'unica donna, per ora. Deve dimostrare di essere degna della sua posizione, davanti ai superiori, anche perché tenta di ricostruire il percorso di un progetto sepolto da più di dieci anni. Da quando i tuoi genitori sono morti, per la precisione», fece una smorfia, mordendo una zucchina. «Non stiamo facendo molti passi avanti, ultimamente. Diciamo pure che la ricerca è ferma. Totalmente. Da quasi tre mesi. Whisky è, in ogni caso, un nome in codice. Non chiedermi come se lo sia guadagnato, non ne ho la più pallida idea. Alcuni bisbigliano di esperimenti sullo scioglimento nell'acido. Roba tanto schifosa da preferire restare un pesciolino invisibile. Anche se, sinceramente, in generale, non so se aspirare a tanto, Miyano. Io, di sicuro, non ho speranze, parlo più per te», le rivolse uno sguardo ammiccante, sporgendosi in avanti con il busto.

Shiho lo squadrò dall'alto in basso, dubbiosa.

«Capirai presto che l'Organizzazione è muta solo all'apparenza. Pretende rigore. Disciplina. Sottomissione, talvolta. Fedeltà e lealtà, fino al midollo. Sacrificio. Discrezione. Silenzio. Quest'ultimo, tuttavia… diciamo che una legge non scritta permette di rompere tale dovere, purché ciò avvenga senza attirare troppa attenzione. E, sai, mi sono trovato a discutere di una ragazzina portentosa, capace di fare grandi cose… beh, perché no, capace di concludere ciò che venne iniziato quarantacinque anni fa», storse il naso, incrociando le mani. «Figlia di scienziati illustri. Con un QI mai visto negli ultimi tempi. Ho pensato che potrebbe, con facilità, svegliarsi una mattina e decidere di prendere le redini del nostro gruppo. Chissà, magari, facendo qualche ammazzatina sottobanco o nascondendo qualche risultato. Ho riflettuto che, in questo remoto caso, non accetterei una bambina a comandarmi e non mi importerebbe molto di sfidare la gerarchia e pagarne le conseguenze».

Shiho non batté ciglio. «Non mi interessa ottenere un nome in codice e neppure essere a capo dei ricercatori. Voglio solo scoprire. Nient'altro. È questo il mio lavoro».

Lui sorrise, riprendendo una postura colloquiale. «Meglio così. Sembri simpatica, sarebbe un peccato non aver più nessuno con cui parlare. Quei vecchi bastardi non sono molto loquaci», disse, indicandoli con gli occhi. «Meno di te, perlomeno. Tornando al discorso originale... Whisky deve presentare tra cinque giorni il rapporto bisettimanale -che prevedo davvero scarno- e fra venti giorni si terrà la riunione trimestrale con il supervisore del progetto, che non è affatto facile da accontentare. Non è al pari del vecchio Gin, da quanto dicono in giro, ma è il numero tre dell'Organizzazione, qualcosa dovrà saper fare. Anzi, proprio per questa disonorevole fama, potrebbe essere ancor più intransigente. Alla scorsa riunione periodica, Whisky aveva un fascicolo abbastanza corposo, seppur non al pari dei precedenti. Questa volta, non ha nulla in mano. Letteralmente. Sarebbe un caso senza precedenti. Non posso immaginare le ripercussioni. Quindi, ha sviluppato un delirio di onnipotenza alquanto fuori luogo. Pensa che, così, potrà spaventarci e farci ottenere risultati. Il che è molto stupido, perché saremo noi a subire le peggiori umiliazioni per la sua incompetenza».

La ragazzina, essendosi ormai ripresa dall’accusa dello scienziato, si portò le bacchette alla bocca, tentando di nascondere la sua imbranatezza. Avrebbe dovuto adattarsi meglio alle abitudini giapponesi. Inghiottito un boccone, lo incalzò: «Il progetto è addirittura supervisionato dal numero tre? E chi è?»

Ito ridacchiò. «Il numero tre, come dicono quelli, è una mina vagante, ad essere sinceri. Whisky spererà fino all’ultimo secondo nella deposizione di Slivowiz. Era Gin, diversi anni fa, non saprei dirti quanti. Io ero già qua, ma ero un apprendista di livello infimo. Ci fu un subbuglio assurdo, nessuno se lo aspettava. Era tosto, a quanto si dice. Misterioso, sfuggente, senza rimorso alcuno, fedele, leale, perfezionista, pianificatore nato. Incarnava tutto ciò che l’Organizzazione desidera. Non c’era, a dir la verità, una vera differenza tra il secondo e il terzo, all’epoca. Principalmente una questione di età, si pensa. Lui e Rum, su cui girano voci bizzarre, collaboravano spesso, andavano d’accordo. Secondo mio padre, c’era una sorta di “armonia”, nell’aria, all’epoca. Va bene, non era il mondo delle favole, però c’era almeno una discreta stabilità. Nessuno si faceva la guerra, né metteva veleno nel bicchiere del vicino per accaparrarsi il suo posto. Possiamo ammettere che sia dovuto anche all’incapacità e alla mancanza di resistenza a sostanze tossiche di alcuni di loro, okay. Sì, lo penso anch’io. Dovrebbero avere più intuito e attenzione, arrivati a un certo punto, no? Comunque, noi possiamo solo sognarci un mondo di quel genere. Ogni tanto, anche qua si trova qualche cadavere nei corridoi, sai? È capitato solo tre settimane prima del tuo arrivo. Arma da fuoco, un proiettile dritto in mezzo agli occhi. Con un potere saldo, questo non succederebbe. Al vecchio servirebbe un buon braccio sinistro, se mi capisci. Potrà avere un forte braccio meccanico a destra, ma senza l'altro arto resta un monco. Insomma, tu avresti paura di un handicappato? Vedi, ridi, no, nemmeno una bambina lo temerebbe, dal vivo. Se qui non fosse abitudine fare colare sangue per una sciocchezza, l’Organizzazione avrebbe già smesso, da un pezzo, di sbruffonare in giro», si interruppe, prendendo un sorso d'acqua. «Ah, che buona, sento tutta la dolce fragranza del calcare. Salutare, anticorpi, ragazzina! Me la porterei da casa, l’acqua, ma qua sono obbligati a darmela gratis. Tornando a noi, Ano kata dovrebbe aprire gli occhi. Le cose si sono fatte così turpi che le nascite, tra i nostri, sono quasi nulle, perlomeno in Giappone, la casa natia di quegli stronzi, culla delle menti più brillanti e più spietate. Non è un caso, assolutamente. Devono cambiare, se vogliono restare in piedi».

Shiho, con circospezione, appoggiò un gomito sul tavolo. «A quanto dici, hanno vita breve».

Ito sbuffò. «Un tempo, i nomi in codice erano tutti nati nell’Organizzazione. Adesso, questa regola è venuta meno e ciò la dice lunga. Finché sbandierati e disgraziati si renderanno disponibili come tagliagole e qualche scienziato mediocre, come quelli seduti laggiù, accetterà il rischio e i soprusi, in cambio di qualche soldo in più del normale, se ne infischieranno della fiducia, che, ormai, è diventata più un motto che una regola. Un giorno, l'errore sarà irrimediabile e pagheranno le conseguenze in un colpo solo», Ito, da infervorato, sembrava abbattuto. Il suo sussurro divenne appena percettibile. «Forse è giusto. Probabilmente, non ci sarò più, per vederlo, anche se mi piacerebbe farlo».

Shiho inclinò il capo. «Eppure, non sprizzi entusiasmo».

Lo scienziato fece un gesto vago con le bacchette, senza approfondire. Finì la sua porzione, dunque, guardò l’ora sull'orologio a muro, dietro di lui. Quindi, si alzò, rivolgendole un sorriso sghembo. «Abbiamo dieci minuti, prima di dover ricominciare. Io inizio ad avviarmi. Ci vediamo, piccoletta», la salutò, con un gesto della mano.

La ragazza si apprestò a seguirlo.

 

«Quella marmocchia, con i capelli fulvi, è la figlia dei Miyano».

«Ho sentito».

«Ci toglierà il lavoro».

«Ha ancora il latte in bocca, cosa vuoi che ci faccia, al massimo verrà cacciata entro qualche giorno».

«Non capisci proprio niente, non l’avrebbero mica messa qui, genio, se non fosse all'altezza. Quella gente è senza scrupoli. In un nanosecondo, passerà davanti a tutti».

«Farà ammazzare Whisky e ne prenderà il posto».

«Ma figurati, non ha manco quattordici anni. Noi abbiamo anni di esperienza alle spalle e stiamo qua a fare le gavette di quella prepotente».

«Illuso, Whisky ha un piede più di là che di qua, già da mesi. Se la tengono, è solo per addestrare un successore».

«Tacete, viene per di qua».

 

«Si scrive in giapponese».

Shiho interruppe la sua serie di appunti. Whisky la fissava da lato, a braccia conserte e con una smorfia di disappunto sulle labbra rosse.

«Scusi?» sussurrò in risposta, rivolgendo uno sguardo al computer. Era tutto nella norma.

«Oltre a non saper scrivere, sei anche sorda?» sbottò la donna, strappandole il foglio su cui stava scrivendo.

Shiho si sentì sprofondare. Aveva, inavvertitamente, sbagliato lingua. Un errore da principiante. Da bambina. Non si era mai sentita così tanto sciocca. Poteva essere un effetto collaterale dei tranquillanti? Di solito, era più attenta. Si schiarì la voce, mortificata. «Sono miei appunti, Sensei. Non avevo intenzione di consegnarli. In realtà, sono solo supposizioni, poco importanti».

Con sommo fastidio di Shiho, Whisky fece una risatina di scherno. Da quanto aveva capito, non era intelligente come le piaceva sembrare. «Non funziona così, Miyano-san», disse, sottolineando il suffisso onorifico, con cattiveria. «Non esiste niente di tuo, qui. Siete il mio gruppo di ricerca. Ogni vostro pensiero mi appartiene, dentro questo laboratorio»

«Le chiedo scusa».

«Solo perché è il tuo terzo giorno, Miyano, non ci saranno conseguenze», prese il resto dei fogli sulla scrivania. Più di tre lingue si mischiavano, in diverse file e righe. Qualche strappo e centinaia di frammenti di carta caddero a terra. «Temo, tuttavia, che dovrai perdere tempo a riscrivere tutto. E non dimenticarti di ripulire il disastro che hai fatto, ovviamente».

 

Si era vestita con cura. Vedere sua sorella, dopo tanti anni, la mandava in grande agitazione. Parlare al telefono non le piaceva e stentava a raccontare di sé, come se l'enorme distanza tra il Giappone e l'America impedisse a Shiho di esprimere in parole i suoi pensieri. Sapeva, inoltre, di non poter accennare al suo lavoro per l'Organizzazione e, da sempre, questa era stata la sua unica occupazione. Non aveva idea di cosa dirle, una volta fossero state faccia a faccia. Forse, sarebbe stato meglio lasciare fare ad Akemi. Aveva imparato che era in grado di portare avanti intere conversazioni quasi da sola. Shiho si sarebbe impegnata a incalzarla. Come faceva con Ito, d'altronde. Sapeva, però, che, prima o poi, sarebbero arrivate delle domande per lei e la prospettiva la spaventava ben più di Whisky. Aveva bisogno di tutta la fiducia in se stessa che disponeva.

Davanti allo specchio, tuttavia, riusciva solo a vedere una pallida ragazzina poco avvenente e spaventata dalla sua stessa ombra. Avrebbe imparato a convivere con quello stato di tensione, si ripeté. Con occhio critico, scrutò il suo solito caschetto da bambina. Era poco impegnativo, ma, a volte, si chiedeva se non avrebbe fatto meglio a lasciarsi crescere i capelli. O almeno la frangia. Lisciò le pieghe della gonna azzurra infeltrita, abbinata a una camicetta bianca. Era il tipico abbigliamento giapponese, tentava di convincersi. Eppure, il bianco le ricordava il camice da laboratorio e, per opposizione, il nero dei suoi incubi. Detestava queste associazioni, che mettevano in dubbio i colori con cui preferiva vestirsi.

Si passò un filo di mascara sulle ciglia e fece una passata di lucidalabbra colorato sulle labbra. Si chiese se una tipica giapponese avrebbe disapprovato e sperò, vivamente, che sua sorella non fosse cresciuta con una mentalità troppo all’antica. Non avevano mai discusso di trucco. Akemi doveva considerarla ancora una bambina.

Mancava un’ora all’appuntamento, dopo anni di lontananza. Ricordava la strana sensazione provata quando, più di tre anni prima, quella sorridente sedicenne, tentando di nascondere il disagio e l’imbarazzo, le aveva fatto una veloce visita, durante il suo viaggio-studio negli Stati Uniti. Adesso, Shiho non era più una bambina a cui regalare una bambola di peluche e nemmeno una coetanea con cui discutere di università e ragazzi, nonostante fosse già laureata in più facoltà. Mentre Akemi andava al liceo, Shiho preparava un esame dopo l’altro, per finire in fretta gli studi, e, adesso che la maggiore doveva affrontare l’università, Shiho lavorava già, con diverse specializzazioni alle spalle. Shiho temeva solo una possibile rivalità con la sorella. O dell’invidia, ben celata in dieci minuti di conversazione dietro una cornetta. Dal vivo può succedere di tutto.

Si infilò le mary jane, in tinta con la gonna e la borsetta a tracolla, mettendosi un golfino, di un chiaro azzurro pastello. La perfezione degli accostamenti le trasmise un poco di fiducia in più.

Si chiuse la porta di casa alle spalle e attese l’autobus per cinque minuti. Akemi non le aveva offerto un passaggio e, di sicuro, era meglio così. L’Organizzazione non avrebbe apprezzato, soprattutto, perché Akemi avrebbe potuto farle visita più spesso. Meglio vedersi in anonimi e impersonali locali. O, almeno, Shiho aveva tentato di convincersi di questo.

La città che scorreva fuori dal finestrino, su cui poggiava la testa, le era del tutto estranea. Conosceva solo il suo quartiere, il supermercato appena fuori, il bar all’angolo e un locale, decisamente informale, due strade più avanti, per non parlare del suo luogo di lavoro, che, comunque, non avrebbe potuto raggiungere da sola. La caffetteria a cui l'aveva invitata Akemi era distante venti minuti di macchina da casa sua, perciò non aveva potuto fare a meno del bus, suo odiato compagno, ogni giorno, alle sei e quaranta di mattina. Sì, sì, sarà giusto. “Vuole solo il mio bene. Sa meglio di me cosa è opportuno fare, con quegli individui”. Intanto, si tormentava le cuciture del maglioncino, senza pace.

L'amarezza venne, finalmente, schiacciata da due braccia travolgenti, una cascata di capelli scuri contro il viso e un paio di commossi occhi blu. Shiho non riceveva un abbraccio da anni. Si era scordata come illumina e scalda la luce del Sole, a contatto con la pelle. 

Si estraniò. Dimenticò la cattiveria di Whisky, i commenti degli scienziati, l'ambiguità di Ito. Venne investita da quella corrente di serenità e ci si abbandonò con un sorriso. Un fiume straripante di parole la condusse a un bar, a un tavolino, a una sedia, mentre, confusa, il significato dei suoni le sfuggiva. Girò un foglio -un menù- tentando di dare un senso alle lettere. Annuì qualche volta, sperando di azzeccare il momento giusto, nella conversazione. I suoi occhi guardavano quella donna di fronte a sé e il suo cuore batteva, picchiava per la paura di separarsi da quella tranquillità, perché, semplicemente, non era mai stato meglio. Era arrivato al suo posto. Dove meritava di stare. Dove avrebbe dovuto essere sempre stato. Era nel luogo da cui, prematuro, era stato strappato. Era a casa. Sorrise.

Una voce a lei estranea ordinò una cioccolata. Un guscio con il aspetto assaggiò e commentò con entusiasmo il sapore del cibo. I suoni erano ovattati, ma assordanti. Il suo corpo seguiva il filo della conversazione, dando cenni, periodicamente, con il volto appoggiato su una mano, che era, a sua volta, unita a un braccio, con il gomito piegato sul tavolino. La coscienza della scienziata, nel frattempo, era altrove. Non avrebbe saputo dire dove, però. Era lontana da Shiho, distante da Akemi. L'anima era accanto a quella sorella, ma la mente se ne andava, confusa, non abituata a quelle sensazioni. Il cervello era stato disconnesso dal cuore, il quale, arrogante, impetuoso e incosciente, voleva spazzare via tutto ciò che aveva costruito, a fatica, in anni e anni di lavoro. Voleva distruggere la sua prudenza e lasciarla da sola a brancolare nel buio. L’intelletto, in quella situazione, si rifiutava di aiutarla. Ne ebbe paura. La sua ancora di salvezza si era sganciata dal fondale e veniva sobbalzata in giro dalla marea in tempesta, mentre il suo inconscio la ritirava. La barca, lì sopra, era sola.

«… allora si è girato e si è accorto che sua nipote si stava aggirando nella stanza delle costruzioni. Basta cambiare prospettiva, insomma, è logico, esistono diversi mezzi per considerare una situazione, non sempre il nostro primo strumento è adatto, ad esempio, anch’io, come lui…»

Shiho batté le palpebre diverse volte, guardandosi le mani curate, appoggiate al tavolo. Lo smalto azzurro era fresco. Ricordava di averlo messo poco prima di uscire. Le unghie erano corte. Sì, erano le sue mani, unite, tramite i polsi esili, alle sue braccia. Giusto, poteva anche muoverle. Con calma, ne portò una in grembo. Sollevò gli occhi sulla giovane di fronte a sé, per non destare sospetti. Akemi. Era bellissima. I lunghi capelli scuri valorizzavano gli occhi chiari, un po' allungati, simili ai suoi. Il viso sottile era sorridente. I denti dritti e bianchi, tra due labbra sottili, chiedevano solo di vedere quelli degli altri. La naturalezza dei gesti, il tono di voce dolce ed estroverso, il movimento delle ciglia erano incanti che venivano bruscamente cancellati dal telefono, dietro cui si erano sentite, per anni e anni. Il foulard, avvolto attorno al collo, era adagiato sulle spalle, portato come le attrici di Hollywood.

Per un attimo, aveva voluto buttare tutto all’aria per lei. Il suo stupido aspetto sconsiderato aveva urlato di sollevarsi contro la separazione a cui erano costrette, quella distanza imposta e odiata da entrambe. Shiho, però, sapeva che non era possibile -o, almeno, la sua mente coscienziosa ne era ben consapevole e le avrebbe vietato di agire in maniera irresponsabile. Erano solo loro due al mondo e, anche se lontane, avrebbero dovuto combattere per restarci. Seguire sogni scriteriati avrebbe portato soltanto alla loro morte. E Shiho era intenzionata a respirare ancora, finché aveva la speranza che un suo sospiro potesse raggiungere la stessa aria di Akemi. Non l’avrebbe abbandonata. Ed era una promessa infrangibile.

Sua sorella, ignara di tutto, continuava a parlare. «Sto preparando un esame molto lungo e complicato. Ho ancora un mese, spero di finire in tempo».

La tredicenne sollevò le sopracciglia, sentendo, per la prima volta, il sapore della sua cioccolata invaderle i sensi. La gustò, attenta. Era buona, stranamente solida. A malincuore, constatò che ne restava poca. Sollevando lo sguardo, si accorse che aveva appena sentito la prima frase di senso compiuto da parte di Akemi. Non si era ingannata, prima, aveva un timbro di voce dolcissimo, inebriante. Quanto al contenuto, le sembrava esagerato impiegare trenta giorni per un solo esame universitario. Si decise a intervenire, ora che la sua mente si era risintonizzata al corpo. «Che cosa riguarda?»

Akemi la guardò con gli occhi sgranati. Shiho si chiese se avesse fatto una gaffe. Magari l'aveva già detto. No, no, aveva parlato di un esame, era stata sul generico. Forse non si aspettava che le rispondesse. Anche al telefono, di solito parlava appena. «Diritto Privato Comparato. In pratica, è un ramo del diritto che si occupa di confrontare i vari sistemi giuridici di diversi Paesi. Si osservano, specialmente, le similitudini e le differenze tra le diverse leggi e Costituzioni. è molto interessante, davvero, però preferirei rivolgermi al settore penale, che, penso, mi sarà più utile, in futuro. Purtroppo, è un esame del terzo anno».

La minore delle due accavallò le gambe, sospettosa. «Non vorrei essere ripetitiva, Akemi, so che ne abbiamo già discusso, tuttavia, scegliere proprio giurisprudenza, come facoltà… Credo sia una sfida pericolosa. Riconosco che diversi avvocati servono l’Organizzazione, però devono dimostrare una fedeltà incondizionata e sono di continuo messi alla prova».

«Shiho-chan, è quello che voglio fare. Mi rendo conto del rischio, ne sono più consapevole di te. E, comunque, nessuno mi ha ancora fatto alcuna pressione, anzi, ho ricevuto diversi segni di incoraggiamento. Sembra che in pochi abbiano il coraggio di intraprendere questa carriera, sai?»

“In pochi sono così stupidi!”

Shiho inspirò, nel tentativo di mantenere la calma. «Akemi, è difficile restare ancorati all’Organizzazione, tanto più quando sei invischiato in queste pratiche,» abbassò il tono di voce, gettando un’occhiata veloce ai pochi altri clienti del locale. «Dubito che tu voglia difendere assassini e altri personaggi pericolosi, di certo colpevoli. Sapere tutte le loro malefatte, nel dettaglio, e dover sottrarre criminali alla giustizia non è il tuo volere, non oltraggiare la mia intelligenza; ti conosco abbastanza da sapere con certezza che vorresti vederli dietro le sbarre il doppio di me. E, se, adesso, forse, lo neghi, dopo te ne accorgerai».

Il sorriso affettuoso di Akemi scomparve. «Shh, smettila, Shiho-chan, e impara a usare i suffissi onorifici. Ti sei scordata ben due volte di usarli. Per te, sono Akemi Onee-chan. In Giappone, bisogna rispettare le convenzioni sociali, altrimenti, rischi di attirare sospetti. Ricordo l’informalità degli americani, ma, qui, è molto diverso. Le mancanze di rispetto sono molto criticate».

La tredicenne si appoggiò allo schienale della sedia, a braccia conserte. Si sentiva un po’ offesa. «Non è quello che ho notato a lavoro, negli ultimi giorni. Ad ogni modo, ho sentito parlare di loro. Sono, a dir poco, temibili. Bisogna stare attenti».

Akemi sollevò il mento, determinata. «Non pronunciare il nome di qualcuno contribuisce solo ad aumentarne la paura. Io non ho mai sentito nessuno di loro rivendicare alcunché. Inoltre, credo poco a quelle voci di corridoio, probabilmente ingigantite. Se devo aiutarli, devono dirmi la verità, per una volta».

L’altra sospirò. «È inutile, vero?»

La maggiore appoggiò il tovagliolo sul tavolo, evitando il suo sguardo. «Nessuno mi ha detto che avresti lavorato per loro, una volta tornata. Pensavo dovessi studiare, prima. Mi sarei opposta, per il poco che vale la mia opinione».

Sembrava preoccupata. Shiho sollevò le spalle, guardando i piatti vuoti.

Attesero in silenzio il conto. Akemi insistè per pagare. Anche mentre estraeva i soldi dal portafoglio, studiava la sorella minore di sottecchi. «Com’è lì? Ti rispettano?»

Shiho si morse una guancia. «Direi… strano. Oddio, continuo a ripetere questa parola. Sarà la terza volta in un giorno. Ad essere sincera, mi sento un po’ spaesata. Ho fatto diversi tirocini, in altri laboratori dell’Organizzazione, in America, però era diverso. Qui, è più complicato. Sei sempre osservato e ci sono regole severe da seguire,» aggrottò la fronte, pensando a Whisky. Pensò di alleggerire la dose di lamentele, per non preoccupare, inutilmente, sua sorella. «E, poi, i superiori possono essere complicati da gestire. Per altri aspetti, è piuttosto normale, in realtà. Magari, sono solo io troppo piccola e abituata ad un altro trattamento».

Akemi, rivolgendole un sorriso tenero, posò una mano sulla sua. Shiho, seppur infreddolita, rimase pietrificata, vedendosi così vicina a un’altra persona. Si sentiva compressa da due infiniti in contrasto. Erano due forze uguali e opposte. Una verso l’altra, una verso di sé. Era un sistema in equilibrio. Applicare la fisica la aiutò a non lasciarsi schiacciare. Rimase immobile. “Un punto materiale, Shiho, niente di più. Riesci anche a vedere i vettori, affascinante, vero? La forza peso, la forza normale, l’attrito, due altre… Okay, basta”.

«Mi spiace poter restare poco, oggi, Shiho-chan! Ho una lezione tra una mezz’oretta. Che ne dici, ci rivediamo settimana prossima? Magari a pausa pranzo? Dobbiamo anche organizzare qualcosa per il tuo compleanno, non manca molto. La prossima volta ti racconto di quel giorno, il migliore della mia vita. Non posso ancora crederci, siamo vicinissime ora! Niente telefonate limitate né oceani, ormai, tra di noi, finalmente».

Shiho si chiese come mai, allora, si sentiva ancora distante da sua sorella. Con la coda dell’occhio, uscendo dal locale, le parve di vedere allontanarsi una figura in nero. Ecco la barriera tra le due, sempre presente, sempre ingombrante.

Akemi la abbracciò stretta, appoggiando il viso nell'incavo del suo collo.

Shiho, inizialmente rigida, ricambiò, un po' impacciata. Doveva reprimere l’impulso di scansarla. In quel momento, l’anima era incatenata da una mente crudele, diffidente.

Chi era quella ragazza?

Ma, poi, perché, d’un tratto, di nuovo, proprio quel lato della sua mente aveva preso il sopravvento e voleva respingerla? Quando il suo cuore la guidava, si sentiva così bene… Perché, appena connetteva pensieri e situazione, nel silenzio, entrava in un conflitto da cui le pareva impossibile scappare? I sentimenti erano tanto complicati. Non riusciva a risolverli come i problemi in laboratorio, in modo razionale. Avrebbe dovuto applicare un altro metodo, come diceva Akemi… Qualche saggio di filosofia avrebbe potuto aiutarla, forse.

«Fatti valere, sorellina».

Shiho strizzò gli occhi, sentendo chiudersi le pesanti porte dell’armadio del sospetto nel suo cervello. Lasciò libero l’istinto. Lo sentì irradiarsi con veemenza nelle sue braccia, comandandogli di stringersi di più ad Akemi, isola di luce in un oceano di oscurità. Se non poteva salvare se stessa, avrebbe, almeno, preservato l’altra da quelle acque putride.

 

*Nella mitologia greca, Atlante venne punito da Zeus: fu costretto a portare sulle spalle la volta celeste, perché, durante la Titanomachia, si era schierato dalla parte dei Titani contro gli Dei dell'Olimpo.

 
   
 
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