8° Capitolo
Derek rientrò a metà pomeriggio, i libri
sotto braccio e le chiavi in mano, era riuscito a sentire le movenze di Stiles
sin dalle scale, il modo in cui si muoveva familiare dentro la casa, i passi
certi e frettolosi, com’erano sempre le sue abitudini, impossibilitato a stare
fermo sul posto per più di un minuto e di sentire l’esigenza di correre e
correre, dando l’impressione che fosse inseguito costantemente da qualcosa. A
volte Derek aveva una vaga idea da cosa si sentisse braccato, altre volte era
soltanto il combattere contro il silenzio che avvertiva intorno. «Cosa hai
combinato?» chiese quando si chiuse la porta dietro di sé, il mazzo di chiavi
al solito posto, i tomi poggiati sulla scrivania lungo il percorso, entrando
dentro l’ala dedicata alla cucina e trovandola eccessivamente affollata, con
sacchetti brandizzati del supermercato che si collocava proprio sotto i loro
piedi, accanto allo Starbucks della zona, occupando ogni superficie visiva il
lupo riuscisse ad individuare.
«Ho fatto la spesa» Stiles fermò il suo
sistemare la dispensa al suono della domanda, individuando il capitano della
squadra di basket oltre lo sportello aperto.
«Lo vedo» affermò ovvio il padrone di
casa, sbirciando in uno dei sacchetti più vicini ed estraendo un cartone che
conteneva del succo all’ace; a Stiles proprio non andava giù, ma Derek lo
beveva piacevolmente, quindi era plateale che fosse stato comprato per lui.
«Non era necessario».
«Certo che lo è» dissentì Stiles,
chiudendo lo sportello che gli impediva di vedere il mannaro completamente,
prima di inserire l’ultimo articolo presente della busta della spesa. «Non puoi
sempre essere tu ad occupartene per entrambi».
«Sei mio ospite, non è un problema per me»
Derek aprì l’anta del frigorifero e inserì al suo interno il contenitore con il
succo acquistato dall’umano.
«Dio, Derek. Quale ospite» si impennò,
alterandosi leggermente per quel paraocchi che era evidente Derek indossasse.
«Praticamente ci vivo qui. E fai la spesa per entrambi continuamente».
«Ripeto: per me non è un problema» si
approcciò a richiudere il frigo, pescando alla cieca da uno dei sacchetti
ancora pieni.
Stiles si agitò, muovendo il capo da una
direzione all’altra per dissentire fortemente. «Non voglio essere uno
scroccone».
Il lupo mannaro si fermò, un pacco di
pasta secca tra le dita e nell’altra mano una confezione di hamburger vegani,
probabilmente di legumi; lo fissava contrariato. «Ti ho mai dato l’impressione
che pensassi questo?».
«Lo penso io» afflosciò le spalle, come se
il peso della verità l’avesse rilasciato. «Continuo a sentirmi in difetto».
Derek adagiò gli acquisti sulla tavola, un
passo più vicino a Stiles e le falangi che formicolavano per il desiderio di
toccarlo. «Ma non lo sei».
«Anche quando andiamo insieme a pranzare o
cenare, è così» il figlio dello sceriffo si scostò dalla temperatura corporea
del lupo che lo lambiva appena, erano ad un metro di distanza, ma non sembrava
esistere veramente. «Tu con il tuo branco, andiamo sempre in posti che siano
alla portata delle mie tasche o che accettino i miei buoni pasto. Difficilmente
andiamo altrove».
«Un posto vale l’altro» semplificò la
creatura della notte, sordo all’accusa con cui Stiles lo stava additando.
«No, no» negò ancora la matricola con più
vemenza, l’elettricità che gli scorreva in tutto l’organismo. «Potresti andare
ovunque, invece ti fai incastrare dalle mie esigenze».
«Stiles» lo riprese il
mutaforma, c’era della lieve insofferenza. «Sono tutti locali per
studenti, siamo in un campus, non c’è alcuna differenza».
«Non è vero. Esistono locali per studenti
ricchi» e indicò Derek, in una panoramica evidente. «E locali per studenti che
faticano ad arrivare a fine mese» e direzionò la stessa mano utilizzata per il
lupo mannaro nella propria direzione.
Derek si avvicinò con il suo passo felpato
inudibile, i movimenti invisibili, e prese il suo viso tra le dita, lo sguardo
che lo costringeva ad affrontarlo. «Non mi dispiacciono i posti in cui ci
ritroviamo, quello che conta è la qualità della cucina e ne abbiano trovati di
meritevoli, ne troveremo ancora. Non mi serve del cibo sofisticato e
strapagato».
Stiles sbuffò contro di lui piccato e
anche lievemente arreso, il ghignetto da volpe che si palesava con moderazione.
«Già, quello te lo cucini da solo».
«Saresti sorpreso» proferì Derek senza
andare avanti, la frase in sospeso e Stiles voleva sapere di cosa sarebbe stato
sorpreso: di quanto spendesse in realtà o di quanto fosse capace di trovare dei
prezzi ragionevoli?
«Devi permettermi di contribuire, Derek»
rincarò la dose con più controllo, guardandolo dritto negli occhi, incapace di
fuggire da lui per via della presa che li legava né ne aveva davvero
un’intenzione impellente. «Non posso competere con il tuo portafoglio, ma posso
fare la mia parte».
«Va bene» acconsentì il lupo nero senza
soffermarsi troppo a pensare, a trovare il modo di aggirare il patto tra loro e
Stiles sentiva di aver vinto quantomeno mezza battaglia. «Ma non svaligiare il
supermercato» concluse con il tocco finale, gli angoli della bocca arricciati
sardonicamente.
Stiles lo colpì ad un fianco con
risentimento, senza una vera forza nel gesto, azione del tutto insensata ed
inutile, e Derek rilasciò una bolla di risa sopra di lui, per poi ricevere un
bacio in mezzo agli occhi. «Non esagerare» disse il capitano in conclusione, a
conoscenza della sua predisposizione a strafare e Stiles dovette dargliene
adito, annuendo nella sua direzione ipnotizzato dal loro modo di muoversi
attorno all’altro.
«Dovresti cominciare ad indossare qualcosa
di più pesante di una felpa» lo riprese Derek quando se lo ritrovò davanti al College of Arts
& Letters con indosso la stessa tipologia di indumento,
soltanto che in quell’occasione era rossa, come gran parte del suo guardaroba. «Tipo il giubbotto
che ti ostini a lasciare appeso».
«Non so proprio di cosa tu stia parlando»
Stiles era duro d’orecchi soltanto quando faceva comodo a lui, quella era
proprio una di quelle occorrenze.
«Non siamo più in California, siamo molto
più in alto» gli fece ben presente, toccando lo spessore appena sufficiente
della felpa che l’umano si ostinava ad indossare senza nient’altro di
aggiuntivo. «Le temperature si stanno abbassando e tu sei cangevole».
«Non voglio sentire un discorso del genere
da un tizio che indossa soltanto una giacca di pelle nei mesi più freddi»
Stiles dinegò con la testa, sbattendo quasi i piedi a simulare un bambino e
Derek roteò gli occhi annoiato perché la matricola non stava dimostrando di
essere qualcosa di diverso.
«Non devo davvero ricordarti che non ne ho
bisogno» calcò la creatura leggendaria, le scintille blu e rosse che
solleticavano le iridi di giada.
Una volta Derek il particolare dei suoi
occhi che lo distingueva da tutti gli altri mutaforma
non l’avrebbe mostrato così platealmente, seppur con quella cura di non essere
visto da esterni ed essere scoperto; Stiles andava in fibrillazione per nulla.
«Così fortunato».
La voce acuta che allungava le lettere con
esasperazione non era gradita alle orecchie del lupo nero e gli rifilò
un’occhiata dura. «Stiles, domani lo indosserai, non voglio sentirti starnutire
tutta la notte».
«Sei noioso» strascicò le lettere con
intenzione, rafforzando l’astiosità di Derek e esibendosi nel suo miglior
broncio. A suo discapito era successo solo una volta, due giorni prima, aveva
tremato per tutto il tempo e Derek aveva percepito la sua temperatura alzarsi
eccessivamente rispetto ai suoi standard. Non gli serviva un termometro per
avere la certezza di avere la febbre, seppur leggera. Ciò che non riusciva a
svelare ufficialmente, era il mistero di essersi ridestato il giorno dopo senza
alcun malanno, a parte strascichi di raffreddore; non era difficile capire chi
avesse fatto sparire la sua influenza, ma Derek non si era palesato e Stiles
non aveva indagato. «Non sono passato per sentire le tue ramanzine» soprattutto
quando aveva ragione e allo studente del primo anno proprio non andava giù.
Derek lo fissò tagliente e Stiles gli
regalò il suo sorriso migliore da rubacuori ‒ sempre se ne possedesse
uno. «Ho trovato una ragazza bravissima nel campus che crea oggetti molto belli
con disegni carini» cominciò la sua arringa l’umano, trafficando con la sua
tracolla e cercando nei suoi averi. «L’ho contata e chiesto se poteva realizzarmi
qualcosa seguendo le mie richieste» il metallo delle chiavi dell’appartamento
di Derek sbattevano tra di loro, creando un suono e Stiles riuscì ad
intercettarle ed estrarle, mostrandole vittorioso. «Et voilà! È stata
fantastica, meglio del previsto».
Stiles trionfante esibiva il suo mazzo di
chiavi personale, agitando un portachiavi in acrilico che Derek non aveva mai
visto. Dentro uno strato di quello che il lupo identificava come resina
resistente, vi era raffigurato un lupetto nero, i tratti morbidi e arrotondati,
stilizzato con cura e carineria, mettendo in risalto un occhio blu a contrasto
con il secondo che si esibiva in uno rosso rubino. «Potevi investire meglio i
tuoi soldi».
«Mai fatto in modo migliore, l’arte si
paga» alla freddezza di Derek il ragazzo era quasi immune, non si lasciava
abbattere. Le sue labbra erano distese in un sorriso di contentezza, infatuato
del suo piccolo nuovo amico che gli avrebbe fatto compagnia da quel giorno in
poi. «Così saprò sempre che solo le tue chiavi» l’agitò con orgoglio, a
decantare la sua meraviglia.
Derek avrebbe dissentito sul definire
quella roba arte, inasprendo i lineamenti facciali, ma doveva seriamente
meravigliarsi dell’inclinazione di Stiles di innamorarsi delle piccole cose?
«Perché blu e rosso?».
L’attenzione di Stiles fu catapultata
tutta sul vero lupo e prese tra le mani il portachiavi prezioso. «Non sarai per
sempre entrambi, in questo stallo. Troverai il vero te. Quindi ho optato per
una distinzione netta».
Il mannaro si soffermò su di lui per un
tempo che andava dilatandosi, gli studenti che li aggiravano come se non
esistessero. «La prossima partita sarà in trasferta».
«Ah» Stiles impiegò diversi momenti per
afferrare cosa Derek gli avesse comunicato, decifrare il messaggio nascosto che
non era nemmeno tale. «Doveva succedere, prima o poi» anche se mentalmente era
consapevole ed era la prassi per un giocatore di qualsiasi sport, una parte di
sé aveva completamente accantonato la possibilità, come se non dovesse mai
arrivare quel momento. «Starai via molto?» la partita si sarebbe svolta
soltanto sei giorni dopo e secondo il calendario sarebbe ricaduta proprio per
la festività di Halloween.
«Una notte» rispose Derek pronto, le iridi
verdi che scandagliavano l’animosità dell’umano che andava scemando. «Se non
sorgeranno problemi».
«Problemi?» domandò in una eco, il viso
che si alzava nella sua direzione, nella speranza di essere illuminato, più
reattivo. «Che tipo di problemi?».
«Partite spostate o rinviate, prenotazioni
disdette, incomprensioni con gli organizzatori. Accade di tutto» elencò
sapientemente, in una sintesi perfetta.
Certo, Derek ne aveva viste tante in
quei due anni, anche ai tempi di Beacon Hills accadeva, ma rimaneva
circoscritto alla loro città e dintorni, non andava mai troppo lontano, ma il
college era diverso, i campionati universitari erano una cosa seria in
quell’ambito, non erano ammessi scherzi. «Giusto».
C’era dell’amaro nella vocalità del figlio
dello sceriffo, qualcosa che alle orecchie di Derek stonava. «Ti disturba?».
Stiles sbatté le palpebre più volte, non
aspettandosi una domanda tanto diretta e non era nemmeno certo di averla
incanalata dentro di sé, a dargli una definizione. «Mi sto solo rendendo conto
di quanto io stia diventando egoista» lo guardò, ma poi distolse lo sguardo e
le sue labbra si curvarono con un accenno di tristezza, sardoniche verso se stesse. «Vorrei che restassi con me».
«Non ti lascerò ai tuoi demoni» disse il
capitano seriamente, segno che ci avesse già riflettuto sopra e che non si
lasciasse cogliere impreparato. «Escogiteremo un modo per affrontare quella
notte» Derek aveva lasciato trascorrere un solo secondo, il tempo necessario
che le parole che Stiles aveva pronunciato attecchissero; le labbra avevano
tremato impercettibilmente, il piccolo foro tra loro di chi era stato colpito
in pieno, ma le teneva
talmente serrate che non era visibile ad
un occhio non attento.
Stiles non riusciva a staccare gli occhi
dai suoi, da quanto gli era dedito perfino in quella situazione in cui non avrebbe
mai dovuto essere una sua preoccupazione. «Sono certo che ci proverai, ci
proveremo, ma questo non fa altro che sottolineare quanto io stia diventando
sbagliato».
«Non è sbagliato chiedere aiuto, sapere
che ne hai bisogno» Derek non avrebbe mai cambiato idea su quell’argomento. «So
che sei spaventato, ansioso ed è giusto. Devi preoccuparti se qualcosa svia dai
tuoi binari, dalla quotidianità che stai costruendo, hai bisogno di certezze e
stiamo cercando di crearle».
Stiles avrebbe proprio voluto urlargli
quanto Derek incarnasse la figura di Alpha, quella che scartava con tutto se stesso; un potere annacquato definiva quelle iridi
che cercavano di comunicare con lui e rivelargli quanto potenziale avesse. «Mi
metterai un cane da guardia davanti la porta?» chissà quale porta, poi.
Derek assistette alle labbra da volpe
scaltra che si palesavano, quella giocherellona. «Qualcosa del genere, definirò
i dettagli».
Stiles ridacchiò alleggerito, divertito e
guardò il suo lupetto d’acrilico, accarezzandolo automaticamente; non gli aveva
ancora tolto la pellicola protettiva e non aveva nemmeno intenzione di farlo,
avrebbe aspettato che cadesse da sola. Quando alzò il capo per riprendere la
conversazione con il licantropo, l’attenzione di Derek era tutta da un’altra
parte, in un punto che non lo comprendeva minimamente oltre le sue spalle ed i
sui tratti erano in tensione, severi. Stiles si ritrovò stupito da un tale
cambiamento dei lineamenti facciali e si vide costretto a seguire lo sguardo
del mannaro, focalizzando due figure maschili che conosceva piuttosto bene,
intente a raggiungere un luogo a lui estraneo mentre si spalleggiavano, ma era
una scena al rallentatore, tutti e quattro erano diventati consapevoli gli uni
degli altri. «Oh» proferì il figlio dello sceriffo colto alla sprovvista. Era
inevitabile che prima o poi avrebbe incontrato casualmente per le vie del
campus Donovan e Theo, soltanto che sperava non accadesse mai nelle vicinanze
di Derek. «Devo andare in biblioteca a ritirare dei libri che avevo segnato, mi
accompagni e poi pranziamo insieme?» la matricola li ignorò completamente,
l’insistenza stupita degli occhi dei suoi amanti occasionali ‒
probabilmente data dall’incomprensibilità di trovarlo in compagnia e
familiarità del popolare Derek Hale e questo lo portava a credere che Jiang non
avesse fatto parola con loro dell’esistenza del capitano della squadra di
basket nella sua vita ‒ se la fece scivolare addosso e ritornò a guardare
soltanto Derek.
Il mannaro non sembrava ritornare sul
pianeta Terra. Non li fissava con ostilità, ma c’era qualcosa che Stiles non
riusciva proprio a definire. «Hai già un’idea?».
Lo studente di criminologia si rilassò
alla costatazione che il mutaforma gli prestasse
ancora il suo udito. «Forse ho trovato un posto carino nei dintorni».
La creatura leggendaria depositò le iridi
di giada in quelle di ambra e l’ambiente circostante non esisteva più. «Ti
seguo».
Stiles si sciolse in un sorriso di cuore,
depositando con cura il mazzo di chiavi con il lupacchiotto nero all’interno
della tasca interna della tracolla e saltellando sgraziatamente sul posto
accanto, ad avviare la sua camminata andando avanti e trascinarsi il licantropo
con lui.
Derek non si fece attendere.
«È stato imbarazzante» dichiarò Stiles con
le mani a coprirgli il viso, la brutta sensazione che ancora non si scrollava
di dosso anche se erano passate delle ore e si era separato dal capitano della
squadra di basket da altrettanto tempo.
«Stai esagerando, come al solito» lo
rassicurò con nessuna vera intenzione Erica, la bocca deliziata dalle sfortune
dell’umano.
«Per niente!» erano seduti sul prato
vicino al laghetto, lontani da qualsiasi edificio o negozio o locale che i loro
conoscenti frequentassero e, anche se il campus risultava enorme ma non
infinito, quello era uno dei posti preferiti dagli studenti quando volevano
rilassarsi. «Derek conosce i loro odori, li ha sentiti su di me» ah,
avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto urlare dal primo momento in cui aveva
costatato che Derek li aveva fiutati, individuati e successivamente associato i
loro visi. Si agitò, le braccia che si muovevano per aria in tutte le
direzioni, a enfatizzare le sue parole. «E adesso conosce anche le loro facce».
«E quindi? A lui non interessa» Erica era
talmente in giubilo, che si chiese come avesse fatto a sopravvivere alla noia
in quei due anni senza la vita catastrofica di Stiles a vivacizzarla.
«Ti ricordi che dormo accanto a lui tutte
le notti, vero?» la matricola si sentiva incompresa, non riusciva a capire
perché non venisse colto il suo dramma.
«Non credo che Derek disapprovi il tuo
stile di vita» era del tutto lecito che ne avesse uno. «Ma tu comunque vai in
paranoia».
«È diverso quando l’individuo non ha un
corpo, ma solo un odore» Stiles stava cercando di farle comprendere il punto,
quanto si fosse sentito a disagio in quella situazione e che fosse proseguita
anche successivamente, benché per Derek non sembrava essere accaduta. «È meno
reale».
«L’odore è molto reale» ribatté la
studentessa d’arte attenta, correggendolo. «Per noi lo è più di tutti voi».
Ecco che Stiles si sentiva nuovamente in
difetto, avendo calcolato erroneamente la portata delle loro capacità. «Quindi
non c’è speranza».
«Qual è esattamente il problema?» per
quanto Stiles lo divertisse, insieme al rapporto che aveva con Derek, le sue
difficoltà colpivano tutto il branco che si impegnava a seguire il capitano.
«Mi sembra scorretto nei suoi confronti»
anche se Derek gli aveva detto di non preoccuparsene, per il figlio dello
sceriffo era inammissibile. «Sto lì accanto a lui ed entrambi sappiamo che
soltanto un momento prima ero con un’altra persona, una persona che lascia le
sue tracce su di me e per quanto io mi possa impegnare a cancellarle, non ci
riesco davvero e lui le ha sotto il naso. Spesso anche sotto gli occhi».
Erica era affascinata da tanta passione,
ma non la reputava sana. «Derek ti ha detto qualcosa in proposito? Te l’ha
vietato?».
«No, figurati» non che avrebbe mai potuto
farlo, non glielo avrebbe nemmeno permesso, avrebbe preferito vagabondare in
eterno per le strade del campus completamente estraniato da se
stesso. «Derek non mi vieta proprio niente. Certe regole le ho pretese io, lui
non avrebbe mai detto nulla» ciò che lo disturbava era più facile che glielo
comunicasse sottoforma di lupo completo.
«Se Derek avesse dei problemi per qualcosa
che fai, te lo direbbe» era risaputo che lo studente di letteratura non si
esprimesse particolarmente, ma il suo malcontento lo dimostrava apertamente. «È
un tipo insofferente, non se lo terrebbe per sé».
«Derek tiene molte cose per sé» si lasciò
scappare distrattamente la matricola ed Erica la scrutò con perizia, gli occhi
leggermente assottigliati a scavare, a capire se si riferissero a qualcosa che
era loro comune.
«Vorresti ti limitasse?» chiese
chiaramente la lupa mannara, a tentare di decifrare che cosa si nascondesse
nelle congetture del diciannovenne.
«No» ma forse a volte avrebbe voluto, così
avrebbe capito fin dove si sarebbe potuto spingere, quale linea non avrebbe
dovuto sorpassare per rendere sopportabile quella convivenza forzata.
Erica sorrise intenerita all’affanno di
Stiles, alle sue difficoltà che quasi si imponeva, costruendole da solo, le
labbra rosse in evidenza. «Se vuoi frequentare qualcuno, sei liberissimo di
farlo. Anche se a Derek dovesse dare fastidio trovarsi l’odore di un’altra
persona nell’appartamento, non può importi dei veti e non devi preoccuparti di
indispettirlo. È territoriale, lo siamo tutti, ma non ti dovrà mai limitare».
Stiles sospirò, anche se comprendeva
l’intento di Erica, comunque non distendeva il malcontento che aveva dentro,
quella sensazione continua di fargli un torto continuo. «Davvero Derek non va a
letto con nessuno?» non voleva realmente chiederlo; in realtà sì, aveva quel
bisogno di appianare la propria curiosità da quando la questione era saltata
fuori.
La mutaforma aggrottò la fronte,
leggermente accigliata, sorpresa. «Ti ha detto questo?».
«Non esattamente con queste parole, ma è
stato piuttosto esplicito» ci aveva girato intorno, ma il significato era
chiaro.
«Sì, è vero» ammise la studentessa di belle
arti, la postura che cambiava per mettersi più comoda. «Sono sicura tu gli
abbia chiesto anche questo».
Stiles continuava a stupirsene, benché fosse
naturale che ognuno avesse il proprio modo di agire su quella sfera privata.
«Credevo fosse bloccato, quindi sì» non avrebbe comunque potuto dargli torto in
quel caso.
«Bloccato» ripeté la bionda con interesse,
assaporando la parola come se dandole un suono, potesse acquisire il mistero
che aveva portato Stiles a sopporlo e quest’ultimo reagì sgranando gli occhi,
la pelle che impallidiva, perché per l’ennesima volta era stato incauto e aveva
lasciato fuoriuscire qualcosa che nessun altro conosceva. Kate era un segreto
suo e di Derek, all’infuori di loro non poteva essere compresa le motivazioni
per cui Stiles l’avesse dato per scontato, errando. «Non è bloccato, di certo non
lo era fino al suo ultimo anno da liceale».
Ah, quindi le sue teorie si sbriciolavano
come castelli di sabbia. Da una parte era sollevato, ma dall’altra era ancora
più confuso di prima.
Erica rilasciò una risatina e il figlio
dello sceriffo la guardò disorientato, le iridi d’ambrosia brillanti e
stuzzicate; era completamente un pesce fuor d’acqua. «Derek è cambiato tanto
dopo Paige, ma dopo l’incendio è come se fosse morto anche lui. Quantomeno la
sua parte spensierata, quella in cui si fidava del prossimo e accoglieva ciò
che di nuovo il mondo aveva per lui» articolò con l’amaro in bocca. Erica aveva
partecipato al suo spegnimento, alla sua personalità che si oscurava, divenendo
l’opposto di ciò che era all’inizio. «Io e Laura non sapevamo proprio gestirlo,
è stato difficile, sfiancante. Non riuscivamo a capire come potessimo aiutarlo»
Stiles avrebbe voluto dirle che non avrebbero mai potuto accorrere in suo
soccorso perché Derek celava un segreto troppo grande dentro di sé, che lo
inibiva e lo avvelenava. Lo stava ancora divorando vivo. «Ma poi è cambiato
ancora. Non qualcosa di eclatante o rumoroso, non qualcosa di peggiore, ma
aveva subito un’altra variazione e all’improvviso io e Laura l’abbiamo visto
ricominciare a respirare. Ci ha dato speranza».
Stiles si sentiva risucchiato, ma Erica
non aveva ancora terminato. «Derek sta continuando a cambiare, proprio sotto ai
nostri occhi e sta ridefinendo se stesso» la lupa ci
credeva ciecamente, era così evidente, che non avrebbe mai potuto scambiarlo
per nient’altro. «Credi che Derek si muovi soltanto nella tua direzione, che
tutto quello che fa è per te, per venirti sempre incontro ed è così, è vero, ma
non è esclusivamente questo. Gli fa bene averti intorno, il modo in cui agisce
è anche per se stesso».
Il figlio dello sceriffo era piuttosto
frastornato, eppure coglieva esattamente l’essenza delle parole della sua
interlocutrice. «Pensi che cambierà ancora?» non aveva mai ipotizzato che
avesse delle influenze positive sul lupo nero, Stiles si ritrovava in quella
fase in cui credeva di essere solo un impiccio per chiunque. Una fase che in
realtà esisteva da quando era nato e che si era accentuata dopo la dipartita di
sua madre; continuava a ramificarsi. Si domandò se sarebbe mai stato in grado
di rompere quelle catene.
«Io ne sono sicura» affermò certa la
creatura della notte, la speranza era ben evidente negli occhi castani e niente
poteva privargliene. «Sappiamo entrambi cosa potrebbe diventare».
Sì, Stiles avrebbe tanto voluto assistere a
quell’evento, essere nel posto giusto al momento appropriato, essere testimone
dell’istante in cui le iridi eterocromi di Derek si sarebbero riempite di
esclusivo rosso cremisi. Sarebbero ancora stati insieme fino a quel giorno?
«Dovremmo rivederci» si approcciò Theo con
il sorriso provocatorio sulle labbra, l’aria a chi non poteva essere detto di
no.
Lo studente di scienze politiche l’aveva
intercettato subito dopo la sua ultima lezione pomeridiana, accorrendo nella
sua direzione dall’edificio opposto della sua facoltà, segno che l’avesse
raggiunto di proposito e non casualmente. «Lo facciamo già, abbiamo un gruppo
di studio in comune» in cui si era illecitamente aggiunto.
«Soltanto noi due» specificò il ragazzo
dagli occhi azzurri, la bocca curvata di malizia.
Stiles roteò gli occhi, disturbato da
quella presa di posizione. «Non sono interessato» pensava di essere stato
chiaro quando era sgattaiolato via dalla sua camera e non si era prorogato
nell’estendere l’invito nel futuro.
«Perché? Ci siamo divertiti» Theo non
aveva alcuna intenzione di demordere, la sua aura affascinante la stava
emanando tutta. «È stato piacevole» era stato tante cose, non voleva proprio
farne a meno.
«Lo è stato» confermò il figlio dello
sceriffo, i ricordi delle sensazioni che aveva provato quella notte. Si era
intrattenuto con lui anche fin troppo per i suoi standard. «Ma non ho
intenzione di ripetere l’esperienza».
Theo lo guardò confuso, le iridi di
zaffiro si spostarono dietro di lui, oltre la sua schiena, dove vi era un
gruppo di quattro persone che palesemente stavano aspettando qualcuno e quel
qualcuno era Stiles.
Buona parte dei titolari della squadra di
basket, compreso il capitano, insieme ad una ragazza bionda, erano poco
distanti dal punto in cui si trovavano e parlottavano tra loro, credendo di
apparire discreti, disinteressati, ma Theo li aveva intercettati ben prima che
riuscisse a raggiungere Stiles, anticipandoli. Derek Hale non parlava, non
sembrava nemmeno ascoltare o guardarsi intorno, ma Theo sapeva che non era
affatto vero. «Cosa te lo vieta?».
«Me stesso» rivelò lo studente di
criminologia, l’attenzione che catturava di nuovo su di sé. «È una mia regola,
non andare con la stessa persona per più di una volta».
Theo lo osservò a lungo, gli occhi che non
riusciva a distogliere da lui, il segreto che tentava di far emergere. «Cos’è
esattamente che non vuoi?».
«La ripetizione» semplificò il suo
interlocutore, le iridi d’ambrosia che lo seguivano passo passo.
«Creano un precedente, affidabilità, quotidianità».
«Non ti sto chiedendo di impegnarti con
me» Theo diede voce a cosa realmente Stiles rifugiasse, a quanto chiaro gli si
presentasse in quel momento. «Nessuna relazione, ma soltanto passare alcune ore
piacevoli».
«È un tipo di relazione anche quella»
dissentì il figlio della massima autorità di Beacon Hills, la chiarezza della
sua argomentazione che si palesava a concretizzare le sue convinzioni.
Il bruno invece di esserne risentita, mutò
i suoi tratti facciali in compiaciuti, ammirati e impressionati positivamente.
«È difficile spuntarla con te» e mentre nel viso di Stiles capeggiava un punto
interrogativo, Theo azzerò la distanza tra loro e fece congiungere le loro
bocche, impossessandosi cautamente delle sue labbra, con l’intenzione di farlo
durare il più a lungo possibile. Stiles a quel bacio rispose senza indugio. «Tu
mi piaci».
Oh, Stiles sapeva bene quanto gli
piacesse. «Questo è un problema» che avvallava la sua tesi.
Lo studente di scienze politiche non si
abbatté, al contrario era solo più intricato e si prodigò per baciarlo ancora,
a rimarcare la sua presenza su quelle labbra rosse e gonfie per quello che si
erano già scambiati. «Ciao, Theo» ma Stiles si allontanò, la bocca impudica che
aveva la meglio, ammiccando spudoratamente e una mano che sventolava un saluto
definitivo; non appariva turbato in alcuna maniera. A Theo non rimase che
guardarlo raggiungere il suo evidente gruppo.
«Ehy, ragazzi» Stiles corse da loro come
se non fosse accaduto nulla un momento prima, senza che le sue labbra pulsanti
potessero dare un indizio a delle creature attente e meticolose come loro. «Ho
una notizia».
«Stiles» lo salutò Erica con calore,
irradiandolo da ogni poro, anche se non poteva non notare un’occhiata assestata
e di rimprovero che aveva precedentemente rifilato a Derek. «Sei sceso a patti
con il bel ragazzo laggiù?» chiese cogliendo la palla al balzo, indicando con
fluidità e poca trasparenza l’individuò da cui si era defilato con maestria.
«Cosa? No. Ignoratelo» l’umano lo adocchiò
appena, consapevole di avere ancora le sue iridi blu su di sé. Non era un suo
problema. «Al Crescent
Moon
cercano personale in vista di Halloween e mi hanno preso».
Stiles era entusiasta, il suo
coinvolgimento trasbordava. «Prevedo un avvelenamento futuro» Derek sprezzante
diede voce ai suoi pensieri, senza scomporsi.
«Ehy» la matricola gli assestò un pugno su
un braccio, consapevole che non lo avrebbe scalfito affatto, ma doveva comunque
enfatizzare il suo risentimento. «Derek, sei il peggiore dei peggiori».
Il lupo nero non si fece scalfire e Stiles
sbuffò annoiato. «Siamo felici per te» disse invece Boyd, in contrapposizione
al loro capitano.
«Grazie» sorrise a trentadue denti lo
studente di criminologia, accogliendolo di buon grado. «Siete tutti i
benvenuti, tranne il Sourwolf».
«Ad essere sue cavie» tradusse Derek per
loro, riguadagnando una nuova gomitata dall’essere umano. «Sei sicuro di
farcela con i tempi?» tutto l’assetto intorno a loro cambiò e l’attenzione del
nato lupo era tutta su Stiles, con la preoccupazione ben evidente, ma soltanto
per le quattro persone che gli stavano intorno. «Sei pieno di corsi, più quelli
extra».
«Sì, abbiamo concordato gli orari» nel
campus era fatto tutto per coincidere con la vita frenetica degli studenti, non
era insolito che i locali presenti si avvalessero di manodopera studentesca.
«Voglio farlo».
Derek lo fissò a lungo, capiva perché
fosse indirizzato verso quella direzione, il desiderio di Stiles di essere più
autonomo, di avere delle entrate finanziare in più, di non doversi trovare a
contare i centesimi per arrivare a fine mese e gravare ancora di più sulle
tasche di suo padre. Anche se Stiles era riuscito ad ottenere clamorosamente
una borsa di studio completa, non poteva compensare tutto. «Se ci tieni così
tanto. Ma non devi sfinirti».
Stiles sorrise pienamente per il suo
appoggio e si godette tutto il momento in cui il lupo completo gli scompigliò i
capelli, a dimostrarli il suo supporto. Il loro pizzicarsi spariva
immediatamente.
«Questa, invece, da dove salta fuori?»
Erica prese una punta dell’indumento che aveva richiamato il suo interesse,
trattenendolo tra le dita e tirandolo leggermente per enfatizzare sul capo.
Stiles la guardò in un primo momento
interdetto, non capendo assolutissimamente a cosa si riferisse ed era maligno
da parte sua ma Isaac quasi si illuminò, come se non fosse più l’unico del
gruppo. «Chiedi a mamma chioccia» il dito indice si allungò nella direzione di
Derek e quest’ultimo ignorò completamente le sue lamentele non tanto
silenziose.
Stiles si era dovuto arrendere, quella
mattina aveva tirato fuori il suo giubbotto blu scuro molto poco usato e lo
aveva indossato con molto scontento. Derek lo aveva guardato per tutto il tempo
impassibile e poi si era avvicinato ad uno dei suoi ripiani, afferrando
qualcosa da un mucchio che generalmente non guardava nemmeno e raggiungendo
l’umano quando trovò quello che stava cercando. Gli avvolse attorno al collo
una sciarpa senza che Stiles se ne rendesse minimamente conto e la sistemò per
bene, sotto lo sconcerto del figlio dello sceriffo. «Non l’ho mai vista» fu
tutto ciò che riuscì a tirare fuori, osservando con sgomento e riluttanza
quella consistenza morbida e calda, di quel rosso aranciato che continuava a
spuntare in ogni dove. «Dove la tenevi nascosta?».
«Non mi risulta tu abbia sbirciato in
tutto il mio guardaroba» lo deviò il licantropo, la curva sarcastica sulle
labbra.
Stiles sbuffò risentito, come se fosse
stato beccato con le mani nel sacco. «Perché dovresti avere una sciarpa?» cosa
se ne faceva un lupo di un accessorio inutile come quello?
«Perché tu, invece, non ne hai?» lo
ribeccò la creatura della notte, gli occhi verdi che lo assestavano al suo
posto.
«Vivo in California, non mi serve» si
lamentò la matricola, la stoffa che prendeva tra le falangi con la voglia di
togliersela di dosso.
«Non vivi più in California, Stiles» Derek
fu diretto, lapidario, non c’erano vie di margine.
Stiles dovette incassare il colpo. Non era
un rimprovero il suo, semplicemente in nato lupo cercava di rendergli chiaro
quanto fosse distante da casa e le cose fossero diverse, le abitudini, i
comportamenti, il modo di sopravvivere a delle temperature rigide che Stiles
non aveva mai sperimentato. «Sì» soffiò, lo sguardo che incontrava dei nuovi
nuvoloni che minacciavano pioggia.
Derek gliel’aveva nuovamente riavvolta,
più sistemata e propensa a proteggerlo meglio. Stiles non era nemmeno sicuro se
i colori che indossava cozzassero tra loro. «Tienila».
Le iridi ambrate si incollarono a quelle
di giada e non gli permise di scappare da lui. «L’hai comprata per me, non è
vero?».
«Sono quasi sicuro sia il suo colore
preferito» disse Stiles al resto del branco, ammiccando villano verso il lupo
completo. Derek non aveva risposto nell’appartamento, si era semplicemente
diretto verso la porta ed aveva aspettato che l’umano lo seguisse.
Quando avevano raggiunto il portone e
sceso i gradini, Stiles fu subito colpito dal freddo pungente, che gli
schiaffeggiava il viso, quindi inevitabilmente affondò fino al naso in quella
sciarpa calda e provvidenziale, prendendo un respiro di sollievo, mentre le
gote di conseguenza si arrossavano per la temperatura glaciale. Derek aveva
mostrato una piega sulla bocca vittoriosa e Stiles molto maturamente aveva
risposto con una linguaccia.
Erica aveva ridacchiato, mentre Isaac e
Boyd annuivano invisibili, come se non volessero essere beccati dal grande lupo
cattivo. «È probabile di sì» aveva detto lei, ignorati totalmente dallo
studente di letteratura che appariva duro d’orecchi, ma che aveva comunque
roteato gli occhi piccato dall’insistenza della matricola. «Il tuo qual è?».
«Il rosso» dovette elaborarlo per qualche
secondo prima di dare una risposta, non se l’era mai chiesto realmente, era
soltanto accaduto che quel pigmento scegliesse lui.
La mannara ammiccò sapientemente deliziata
e addolcita. «Non saresti il nostro perfetto Cappuccetto Rosso».
«Già, nemmeno lei stava attenta ai
pericoli» proferì sarcasticamente il capitano della squadra di basket, la
frecciatina ben assestata.
«Penso proprio che aggiungerò dello
strozzalupo al tuo caffè» lo ribeccò lo studente del primo anno, la spavalderia
che lo caratterizzava.
Derek lo fulminò, a sottolineare quanto
stesse giocando con il fuoco, mentre Stiles sorrideva impavido con il ghignetto
da volpe scaltra che aveva battuto il lupo corrucciato. Tutti e cinque,
comunque, si rincontrarono alcune ore successive per cenare in reciproca
compagnia.
Era rimasto pietrificato per qualche
secondo quando aveva raggiunto il Crescent Moon in quel primo pomeriggio, trovandosi faccia a faccia
con Tracy, Tracy Stewart, nuova barista come lui, assunta in occasione della
festività del trentuno ottobre.
Doveva esserci una congiunzione astrale da qualche
parte di cui era all’oscuro, perché non era credibile che nella stessa settimana
stesse incontrando tutti i suoi ex partner sessuali.
Contro ogni sua previsione, si erano trovati bene a
lavorare insieme, nessuna frecciatina, nessun argomento controproducente, erano
lì per imparare e la ragazza era stata assunta due giorni prima di lui, quindi
risultava più pratica nel servire i clienti. Nelle retrovie c’era qualcuno che
vigilava costantemente su di loro, a spiegargli le basi che gli mancavano,
insieme alla proprietaria, la signora Freeman. Ogni tanto dalla cucina facevano
una capatina il marito e il nipote, addetti alla pasticceria. Stiles quelle ore
le aveva trovate divertenti.
«Ehy, Der» il lupo mannaro aveva varcato la soglia,
fatto suonare la campanella che avvertiva l’entrata di un nuovo cliente. Si era
fermato ad osservare la caffetteria solitamente dai colori pastello essere
invece piena di decorazioni per Halloween e che, amaramente, erano anche in
tema con il nome scelto per il locare; anche se c’erano ragnatele e streghette
appese con un po’ ovunque, c’era un’abbondanza di lupi mannari, insieme alla
stilizzazione di lupi completi in ombra. Stiles l’aveva adorato, Derek ne era
nauseato. «Pensavo ti saresti tenuto alla larga» stava ammiccando
spietatamente, ma era sorpreso e contento.
«Sono ancora di quell’idea» snocciolò il capitano,
interrotto da un secondo campanello che annunciava Erica subito dietro di sé,
accolta dall’entusiasmo dell’umano. «Il ragazzo che evita come la peste la mia
macchinetta del caffè».
«Ma questa è assicurata, mi sento meno in colpa. Alla
tua non oso nemmeno avvicinarmi» disse terrorizzato, come se fosse il peggiore
dei suoi incubi.
Derek lo fissò in modo criptico, a giudicare tutte le
sue scelte. «È questa la tua ritrosia? È assicurata anche la mia».
«Ah» non che cambiasse davvero i fatti, si sarebbe
sentito responsabile comunque.
«Desidero tanto un muffin» richiese Erica spigliata,
scavalcando il turno di Derek e sistemandosi al suo fianco sul bancone. «Al
cioccolato».
Stiles sorrise, avendo imparato preventivamente i suoi
gusti e precipitandosi a prendere il dolcetto nell’apposita teca, afferrando un
piattino e sistemato un tovagliolino brandizzato sul fondo in cui adagiò il
muffin. «Servita».
Erica uggiolò contenta e Stiles le regalò un altro
sorriso, prima di girarsi e trafficare con la macchina del caffè, tra tubicini
e tasti, prendendo una tazza di una dimensione e forma che mise in allarme il
licantropo. «Stiles, che stai combinando?».
«L’hai detto tu: siete le mie cavie» gli ritorse
contro il figlio dello sceriffo, le curva beffarda sulla sua bocca, mentre
trafficava con la schiuma.
«Non posso nemmeno scegliermi la bevanda?» domandò
retoricamente lo studente di letteratura, aggrottando la fronte e indurendo lo
sguardo.
«No» rispose prontamente la matricola, poggiando la
tazza fumante sul bancone di fronte al cliente scontento, prendendo il bricco
il cui era contenuto il latte. «Se non posso esercitarmi con voi, non posso
farlo con nessuno».
Derek rimase in silenzio a seguire ogni movimento
dell’umano con gli occhi, le movenze ancora acerbe che cercavano di dare il
risultato migliore. Era immerso ed impegnato Stiles, la lingua che si leccava
le labbra per la concentrazione. «Ecco a te».
«Un cuore?» non è che suonasse propriamente
inorridito, ma non era lusinghiero. Vi era un cuore creato dalla schiuma e dal
latte aggiunto su un cappuccino che non avrebbe mai ordinato in vita sua. Non
era perfetto, ma aveva il suo fascino.
«È il più facile» si giustificò Stiles, poggiando il
contenitore ormai vuoto di liquido bianco dal suo lato del bancone, aspettando
speranzoso che il mannaro bevesse ciò che gli aveva preparato. «Un giorno
riuscirò a creare una foglia».
Derek non fece domande, ma Stiles si prodigò a
poggiare davanti a lui un piattino con l’apposito tovagliolino, adagiando un
cookie alle nocciole. «Offre la casa» e si esibì in uno dei suoi sorrisi più
belli.
«Non penso ti possa permettere certe libertà» graffiò
la creatura della notte, tuttavia non era per niente stupito di come Stiles
fosse Stiles in ogni ambiente.
«E dai, Sourwolf, fammi felice» la matricola assunse
la posa da cucciolo supplicante, ma gli angoli della bocca erano curvati
all’insù e stava soltanto aspettando.
«È lo scopo della sua vita» dichiarò la studentessa
d’arte, mentre mordeva con eleganza il suo prezioso dolcetto al cioccolato.
Derek la trucidò con lo sguardo, ma né lei né Stiles
si scomposero, al contrario quest’ultimo continuava ad essere in fremente
attesa e il mutaforma si ritrovò a sospirare dentro di
sé, approcciandosi a sorseggiare il cappuccino. «Passabile».
Stiles sorrise come se fosse il sole e gli avesse
fatto un complimento enorme e Derek affondò nuovamente nella tazza.
«Lo voglio anch’io un cappuccino con il cuore» pretese
la lupa mannara con entusiasmo, battendo le dita sul banco a dettare il ritmo.
Stiles glielo preparò in poco tempo. «È buonissimo, Stiles» Stiles regalò anche
a lei un cookie classico come premio. Poi fu richiamato a servire altri
clienti.
«Lo farà fallire questo posto se continua a regalare
biscotti» proferì il capitano della squadra di basket quando il figlio dello
sceriffo si allontanò, osservandolo essere educato e servizievole con chiunque
richiedesse i suoi servigi.
«Andiamo, Stiles è attento a queste cose» lo rabbonì
Erica, godendosi il suo cookie faticosamente ottenuto. «Voleva essere gentile
con le sue persone preferite».
Derek meditò non convinto, ma la mannara era allietata
e quindi c’era poco da ribattere.
Un quarto d’ora dopo il lupo completo si presentò alla
cassa, richiamando l’attenzione di Stiles. Non attese nemmeno che gli
presentasse il conto irrisorio. «Derek» c’era un rimprovero ben udibile nel
nome a cui diede voce, fissandolo dritto nelle iridi boscose. «È troppo».
«Esiste la mancia» gli ricordò il licantropo, come se
ne avesse seriamente bisogno.
«È troppo anche per essere una mancia» Stiles teneva
le banconote in mano, era indeciso su cosa dovesse provare prima. «La mancia è generalmente
del venti percento e non ti ho nemmeno servito al tavolo».
«Sto pagando un servizio» disse Derek con precisione,
eloquente. «Questo è il valore che gli do».
Stiles rimase fermo a fissarlo, il tempo che
trascorreva, non gli interessava affatto se la fila degli ordini si allungava.
«Non posso accettarli» tra le dita scartò la maggior parte del denaro che Derek
gli aveva passato, trattenendo soltanto il prezzo del cappuccino che gli aveva
preparato, non permettendogli altra scelta. Depositò i dollari sull’incavò
apposito, spingendoli verso il mannaro.
Derek li riprese con sé e li osservò per qualche
momento. «Va bene» ma non li posò nel portafoglio in cui erano contenute tutte
le sue carte di credito, si diresse semplicemente nella direzione opposta,
raggiungendo l’altra barista. «Ciao».
«Ciao» Tracy fu presa alla sprovvista,
ritrovandosi qualcuno che non si aspettava affatto di incontrare ed interagire
con lei. Incespicò perfino nell’unica parola che era riuscita ad emettere.
«Questi sono per te, per il tuo impegno» proferì Derek
con disinvoltura, il suo fascino seduttivo che prendeva il sopravvento.
«Ah, grazie» era una specie di punto interrogativo,
Tracy si trovava in seria difficoltà e accettò il denaro che Derek Hale, il
famoso capitano della squadra di basket, le stava offrendo.
Stiles li guardò per tutto il tempo congelato, gli
occhi sgranati e sgomenti. «Cosa sta facendo?» domandò all’unica persona che
era rimasta nelle sue vicinanze.
«La persona civile» disse Erica con divertimento, la
bocca scarlatta che si godeva la scena.
«Quello non è essere civile» la contradisse il figlio
dello sceriffo, fissando ostentatamente Derek che consegnava la mancia
eccessiva tra le mani della sua collega. «Accidenti, si è appena presa una
cotta per lui» Stiles lo vide accadere davanti ai suoi occhi, il momento esatto
in cui Tracy impallidiva davanti a Derek e ne veniva conquistava subito dopo, a
quel gesto di carineria che non si era aspettata di assistere né tantomeno di
esserne la protagonista.
La mutaforma rise senza controllo, godendosi tutti gli
aspetti di quegli eventi inaspettati. «Cosa ti avevo detto su Derek?» riprese
il controllo, dirigendo tutta la sua saggezza verso la sua persona. «Avresti
dovuto accettarli. Non voleva farti la carità o offenderti, lui agisce così e
basta».
«Non sono offeso» il modo in cui agisce è anche per se stesso. «Continua a non sembrarmi corretto».
«Stiles» l’umano fu richiamato da Tracy
che si era precipitata a raggiungerlo nel momento in cui Derek si era
congedato, lasciando il Crescent
Moon
dietro di sé e interrompendo qualsiasi cosa Erica avesse voluto aggiungere. «Il
tuo ragazzo mi ha appena sommerso di una generosa mancia. Non l’ho servito
nemmeno io!» era attonita e l’esclamazione non era riuscita a trattenerla,
forse aveva seguito il Bianconiglio senza rendersene conto.
«Non è il mio ragazzo» articolò piccato Stiles. Era
una vera eresia. Cominciava a stancarsi della gente che credeva che tra lui e
Derek ci fosse qualcosa che andasse oltre un sano rapporto platonico. Un
rapporto che andasse oltre gli occhi di chi li guardava.
«Ah, davvero?» Tracy lo scrutò inebetita,
le palpebre che si abbassavano e aprivano più volte, incapace di credergli.
Osservò le banconote che teneva ancora in mano e la figura che si era defilata
con passo felpato, a non essere rintracciato o ricordato, ma era impossibile
dimenticarlo. «Interessante».
«Interessante?» c’erano degli
interrogativi che volteggiavano intorno a lui, poteva quasi vederli, come
percepiva del pericolo dietro l’angolo.
Tracy si sistemò nella tasca dei jeans la
mancia che il playmaker gli aveva lasciato, quasi ignorandolo. «Forse, invece,
lui vorrebbe esserlo».
La barista sganciò una bomba che mai
Stiles si sarebbe aspettato di udire. «Cosa?».
La studentessa di criminologia sparì dalla
sua vista, le labbra furbette ed Erica ridacchiò illuminata, protendendosi
verso l’umano sgomento ed atterrito e scioccandogli un bacio rumoroso sulla
guancia più vicina. «Buon lavoro, Cappuccetto».
Stiles rimase frastornato per un lasso di
tempo considerevole, interrogandosi sull’autenticità dei fatti accadutasi, in
dubbio se avesse assistito all’ennesima illusione manifestata dalla propria
mente.
Stiles era rientrato nell’appartamento di
Derek con il tintinnio delle chiavi che spezzavano il silenzio, lo spazio
davanti a sé completamente lasciato al buio, la necessità di dover chiudere a
doppia mandata la porta, perché non sarebbe rincasato nessun altro ed era
inutile lasciarla in un limbo. Quando accese la luce, l’interruttore più vicino
all’entrata, lo accolse il vuoto e procedendo avanti la sensazione si
ramificava.
Non c’era il mazzo di chiavi di Derek
nell’apposita ciotola, oggetto in cui depositò il suo, nel bagno mancavano
alcuni dei prodotti di igiene personale del lupo, più altri di uso giornaliero,
il letto era immacolato e le lenzuola erano state sistemate quella stessa
mattina, ma vi era un solco sul materasso, punto in cui probabilmente Derek
aveva poggiato o il borsone sportivo o il piccolo trolley che usava in quelle
occasioni. Le tende che coprivano e isolavano l’ala da notte con il guardaroba
non erano state tirate bene, alcune parti risultavano scoperte, segno che il
mannaro si fosse mosso in fretta e non avesse potuto dargli l’attenzione
maniacale che in genere lo caratterizzava.
Quando giunse in cucina Stiles sospirò, vi
era un solo bicchiere nel lavello, tutto il resto sembrava essere stato
sistemato negli appositi scompartimenti o dentro la lavapiatti che da quanto
aveva compreso, utilizzava molto di più da quando la sua presenza era entrata
nel quotidiano di Derek.
Stiles si cambiò, indossando qualcosa di
più confortevole, cercando di scrollarsi di dosso la stanchezza della giornata,
preparandosi di malavoglia un panino e accendendo la televisione a schermo
piatto che ogni stanza e appartamento del campus aveva in dotazione. Smanettò
con le varie applicazioni esterne, i servizi streaming che Derek aveva messo a
disposizione e di cui entrambi beneficiavano. Era una buona soluzione non dover
digitare la password ogni singola volta e ancora di più che non necessitasse del
licantropo per quel tipo di attività. Sarebbe stato un punto di non ritorno se
Derek gliele avesse comunicate per semplificargli il suo soggiorno lì e Stiles
era stato piuttosto severo sul non volerle scoprire da sé, com’era al contrario
sua abitudine.
Dopo aver scelto un film a caso senza
prestargli particolare attenzione, ma più propenso a volersi addormentare,
terminò di riempire la lavastoviglie e l’avviò, per poi dirigersi verso il
bagno dove si spogliò della stanchezza e malinconia, con l’acqua che scorreva a
cancellare ogni evento di quel giorno non diverso da tanti altri, ma che era
più pieno per via del suo part time alle prime armi. Si avvolse dentro il
pigiama e si rotolò tra le lenzuola, posizionandosi esattamente al centro del
materasso, a godersi la sensazione di averlo tutto per se
stesso.
«Ciao, Derek» il capitano lo chiamò
diversi minuti dopo, lo schermo luminoso che inquadrava Sourwolf,
l’icona dell’app che faceva capolinea, ad indicare una videochiamata imminente.
«Vi siete sistemati?» domandò mentre sbirciava attraverso la telecamera, in
cerca di indizi che gli suggerissero dove fosse.
«Adesso sì» Derek gli inquadrò velocemente
i piedi del letto e la scrivania posizionata ad un metro di distanza, lo
schermo spento piantato sul muro che si reggeva attraverso un supporto che
Stiles non riusciva a vedere, per poi ritornare su di sé. Indossava come
tradizione soltanto i pantaloni del pigiama, il petto rigorosamente scoperto ed
era ancora umido, per via della doccia in cui sicuramente si era rinchiuso
prima di chiamarlo. Era illegalmente attraente perfino attraverso una
fotocamera frontale, che di norma non era gentile con nessuno; lo trovava
infinitamente ingiusto. «Com’è andata la tua giornata?».
«Mi sono stancato» gli comunicò, uno
sbadiglio che tardò a coprire completamente, la luce soffusa sul comodino che
lo illuminava. «Che è esattamente quello che mi serviva».
«Non devi essere preoccupato» proferì
Derek a rasserenarlo, anche se l’umano tentava di non far notare quanto fosse
turbato. «Ho dato le chiavi ad Erica».
«Credo tu abbia fatto una pessima
valutazione» le labbra di Stiles si distesero in un sorriso ampio, era
intrigato. «Non te le ridarà mai».
«Cambierò la serratura» la risolse con
semplicità Derek, mentre si aggiustava uno dei tanti cuscini bianchi dietro la
testa. «L’ho già cambiata il primo giorno che sono arrivato qui. Bisogna sempre
cambiare la serratura di un locale, che sia in affitto o acquistato, non sai
chi potrebbe possederne le chiavi e ritrovarti in casa».
«Perché, puoi farlo?» le iridi mielate si
ingrandirono, disturbate da una nozione che contrastava quelle di cui era
precedentemente in possesso. Era una lezione interessante su cui non aveva mai
riflettuto, probabilmente perché era lui quello che generalmente aveva copie di
chiavi che non avrebbe dovuto avere.
«Se pago di tasca mia, posso fare tutto»
rispose schiettamente il lupo nero, a sottolineare che non esisteva qualcosa di
impossibile.
Beh, aveva un certo senso, in qualche modo.
La legge dei privilegiati contro tutti gli altri. «C’è scritto questo sul
contratto?» lo punzecchiò il figlio dello sceriffo.
«Pressappoco» snocciolò il suo
interlocutore, non lasciandosi sopraffare dalla volpe subdola che lo teneva
incollato al cellulare e Stiles ridacchiò di cuore, il viso che scacciava
quell’aria oscura che capeggiava su di sé.
«E cosa si fa con la vecchia serratura?»
era considerato vandalismo la sua sparizione?
«Si conserva e poi, prima di lasciare
l’abitazione, si rimette al suo posto» era facile, era un’accortezza
fondamentale.
«Dovrei ricordamelo per il futuro» il
figlio della massima autorità di Beacon Hills dubitava che quelle regole
valessero anche all’interno di un dormitorio, il che rendeva tutto molto
precario e poco sicuro. Doveva aggiungere anche quell’ulteriore senso di
protezione e sicurezza nell’essere, nolente, costretto a passare le notti
nell’appartamento a prova di irruzione del capitano.
«Stiles» lo articolò il mannaro nel
captare la direzione più nebulosa e afflitta in cui i suoi pensieri stavano
scivolando. «Funzionerà. Basta che lasci sempre la chiamata aperta».
La matricola si morse il labbro inferiore,
la punta di un canino che fuoriusciva agitato. «E se cadesse la linea? Si
scollegasse tutto?».
«Ti richiamerò» disse Derek pronto, la
soluzione ad un problema già concordato. «E continuerò a chiamarti finché non
risponderai. E se non dovessi mai risponde, butterò giù dal letto Erica».
«Mh» Stiles non
era particolarmente entusiasta di quell’idea, il coinvolgere altre persone nel
suo problema, nella soluzione che Derek si era rivelato per lui. Ma se il nato
lupo non era nemmeno nello stesso stato e li separava perfino un’ora di fuso
orario, non c’erano granché alternative e ne erano consapevoli entrambi.
Tuttavia, era qualcosa che non riusciva a digerire.
«Andrà bene» lo rincuorò il giocatore di
basket, la voce che si faceva più calda. «Sei migliorato molto».
Stiles avrebbe voluto ribattere con un
pensiero che lo angustiava, ma se lo tenne per sé e lo cacciò nelle retrovie
della mente. «Halloween è la tua festa preferita?» Stiles era un vero mago dal
passare da una conversazione all’altra e proprio per questa sua caratteristica
aveva dirottato su altro quasi immediatamente, immergendosi su qualsiasi tema
la sua mente fosse attraversata e Derek gli andava silenziosamente dietro ad
esortarlo, rispondendo e condividendo spazzi di vita, il minutaggio della videochiamata
andava ad assommarsi.
«Perché lo chiedi?» fu costretto il
playmaker a rigirare la domanda, a tentare di seguire le sue macchinazioni.
«Ho questo ricordo di te, in cui ti
aggiravi per la città disinteressato e non particolarmente coinvolto, ma ogni
volta che incontravi dei bambini con i loro costumini e il secchiello per i
dolci in cerca di altri, attirando la tua attenzione, tu li spaventavi in
qualche modo e gli scatenavi degli urletti tanto carini» snocciolò il figlio
dello sceriffo, l’aria sognante ed intenerita. «Scappavano ogni volta, ma erano
felici quando si rendevano conto di essere sopravvissuti alle tenaglie del
misterioso essere che avevano incontrato, pieni di adrenalina ed elettrizzati
per l’avventura appena vissuta. Gli davi ciò che desideravano e tu sorridevi
sempre» caratteristica che con il tempo era svanita fino a estinguersi,
soltanto nelle notti di Halloween Derek si lasciava andare. Era anche vero che
Stiles avesse notato come riuscisse a strappargli uno di quei sorrisi di tanto
in tanto. Erano perfino aumentati nei due mesi che avevano trascorso in
reciproca compagnia.
«Quando sarebbe successo?» domandò il
licantropo qualche attimo più tardi, ad assimilare la descrizione appena udita
e attribuirgli un contesto. Era in bilico.
«Sempre» proferì Stiles in una mezza
domanda e affermazione, non sapendo bene dove collocarla.
«Definisci sempre» esigette più
precisamente la creatura della notte.
«Ah» esclamò l’umano colpito, a mettere
insieme i tasselli. «Non sono entrato a conoscenza della tua persona a quindici
anni. Non passavi inosservato».
«Ma davvero» lo stuzzicò Derek, le iridi
di giada accese di interesse.
Stiles sbuffò piccato, il telefono che
veniva spostato di mano in mano per non gravare eccessivamente su una
specifica. «Io osservo» era l’unica spiegazione da dare.
«Lo so che osservi» concordò il nato lupo
con tono profondo, fin troppo conoscitore di quell’aspetto. «Altrimenti non
saresti così bravo a smascherare le persone».
Stiles si mutò e rimase ad osservarlo
attraverso lo schermo per qualche momento, non sapeva decifrare bene cosa Derek
gli stesse comunicando. Anche il mannaro era un abile osservatore, era una
caratteristica da non prendere sottogamba. «Allora, è la tua festa preferita?».
«Immagino lo sia, se hai necessità di
dargli una collocazione» la semplificò il mutaforma,
dando a Stiles ciò che agognava. «Posso essere chi sono davvero senza
nascondermi».
Era vero. Si rese conto che i piccoli di
Beacon Hills rientravano tra i pochi eletti a conoscere il reale colore degli
occhi di Derek, in qualche modo gli scaldava il petto. Era un segreto che non
avevano condiviso con nessuno. «Il lupo più bello del pianeta» dichiarò con
certezza, credendovi ciecamente. Derek lo fissò annoiato, ma Stiles non si
lasciò scoraggiare. «Sarebbe divertente se riuscissi a tornare in tempo,
domani. Potremmo andare in giro con te sottoforma di lupo e io con un bel
mantello rosso».
Stiles era in visibilio e Derek alquanto
contrariato. «Vuoi solo sfoggiarmi».
«Certo che sì» esclamò Stiles con enfasi,
illuminandosi tutto. «Chi non vorrebbe sfoggiare quel lupo bellissimo».
Derek soffocò un ringhio oltraggiato,
giudicandolo apertamente. «Non farò mai una cosa simile».
Le guance della matricola si gonfiarono e
gli occhi di inumidirono. «Sei un distruttore di sogni».
«Hai altre fantasie da condividere?»
ammiccò senza pietà il capitano della squadra di basket, immune al broncio
dell’umano.
«Non condividerò più nulla con te,
Sourwolf» si indispettì Stiles, l’offesa dipinta su ogni tratto del suo viso e
le labbra di Derek si arricciarono accennate di riflesso.
«Mio padre aveva ricominciato a guardarsi
in giro» ovviamente Stiles non era un tipo che riusciva a vincere una sfida al
gioco del silenzio e non impiegò molto a riprendere la parola, a dare voce a
tutto quello che aveva dentro la testa. «Si è anche tolto la fede. In un primo
momento avevo faticato a capire cosa fosse cambiato in lui, che fosse
finalmente arrivato alla conclusione che poteva andare avanti e ricominciare.
Il giorno prima indossava l’anello e il giorno dopo non c’era più» non gli
aveva mai chiesto se fosse stata una cosa graduale o se semplicemente suo padre
avesse fatto quella scelta ponderandola.
«Ti ha infastidito?» domandò Derek a
seguire la linea dei pensieri che si andava a formare.
«No. Insomma…» Stiles si trovava in
difficoltà, non sapeva argomentare esattamente ciò che aveva dentro. «Che senso
avrebbe avuto opporsi? Lei non era più con noi già da prima che ci lasciasse
definitivamente. È trascorso tantissimo tempo ed è giusto che vada oltre».
«Non importa quanto tempo si frapponga, tu
sei ancora ferito» la verità Derek la disse come se sgorgasse un fiume
impossibile da trattenere, a dispetto di quante dighe naturali o artificiali si
potessero creare.
«Non sono ferito da lui» proferì Stiles
con un sussurro, rotolandosi sul letto e cambiando posizione, il capo che
affondava meglio sul guanciale.
«Lo so» certi traumi non potevano essere
superati, il mannaro ne era un esperto ed entrambi portavano le loro cicatrici.
Stiles sospirò, il telefono che cercava di
incastrare su uno degli altri cuscini per far riposare le mani e usare come
leggio. Una leggera pausa scese a farli respirare, a far attecchire quei
pensieri che non ne volevano sapere di andare via. «Credo abbia smesso» rivelò
a continuare tutti quegli aneddoti di cui Derek era stato privato. «Dopo quella
brutta fotocopia di mia madre, ha subito una specie di battuta d’arresto. Non
lo so, forse anche lui è bloccato».
«Anche lui?» gli fece verso il licantropo,
la nota severa e di rimprovero che riecheggiò.
«Fa conto che non abbia detto niente» accidenti,
perché a volte si dimenticava di dover dosare bene le parole con Derek? Gli
veniva estremamente naturale parlare con lui, anche eccessivamente troppo.
«Quel pigiama, è quello che penso io?» il
playmaker non continuò a bersagliarlo, gli concesse una tregua e si concentrò
su altro, su qualcosa che aveva catturato la sua attenzione quasi subito, ma
che aveva tardato ad annotare.
La matricola direzionò leggermente la
testa verso il basso a rinfrescarsi la memoria. «Sì» spostò meglio il
ricevitore, la telecamera interna che inquadrava meglio il misfatto. «Mi ha
completamente rapito».
Infelice scelta di parole, avrebbe
esternato Stiles in sua vece. La piccola volpe estasiata dai suoi palloncini
che la tenevano sospesa nel vuoto troneggiava indisturbata nell’inquadratura
maldestra, con protagonismo. «Sei senza speranza» c’era un angolo sporco nella
sua bocca, arricciato verso l’alto.
Stiles sorrise apertamente al divertimento
nascosto del suo interlocutore, l’obiettivo che tornava a renderlo dominante.
«È come se fossi qui. Una parte di te, perlomeno».
Derek serrò la bocca, come se dovesse
assimilare ciò che Stiles aveva proferito, collocarlo da qualche parte, trovare
le parole con cui rispondere. «È così importante?» io lo sono?
«Sì» affermò con certezza il figlio dello
sceriffo, un arto superiore che andava ad abbracciare il cuscino prediletto,
portandolo a girarsi di conseguenza a pancia in giù. «È il modo in cui mi sento
più protetto. Sto reagendo, credo».
Derek non dissentì, non cercò neanche di
disilluderlo o fargli cambiare idea; se sulla psiche di Stiles aveva
quell’effetto, il lupo non gli avrebbe remato contro.
«Sai» continuò Stiles di punto in bianco,
perché rimanere con la bocca tappata per più di un minuto gli era
diagnosticamente impossibile. «Papà ha frequentato per un po’ la madre di
Lydia. Romanticamente» perché specificarlo era essenziale.
«Ah» Derek non riusciva a collocale la
notizia. «Questa non me l’aspettavo».
«Nemmeno noi» non li avevano minimamente
informati, non sapevano neanche avessero interagito in qualche occasione che
non fosse risalente al secondo anno, quando Lydia si era rivelata essere una
banshee. «Forse era un segnale sulla nostra incompatibilità futura».
«Credi a queste cose?» Derek ne era
alquanto sorpreso e non l’apprezzava particolarmente.
«Ho visto tante cose, assistito ad altre
ancora e ne sono stato il fulcro, non ci sarebbe nemmeno nulla di strano» non
era una nota positiva, non pensava ce ne fossero.
«Sei più cinico di quanto ricordarsi»
rivelò a voce alta la creatura leggendaria, il viso che si incupiva. «Una volta
eri più positivo, anche davanti alle avversità peggiori».
«La positività fatica ad emergere,
probabilmente si è armata di bagagli ed è fuggita nella notte» quell’idea così
strampalata e tipica di Stiles scatenò in entrambi dell’ilarità, in fondo il
suo sarcasmo non ne aveva risentito. «Chissà se mio padre ha mai realizzato ci
potessero essere delle conseguenze».
«Non stavate insieme» ragionò il capitano
della squadra di basket ad alta voce, ad esternare le sue macchinazioni.
Trovava anche difficile riuscire a collocare tutto nel corretto ordine
cronologico.
«No» confermò lo studente di criminologia,
le ipotesi che si affaccendavano davanti agli occhi. «Ma lui ha sempre saputo
quanto fossi innamorato di Lydia. Da quanto lo fossi. Perché fare una scelta
del genere? Mi aveva dato per spacciato?».
Stiles era agitato, anche leggermente
adirato perché non comprendeva cosa avesse spinto suo padre verso quella
direzione. «Lo eri».
«Ehy!» esclamò offeso il figlio dello
sceriffo, l’oltraggio evidente sui suoi tratti facciali. «Ho dimostrato il
contrario».
«Non sapevo fosse una sfida che dovevi
vincere» lo ribeccò con sarcasmo la creatura della notte.
«Ora mi stai attaccando» si imbronciò
l’umano, le guance gonfie per l’offesa.
«Probabilmente gli piaceva o pensava gli
piacesse, un’opportunità» deviò abilmente Derek, a tentare di far ampliare la
visione del suo interlocutore, disteso su quel letto gigante da solo. Un letto
che non era nemmeno il proprio. «D’altronde avevano molte cose in comune, non
credo che la lista da cui scegliere sia molto lunga».
«Due figli pazzi?» lanciò la domanda
retorica Stiles, la realtà che li schiaffeggiava.
«Non sei pazzo» negò immediatamente Derek,
il tono grave, la fronte contratta. Non gli piaceva dove stesse puntando la
conversazione, il modo in cui Stiles la stesse manipolando. «Non lo è nemmeno
lei».
«Buffo, non è quello che la gente pensa»
proferì Stiles con amarezza, le memorie che tornavano completamente indietro,
come se le stesse vivendo in quel momento. «È così che siamo stati trattati
all’Eichen House».
Stiles si era ricoverato volontariamente
dentro l’ospedale psichiatrico, ai tempi in cui non era sicuro di sé e la volpe
gli sussurrava nelle orecchie, avendo il controllo sul suo cervello e sul
corpo. Stava cercando di capire chi fosse, stava tentando di trovare una
soluzione da solo e svelare il mistero che si celava dentro quella mente che
giocava con lui. Lydia invece era stata rinchiusa per volere di sua madre, ai
tempi dei Dottori del Terrore, erano quasi arrivati ad un passo dal
lobotomizzarla. Era stato un incubo ad occhi aperti per entrambi, con
conseguenze che si portavano ancora dietro. «Quel posto è marcio, non dovresti
considerarlo. Mai».
Stiles affondò il viso sul cuscino,
scappando agli occhi attenti di Derek che combattevano le sue battaglie anche a
chilometri di distanza. Era faticoso, non lo voleva così lontano. «Le ho detto
di amarla» soffiò come se non credesse nemmeno lui che fosse stato possibile,
la bocca ovattata dal cotone, le iridi d’ambra che tornavano a scorgere il
lupo. «Quando ho capito che i Cacciatori Fantasma stavano venendo a prendermi,
che il processo era già iniziato. Non mi rimaneva più tempo, non sarebbe
rimasto niente di me. Ho pensato, creduto, che almeno quello sarebbe potuto
sopravvivere. Non è andata così».
Derek trattenne il respiro nei polmoni e
nello schermo si mostrò una notifica di un messaggio, ma la ignorò, come aveva
ignorato quelle precedenti e sicuramente successive. «Era vero?».
«Forse. Non lo so. È complicato» Stiles
sospirò di frustrazione, i piedi che si agitavano sul materasso. Si alzavano e
si abbassavano, in un ritmo tutto loro. «Lo era stato, credevo lo fosse anche in quel momento. Avevo bisogno che qualcosa
attecchisse, che non potesse essere cancellato. Un solo messaggio, uno
qualsiasi. Non so nemmeno se fosse rivolto a lei o se fosse rivolto a tutti.
Lei era l’unica che riuscisse ancora a ricordarsi di me e non vedesse uno
sconosciuto che farneticava» fece scemare la voce, quasi ad aver messo un punto
fermo. «Quindi è colpa mia?».
«Cosa è colpa tua?» Derek non riusciva più
a seguirlo, per quanto avesse compreso i suoi tormenti.
«Lydia ha ricambiato quell’amore che ho
costruito e serbato per circa dieci anni. L’ha fatto quando io non ero nemmeno
in questa dimensione» articolarlo era faticoso, argomentarlo e smontarlo gli
richiedeva energie. «Mi sono innervosito perché lei lo aveva dato per scontato.
Aveva dato me per scontato, quando non erano nemmeno riusciti a mantenere il
mio ricordo. Ha supposto fossi ancora il bambino di otto anni che stravedeva
per lei, il ragazzino e adolescente che sbandierava il suo amore per lei. Niente
cambiamenti, niente ripensamenti, per lei ero rimasto invariato. Quello che
provavo per lei era rimasto invariato. Ma non lo era; era, è, cambiato tutto.
Se mi soffermo a pensarci, provo una rabbia incontrollabile. Non voglio essere
un porto sicuro per chi ha dei ripensamenti o è improvvisamente consapevole di
chissà quale verità» si stava quasi sgolando, ma Stiles aveva bisogno di
esternare tutto il malessere che aveva all’interno e che lo bersagliava.
Respirare autonomamente non gli risultava sempre gratificante, a volte aveva
bisogno di ripeterselo nella mente. «Ma se lei mi avesse dato per scontato
perché le avevo confessato quelle parole? È qualcosa che ho scatenato io».
«Stiles, non è colpa tua se il tuo sogno
si è infranto» Derek lo annunciò quasi a rompere la barriera dietro cui Stiles
si era nascosto. La voce era avvolgente e la matricola poteva quasi illudersi
di averlo lì accanto a lei, tattile, pelle contro pelle, organismi che
percepivano la temperatura corporea dell’altro. «A volte i tempi non
coincidono, non si incastrano. Per quanto si voglia far funzionare le cose, non
è possibile. Questo è stato il tuo caso».
Stiles dovette aspirarle quelle parole e
successivamente espirarle, farle diventare ossigeno per il lasso temporale di
cui aveva bisogno per depurarsi. «Qual è il tuo caso, invece?».
Derek inclinò il viso per scrutarlo
meglio, imperturbato dalla sua invadenza. «Ora stai tergiversando».
Il figlio dello sceriffo mugugnò
contrariato, animato dal non voler essere smascherato. «Non è vero».
«È tardi» fece scoccare l’ora il mutaforma, l’orologio che parlava chiaro, insieme al
minutaggio che lo smartphone surriscaldato segnalava per quella videochiamata
interminabile. «Devi dormire».
«Non voglio farlo» si lagnò il
diciannovenne, sentiva una presa che si serrava intorno alla gola.
«Lo so» convenne Derek, conoscitore del
suo terrore. «Ma devi provarci».
«Rimarrai davvero tutta la notte con me?»
chiese in un ulteriore sicurezza. Anche se Derek aveva comunicato il suo piano
prima di procedere con il preparare i bagagli, Stiles non era comunque
tranquillo. Non vedeva come potesse andare tutto liscio.
«Sì» confermò il licantropo irremovibile,
lo smartphone che cambiava inquadratura. «Metti in carica il telefono dove
possa vederti».
«Ti ho già detto che è una cosa
inquietante da dire?» domandò retoricamente l’umano, mentre simulava un brivido
fasullo.
«Ogni volta» ma a Derek poco interessava
come potesse risuonare.
«Devi dormire anche tu» gli fece ben
presente lo studente di criminologia, anche se si era già mosso per prendere il
cavetto e collegarlo nell’apposita entrata. «Devi vincere la partita di
domani».
«Dormirò» lo rassicurò il mannaro con
leggerezza, piuttosto certo di aver ripetuto anche quello in varie occasioni.
«Principalmente devo avere gli strumenti per poterti sentire».
E poi controllare se qualcosa non gli
quadrava. «Questo non presagisce un sogno restauratore».
«Ho sempre i sensi attivi, Stiles» non era
nulla di nuovo per lui.
«Sì» che vita era quella di Derek Hale?
Braccato continuamente da minacce e dai fantasmi del passato. «Vincila davvero
questa partita, Der. Non farti suggestionare da me».
«Non ho intenzione di perdere» dichiarò il
giocatore testardo, irremovibile. Non era una preoccupazione che doveva
angustiare Stiles, Derek dava tutto se stesso in ogni
singola giocata. «Buonanotte, Stiles».
«Notte, Sourwolf» Stiles gli riservò un
sorriso intenerito pieno d’affetto e poi cercò di farsi catturare dalle grinfie
di Morfeo.
Stiles si svegliò di soprassalto, era
agitato ed affaticato, si sentiva esausto anche se tecnicamente aveva dormito
per tutto il tempo. Si tastò come per accettarsi che fosse tutto intero e
l’urgenza lo portò a cercare il telefono sull’unico comodino della zona notte.
L’abatjour era spento, lo smartphone non era più in carica e lo schermo era disattivato,
nessuna videochiamata in atto.
Si apprestò a prenderlo in mano,
costatando che fosse acceso, ma l’app per le videochiamate si era chiusa e
segnava tre chiamate senza risposta da parte di Derek. Non c’erano messaggi
aggiuntivi o altri segni particolari, sembrava tutto stranamente tranquillo e
gli venne il sospetto che il lupo fosse con lui da qualche parte, ma il letto
era vuoto, nessun segno di un’altra presenza, però ne avvertiva l’intrusione.
Ebbe bisogno di andare in bagno per darsi
una rinfrescata, risvegliare completamente le sinapsi che faticavano a
carburare, riprendere coscienza con il mondo, liberare gli occhi che sentiva
appiccicosi e secchi. Almeno lì si lasciò confortare da movimenti automatici e
quotidiani senza osservarsi troppo intorno.
Socchiuse piano la porta quando terminò,
lasciando un piccolo spiraglio consapevole che ci sarebbe tornato più tardi per
completare le sue abitudini mattutine, percorrendo con adagio il corridoio, ma
si pietrificò quando si avvicinò alla cucina. Il tavolo imbastito per la
colazione, il divanetto sotto la finestra era sgualcito e manteneva appena la
forma di una figura che vi aveva soggiornato sopra, insieme ad una coperta di
plaid con piccole stelle e fasi lunari su sfondo blu che era sicuro Derek non
avesse ancora tirato fuori dal suo armadio. C’era anche un bicchiere vicino al
piano cottura, con una bottiglia a temperatura ambiente fuori posto. Stiles non
sapeva come avrebbe dovuto reagire.
«Avevi ragione» il figlio dello sceriffo
sentì una voce femminile familiare oltre la porta d’ingresso, era ovattata e
con la vocalità bassa, presumibilmente con l’intenzione di non disturbare. «Si
fa del male» disse quando la serratura scattò e la porta si aprì, mostrando la
figura di Erica non esattamente al cento per certo del suo splendore
impeccabile, una busta di Starbucks tra le dita che non reggevano le chiavi e
l’altra mano che teneva il telefono incollato all’orecchio. «Mi ha spaventata.
Non l’avevo mai visto in queste condizioni».
Stiles la adocchiò subito fermo nel lungo
corridoio che collegava tutte le varie aree del monolocale, era immobile e
cencio, non riusciva a credere a cosa vedesse e la lupa si arrestò
nell’immediato. «Devo salutarti» annunciò al suo interlocutore telefonico,
mentre premeva sull’icona con la cornetta rossa. «Ciao, Stiles».
Lo studente del primo anno la vide
chiudere la porta e dirigersi verso di lui, direzionarsi verso la tavola ed
estrarre dalla busta di carta della caffetteria diversi muffin e dolciumi. Si
muoveva come se non fosse accaduto nulla, come se la sua presenza fosse sempre
nei paraggi, ma non era vero, Derek non permetteva l’accesso a nessuno. «Hai
dormito qui?» si vide costretto a chiedere, un dito che indicava il divanetto
scomposto, l’allusione alla chiamata che aveva udito. Era inevitabile
comprendere cosa fosse accaduto, a cosa la lupa mannara avesse assistito, come
Derek avesse dovuto contattarla, svegliandola, per urlarle di andarlo a
prendere ovunque si fosse cacciato e ripotarlo nell’appartamento.
«Sì. Ho preferito così» indorare la
pillola non aveva alcun senso con Stiles, le avrebbe comunque strappato la
verità ed era bravo nel farlo, come odiava chi la celava.
Il figlio dello sceriffo guardò lei e poi se stesso, gli arti superiori in cerca di tracce, notando
invece per la prima volta l’assenza delle volpacchiotte allegre nei pantaloni
del pigiama troppo lunghi. Erano stati cambiati nella sua ignoranza probabilmente
perché troppo infangati a causa della sua camminata senza meta. Aveva detto che
si era fatto del male, ma nemmeno quella volta trovava dei segni su di sé, da
nessuna parte; che Derek le avesse spiegato cosa fare? Come agire?
«Hai bisogno di mangiare» proferì la
bionda, aprendo lo sportello del frigo e incontrando tre varietà diverse di
succo di frutta. Rimase indecisa per qualche attimo e alla fine li estrasse
tutti. «Riprendere le energie».
Riprendere le energie era l’ultima cosa di
cui necessitava. «Potresti darmi un minuto?» domandò al vuoto, Stiles non era
minimamente lì con la mente.
«Sì, certo» ma lo studente di criminologia
non aveva atteso un suo responso, si era volatilizzato lentamente sotto il suo
sguardo, il passo incerto.
Stiles si sedette sul letto come se fosse
un automa e cercò alla ceca lo smartphone, digitando varie applicazioni ed
aprendo la chat che condivideva con Derek. Il nome Sourwolf faceva
capolinea in alto, l’icona con la sua immagine accanto: era la triscele tatuata
sulla sua schiena. Si era sempre chiesto chi gliel’avesse fotografata.
Non risultava online, non c’era l’orario
dell’ultimo accesso perché era la prima cosa che aveva disattivato quando aveva
cominciato a usare quel tipo di tecnologia; per Stiles era il tratto
indistinguibile della sua personalità riservata. Con le mani tremanti ed
impacciate digitò sulla tastiera touch, cancellando varie volte perché
continuava a sbagliare la composizione corretta delle parole. Sto bene,
gli inviò. Era di una banalità sconcertante, non era accettabile che avesse
impiegato tutto quel tempo e commesso quella serie interminabile di errori per
una cosa simile.
Lo smartphone gli vibrò in mano
esattamente trenta secondi dopo, lo schermo che si illuminava a segnare un
nuovo messaggio in entrata.
Stiles era agitato, il cuore batteva
all’impazzata e con le dita scoordinate sbloccò lo schermo e cliccò
sull’avviso, trasportandolo direttamente nella chat privata. Respira era
tutto ciò che Derek gli aveva inoltrato e Stiles si rese conto di quanto avesse
trattenuto il respiro, i polmoni che si agitavano e comprimevano per la
mancanza di ossigeno.
Tirò tutto fuori, si lasciò andare e
l’anidride carbonica si riversò nell’aria, mentre ciò che gli serviva per
vitalizzare gli organi rientrava in circolo. Si sentiva meglio, più leggero.
«Vorrei fossi qui» sussurrò al telefono mentre chinava il capo su di esso e vi
poggiava la fronte. Era il suo unico contatto con il licantropo. Era
incredibile quanto fosse capace di capire di cosa necessitasse anche a miglia e
miglia di distanza; avvertiva la necessità di piangere.
«Ehy, Stiles» si approcciò Erica,
sbirciando attraverso il muro divisorio, a costatare se fosse il caso di
invadere completamente il suo spazio. Lo trovò quasi rannicchiato sul
materasso, provato. «Vuoi che ti lasci da solo?».
L’umano si ridestò e le iridi caramellate
la cercarono cautamente, a disagio dalle emozioni che comunicavano per lui. «Ti
dispiace?» Stiles aveva davvero bisogno di rimanere in solitudine.
«No, certo che no» sparì dalla sua vista e
sentì la copia delle chiavi frizionare con il tavolo, poi tintinnare nella
presa della ragazza. «Riposati un po’, okay?» si raccomandò con affetto,
avvicinandosi per schioccargli un bacio su uno zigomo e scompigliargli subito
dopo i capelli sudati. «Andrà bene».
Quando Erica lo salutò e lasciò dietro di
sé la porta principale chiusa, Stiles decretò che non sarebbe affatto andata
bene se continuava ad essere incapace di occuparsi di se
stesso senza ricorrere ad un aiuto esterno. In quell’occasione ne erano stati
necessari ben due.
Con il cuore pesante e il morale a pezzi,
afferrò con una mano il cuscino personale di Derek e lo strinse forte forte a
sé, distendendosi completamente sul lato del letto del mannaro e affondando la
testa tra le morbide piume contenute nella federa in cui primeggiava l’odore
indiscusso del suo proprietario, terra e selvatico, sicurezza e familiarità.
Con un singhiozzo soffocato, si lasciò
sovrastare dalle avversità e crollò in una fase onirica priva di sogni.