Serie TV > Il Commissario Ricciardi
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Autore: _Lightning_    05/04/2024    3 recensioni
Napoli, 1934.
Il commissario Ricciardi è alle prese con un delitto come tanti, almeno per lui che è abituato a vedere i fantasmi delle vittime con i propri occhi. Una rapina finita male, con dei dettagli che, però, non tornano. Non tornano né a lui né al dottor Bruno Modo, collega medico legale e amico in pubblico, ma segretamente unito a lui da sentimenti più profondi, in un'epoca in cui a dare troppo nell'occhio si rischia la vita.
Ricciardi, però, quasi si dimentica del tutto del caso e dei pericoli che corre quando alla sua porta, nel cuore della notte, bussa un evento inspiegabile. Uno di quelli di cui non può parlare a nessuno, nemmeno a Bruno, pena l'essere preso per folle, e che lo fa sentire sempre più lontano dalla vita e sempre più vicino alle schiere di fantasmi che la attorniano.
Cosa si nasconde nel sottosuolo di Napoli?
[Leggibile come originale // Giallo // Ricciardi/Modo // S2 Alternativa]
Genere: Mistero, Noir, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Otherverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'In quel di Napoli'
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          «ECCOLO qua, il nostro commissario ’ngrugnato!» esclama Bruno dal salotto, sbucando subito nella cornice della porta; sorride sghembo e sembra illuminare a giorno la casa.

Ricciardi si arresta nel disimpegno, con nubi cariche di emozioni che gli si accavallano nel petto, si scontrano e generano lampi contrastanti. Vedere Bruno in casa propria rischia di provocargli un infarto per langoscia e, al contempo, si sente sopraffare dal sollievo dopo una giornata intera passata nellincertezza di temerlo agli arresti; se non ci fosse lì Nelide, lo scrollerebbe prima per il bavero, perché è un perfetto idiota, e poi lo abbraccerebbe.

Trattiene anche il rimprovero istintivo che gli è salito alle labbra: con lui si passa una buona decina danni, ma, a volte, ha limpressione dessere lui quello più vecchio e assennato; e, senza dubbio, lunico dei due a serbare un minimo di giudizio.

Lo scruta invece in volto, fa scorrere gli occhi su di lui da capo a piedi: indossa una delle sue solite polo dai colori tenui sotto una giacca informale verde scuro, col sigaro che sbuca dal taschino. Sembra sereno, riposato, anche se un accenno di occhiaie tradisce la notte inquieta. Ma è illeso, senza nemmeno una grinza a spiegazzargli i vestiti.

Il medico intercetta il suo sguardo funesto e arresta limpeto che lo stava portando verso di lui. Il suo sorriso si affievolisce nel fissarlo, gli occhi smorzano la luce gioviale di cui brillano sempre. Ricciardi crede sia anche per la magnitudine di stanchezza che si porta appresso, ma spera bene che Bruno abbia colto lantifona: non dovresti essere qui.

Ad ogni modo, il medico torna a rivolgersi a Nelide, che appare a sua volta sulla soglia, senza perdere un singolo battito:

«Che ti dicevo, Nelide? Basta portare un poco di pazienza, che alla fine si fa sempre vivo.»

Lei, di tutta risposta, innalza le sopracciglia come due vessilli di guerra mentre lo squadra con sguardo critico; e Ricciardi sa che neanche a lei sfugge quanto sembri più provato rispetto a solo quella mattina. Infatti, il suo verdetto è tagliente:

«U’atto care sembe chi pieri nderra

La giovane domestica pare anche indispettita dal fatto che abbia quasi fatto di nuovo tardi per cena, dal modo in cui si toglie svelta il grembiale e si appresta ad aiutarlo con il soprabito. Sul suo volto, però, la scorge reprimere un raro sorriso che rende più aggraziati i suoi lineamenti granitici.

Ricciardi si rende conto di essere rimasto in silenzio finora, e si sforza di ritrovare facoltà di parola, prima di risultare sospetto o scortese:

«Bruno.» Rischia comunque di tartagliare sul suo nome, quelle due semplici sillabe che dovrebbero essere le più semplici del mondo. «Che ci fai qui?»

La domanda, posta in quel tono, fa alzare di scatto gli occhi a Nelide, ora intenta a togliergli anche la giacca, e gli rimedia uno sguardo scottante dal medico.

«Come, che ci faccio? Ma che capa tieni?» ride però lui, senza un grammo desitazione, e quel suono riscalda laria. Sembra appena uscito dal Gambrinus dopo aver bevuto un goccetto di troppo, ma è senza dubbio lucido. «Dovevamo aggiornarci sul caso, ti sei scordato?»

Nelide, in quel mentre, si schiarisce la gola con insolita energia nel ripiegare la giacca del completo sul braccio. Scocca a Bruno unocchiata severa, da sfinge adirata, e lui alza le mani in un gesto pacificatore.

«E pure controllarti quellacciacco, sennò mi posso scordare le mammarelle mbuttunate della cara Nelide.»

«Grazie, dottore, faciste ’sta cortesia.»

Annuisce decisa, pur con un sottotono contrito. Ricciardi vorrebbe dirle che, grazie a quel piatto che gli ha poco cerimoniosamente calato in faccia, gli ha risolto tanti di quei problemi da non poterli nemmeno contare; ma, al momento, ha altro per la testa. È stanco, affamato e mentalmente logorato, ma non tanto da non riuscire a fare due più due.

«Ti fermi a cena, quindi.»

Voleva porla come una domanda retorica e pronunciarla come invito implicito, invece gli esce con unintonazione che sembra quasi unaccusa; ovvero, rispecchiando il moto di angoscia che gli provoca vedere Bruno lì, in casa propria, mentre sono entrambi nel mirino dellOVRA e lui dovrebbe essere in chissà quale luogo sicuro promesso da Maione. Prova un moto di rabbia verso entrambi. Si estingue subito, ma gli lascia caldo il volto.

«Mi scusaste, lho invitato io senza chiedervi nulla,» interviene Nelide, dun tratto mortificata, «ma mi dovevo immaginare che eravate stanco, non ci ho proprio...»

«Non cè problema, Nelide,» si affretta a dire lui. «Sì, sono stanco, ma sono contento se il dottore si ferma. Grazie del pensiero.»

Nelide si rasserena, anche se non sembra del tutto convinta. Bruno, da dietro le sue spalle, gli lancia unocchiata seria, invece, che spezza la patina allegra che ha sfoggiato finora.

«Meno male, Riccia. Mo ci manca solo che mi cacci via di casa.»

«Allora, vado a comperare un poco di pane prima che chiude il forno, ché ne teniamo scarso,» annuncia Nelide, interrompendo sul nascere un probabile diverbio. Infila il cappotto e recupera la sporta. «Tanto sta tutto già pronto sulla stufa, debbo solo riscaldarlo. Ci metto poco.»

In altre circostanze, Ricciardi le avrebbe detto di non disturbarsi e che possono fare a meno del pane, ma uno sguardo scambiato sopra la sua testa con Bruno lo induce non esprimersi.

«Grazie, Nelide.»

Non appena la giovane si chiude la porta alle spalle, Ricciardi dà due mandate di sicurezza, prima di riporre le chiavi sulla madia e voltarsi verso il medico, ritrovandoselo a un passo. Sospira, scuotendo la testa.

«Bruno...»

Quel sussurro esasperato gli muore sulle labbra, zittito dalle sue.

«Lo so,» lo frena, a un soffio da lui. «Non cominciare.»

Recupera distanza, facendo però scivolare una mano a cingergli il braccio. Ricciardi lo scansa, senza trattenere la stizza.

«Sarebbe questo, il piano di Maione? Infilarti a casa mia?»

«No, il piano del buon brigadiere era pure peggio,» sogghigna scaltro Bruno, divertito da chissà cosa. «Questa è una mia iniziativa personale, se permetti.»

Posa di nuovo una mano sul suo braccio e la fa scorrere verso il basso, fino a circondargli il polso. Ricciardi sospira dal naso e stavolta non si sottrae, appuntando gli occhi nei suoi; sul suo volto intatto, vivo che adesso non si sovrappone più col fantasma lasciato a urlare in una cella.

«Dio, Bruno...» gli sfugge soltanto, in un moto di sconforto e rassegnazione al contempo, ma intreccia le dita alle sue con forza, forse troppa.

Si strizza poi le tempie tra pollice e indice della mano libera, a celare lo sguardo e attenuare il dolore alla testa che ha ripreso a tormentarlo. Lo sente ridacchiare a mezza bocca, come se ci fosse qualcosa di anche solo lontanamente comico in quella situazione; e non fa in tempo a rimbrottarlo che si ritrova stretto a lui, in uno dei suoi abbracci irruenti e spaccacostole.

«Tu non ti rendi minimamente cont–»

«Io mi rendo perfettamente conto,» lo tronca lui a un millimetro dal suo orecchio, riassestando la stretta su di lui per strizzargli ancora un po dossigeno fuori dai polmoni, il palmo che va a premergli piano sulla nuca. «Che differenza fa se mi arrestano qui o a casa mia, Riccia

Non trova di che rispondere; non ha semplicemente l’energia per farlo, né vuole discutere con Bruno, ora che è qui. Si limita a lasciarsi stringere e a stringerlo di rimando, nel cubicolo cieco del disimpegno privo di finestre. Assapora quell’istante di quiete così effimera, respirando col naso premuto contro di lui.

Non pensa ci sia bisogno di ribadire che anche lui è felice di vederlo lì ancora tutto intero, a dispetto di tutto. Non è mai stato bravo a parole; almeno, non con le persone a cui tiene. Per fortuna ci pensa Bruno, di solito, a pronunciarle per entrambi.

Gli scappa un sorriso spontaneo, che gli fa breccia in volto allentando muscoli tesi da ore. Aveva bisogno di vederlo: di questo era già ben conscio, ma se ne rende conto del tutto solo nell’averlo lì adesso. Bruno pone fine all’abbraccio con due pacche secche sulle sue spalle, scostandolo da sé.

«Dai, vieni a farti sistemare sul serio,» gli dice, sfiorando il cerotto mezzo scollato sullo zigomo con fare critico, «ci manca solo di far insospettire Nelide.»

Ricciardi lo segue in salotto, che lui ha raggiunto per primo come fosse a casa propria; e gli causa un moto di leggerezza, quel semplice fatto.

«Ora, mi dirai che scasso l’anima,» esordisce Bruno, recuperando la borsa in cuoio coi suoi strumenti, «ma hai dormito, stanotte? Non tieni una bella cera.»

Alza le spalle in risposta, per poi darle voce quando Bruno lo fissa, insistente, e rassegnarsi al suo terzo grado:

«Poco e male.»

«Quantifica il “poco”.»


«Un paio d’ore al massimo. Forse tre.»

«Dimmi che hai mangiato, almeno.»

«Qualcosa di veloce a pranzo, da Calogero.»

«E l’emicrania?»

«Quella non passa da tre giorni.»

Bruno schiocca la lingua con disapprovazione.

«Io ti ritrovo al camposanto, un giorno di questi, e non perché ti ci hanno spedito i fasci.»

Lo fa sedere sul divano, praticamente spingendocelo a forza, e gli stacca subito il cerotto vecchio con un gesto fermo che gli fa strizzare gli occhi.

«Vabbuò, almeno questo sta guarendo,» commenta a mezza voce, inclinandogli il viso dal mento.

Gli tende piano la pelle dello zigomo con mani da medico: gentili, ma che non indugiano più del necessario nel contatto.

«Maronna santa, Riccia’,» gli scappa, quando gli toglie la cravatta e va a scoprirgli l’ematoma sotto al colletto. «Il cappio da damerino te lo potresti risparmiare, finché non ti rimetti,» lo rimprovera, gettando via l’indumento quasi fosse un serpente velenoso.

Ricciardi sobbalza sorpreso, quando va a tastargli la zona dolente, premendo sui lati del collo e sulle vertebre: non si era nemmeno accorto lo fosse così tanto, né che fosse una contusione grave al punto da far corrucciare Bruno.

«Mi sono solo strapazzato un po’, oggi. Passerà.»

«Eh, certo, sempre che non trapassi tu prima,» lo rimbecca lui. «Tu, dopo questo caso, te ne vai in villeggiatura per almeno dieci giorni e non muovi un dito. Ci siamo capiti?»

Ricciardi annuisce per quieto vivere, pensando che una settimana a Fortino per Pasqua potrebbe pure concedersela. Con Bruno, magari, ma quella è una fantasia in cui non vuole indulgere.

Il medico gli applica sulla zona livida quella che, dall’odore pungente, deduce sia una pomata all’arnica. Socchiude gli occhi, concentrato solo sulle sue dita che gli massaggiano la pelle sensibile. Alla fine, si fermano intrecciate dietro il suo collo, i pollici a sfiorargli ripetutamente la linea della mandibola in una carezza a fior di pelle.

Bruno si china senza preavviso su di lui, premendogli un lungo bacio sulle labbra che gli scioglie il petto e gli pizzica il volto con la barba, in quel misto confuso di rude dolcezza a cui non riesce ancora ad abituarsi del tutto.

A quei gesti, s’insospettisce un poco, anche se non può certo dire che gli dispiacciano, dopo quella giornata da incubo. Bruno è sempre espansivo, pure troppo, ma lo è in una maniera più sottile e impertinente di così. Non regala mai grandi dimostrazioni d’affetto e preferisce piuttosto stuzzicarlo in ogni modo possibile che di affettuoso ha solo l’intento.

Per esempio, canzonarlo a non finire su qualunque cosa o rifilargli scappellotti, buffetti o pizzichi a tradimento; adesso, molto più di rado e con una buona dose di cautela in più. Non si scaccia dalla mente la sera prima, quando gli si è lanciato addosso come un disperato, oppresso dal terrore di venir portato via in galera o al confino.

«Bru’, ma va tutto bene?» gli scappa detto, non appena Bruno gli libera le labbra.

E infatti, lui gli soffia contro una risata, per poi raddrizzarsi e guardarlo dall’alto con un sopracciglio appena incurvato, una mano ancora posata delicatamente sul suo collo.

«Certo che no, che razza di domande mi fai? Ho passato la giornata peggiore della mia vita,» sospira con quel suo fare un po’ melodrammatico, strappandogli una smorfia mesta di rimando. «Però, sto ancora qua, e anche tu. E ti scrocco pure la cena, pensa.»


Ricciardi lo guarda in viso, senza rispondere. Stavolta, vede Bruno incupirsi visibilmente: è raro che rifugga l’occasione per battibeccare. Però neanche ci prova, a nascondere i pensieri funerei che lo inseguono da quando è uscito dalla Questura; e, ancor prima, dall’Annunziata, rincorrendolo fin sotto casa con quell’ultimo colpo inferto da Enrica. Ha l’impressione che una sola altra stoccata potrebbe ridurlo a brandelli.

Sa che Bruno si aspetta davvero che lui lo aggiorni sul caso, ma di Annina non vuole parlare. Non solo per quanto gli pesa l’ultima deriva del caso: anche solo a pensarci, si ritrova con le mani che tremano e il petto oppresso. Ma, pur con vergogna, ammette che non è ciò che lo preoccupa di più al momento.

Arturo Esposito, per quanto si avvolga a piacimento nelle vesti di Don Nicola o del Munaciello, è persona vivente e in carne e ossa, che può e deve trarre in arresto e consegnare a giustizia. È un qualcosa che può controllare, almeno in una certa misura. Gli provoca quasi un senso d’aspettativa: darà pace allo spettro di Annina e a quello di Gigliolo e, come conseguenza, anche alle sue notti insonni.

Una parte di lui freme in vista del momento in cui potrà agganciare delle manette ai polsi di Esposito; freme di quel brivido a metà tra ansia ed esaltazione che precede un evento importante.

Sul resto, invece, non ha più controllo di un guscio di noce in balia di una tempesta. L’arresto di Esposito non gli garantisce nulla, per quanto voglia illudersi che possa avere un peso. Potrebbe perdere il posto di commissario, venendo interdetto dall’unico mezzo che ha per dar pace ai morti che vede; o potrebbe ritrovarsi a vivere il suo peggior incubo, trascinato in qualche casa di cura mentale come lo fu sua madre prima di lui.

Gli si annacqua il respiro solo a considerarla, quell’ipotesi; anche solo nel ricordare gli occhi tristi così simili ai suoi.

«Tu, invece? Che tieni che non va?» chiede Bruno, spezzando quei pensieri con quella sua perspicacia che fa sembrare tutto molto più semplice di quanto non sia. «A parte l’ovvio, intendo. Qualche brutta novità sul caso?»

«Anche, ma non voglio parlare del caso.» Ricciardi inclina il capo nel suo palmo, per poi accostarsi a lui fino a poggiare la guancia contro il suo addome. Chiude gli occhi, sentendoli pesanti. «Magari dopo, a cena.»

«Bell’argomento conviviale.»

Ricciardi, di nuovo, non risponde. Preme invece del tutto il volto contro la sua polo e ne ispira l’odore di pulito. Non è stato all’ospedale, oggi: il sentore acre di creolina è una traccia dovuta all’abitudine, sostituito da quello fresco di bucato e da quello più speziato della sua colonia. Percepisce anche una tenue nota estranea e floreale, forse gelsomino, da profumo femminile. Allora, era davvero al bordello.

Non è un pensiero che lo infastidisce di per sé; Bruno ha piena libertà di divertirsi con chi vuole, soprattutto se le possibilità tra loro due sono limitate. Non che ami pensarvi spesso o nel dettaglio, in effetti. Gli pesa più dover pensare di frequentare un luogo simile per mantenere le apparenze. Non sa se sarebbe peggio di ingannare Enrica con promesse d’amore fasulle, o di orchestrare una qualche pantomima con Livia che farebbe soffrire entrambi, ma gli provoca un senso di disagio profondo, alienante.

Forse nemmeno un deviato dovrebbe avere quei pensieri, considerando che non gli sembra che Bruno se li ponga. Almeno, è l’impressione che dà, ma non ha il coraggio di chiederglielo.

Adagia le mani sui suoi fianchi, sotto la giacca, stringendo appena il tessuto sottile. Cerca di non pensare a nulla che non siano le dita agili del medico che gli premono sul capo in carezze appena accennate. Lui gli concede mezzo minuto di quiete. Poi espira sottovoce:

«Riccia’, che succede?»

Non esita un singolo istante nel rispondere, come se non fosse più in grado di tenersi dentro nulla:

«Credo che potrei essere costretto ad andarmene in villeggiatura per ben più di dieci giorni, considerando la mia ultima discussione con Garzo.»

Sorride a forza con un nervosismo così intenso che gli fa tremare le labbra contro la stoffa, sfiatando traballante. Bruno, come sempre, sembra leggergli nel pensiero:

«Quell’imbecille t’ha tolto il caso?»

«Vuole avviare un procedimento disciplinare, che è pure peggio.»

«Peggio della galera?» lo riscuote Bruno; ma lo sente dalle vibrazioni che viaggiano nel suo petto, che sta tentando di parlare leggero con sforzo, e sente il suo addome tendersi un poco.

«Non lo so. Potrebbe diventarlo se Falco deciderà di espormi. O di esporci. O di giocarmi un altro tiro mancino. O di...» Sospira a denti stretti, serrando le dita sul tessuto. «Non lo so, Bruno; non ci posso pensare.»

«Riccia’.» Bruno preme sulle sue spalle e lo spinge all’indietro, così da guardarlo di nuovo in viso; nel farlo, scocca un’occhiata guardinga alle finestre, assicurandosi che le tende siano ben tirate. «Se non ha arrestato nessuno di noi due finora, io dubito che lo farà adesso. È il suo asso nella manica e se lo giocherà al momento giusto. E se tu sei ancora sul caso e io sono ancora in libertà, si vede che non è questo.»

Ricciardi alza appena le sopracciglia, scettico.

«Non ancora.»

«Vabbuò, e noi ci facciamo bastare il “non ancora”. Tanto lo sapevamo, che sarebbe sempre stato un “non ancora
”, no? Che ti aspettavi, di portarmi all’altare?»

Bruno gli rifila un buffetto sulla guancia sana e Ricciardi soffia via un riso muto e fugace a quell’idea ridicola. Poi, si rabbuia, costringendosi a guardarlo in viso. Gli si contorce lo stomaco.

«L’unico motivo per cui siamo ancora qui, credo, è perché ho promesso di volgere il caso in favore del Partito. E perché ho finto di essere concorde con le loro manovre. Di appoggiarli.»

Si morde l’interno della guancia con troppa forza e coglie i suoi occhi che si fanno d’un tratto duri, colti alla sprovvista.

«In che senso?»

Ricciardi assottiglia le labbra, riducendole a una linea bianca e compressa. Bruno fa scivolare via la mano dal suo volto e si siede con lentezza accanto a lui, improvvisamente sul chi vive, come se stesse guardando un’altra persona. Forse è vero; se il se stesso di quell’infausto lunedì mattina dovesse guardare il se stesso di adesso, è certo che proverebbe ribrezzo. Lo prova anche in questo momento ma, se davvero avesse voluto sottrarsi a tutto ciò, l’avrebbe fatto.

È con un dolore diffuso allo sterno e alla bocca dello stomaco, che racconta a Bruno come ha promesso di volgere quel caso in favore del Partito, e come abbia accettato di fingersi uno di loro pur di mantenere una presa salda sull’indagine.

«E no, non ne vado fiero,» conclude a mezza voce, le dita serrate tra loro a far dolere le nocche, «così come non vado fiero dell’aver coinvolto Livia e Maione e di stare facendo lo sporco gioco di potere di Falco. Ma era l’unico modo che avevo per continuare a indagare.»

E per proteggere loro due, ma a questo non dà voce. Non crede che ve ne sia bisogno.

Bruno non sembra affatto rallegrato dalla notizia, anche se sembra compiere uno sforzo per mantenersi gioviale. Ma lo vede nettamente, l’alone tetro che gli si dipinge in volto. Sa interpretarlo a colpo sicuro: delusione. Fa più male di quelle percosse nel vicolo, gli preme al centro della schiena col peso di un’incudine.

Il medico si addossa allo schienale del divano, stendendo le lunghe gambe dinanzi a sé, e incrocia le braccia al petto; un gesto difensivo, quello, che raramente gli vede compiere. Infine, getta fuori quello che non sa se sia un sospiro o un verso di frustrazione:

«Senti, Riccia’, non è che tu abbia mai avuto idee politiche così salde. Non lo scopro mica ora. Non direi nemmeno che è una questione politica, ma di becera sopravvivenza. Mia, tua, di chi ti pare.» Inspira brusco dal naso e non lo guarda. «Basta che non mi dici che ti sei tesserato... in quel caso, risparmierei ai fasci il disturbo di strozzarti.»

È una minaccia giocosa, dal tono sobbalzante, ma qualcosa gli dice che non esiterebbe a metterla in pratica. C’è un braccio di distanza fra loro, adesso, tra le rispettive sedute, e sembra d’un tratto un abisso.

«A me non interessa avere idee politiche: perché dovrei farmi scrivere quelle degli altri su una tessera?»

«Tu tieni sempre la risposta pronta,» ridacchia spento lui. Allunga una mano a scostargli i capelli dalla fronte, tirandoli un poco alla radice in un lieve rimprovero. «Non ti giudico, Riccia’. Almeno, non troppo... ma non mi pare il momento per discuterne. Io t’ho chiesto, prima di tutto, di non mollare il caso per paura o per causa mia. Hai mollato il caso?»

«No. Al contrario, mi pare.»

«Ecco, allora siamo a posto,» conclude Bruno, anche se gli sembra una frase fatta; più un punto e a capo, che un punto fermo. «Quello che fai delle tue idee è affar tuo... entro un certo limite. Ma basto io, a prendermi le mazzate per tutti e due.»

Nel dirlo, gli scivola l’occhio sul suo zigomo escoriato e pare ricordarsi di cosa stesse facendo. Si rialza in piedi e recupera una garza e un cerotto dalla borsa degli strumenti. Li applica sull’escoriazione, stavolta con premura intenzionale, indugiando nel contatto e trasformandolo in una carezza a fior di pelle.

Ricciardi coglie il sottile esitare di quel gesto: Bruno si è innervosito, gli è lampante, ma lascia comunque la mano lì, a circondargli la guancia in una pressione tiepida. Lo coglie come un invito a parlare, con voce ora sfibrata dalla stanchezza:

«Se tutto va come deve andare, questa situazione è solo temporanea. Domani o il giorno avanti avrò tra le mani l’assassino di Annina e di Gigliolo. Iannello è ormai libero e se ne andrà in America. Livia si tirerà fuori d’impaccio, tu potrai smetterla di guardarti le spalle...» sospira e, in sottofondo, tendendo l’orecchio, ode ancora quella voce flebile e infantile che si rivolge solo a lui. «... e io potrò ricominciare a dormire, spero.»

In tutta risposta, Bruno gli offre un mormorio a labbra chiuse, indistinto e dubbioso, che si storce poi in un mezzo sorriso.

«Certo che Iannello mica tiene tutti i torti, a volersene andare all’America.»

Ricciardi solleva gli occhi di scatto e tira un angolo della bocca, senza trattenere un verso divertito.

«Un comunista come te non camperebbe due giorni, laggiù.»

«Ancora con questa storia?» Bruno rotea le pupille. «Non sono comunista, mi piace solo dire quello che tengo genio di dire senza rischiare di rimanerci secco.»

«Vallo a spiegare a Sacco e Vanzetti.»

«Quelli erano anarchici,» lo corregge, esasperato, chinandosi a soffiar via una risata e un bacio tra i suoi capelli. «Tu di politica non capisci proprio un fico secco, Riccia’. Statti buono a fare il commissario.»

«Vorrei.» La voce gli si strozza un poco, a tradimento, e poi scivola via come acqua tra i denti: «Vorrei davvero, perché io non so fare altro, se non questo. Non posso fare altro. È l’unica cosa che abbia sempre avuto un briciolo di senso in vita mia e ora vogliono togliermi pure quella.»

Bruno sospira e si scosta un poco da lui, costringendolo a inclinare di nuovo il capo verso l’alto per continuare a guardarlo. Si fa serio, d’un tratto e, dal modo in cui il sorriso gli tramonta repentino sul volto, Ricciardi capisce che quello di prima non era nemmeno un punto e a capo, ma una semplice virgola in un discorso molto più ampio.

«Senti un po’... lo so che forse neanche questo è il momento giusto,» esordisce infatti, serio ma titubante. «Ma, l’altro giorno, mi hai detto che potevo chiederti quello che mi pareva. Anche se non potevi rispondermi.»

Nel dirlo, gli preme la punta delle dita sulla guancia sana. Ricciardi trattiene il fiato, come se dai suoi polpastrelli fosse partita una scossa elettrica. Non risponde neanche ora, le corde vocali annodate in un nodo scorsoio, ma non nega nemmeno. Lo invita solo con gli occhi a proseguire.

«Ecco, io mo’ voglio chiederti perché ti stai addannando così su questo caso. E stavolta una risposta la pretendo, Riccia’. Non rifilarmi un triduo sulla giustizia e quant’altro, perché lo so, che non si tratta solo di quello...»

«“Solo
”?»

«...così come non si tratta solo di quello se sei diventato commissario, e ora ne sono ancor più convinto. Non sono fesso.» La voce di Bruno si fa di piombo. «E mi pare d’esser stato fin troppo accomodante, riguardo a quello che vuoi o non vuoi dirmi su questa storia. Ora vengo a sapere che stai rischiando il posto e che te la fai coi fascisti pur di continuare a indagare. Chiunque altro avrebbe mollato, e chiunque altro oltre me t’avrebbe già dato il benservito, uomo o donna che fosse.»

«Sì, questo caso mi sta a cuore. Davvero ti stupisce? Hanno ammazzato Annina qua, sotto casa mia, se te lo fossi scordato.»

«Non è solo quello. Non è solo quello e io lo so, ne sono certo dal momento in cui mi sei venuto a chiamare a casa due notti fa, esagitato come un folle.»

Ricciardi deglutisce a vuoto, la bocca secca, e inclina il volto verso il basso. L’ultima parola continua a tintinnargli nelle orecchie come un sonaglio a vento scosso da folate implacabili.

«Ti ho già detto tutto ciò che potevo dirti,» sillaba con voce atona. «Non insistere, Bruno.»

«Lo so, che c’è dell’altro, perché ti conosco troppo bene,» continua lui, come se non avesse parlato. «E voglio solo capire. Capire te e che cosa diavolo ti sta succedendo.»

«Senti, dopo che avrò chiuso il caso...»

«Dopo potremmo essere entrambi morti o entrambi in galera.» A quel punto, il palmo che gli preme contro la guancia si fa rigido, costringendolo a sollevare il volto. «Mi sono scocciato di aspettare i comodi tuoi già da un bel po’, soprattutto quando a rischiare la pelle sono anche io.»

Ricciardi trascina dentro un respiro e poi lo getta fuori, scrollando la testa a casaccio in quella che non è affatto una risposta, frenato dal palmo di Bruno.

Il medico, a quella reazione inconcludente, espira di scatto dal naso e fa schioccare le labbra in un moto frustrato. Ritrae la mano e si scosta di un passo, causandogli una giravolta di vertigini a quell’improvviso vuoto, poi di un altro, prendendo ulteriore distanza.

«Io vengo qua a casa tua, a rischiare l’arresto, mi tocca sentirti dire che sei andato a leccare i piedi al Partito, sto qua a rattopparti quando vai a rischiare l’osso del collo... e tu manco sei capace di darmi una risposta, Ricciardi! Una,» ribadisce dal centro della stanza, sollevando l’indice al pari del volume.

Gli freme la voce, il volto bloccato in una maschera terrea. Non l’ha mai visto così furente; ha sempre riservato quella biliosità per chi disprezza, non certo per lui. La merita, ne è consapevole; e, allo stesso tempo, non merita di essere trattato con quel sospetto da qualcuno che dovrebbe fidarsi di lui. È una fiammata breve e folgorante, quella che gli parte dallo stomaco e che rigetta, senza neanche provare a soffocarla:

«È l’unica risposta che non posso darti. Ma a quanto pare, per te, conta più di tutto il resto,» dice, rialzando il capo con un colpo di frusta, una vena che gli pulsa sotto alla mandibola. «Non conta che io mi sia fatto in quattro per farti rilasciare, l’anno scorso, non conta che io ti copra sempre quando non ce la fai, a tenerti i tuoi insulti per i fasci in bocca, non conta che prima o poi mi dovrò incastrare in un matrimonio di comodo per non venir tacciato di omosessualità, mentre tu te la spassi al bordello, non conta che io sia disposto a rischiare l’arresto, il lavoro e la vita, persino quella dei miei sottoposti, pur di tenerti al sicuro. Conta tutto meno di niente, a quanto mi fai capire.»

È senza fiato, quando finisce di parlare. Bruno, nella luce del salotto che inizia a morire inghiottita dal crepuscolo, lo fissa in silenzio come si fissa qualcuno che sta vaneggiando; ed è la goccia, quella, la goccia che fa traboccare un vaso già stracolmo da tempo.

«E t’ho già detto di piantarla, di guardarmi come se fossi pazzo!» sbotta, a voce molto più alta del necessario; la smorza troppo tardi, quando già è deflagrata, riempiendo il salotto.

Ricciardi si rende conto solo adesso d’esser balzato in piedi; ha le gambe molli, infiammate da brividi. Bruno trasalisce appena e poi assottiglia gli occhi con fare cinico, senza mutare d’espressione:

«Non mi stai dando alcuna ragione di pensare altrimenti.»

Ricciardi serra i pugni e non raccoglie la provocazione, anche se la sente pulsare contro i timpani, bestia viva e feroce che gli si annida nella mente. Almeno, finché Bruno non getta fuori il successivo fiume di parole:

«Forse preferirei saperti pazzo, perché io me le sono fatte, delle idee sulla faccenda, e sai cosa mi viene da pensare? Che tu, con quella feccia fascista, ci andassi a braccetto pure prima, e che di Annina lo sapessi perché te l’hanno detto loro, per chissà quale tornaconto. Perché c’entrano qualcosa, magari, e ti hanno ricattato; e tu non hai avuto le palle né per rifiutarti, né per dirmelo.»

Si sente accartocciare il petto, a quelle parole, come se gliel’avesse stretto nel pugno al pari di carta straccia. Boccheggia, in bilico su altre parole rabbiose, finché non vi inciampa e vi precipita con la voce scossa da un moto tellurico, soffocante:

«Se davvero pensi questo di me, non dovresti rimanere qui.»

A quell’invito, Bruno chiude la sua borsa con uno scatto metallico e la afferra per i manici. Gli indirizza un cenno sprezzante del mento:

«Non è una risposta, e lo sai benissimo.»

Recupera il cappotto e il cappello senza nemmeno indossarli prima di avviarsi alla porta; ed è uno strappo, quello, ai polmoni e alle corde che gli tengono il cuore fisso nel petto.

«Buona fortuna col caso, Ricciardi. Se ti azzoppi di nuovo, passa all’ospedale, ché io con le visite a domicilio ho chiuso.»

Sono poco più di cinque passi, quelli che separano Bruno dalla porta, ma si dilatano in voragini tonanti e infinite.

Ricciardi si volta verso la finestra nel moto istintivo di chi cerca aria e vie di fuga, sapendo che non le troverà. Trova invece i vetri schermati dalle tende e il mondo che ingrigisce all’esterno, quasi a ricordargli come fosse la vita, prima che decidesse di non guardarla oltre un vetro. Prima che Bruno lo rompesse, quel vetro, senza neanche saperlo.

Sente lo sferragliare dei cilindri della serratura, poi lo scatto della maniglia, il cigolio dei cardini, l’eco metallica nella tromba delle scale. Serra gli occhi, prima di parlare, liberando un sussurro che è anche un tuono e gli riverbera in ogni singolo osso:

«Sì, lo sapevo da prima.»


 


Note dell’Autrice:
Cari Lettori,
io mi scuso profusamente per questo mostro di 5.000 parole, ma era veramente indivisibile e anche la divisione corrente è abbastanza forzata, o arrivavamo a quota 9.000 e non sono ancora così crudele :’)
Ovviamente, la questione-segreto non poteva rimanere in sospeso per sempre. Io ho cercato di rendere Bruno comprensivo e accomodante finora, anche in virtù del fatto che cè poco senso nel tenersi il muso se stanno rischiando entrambi la pelle, però anche lui ha i suoi trigger. Tipo, sapere che Ricciardi ha cercato un compromesso coi fascisti. Gente che, ricordo, lha massacrato di botte e voleva spedirlo al confino. Quindi, sì, per dirla in modo poetico, je parte la ciavatta.
Anche Ricciardi lo vediamo sempre abbastanza composto e sicuramente mai in atteggiamenti aggressivi, ma... pure lui ha i suoi trigger emotivi, e il tasto "sanità mentale" è particolarmente suscettibile, soprattutto per un poveraccio esausto che si sta reggendo in piedi a forza di disperazione e inerzia.
Ci vediamo lunedì con la seconda parte del confronto, e poi si torna sulle tracce del Munaciello ;)
Grazie a tutti voi che leggete, commentate e lasciate stelline. Mi rendete immensamente felice <3

-Light-

P.S. Nota aggiuntiva generica, che vale anche per il prossimo capitolo: i litigi, spesso, non hanno senso. Nei vari media tendiamo a vedere sempre un filo logico abbastanza definito, quando dei personaggi finiscono a litigare, con un botta e risposta sensato e unescalation/defuse intuibile. Io non sono proprio di questa scuola di pensiero e preferisco tenermi su un approccio più "gretto", in cui una consecutio delle varie accuse e risposte cè per amor di comprensione, ma vi è anche unillogicità di fondo dettata dallimpulso del momento. Non sempre parliamo come libri stampati o con cognizione di causa quando ci alteriamo, né siamo corretti in quello che diciamo, né interpretiamo bene i gesti e parole altrui, né le nostre reazioni sono coerenti (vd. finale di capitolo).
Ho parlato.

 

   
 
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