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Autore: Adeia Di Elferas    09/04/2024    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Machiavelli trovava che quel 18 novembre fosse particolarmente freddo, a Roma. Non riusciva, però a capire se i brividi che lo stavano prendendo fossero dovuti solo alla pioggerella fitta e gelida che cadeva sulla città o anche alla contrarierà che non riusciva a soffocare verso le decisioni di Firenze.

Dopo una prima lunga parte di colloquio con il papa in cui si era parlato di tutt'altro, infatti, Niccolò era arrivato a dover notificare a Giulio II la decisione – apparentemente irrevocabile – della Signoria circa il voler negare il salvacondotto al Valentino.

Quasi gli sembrava di sentire la voce di un altro elencare meccanicamente tutti i motivi che Firenze aveva trovato per evitare di concedere quel beneficio al Borja e dunque avvertì uno straniamento ancora più fastidioso quando udì la voce del pontefice dire: “Mi va bene così. Sono d'accordo in pieno.”

Machiavelli tacque, quasi felice di non dover proseguire nello sciorinare il perché e il per come secondo la Signoria Cesare non fosse degno di un salvacondotto, mentre il papa pareva entuasiasta di aver trovato una simile opposizione nei toscani.

Il Della Rovere alzò la testa e fece un profondo respiro e poi disse: “Mi sembrano mille anni che possa togliermelo da dinnanzi... E, badate bene, non posso lamentarmene, non posso dolermi dell'osservanza della fede... E posso comunque potermene avvalere nelle cose di Romagna a qualche mio proposito.... Non mi chiudo la via al poterlo usare...”

Machiavelli, che trovava quel discorso un po' nebuloso, perché da un lato il pontefice aveva espresso più volte il desiderio di liberarsi una volta per tutte dal Valentino, mentre ora parlava di usarlo per i suoi scopi, si schiarì la voce e provò a parlare, ma Giulio II l'anticipò.

Sistemandosi sul suo scranno, spostando il peso da una natica all'altra per alleviare il fastidio dovuto alla posizione fissa che manteneva ormai da ore, precisò: “Di quello che voi fiorentini o altre persone farete contro il Duca di Valentinois non me ne curo.”

Il tono che usò fu sufficiente per il fiorentino per capire che il piano ultimo del Santo Padre fosse quello di tornare personalmente in possesso di tutte le terre romagnole, a prescindere da Cesare Borja. Se avesse potuto usarlo in qualche modo a suo vantaggio, ne sarebbe stato lieto, ma se proprio ne fosse stato privato per qualche vendetta di terzi o chissà che altro, non ne avrebbe fatto un dramma.

Il papa continuò il suo discorso per mezzo di frasi lasciate in sospeso e nebulosi panegirici che, forse, avrebbero dovuto confondere Machiavelli, che, invece, aveva colto appieno il progetto ultimo del Della Rovere.

Giulio II aveva come unico obiettivo quello di entrare in possesso delle terre di Romagna che erano o erano state del Valentino e aveva intenzione di appropriarsene o con le buone o con le armi. La sua idea, al momento, era quella di sfruttare le mire veneziane raggirando il Doge e facendo in modo che alla fine i condottieri della Serenissima cedessero al papato le terre, ma, se questo fosse stato impossibile, avrebbe fatto in modo di isolare Cesare Borja ancora di più, ponendolo poi dinnanzi a un semplice quesito: salvare la propria vita o quelle poche terre che ancora erano formalmente in suo possesso.

Quando Giuliano non ebbe altre frasi sibilline da sciorinare a Niccolò, questi chiese permesso e si ritirò nei suoi alloggi. Si mise subito alla scrivania, cercando di riassumere, rielaborandole, le parole del pontefice in modo che la Signoria comprendesse il vero scopo di tutti i maneggi papali.

Attanagliato ancora dal freddo, lasciò a un certo punto la lettera a metà e, per vedere se riusciva a scaldarsi, prese addirittura il suo mantello da viaggio imbottito di pelliccia e se lo mise sulle spalle.

Le fiamme del camino erano accese da ore, ma chi lo ospitava – forse per via della scarsa provvigione offerta da Firenze – sembrava voler risparmiare molto sulla legna da ardere e dunque il calore che scaturiva dal focolare era sufficiente per intiepidire appena la stanza.

Guardando la calzamaglia che si stava bucando all'altezza della caviglia destra, Niccolò si lasciò travolgere dai più rancorosi pensieri di vendetta nei confronti della Signoria, che lo spediva sempre in missione con degli stipendi da fame, facendo leva sulla sua smania di contare qualcosa... Lui per primo si rendeva conto di essere usato, ma quando accettava questo o quell'incarico era sempre accecato dal desiderio di potersi trovare tra gli uomini di prestigio, di poter ascoltare i grandi discorsi dei potenti, di potersi avvicinare a chi le cronache le scriveva ogni giorno con le proprie azioni... E finiva per dare troppa poca importanza all'aspetto economico.

Machiavelli sobbalzò con un singulto, quando sentì bussare alla porta. Si schiarì la voce e ordinò di entrare, mentre si toglieva il mantello dalle spalle, per non dare l'impressione di essere un rammollito che già in novembre tremava come una foglia per il freddo.

“Il Duca di Valentinois vuole vedervi.” disse la guardia che era andata a cercarlo: “Ha cose urgenti di cui discutere con voi.”

Già del tutto dimentico dell'enorme rancore provato verso Firenze, Niccolò raddrizzò la schiena, assunse un'espressione grave e compunta e annuì: “Portatemi da lui.”

Cesare Borja non si perse in convenevoli, quando il fiorentino lo raggiunse. Simile a un pipistrello dalle ali color porpora e oro, il figlio del defunto Alessandro VI si mise ad attraversare ad ampie falcate la sala in cui aveva deciso di dare udienza a Machiavelli, lamentandosi delle lettere della Signoria.

Niccolò si sentì profondamente in colpa, in quanto fiorentino, per il trattamento che la Repubblica stava riservando a un uomo come il Valentino, tuttavia non poteva andar contro, ufficialmente, alle decisioni della Signoria.

“Mi dolgo molto, moltissimo, che il salvacondotto mi sia stato negato.” affondò Cesare, tenendo gli occhi feroci puntati in terra e le braccia conserte, nascoste dal mantello: “Avevo già inviato i miei cavalli, stimando che fossero ricevuti come meritavano non appena giunti nelle vostre terre... E avrei voluto partire anche io, sotto speranza che il salvacondotto mi avrebbe raggiunto in un qualche modo, senza bisogno di restare qui ad aspettare che mi venisse consegnato...”

“Comprendo la vostra delusione, ma...” iniziò a dire Niccolò, quando il Valentino fece una breve pausa.

Con fare teatrale, però, Cesare scosse il capo e riprese: “Non so intendere... Io a questo punto credo che da un canto Firenze abbia paura che quelle terre non vadano in mano veneziana... e dall'altro che chiudendo la via agli aiuti... Insomma... Se per ventura io potessi prendere ancora partito...”

Il Borja tacque in attimo. Il suo discorso non era lineare. Ricordava molto quello fatto dal papa solo poche ore prima, e quel dettaglio mise in allarme Niccolò. Il momento era molto complicato, questo lo sapevano tutti, ma i maggiori attori della scena politica dovevano sapere che via percorrere, altrimenti sarebbe stato il caos e la distruzione per tutti...

“Io so bene che per me accordarmi coi veneziani sarebbe pericoloso.” fece all'improvviso il Duca, assumendo di colpo un tono più sicuro e puntando gli occhi dritti in quelli del fiorentino: “Ma so anche che Venezia è forte e che in Romagna ci sono tanti che vorrebbero prendere il loro partito per entrare in ogni città. E la loro forza, unita alla mia, è tale che vi offenderà fino al cuore, a voi fiorentini.”

“Il salvacondotto non vi è stato negato...” provò a dire Machiavelli e finalmente Cesare pareva disposto ad ascoltare: “Ma vi è stato fatto intendere che la Signoria vuole sapere come convivere con voi, e rinsaldare con voi il legame e l'amicizia, come si conviene fare a due che vogliano vivere chiari e osservanti l'uno all'altro.”

Il valenciano ascoltava in silenzio, le mani sui fianchi e le labbra serrate. Era come se stesse cercando con tutto se stesso di credere davvero alle parole del Machiavelli, ma in fondo non vi riuscisse.

Niccolò, sperando di riuscire ad aggrapparsi a quel barlume di fiducia, allargò le spalle e proseguì, con la sicurezza che aveva imparato a usare nei suoi lunghi discorsi a Firenze: “La Signoria non è usa ad andare né temerariamente né tumultuosamente in alcuna sua cosa e non vuole cominciare ora! Dunque è bene che mandiate a Firenze una persona pratica informato di ogni vostra intenzione e di vostra fiducia, e allora la Signoria farà quello che crederà bene per sé e per i suoi amici, ossia anche voi.”

Il Valentino parve ragionare a lungo sulle parole appena udite, ma quando ribatté lo fece sporgendo il mento in fuori e grattandosi, quasi distrattamente, le croste luetiche che gli deturpavano buona parte delle guance: “In son sul partire... E ho inviato genti e... E voglio montare in acqua e... E avrei desiderato, prima della mia partenza, aver chiarito questo punto... Avrei desiderato poter sperare in voi fiorentini...”

“Se lo volete – si offrì Niccolò, spinto da un'irrazionale voglia di non deludere il Borja – posso scrivere oggi stesso alla Signoria e avvisarla che voi avete già mandato le vostre genti, sicuro com'eravate del salvacondotto, e dirò anche che manderete un uomo di fiducia a parlamentare con Firenze e che intanto pagherete per il ricetto di queste genti e...”

Le labbra del Valentino ebbero un fremito difficile da interpretare, ma poi il tono gelido della sua voce lasciò intendere quanto poco avesse apprezzato lo sforzò di Machiavelli: “La Signoria è un sostegno che mi rende zoppo... Ci vorranno almeno quattro o cinque giorni per capire che vuole davvero fare, ora che questo mio uomo di fiducia andasse e tornasse o almeno scrivesse...” e in quel momento qualcosa nel suo sguardo cambiò del tutto e Niccolò avvertì un moto di paura, mentre il Duca ringhiava: “E poi mi accorderò con i veneziani! O col diavolo! E me ne andrò a Pisa! E tutti i denari, le forze e le amicizie che mi restano li spenderò nel farvi male!”

Niccolò era a bocca spalancata e sulla fronte si vedevano una cortina di sudore che poco si sposava con il freddo di quel giorno. Cesare lo odiò profondamente in quel momento. Per lui era l'effige stessa di Firenze: vestiti pretenziosi, ma ormai rovinati, acconciatura ordinata, ma ormai fuori moda, schiena dritta, ma un volto simile al muso di una rana... Era caduta così in basso la Repubblica che aveva cercato di comandare subdolamente su tutta Italia?

“Fuori di qui!” sbottò il Valentino, incapace di sopportare ulteriormente il profilo spigoloso del suo inutile ospite: “Fuori!”

Mentre Niccolò si prodigava comunque in un paio di profondi inchini e chiedeva scusa e biascicava promesse a metà, Cesare andò alla finestra e si mise a guardare fuori. Non sapeva nemmeno lui se partire immediatamente o meno, né sapeva dove andare.

Il papa, non era un mistero, gli lisciava il pelo a parole, ma poi, a fatti, chiedeva ai romagnoli di sollevarsi contro i suoi ultimi luogotenenti per riconsegnare le terre al Vaticano o, alla peggio, a Venezia.

Aveva già pensato di dirigersi a Ostia e lì accettare il passaggio – costoso, ma sicuro – offerto da Motino, che aveva recuperato due galee abbastanza robuste e veloci. Da lì in poi, però, nella mente di Cesare c'era solo nebbia.

Per un brevissimo istante pensò di presentarsi da Lucrecia, ma accantonò quasi all'istante l'idea sia perché non aveva alcun bisogno di litigare con Alfonso, sia perché non era sicuro, purtroppo, dell'accoglienza che la sorella gli avrebbe riservato. Forse in un primo momento l'avrebbe accolto a braccia aperte, con l'affetto che gli aveva sempre riservato da bambina, ma poi sarebbe sopraggiunto tutto il resto... Malgrado il legame indissolubile che li avrebbe sempre legati, da quando l'Aragona era morto, qualcosa era cambiato e non sarebbe mai più tornato come prima.

Premendosi i palmi delle mani sugli occhi, Cesare rise da solo, pensando che avrebbe potuto presentarsi nel paesino vicino a Firenze dove viveva Caterina Sforza e pretendere che l'aiutasse. In fondo era anche per colpa sua, se adesso era caduto in disgrazia...

Sbatté le palpebre un paio di volte, sforzandosi di non cedere di nuovo a quella strana follia che a volte l'aveva colto mentre era a Castel Sant'Angelo, e poi respirò a fondo e decise: il giorno dopo, prima dell'alba, sarebbe partito per Ostia. Quello che sarebbe accaduto da lì in poi l'avrebbe deciso man mano.

 

Bernardino era tornato a Castello, accompagnato da Scipione, che aveva voluto portare a Caterina delle notizie di prima mano, senza lasciare che fosse qualche dispaccio a informarla.

Salutato il Feo, quindi, che le era parso decisamente di buon umore e molto più tranquillo che non alla partenza, la Sforza lasciò il figlio con Galeazzo e poi si dedicò interamente al figlioccio, chiedendogli di seguirla in una zona più tranquilla della villa.

Iniziava a piovigginare e, stando alle ossa doloranti di Creobola, la pioggia si sarebbe trasformata presto in neve. Era il classico giorno in cui nessuno avrebbe rifiutato un calice di vino caldo speziato davanti a un camino acceso.

Scipione, infatti, accettò volentieri da bere e fissò per un po' le fiamme, prima di parlare. Spiegò alla donna di come Ottaviano stesse ancora indugiando vicino a San Pietro in Bagno, lasciando che gli uomini dei bolognesi facessero quello che volevano nel circondario. Non aveva notizie su Ermes Bentivoglio, ma era pronto a giurare che si stesse distaccando dal Riario sempre di più, per prenderne le distanze prima che fosse troppo tardi.

E poi le parlò della situazione di Rimini. Il Pandolfaccio era stato a Venezia, lo sapevano tutti, per chiedere di nuovo l'aiuto del Doge, ma anche il benestare di Loredan non era stato sufficiente a salvargli lo Stato. Incapace di tenere l'ordine e odiato dalla popolazione, il Malatesta si era incontrato contemporaneamente con lo zio, Giovanni Aldovrandini e con il Doge. Dopo un lungo discutere, aveva ceduto Rimini ai veneziani, con Sarsina e Meldola. In cambio aveva ricevuto un indennizzo di diecimila ducati, una condotta per il fratello Carlo e benefici ecclesiastici per il figlio, nel veneziano, per mille ducati. Sembrava che la moglie, Violante Bentivoglio, essendo intervenuta personalmente in consesso, fosse riuscita a ottenere per se stessa una provvigione annua di cinquecento ducati, la proprietà del sale di Rimini e la signoria della cittadella, che comportava già da sola una rendita annua di circa duemilasettecento ducati.

“Quella donna sa il fatto suo.” commentò Caterina, annuendo lentamente.

“E invece Faenza...” Scipione strinse le labbra e continuò: “Alla fine sembra che ieri, o un paio di giorni fa, si sia arresa. I messi cittadini sono andati al campo veneziano dichiarando la resa. Anche se i provveditori veneti hanno accettato le condizioni dei faentini, comunque la città ora è del Doge...”

“Quali sono le condizioni? Si sa?” si informò la Tigre, accigliandosi.

“La salvaguardia dei Manfredi superstiti e il loro mantenimento a vita.” spiegò il Riario: “Ma pare che i veneziani abbiano accettato a patto che i Manfredi stiano a Venezia, lontani da Faenza, per paura che possano sobillare il popolo in un secondo momento...”

I due discorsero per un po' di quell'evenienza, poi tornarono sulla questione di Ottaviano, e quando infine tutto sembrò essere stato approfondito in modo esaustivo, Caterina si abbandonò contro lo schienale del suo scranno e sospirò: “Adesso dimmi come si è comportato Bernardino in città. Non mi interessano i dettagli, solo se è stato lontano dai guai...”

Il Riario fece un piccolo accenno di sorriso, ripensando velocemente ai posti in cui aveva portato quello che lui – come quasi tutti – chiamava Carlo. Forse qualcuno avrebbe detto che osterie e bordelli non erano i posti giusti per un ragazzino della sua età, ma Scipione lo capiva e si rendeva conto di quanto gli servisse quel genere di sfogo.

“Posso dire che è stato molto bravo.” riassunse alla fine, ritornando per un istante con la mente a una concitata notte in un vicolo di Firenze, durante la quale, per un soffio, non si erano davvero cacciati entrambi in un grosso guaio: “L'unica rissa seria in cui ha rischiato di essere coinvolto è iniziata in un momento in cui era troppo distratto da una bellissima ragazza che stava già per...”

“Ti ho detto che non voglio sentire i dettagli.” lo riprese la milanese, ma con indulgenza, mentre Scipione si zittiva arrossendo un po' e dandole ragione.

“Comunque, questo per dire che sì, è stato bravo. Non mi ha mai disubbidito.” concluse l'uomo.

“Sono felice che andiate così d'accordo.” sospirò la Tigre: “Bernardino ha bisogno di una figura maschile a cui fare riferimento... Io non posso bastargli.”

Scipione non disse nulla, non perché non trovasse l'argomento importante, ma perché, capendo che si stava arrivando alla fine del discorso, si era reso conto di dover affrontare la parte più difficile della sua visita a Castello.

“C'è ancora una cosa...” disse, con un peso sul cuore.

“Ossia?” Caterina era stata subito messa in allarme dal modo lento e mesto con cui il Riario si era messo a cercare nella tasca del giubbone qualcosa.

“Hanno mandato una lettera a tua cognata Semiramide – cominciò a dire il giovane – perché non sapevano dove rintracciarti di preciso... E lei me l'ha fatta avere, approfittando del fatto che ero in città... Suo figlio ha visto me e Bernardino, una sera, mentre eravamo in un... Be', questo non è importante.”

La Tigre teneva gli occhi puntati sulla missiva che Scipione aveva tra le mani e che, per qualche motivo, tardava a consegnarle.

“Non ci sono buone notizie.” mise in chiaro lui, ancora restio a darle il messaggio: “Perdonami se l'ho letta, ma Semiramide diceva che il messaggero aveva precisato che si trattava di una cosa molto importante e avevo paura che...”

“Da dove arriva quella lettera?” si informò la donna, interrompendolo, contrariata da quella lunga attesa che non faceva che aumentare l'ansia che provava.

“Fossano.” rispose Scipione con un soffio.

La mente della Leonessa ci mise qualche secondo, per fare tutti i collegamenti del caso. Quando infine ci riuscì, la Sforza deglutì, e poi, cercando di ricacciare il nodo che le stringeva la gola, guardò verso le fiamme del camino, accigliandosi.

“Dimmelo tu.” sussurrò: “Non voglio leggerlo.”

Il Riario, che rimpiangeva di non averle consegnato la lettera e basta, si schiarì la voce e poi la prese un po' alla larga: “La lettera l'ha scritta la sua cameriera personale... A quanto scrive sembra che... Sembra che Bona di Savoia sia morta venerdì.”

Caterina, che non pensava più a quella che aveva ritenuto per tantissimo tempo una seconda madre, sentì un dolore pungente al petto. Non aveva mai avuto la possibilità – o forse la voglia – di cercare di nuovo un contatto diretto con lei. Aveva lasciato che l'ombra che era scesa in modo irrecuperabile tra di loro non si dipanasse...

“Scrive anche in che modo?” si informò, rendendosi conto che aveva poco senso fare quella domanda, ma forse era un bisogno insito nell'animo umano, quello che provare curiosità per certi dettagli.

“La serva scrive che è morta nel sonno.” spiegò Scipione, un po' sollevato nel vedere che la donna non piangeva, né si disperava in alcun modo visibile.

La Leonessa si trattenne dal dire a voce alta quello che stava pensando, ossia che anche la sua vera madre, Lucrezia Landriani, se n'era andata in quel modo. Entrambe le sue madri si erano spente in modo tutto sommato sereno. Dopotutto, le colpe che avevano nei suoi confronti non erano state sufficienti a Dio per assicurare loro una dipartita tormentata.

Mentre la milanese cercava di scacciare dalla mente quel pensiero – tanto viscido e rancoroso da farla vergognare di se stessa – Scipione riprese: “Scrive che poi, arrivata la sera, dei nobili di Fossano l'hanno portata nel loro Duomo, per le esequie e la sepoltura... Ma hanno tenuto a non rendere noto a nessuno dove l'abbiano messa, perché, sai com'è, i tempi sono quelli che sono e...”

“E per molti lei è ancora la Duchessa di Milano.” concluse Caterina, incrinando un po' le labbra nel pensare che, in fondo, anche il corpo suo padre Galeazzo Maria Sforza era stato sepolto in un luogo segreto per preservarlo da eventuali sciacalli o detrattori.

Il Riario tenne la lettera a mezz'aria ancora per un po' e poi, rinunciando all'idea di farla leggere dalla Tigre, la rimise in tasca: “Mi spiace. Davvero.”

“Bona aveva la sua età. Ha avuto la sua vita.” tagliò corto Caterina, spiccia, ma comunque con un certo grado di agitazione che cercava di mascherare giocherellando con il calice che teneva tra le mani: “Ha passato gli ultimi anni servita e riverita, senza dover pensare più a nulla... A modo suo, è stata fortunata.”

Scipione schiuse le labbra, per dire ancora qualcosa, ma venne messo a tacere da un gesto imperioso della donna, che, appena finito il vino che le restava, scosse il capo.

“Scusami. Adesso voglio stare un po' da sola.” dichiarò la Leonessa e, senza aspettare una risposta o un saluto, lasciò la stanza.

 

Guidobaldo da Montefeltro era arrivato a Roma da un paio di giorni. Giulio II aveva fatto il possibile per farlo sentire un ospite più che gradito, fin dal momento in cui era andato ad apettarlo fuori dalla città con uno schieramento enorme di parenti e prelati.

L'urbinate, però, aveva in un primo momento provato una certa diffidenza nei confronti del pontefice. Anche se conosceva le posizioni del Della Rovere, non riusciva a togliersi dalla testa le parole di Antonio Giustinian, oratore veneziano lì a Roma, che non aveva fatto altro che elencargli tutti i benefici che il papa aveva concesso al Valentino, non ultima la possibilità di lasciare incolume la città e dirigersi impunito verso Ostia.

Così quel giorno Guidobaldo aveva chiesto di poter incontrare Giuliano da solo, senza nemmeno un servo ad ascoltare le loro parole. Voleva discutere con lui delle questioni della Romagna, ma senza dover misurare le parole o stare attento alla forma.

“Ovviamente quello che voglio è che la Romagna tutta torni in mano della Chiesa!” sbottò a un certo punto il papa, dopo che il Montefeltro ebbe esposto i suoi dubbi: “Altrimenti come faccio a ridistribuire come voglio i territori?”

Guidobaldo, con il suo volto pallido e imperscrutabile, fissava le guance rubizze e gli occhi fiammeggianti di Giuliano, e non trovò traccia di menzogna, nelle sue parole.

“E Faenza?” chiese il trentunenne, tenendo lo sguardo sul pontefice: “Ormai è veneziana... E di fatto la è anche Rimini e mentre stiamo discutendo chissà quante altre città cadranno in mano del Doge...”

“Per quanto riguarda Faenza e il resto, credo che sarebbe una buona cosa se voi convinceste un paio di Cardinali super partes a parlare con il Valentino, al fine di convincerlo a lasciare alla Chiesa le terre...” spiegò il Della Rovere, allacciandosi a fatica le mani dietro la grande schiena e camminando lento verso la finestra che affacciava sui giardini: “Non posso farlo io o sarebbe troppo sospetto... Voi, sulla carta, non avete interessi, in Romagna, e sembrerebbe che il vostro impegno fosse dovuto solo al bene della Chiesa e al vostro spirito di giustizia e tutte quelle assurdità che a certi uomini piacciono tanto...”

Guidobaldo ascoltava in silenzio, le lunghe e asciutte gambe accavallate una sull'altra e un braccio mollemente abbandonato sul ginocchio.

“Dopodiché sarebbe buona cosa che parlaste anche con l'oratore veneziano affinché dica al Doge che non si può andare avanti così! Sappiamo che stanno mandando il Conte di Pitigliano in Romagna per conquistarla tutta!” il tono del Santo Padre si stava alterando, a dimostrazione ulteriore che quell'argomento per lui era di vitale importanza: “E quelle terre che hanno già preso, che ce le restituiscano, se no..!”

“Se no?” intervenne il Montefeltro, atono: “Li scomunicherete in tronco?”

“Potrei anche farlo.” annuì, con una sorta di comica cocciutaggine, il pontefice.

L'urbinate rifletté qualche istante e poi disse: “Avete ragione, devo occuparmene io, o non avreste il sangue freddo necessario a far filare tutto...”

Giuliano si morse la lingua prima di prendere a male parole quell'uomo che, ora come ora, gli serviva immensamente. Così, invece di aprir bocca, fece un cenno d'assenso col capo e poi si mise a guardare fuori.

Silenzioso come un gatto, Guidobaldo lasciò la sua seduta e raggiunse alle spalle il pontefice, mettendosi a sua volta a guardare fuori. Il cielo grigio di Roma proiettava sui giardini una luce spettrale e quei pochi prelati che stavano passeggiando tra fiori e arbusti sembravano solo delle macchie svolazzanti e inquietanti.

“E per la mia figlioccia?” chiese il Montefeltro, in un filo di voce.

Non aveva usato nessuna inflessione, come spesso faceva quando parlava, eppure il pontefice avvertì un che di minaccioso, nelle sue parole.

“Lo sapete che è mia intenzione sistemare mia nipote Maria Giovanna come si deve. Perché dovete ricordare – sottolineò, voltandosi a guardare gli occhi tondi e inespressivi di Guidobaldo – che è prima di tutto mia nipote e solo dopo vostra figlioccia.”

“Avete trovato un uomo che la prenderà così com'è?” chiese l'urbinate, un po' scettico: “Con tre figli e un amante dal quale non si separa mai?”

“L'amante non vivrà in eterno.” provò a dire Giuliano.

“Uccideteglielo e conoscerete una Maria Giovanna che non ha mai visto nessuno.” l'avvertì l'altro, cupo: “Credo che sarebbe capace di una qualsiasi follia, se agissimo in quel senso... Il nuovo marito dovrà essere un uomo paziente. Lo ricompenseremo a dovere, per la sua sopportazione...”

“Ho comunque in mente l'uomo giusto.” disse il papa, con la mente che correva una volta di più a Galeazzo Riario: “Tranquillo, intelligente e abituato ad avere a che fare con donne dai costumi liberi.”

“Spero per la mia figlioccia, anzi, per vostra nipote, che non si tratti di un vecchio che non riesca nemmeno a sopravvivere alla prima notte di nozze...” commentò il Montefeltro, sinceramente preoccupato dalla reazione che avrebbe potuto avere Maria Giovanna, più che da tutto il resto.

“No, è anche più giovane di lei.” ribatté Giuliano, facendo un calcolo a spanne: “Di tre o quattro anni, credo.”

“Mi rallegra sentire che non si tratta né di un vecchio né di un ragazzino.” ammise, sollevato, l'urbinate: “E quando potremmo organizzare le nozze?”

Il papa si perse a guardare fuori per un attimo, pensando alla confusione che Ottaviano Riario aveva portato a Imola e a come fosse necessario innanzitutto placare quel polverone, per non dare a sua nipote un marito che portasse un cognome troppo chiacchierato: “Ci vorrà ancora un po' di tempo, un mese o due almeno... Prima devo sistemare delle cose importanti.”

“Come dite voi.” concesse Guidobaldo, allungando l'occhio verso i giardini e notando una figura allampanata e sgraziata, con un mantello un po' stinto e un naso così brutto da essere ben visibile anche a distanza.

Quella specie di corvo dotato di gambe camminava in modo stizzoso, dando qualche calcetto all'aria o ai ciuffi d'erba, brontolando tra sé. Non era un religioso, o, almeno, non lo sembrava, e il suo accento era toscano.

“Chi è quello? Perché fa così?” domandò il Montefeltro, incuriosito, visto che il papa osservava la strana figura con un sorrisetto ironico.

“Quello è messer Machiavelli, l'oratore fiorentino...” rispose, aprendo la finestra per poter guardare meglio di sotto: “Credo sia arrabbiato perché ha scoperto che qui a Roma i salvacondotti si pagano, anche se li si richiede con gli stessi moduli che s'usano a Firenze!”

La risata di Giuliano attirò l'attenzione di Niccolò che, accigliato, alzò lo sguardo verso la finestra.

“Bella giornata, non è vero?” gli chiese, alzando la voce, il Della Rovere.

Machiavelli fece un respiro profondo e poi gridò, di rimando: “Andrà a piovere!”

“Avete ritirato il nuovo salvacondotto?” chiese il papa, al solo scopo di provocarlo e divertirsi.

“L'ho fatto!” annuì Niccolò, mentre cominciava a scendere qualche goccia di pioggia.

“E a quanto lo mettono, oggi?” rise il pontefice: “Più caro o meno di uno staio di grano?”

“Non è affar mio.” fece, scontroso il fiorentino: “Io son fiorentino e a Firenze i salvacondotti non si pagano!”

“Ma qui siamo a Roma!” gli ricordò Giuliano e prima che Niccolò, che aveva già aperto la bocca, potesse spiegare come avesse fatto a ritirare il documento posticipando il pagamento, il pontefice serrò la finestra.

“Adesso sarà meglio che vada.” si congedò Guidobaldo, annoiato dal siparietto che il Santo Padre aveva allestito a suo uso e consumo: “Chiederò al Cardinale Soderini e al Cardinale De Remolins di andare a Ostia dal Valentino, per riferire quello che avete detto voi. E poi incontrerò l'oratore veneto.”

“Mi raccomando – gli disse allora il Della Rovere, alzando l'indice – ricordatevi quanto sia importante tutto questo.”

Il Montefeltro lo guardò per qualche istante, con il suo solito sguardo fisso e malinconico, impossibile da decriptare, e poi fece un mezzo inchino e disse solo: “Vostra Santità...” e si incamminò verso la porta.

 

   
 
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