160 a.U.c. - Marzo
Roma
Lidia e Tito
avevano fatto ritorno a casa dell'Avvocato Fusco
sullo scadere dell'ora che Ottavia aveva concesso loro e non avevano
quindi
avuto modo di salutarsi come avrebbero desiderato. Lo sguardo severo
della
domestica li aveva costretti a dirsi addio in maniera formale e quasi
asettica
nonostante le lacrime che rigavano i loro volti.
La fanciulla
aveva percorso la strada che conduceva a casa di suo
padre accecata dalle lacrime e totalmente indifferente a tutto
ciò che la
circondava. Ricordava vagamente di avere incrociato qualcuno che aveva
chiamato
il suo nome - un'amica, Valeria o forse Augusta - ma non si era fermata
per
parlare o anche solo per rassicurarle.
All'improvviso
tutto sembrava aver perso importanza: la sua mente
non faceva altro che riproporle a ciclo continuo l'immagine degli occhi
di
Tito, del suo sguardo disperato quando Ottavia li aveva costretti a
separarsi.
Lidia lo conosceva troppo bene per non accorgersi che, nonostante la
spavalderia che aveva mostrato in riva al Tevere, il ragazzo aveva
paura. Paura
di perderla, supponeva, paura di non riuscire a mettere a punto o a
portare a
termine quel suo piano appena abbozzato.
E come non
capirlo? Quelle erano esattamente le stesse paure che
aveva anche lei.
Quando era
arrivata a casa aveva incontrato sua madre. Donna
Aurelia aveva fatto per avvicinarsi a lei, ma Lidia aveva provato una
specie di
senso di rigetto all'idea di avere a che fare con i propri genitori.
Era così
corsa in camera sua senza una parola, salvo poi presentarsi a cena come
richiesto da suo padre, perché al Senatore bisognava
obbedire sempre e
comunque.
Era stata una
cena tesa e silenziosa, per una volta non
accompagnata dalla presenza della servitù. Le due donne di
casa avevano
mangiato con gli occhi bassi, mentre il Senatore Claro le aveva
ragguagliate su
ciò che avrebbero trovato in Germania.
Non aveva offerto
alcun dettaglio sulla famiglia di cui Lidia
sarebbe entrata a far parte; e lei non ne aveva chiesti. Meno sapeva di
ciò che
l'attendeva a nord e meglio poteva illudersi che l'intera faccenda
fosse solo
uno di quei sogni tormentati che a volte faceva poco prima dell'alba.
Suo padre le
aveva spiegato ciò che ci si aspettava da lei: che si
adeguasse alle richieste di suo marito e dei suoi parenti,
dimostrandosi una
buona moglie, ma che al tempo stesso non rinnegasse mai le sue nobili
origini
romane.
E come dovrei
fare? Aveva
pensato Lidia, schiacciando stizzosamente tra le dita un pomodorino e
facendone
esplodere la polpa nel piatto. Quelli
vivono nella sporcizia. Se mi impedissero di farmi un bagno per
settimane, per
esempio, come potrei mantenere il decoro che si addice a una matrona
romana?
Erano stati
proprio i dettagli che il Senatore le aveva fornito a
proposito di alcune differenze tra la sua domus e
la casa in cui avrebbe abitato in Germania a sconvolgerla. Se era vero
ciò che
diceva suo padre, a Erding non c'era un acquedotto come a Roma, il che
significava che nelle case non c'era acqua corrente.
«E se
uno deve andare in bagno, come fa?» aveva osato chiedere
lei.
«C'è
una baracca apposita sul retro della casa, oppure su uno dei
terrazzi. Tutto finisce poi in una buca nel terreno.»
Lidia non aveva
osato chiedere altro, ma la carrellata di
informazioni snocciolate dal Senatore l'aveva fatta inorridire: in
Germania non
c'era corrente elettrica se non nelle case dei dignitari romani,
attrezzate con
dei pannelli solari, e l'illuminazione era garantita dalle lanterne a
olio. Non
c'erano i costosissimi fornelli elettrici alimentati dalla luce del
sole, e
naturalmente non c'erano nemmeno i carri automatici: se la gente doveva
spostarsi, lo faceva in sella a un cavallo o su un carretto trainato da
qualche
altra bestia. Non c'era il riscaldamento, ma solo il fuoco, che Lidia
avrebbe
avuto il compito di alimentare. Niente musica, ovviamente, niente
teatro,
niente sartorie nelle quali rifornirsi di abiti alla moda: in Germania,
le
donne si tessevano gli abiti da sé. Lidia era brava a
ricamare e di tanto in
tanto amava dilettarsi al telaio, ma dubitava di essere in grado di
confezionarsi alcunché.
Quando quella
cena infinita era giunta al termine, era tornata
nella propria camera e si era gettata sul letto, sfinita e spaesata.
Ed era nella sua
camera che aveva passato la maggior parte del
tempo nei giorni successivi. Anche se la data in cui avrebbe dovuto
lasciare
Roma si avvicinava allo stesso tempo lenta e fin troppo veloce, la
ragazza
sentiva di non avere l'energia necessaria per affrontare il mondo al di
fuori
di quelle quattro mura famigliari.
Una volta che le
aveva detto tutto ciò che le doveva dire, il
Senatore era tornato a ignorarla come di consueto. Donna Aurelia aveva
invece
cercato più volte di parlarle, di incoraggiarla. Le aveva
detto che nemmeno lei
a suo tempo avrebbe voluto sposare quello che sarebbe poi diventato il
Senatore
Claro, ma che alla fine le cose erano andate abbastanza bene. Lidia
aveva
scosso la testa e aveva guardato fuori dalla finestra, chiedendosi, non
per la
prima volta, se sua madre fosse felice e soddisfatta della sua vita.
Le aveva anche
detto che le cose le sarebbero sembrate meno
terribili una volta che sarebbe arrivata in Germania e che avrebbe
visto con i
suoi stessi occhi che la vita lì non era poi tanto diversa
che a Roma. Ma cosa
accidenti ne sapeva sua madre? Lei non aveva mai lasciato l'Urbe, quindi Lidia dubitava che il suo
parere fosse affidabile.
Sprofondata in un
isolamento quasi totale, Lidia si rifiutava di
ricevere visite. Qualcuno aveva provato ad andare da lei, nei giorni
precedenti, ma la fanciulla si era rifiutata di ricevere gli amici e i
parenti
che intendevano farle visita per confortarla un po'. La voce doveva
essersi
sparsa, perché dopo i primi giorni, nessuno era
più andato a trovarla.
Lidia fu quindi
piuttosto sorpresa quando, a due giorni dalla sua
partenza per Erding, un'ancella venne a dirle che c'era una visita per
lei.
«Non mi
va di parlare con nessuno» borbottò senza
distogliere lo
sguardo dalla trama regolare del copriletto sul quale era seduta.
Ferma sulla
soglia, l'altra ragazza incrociò nervosamente le
braccia. «Lo so, ma Donna Lucilla mi ha già detto
che non intende andarsene
senza averti prima parlato.»
Lidia gemette.
Lucilla era la sua migliore amica. Si conoscevano
praticamente da sempre e aveva ormai capito che quando si metteva in
testa una
cosa, farle cambiare idea era un'impresa impossibile. Ciononostante, si
chiese
per un attimo se non potesse semplicemente ordinare ai servi di
lasciarla in
strada. Lucilla era persistente, ma prima o poi si sarebbe stancata
anche lei.
Il pensiero fu
però sufficiente per farla inorridire. Non
importava quanto fosse triste e giù di morale: la sua amica
non aveva mai fatto
nulla per meritarsi un trattamento del genere.
Questa
sarà
sicuramente l'ultima volta che la vedo, realizzò
all'improvviso. Un velo
di lacrime le offuscò gli occhi. Tra
due
giorni partirò, e una volta che poi Tito verrà
per portarmi via non potrò certo
tornare a Roma e visitare i miei vecchi amici.
«Donna
Lidia?» fece l'ancella, richiamando la sua attenzione.
«Cosa devo fare?»
La fanciulla si
passò velocemente una mano sugli occhi. «Falla
entrare» rispose con voce tremula. «Chiedile di
venire qui in camera, però. Non
ho nessuna voglia di scendere di sotto e magari trovare i
miei.»
L'ancella
annuì e si allontanò in silenzio, ma dopo pochi
minuti
qualcuno bussò di nuovo alla porta della sua camera. Come
faceva sempre,
Lucilla non attese che Lidia le desse il permesso di entrare:
spalancò la porta
e poi se la richiuse alle spalle con un tonfo, marciando decisa verso
il letto
sul quale sedeva la sua amica.
«Non
dirmi che sei stata davvero chiusa in camera per una
settimana!» esordì, puntando gli occhi azzurri in
quelli scuri di Lidia.
«Non
per una settimana» borbottò lei di rimando.
«Solo per qualche
giorno.»
Lucilla
sospirò in modo decisamente esagerato e poi si
gettò i
lunghi ricci biondi e indomabili dietro a una spalla.
«Quanta pateticità»
sbottò levando gli occhi al
cielo.
Lidia le rivolse
un'occhiata piccata. «Come, scusa? Ma lo sai cosa
mi è successo?»
L'altra ragazza
si lasciò cadere sul letto. «Ti spediscono in
Germania.»
Lidia
incrociò le braccia, la sua tristezza momentaneamente
dimenticata in favore dell'indignazione che provava di fronte al tono
sbrigativo dell'amica. «E ti pare poco?»
Il volto di
Lucilla assunse un'espressione più gentile. «Non
mi
pare poco, però non mi pare nemmeno una tragedia. Ogni
fine è un nuovo inizio, o qualcosa del
genere.»
Lidia rimase
senza parole per qualche secondo. «Ma io mica lo
volevo, un nuovo inizio. La... la storia che avevo mi andava
benissimo.»
Lucilla fece le
spallucce. «Io invece sono convinta che ci farà
bene.»
«Ci farà
bene?» ripeté
Lidia, calcando sulla prima parola. «Quindi anche
tu...?»
La fanciulla
bionda annuì. «Esattamente. Parto anch'io. Non
subito, ma tra due settimane. Tra l'altro io vado nella Germania vera,
mica sul
confine come fai tu.»
«Vai
al nord?» chiese
Lidia preoccupata, ricordando ciò che suo padre le aveva
detto a proposito dei
popoli che vivevano nelle regioni più settentrionali della
Germania.
Lucilla scosse la
testa. «No, non proprio al nord, ma sulle
montagne. Ad Afen, per la precisione. Mi sono informata un po', ma non
ho
trovato molte notizie. Sembra un posticino carino, comunque. Bello
tranquillo,
infatti non mi è chiaro perché abbiano deciso di
farmi sposare proprio un tizio
che vive lì.»
Lidia ne capiva
troppo poco di politica per poterle dare una
risposta: il padre di Lucilla non era un Senatore, ma un Generale in
pensione,
e lei non sapeva immaginare perché a un germano avrebbe
dovuto far piacere
averlo come suocero. E nemmeno le interessava capirlo, a dire il vero:
tutta
quella faccenda era un'autentica mostruosità.
«Non
saprei proprio» mormorò allora. «Non
sono nemmeno certa che
ci sia una logica.»
«Una
logica c'è di sicuro», la contraddisse la sua
amica, «ma come
al solito nessuno si degna di spiegarci niente. Siamo donne, del resto.
Non
vorrai mica che il nostro povero cervellino si surriscaldi pensando a
queste
faccende così complicate, no?»
Lidia sorrise a
suo malgrado. Poi si schiarì la voce. «In
realtà
mio padre qualcosa me l'ha spiegato. Io devo andare proprio a Erding
perché
pare che sia un posto piuttosto importante...»
«...
postaccio orribile, da quanto ho letto, ma effettivamente
importante» si intromise Lucilla.
«Grazie
per l'incoraggiamento» sbottò sarcastica Lidia.
«Dicevo:
visto che è così importante, il figlio del capo
villaggio sposerà Camilla
Fabiana e...»
Lucilla
sgranò gli occhi. «Camilla
Fabiana?» sibilò
incredula.
Lidia
sbiancò. Quella era forse un'informazione che avrebbe fatto
meglio a tenere per sé: la sua amica era una ragazza
adorabile, ma non era
esattamente famosa per la sua capacità di mantenere i
segreti. «Sì, ma non
dirlo a nessuno, ti prego!» pigolò giungendo
istintivamente le mani in un gesto
di supplica. «Se tu non ne sapevi niente, è
probabile che non vogliono che si
sappia in giro.»
La ragazza bionda
annuì con aria risoluta. «Non lo dico a nessuno,
promesso. Mi piace spettegolare, ma sono capace di tenermi per me le
cose
davvero importanti.»
Lidia
tirò un sospiro di sollievo. «Grazie.»
Lucilla fece un
saltello eccitato e le afferrò le mani.
«Però,
davvero, Camilla Fabiana! Questa è una cosa grossa, Lidia!
Oh, cosa darei per
poter vedere la sua faccia nel momento in cui le dicono che
dovrà sposare un
germano! Credi che lo sappia già?»
«Non ne
ho idea» sbuffò Lidia.
Lucilla parve
rendersi conto di avere nuovamente dirottato il
discorso. «E tu?» chiese, tornando a concentrarsi
sull'amica. «Cosa c'entri tu
in tutto questo?»
«Eh,
pare che prima vogliano fare una prova con me. Mi fanno
sposare il figlio di uno degli uomini di questo capo villaggio, e se va
tutto
bene dopo un po' mandano su anche Camilla.»
Lucilla
annuì. «Be', sembra una cosa importante.
È bello che
abbiano pensato a te, no?»
Lidia
strabuzzò gli occhi. «Bello?!»
«Non
bello-bello!» si
affrettò a specificare Lucilla. «Cioè,
ovviamente è uno schifo che ci spostino
da una parte all'altra dell'impero come se fossimo vacche,
però è comunque un
riconoscimento per te e per la tua famiglia che abbiano scelto proprio
te, tra
tutte le ragazze nobili di Roma. In un certo senso è un
onore, no?»
«In
effetti mio padre sembrava piuttosto onorato da questa
faccenda» riconobbe amaramente Lidia.
«E tu
non lo sei?» chiese cautamente Lucilla.
«A me
non me ne importa niente dell'onore o della politica o
dell'argento che c'è a Erding!» sbottò
la ragazza bruna, sentendo di nuovo la
disperazione montarle nel petto. «Io volevo solo sposare
Tito!»
L'altra ragazza
sospirò e le passò affettuosamente un braccio
attorno alle spalle. «Ah, già. Scusami. Tendo
sempre a dimenticarmi che tu
avevi Tito.»
«Io ho Tito» la
corresse istintivamente Lidia.
Lucilla
corrugò la fronte. «Non più. Sei ancora
a Roma, è vero, ma
non si può disobbedire a un ordine
dell'Imperatore.»
Questo lo
dici tu, pensò
Lidia, ma non osò dirlo. Non ancora. «Be', non
sono ancora
sposata, quindi mi piace pensare che il mio fidanzamento sia ancora
valido.»
La sua amica
storse le labbra. «Non sono sicura che questo sia il
modo migliore per affrontare la cosa» mormorò.
«Io non sono mai stata
fidanzata, quindi è probabile che non sappia quello che stai
provando tu, ma
secondo me prima accetti la realtà e meglio
è.»
«Cosa
vuoi dire?»
«Capisco
che tu vuoi bene a Tito, ma devi sforzarti di guardare
avanti. In fin dei conti non avevi comunque scelto tu di sposarlo,
no?»
«No, ma
che importa?» ribatté Lidia. «Alla fine
mi sono innamorata
di lui, quindi il fatto che sia stato mio padre a sceglierlo per me
è
irrilevante.»
«Non ti
dico che devi dimenticare Tito da un giorno all'altro»,
replicò Lucilla, «però credo che
dovresti prendere in considerazione il fatto
che magari col tempo potresti innamorarti anche del tuo nuovo marito.
Se ti è
successo una volta potrebbe succedere anche una seconda, no?»
«Anche
mio padre mi ha detto una cosa del genere» disse sarcastica
Lidia.
Lucilla
levò gli occhi al cielo. «Oh, Dei, lungi da me
essere
d'accordo con il Senatore, però questa volta un po' di
ragione ce l'ha. Anche
se è ingiusto, in questa faccenda non abbiamo voce in
capitolo. L'unica cosa
che possiamo fare è cercare di non partire
prevenute.»
Lidia
inarcò le sopracciglia. «Tu non hai
pregiudizi?»
La ragazza bionda
le rivolse un mezzo sorriso. «Cerco di non
averne e di vedere piuttosto il tutto come un'opportunità.
Non ti nego che Roma
iniziava a starmi stretta.»
«E
credi che un minuscolo villaggio in mezzo alle montagne non ti
starà stretto?»
Lucilla si
strinse nelle spalle. «Non lo so. Non sto parlando di
spazi fisici, ma di possibilità. Cosa mi aspettava a Roma?
Sarei diventata la
moglie di qualche vecchio soldato, esattamente come mia madre. Io
voglio bene a
mio padre, ma gli uomini come lui scarseggiano nell'esercito. Le
possibilità
che mi avrebbero fatto sposare esattamente il tipo di uomo che detesto
erano
concrete. Invece la Germania è l'ignoto. L'imprevisto. Una
specie di sorpresa
da scoprire.»
«Potrebbe
rivelarsi una pessima sorpresa» commentò Lidia.
«O
magari potrebbe essere una sorpresa bellissima.»
Lidia sorrise
appena, stupita per l'ennesima volta dal fatto che
lei e Lucilla fossero così amiche pur essendo
così innegabilmente diverse.
La loro non era
una semplice diversità fisica, benché Lucilla
fosse bionda e luminosa come un raggio di sole e Lidia piccola e scura:
ciò che
le rendeva diametralmente opposte era il loro carattere. Se Lucilla era
infatti
in grado di trovare un aspetto positivo anche nelle situazioni
più difficili,
Lidia era perennemente avvolta da un'aura di pessimismo. Lucilla era
tanto
estroversa quanto Lidia era riservata, e se la ragazza bruna tendeva a
tenersi
dentro paure e risentimenti, covandoli fino a quando questi non
rischiavano di
soffocarla, gli umori della bionda erano esplosivi: Lucilla era in
grado di
passare dalla gioia alla rabbia in un battito di ciglia, salvo poi
tornare a
sorridere pochi minuti più tardi.
Lidia la
invidiava: aveva il sospetto che la sua amica non avesse
la sua stessa tendenza a complicarsi inutilmente la vita.
Ciononostante,
l'atteggiamento disinvolto di Lucilla le sembrava un po' eccessivo.
«Spero
che tu abbia ragione» mormorò senza incontrare il
suo
sguardo. Lo spero per te,
aggiunse
poi silenziosamente. Perché la cosa non la riguardava
più di tanto, dal momento
che in Germania lei ci sarebbe rimasta poco: più si
avvicinava la data della
partenza e più il piano di Tito le sembrava attraente.
«Be',
se non altro il mio futuro marito non sarà un
soldato»
commentò Lucilla arrotolandosi attorno all'indice un
ricciolo biondo. «Ho
chiesto a mio padre di raccontarmi qualcosa di lui, ma in
realtà non è stato in
grado di dirmi un granché. So solo che ha un paio di anni in
più di noi e che
fa il pastore, il che pare che da quelle parti sia una cosa
positiva.»
Lidia
inarcò le sopracciglia. «Il pastore»
ripeté. Non aveva una
grande esperienza in materia di animali da fattoria, ma di una cosa era
sicura:
non sarebbe mai stata in grado di sopportare un marito che puzzava di
sterco di
vacca, lei.
«Eh,
già. Ha qualche centinaio di capre»
confermò Lucilla con una
smorfietta.
Lidia non
riuscì a trattenere una risata. «Una vera fortuna,
Lù. E
come funzionerà il vostro matrimonio? Dovrai anche tu
mungere le capre? Fare il
formaggio? Spazzare la stalla?»
Anche la ragazza
bionda ridacchiò. «E chi lo sa! Se non altro
potrò coccolare i capretti, però.»
«Certo.
Prima che il germano li faccia allo spiedo, s'intende.»
Lucilla
sbuffò rumorosamente. «Mamma mia, come sei
noiosa!» Poi
sorrise. «E comunque lo sai qual è la cosa
più divertente?»
Il buon umore
dell'amica stava alleviando un po' il suo
turbamento, quindi Lidia le rivolse un sorriso complice. «No.
Qual è?»
«Il suo
nome. Senti un po': si chiama Ekbert. Ekbert! Non
sembra uno starnuto?»
Lidia si
rigirò quella parola in bocca, assaporandone il suono.
«Ek-bert. Sì, un pochino sì, in
effetti.»
Lucilla
sospirò in modo teatrale e poi si lasciò ricadere
sul
letto. «E va be'. Prima o poi ci farò l'abitudine.
Il tuo invece come si
chiama?»
Sulle prime Lidia
non capì. «Il... mio?»
La sua amica
alzò gli occhi al cielo. «Ma sì, il tuo
fidanzato!
Come si chiama il tuo, di germano?»
Lidia si
incupì e abbassò gli occhi sulle proprie
ginocchia. «A
parte che non è il mio germano»,
mugugnò, «di lui non so nulla se non il fatto che
è il figlio di uno degli
uomini vicini al capo villaggio. Mio padre non mi ha spiegato
altro.»
Lucilla si rimise
a sedere. «Ma è assurdo!»
sbottò. «Il Senatore
ha sicuramente qualche informazione in più. D'accordo, non
può rifiutarsi di
mandarti a Erding, ma almeno che ti spieghi qualcosina in
più, no?»
Lidia fece le
spallucce. «In realtà non mi interessa sapere
niente
di più.»
«In che
senso?» fece la sua amica corrugando la fronte.
La ragazza bruna
si mordicchiò le labbra. «Non lo so.
Probabilmente è una cosa stupida, ma meno ne so e meno
questa faccenda mi
sembra reale.»
«Confermo: è una
cosa stupida» fece Lucilla.
Lidia si strinse
di nuovo nelle spalle. «Be', comunque a me del
germano e della Germania non me ne frega niente. Non mi interessa
farmelo amico
e non mi interessa sapere niente di lui.»
Lucilla
sospirò e le prese una mano nelle sue.
«Sì, però così ti
complichi la vita, Lidia. Non vuoi andare in Germania, l'abbiamo
capito. Però
non puoi nemmeno evitarlo. Non è giusto, ma è
così. Prima ti rassegni all'idea
e prima ti convinci a creare un rapporto quantomeno decente con lui, e
prima la
smetterai di stare così male.»
Lidia strinse i
denti, resistendo all'impulso di mordersi la
lingua. Sì, lo sapeva, che avrebbe fatto meglio a tenere la
bocca chiusa, ma
quella era Lucilla, la sua migliore amica. Non ce la faceva a
trattenersi.
«Posso dirti una cosa?» chiese, abbassando
istintivamente la voce.
Negli occhi
azzurri di Lucilla si accese una luce di eccitazione.
«Ovvio.»
Lidia
deglutì e lanciò un'occhiata nervosa alla porta,
temendo che
qualcuno fosse in ascolto dall'altra parte. Non udendo nessun rumore,
sussurrò:
«Tito ha detto che verrà a prendermi.»
La sua amica la
guardò senza capire. «Eh?»
«Verrà
a prendermi» ripeté Lidia a voce appena un po'
più alta.
Lucilla
sbatté un paio di volte gli occhi. «Ti prego,
dimmi che
stai scherzando.»
Lidia si
accigliò. «Ma no. Ti sembra un argomento su cui
scherzare?»
L'altra ragazza
gemette e si nascose il volto tra le mani. «Voi
siete pazzi! Completamente fuori di testa. Come accidenti pensi che
possa fare
Tito, che per quanto ne so non è mai uscito da Roma, a
venire in Germania e a
portarti via da un marito che verosimilmente non avrà
nessuna intenzione di
lasciarti andare? Sfidando un ordine dell'Imperatore,
oltretutto!»
Lidia si torse le
mani. Lucilla aveva ragione, eppure... «Lo so, è
quello che gli ho detto anch'io, ma lui sembra davvero convinto. Dice
che ha
degli amici legionari che sono di stanza a Erding, e secondo lui
sarebbero
disposti ad aiutarlo.»
«Ma
aiutarlo a fare che!» sbottò Lucilla.
«Anche ammesso che
riuscisse a portarti via, non potreste mica tornare a Roma.»
«Lo so,
lo so», sospirò Lidia, «ma Tito ha detto
che ci pensa lui.
Gli servono un paio di mesi per organizzare il tutto, ma quest'estate
mi
raggiungerà a Erding e scapperemo via.»
Lucilla la
guardò dritta negli occhi. «Mi sembra un perfetto
modo
per farsi ammazzare» commentò. «Questo
è il genere di cose che funziona nei
libri, non nella vita reale.»
«Non
eri tu quella che fino a un attimo fa decantava le avventure
che potremo vivere in Germania?» la rimbeccò
Lidia. «Anche quella che propone
Tito sarebbe una fantastica avventura.»
Lucilla
però non si lasciò sviare.
«Lidia. Lì.
Tu pensi davvero che tu e lui, due ragazzini,
possiate fare una roba del genere
e vivere per sempre in clandestinità, lontani da tutto e da
tutti?»
Lidia
deglutì. «No» ammise dopo un po'. Se la
metteva così, la
cosa suonava davvero assurda. Ma era ovvio che parecchi dettagli
dovessero
essere ancora definiti, no? Una volta perfezionato, il piano di Tito
sarebbe
risultato fattibile. Forse.
«Ecco»
annuì Lucilla. «E allora lascia perdere Tito e le
sue
farneticazioni e concentrati sull'ambientarti al meglio in Germania e a
ottenere qualcosa di positivo da una situazione antipatica. Dimostriamo
alle
nostre famiglie e all'Imperatore che possiamo essere felici anche
là,
nonostante tutto.»
Anche se avrebbe
voluto ribattere, Lidia vi rinunciò: era chiaro
che l'amica non l'avrebbe sostenuta nei suoi progetti di fuga.
«Forse hai
ragione» disse allora, anche se in realtà non era
affatto convinta che fosse
così. «Però non parlerai a nessuno dei
progetti di Tito, vero?»
«Ma
certo che no» sbuffò Lucilla. «Voglio
solo che ti lasci in
pace e che non ti coinvolga nei suoi stupidi piani: non lo voglio
vedere in
prigione o morto.»
«Hm,
grazie» annuì Lidia. Aveva sempre avuto
l'impressione che
Lucilla non fosse una grande estimatrice di Tito, e quella
conversazione stava
confermando i suoi sospetti.
Balzando
improvvisamente in piedi, Lucilla allungò una mano a
Lidia, che l'afferrò d'istinto.
«Benissimo»
disse la ragazza bionda. «Detto questo, direi che sei
rimasta fin troppo tempo in questa stanza.»
Lidia gemette.
«Non ho voglia di uscire.»
«E
invece esci lo stesso» ribatté la sua amica,
irremovibile.
«Sono gli ultimi giorni che possiamo goderci il clima romano:
ho come
l'impressione che in Germania ce lo sogneremo, questo sole. Coraggio:
andiamo
almeno in giardino.»
Lidia
accennò una mezza protesta, pensando che in giardino avrebbe
corso il rischio di incrociare i suoi genitori. Ma prima che potesse
articolare
una frase di senso compiuto, Lucilla l'aveva già trascinata
fuori dalla stanza.