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Autore: Sinnheim    15/04/2024    0 recensioni
Fanfiction scritta a quattro mani con SibillaCubana.
Questa è la loro storia.
Prima di ciò che si conosce, quando Spira non era altro che una terra fatta di morte e distruzione, i tre eroi della leggenda hanno avuto modo di perseguire il loro destino.
L'invocatore Braska, il monaco Auron e il naufrago Jecht partiranno per completare il loro Pelligrinaggio, viaggio volto a raccogliere le forze necessarie per sconfiggere Sin, il distruttore.
Tuttavia, questo lungo e pericoloso viaggio verso la città di Zanarkand non sarà solo ricco di insidie terrene: ancor di più, i tre eroi dovranno affrontare loro stessi e le loro peggiori paure.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Auron, Braska, Jecht
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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CAPITOLO 39: L’ALFA E L’OMEGA

 

 

Nonostante la notte promettesse temperature gradevoli, Jecht era tormentato da brividi gelidi che gli impedivano il sonno. Raggomitolato sotto la sua coperta, strinse i denti esausto e venne a capo del fatto che no, quel freddo non veniva dal mare, ma lo aveva dentro.

Si chiese se, malauguratamente, non avesse contratto qualche malattia, ma non aveva per niente voglia di svegliare il povero Braska, che aveva un disperato bisogno di ogni ora di riposo disponibile. 

Luka dal grande stadio, il giudice Alan, tutta quella dannata faccenda in cui erano rimasti invischiati, lo avevano consumato senza pietà e senza poterci fare nulla. E poi, quasi più di tutto, c’era Auron.

Jecht drizzò la schiena a pezzi, cercando di assecondare il movimento placido della barca che, normalmente, lo avrebbe rilassato fino a farlo addormentare, ma non quella notte: come accadeva spesso, il mare era specchio dell’anima di Jecht, e come le onde si muovevano senza sosta, così facevano i suoi pensieri.

Ormai era abituato a litigare con Auron, ma quella volta era diverso: desiderava davvero tanto avere la sua approvazione, almeno per una volta, almeno per quella volta in cui si sentiva sicuro di fare la cosa giusta. 

Nonostante tutto, ne era ancora convinto. Che ne sapeva Auron, giovane monaco che non aveva mai conosciuto la vita coniugale, di come funzionavano quelle cose? Soprattutto di come funzionava la sua, di situazione? Tuttavia, rassicurarsi in quel modo non era sufficiente per allentare il nodo allo stomaco che non lo aveva mai abbandonato, nemmeno quando si trovava nella sua Zanarkand.

Quel nodo allo stomaco era un monito, un parassita che gli ricordava costantemente che c’era qualcosa che non andava, che c’era sempre qualcosa di cui preoccuparsi e pentirsi, che non andava mai bene niente.

Si era infuriato così tanto sul ponte poche ore prima, giurando a se stesso che non avrebbe permesso ad Auron di distruggere l’equilibrio che aveva costruito con tanta fatica, da non rendersi conto che lui lo aveva già fatto.

Jecht strinse la coperta tra le mani, cercando di respirare a fondo per non farsi prendere dal panico. Si era troppo abituato alle cose impossibili, pensò, come quando Auron gli aveva stretto le mani sul campo di battaglia, o quando lo aveva baciato per la prima volta: ottenere la sua approvazione e realizzare il suo sogno romantico era la più grande delle assurdità a cui puntava, quella che gli serviva di più, ma aveva confidato troppo nella fortuna.

L’atleta voltò la testa, cercando nel buio pesto il monaco che, come aveva immaginato, si era coricato il più lontano possibile da lui. Serrò la mascella, pensando che non era giusto che solo lui si tormentasse nel cuore della notte per colpa sua. Niente di ciò che stava vivendo era giusto, e sperò con tutto il cuore che anche Auron vivesse un po' della sua agonia.

Resosi conto che, probabilmente, era in preda a qualche delirio dovuto alla stanchezza, cercò di applicare le tecniche di respirazione che aveva imparato per calmare i nervi e fare apnee più lunghe in partita, cosa che gli riuscì solo in parte. 

Richiuse gli occhi pregando di dormire ma, delirio o meno, doveva prendere atto di un dolore concreto che lo aveva raggiunto: dopo molto tempo che non accadeva, Jecht si sentì di nuovo solo e perso in un mare che non lo riconosceva e non lo voleva.

La notte passò con una lentezza insopportabile, e la preghiera mossa da Jecht non fu esaudita. Inchiodato in uno stato di dormiveglia costante, la sua mente fu pervasa da sogni lucidi strani e inquietanti, dove era incerto se fosse cosciente o meno. 

Più esausto della sera prima, vedendo la luce del sole filtrare dalle finestrelle sporche di quella bagnarola, Jecht rinunciò definitivamente all’idea di riposarsi e decise di alzarsi. 

Si avvicinò a Braska e lo svegliò con carezze gentili, mentre Auron lo chiamò con voce volutamente sgraziata. Quando vide la faccia devastata del monaco, probabilmente reduce anche lui dalla notte insonne, si sentì un poco più allegro.

L’Invocatore sbadigliò sonoramente e si mise in piedi a fatica, non abituato a risvegliarsi accompagnato dalle onde del mare. Jecht si offrì come appoggio, e gli diede una pacca sulla spalla amichevole.

«Se troveremo l’occasione, ci riposiamo sul traghetto, che ne dici?» propose l’atleta abbozzando un sorriso stanco.

«Ah, ci puoi giurare…»

Auron non disse una parola e si preparò in fretta, uscendo dalla sottocoperta molti minuti prima dei compagni per fumare una sigaretta che non c’era. Quando furono tutti e tre sul molo, sotto la luce del sole, Jecht sentì l’istinto bruciante di tuffarsi e farsi una sana nuotata, ma il traghetto era già in vista.

Braska usava lo scettro per aiutarsi a tenersi dritto, cosa che non sfuggì agli occhi del monaco.

«Signore, tutto bene?»

L’Invocatore si portò la mano libera alla schiena e si stiracchiò, facendosi sfuggire una smorfia di dolore.

«Quella barchetta non è proprio adatta per dormirci dentro,» rispose, cercando di sdrammatizzare. «D’altronde, o quella o la strada, giusto?»

Auron annuì sospirando, poi iniziò ad incamminarsi senza fretta, accusando a sua volta la fatica. Jecht fece lo stesso, ma avvertì qualcosa di strano: si guardò intorno volgendo lo sguardo al porto, al mare, alla città, respirando il profumo di salsedine e portandosi dentro l’ormai familiare ansia che gli mordeva la bocca dello stomaco, con in lontananza il suono acuto del traghetto che annunciava il suo arrivo.

Si fermò qualche istante per capire cosa stesse succedendo, ed era come se si fosse fermato il mondo.

«Jecht? Tutto bene?» chiese Braska preoccupato.

L’atleta fece per dire qualcosa, ma non fece altro che rimanere a bocca aperta, indeciso su come esprimersi. Auron si girò a guardarlo infastidito, pronto a sorbirsi l’ennesima lagna.

«Ho già visto questa scena,» disse l’atleta, confuso. «Ti è mai capitato, Braska?»

«Qualche volta. È una sensazione davvero strana, sì. Cosa hai ricordato?»

«Come sono finito qui, su Spira».

Il monaco non si aspettava una risposta del genere proprio in quel momento e, incuriosito, si avvicinò ai compagni per ascoltare meglio.

«È praticamente lo stesso, identico scenario: io, sul molo di Zanarkand in una calda mattina qualunque, aspettando la nave,» disse Jecht con un filo di voce.

Rimase in silenzio per qualche secondo, ragionando su come, evidentemente, passare la notte a rimuginare sulla sua città, la sua famiglia e le sue intenzioni, avessero scatenato dei ricordi che aveva sopito da tempo.

«E dove volevi andare?» chiese Braska sinceramente curioso.

«Volevo sottopormi ad un allenamento intensivo in mare aperto. Stavo perdendo colpi in partita, e… beh, mentre viaggiavamo, la nave è stata affondata».

«Affondata? Da cosa? Se ti trovavi a Zanarkand, o così dici,» replicò Auron con scetticismo.

Jecht abbassò lo sguardo, cercando di recuperare le memorie di quel tragico evento, anche se era abbastanza certo della risposta.

«Se non avete mai sentito parlare di mostri marini che affondano le navi, direi proprio che è stato Sin».

Braska cercò Auron con gli occhi, e il giovane Guardiano gli restituì lo sguardo, ma fu lo stesso Jecht a dare voce ai loro pensieri.

«Sì, lo so. Come può Sin aver attaccato in un posto che nemmeno esiste? Non sono così sciocco da pretendere che mi crediate, non dopo tutto ciò che ho appreso qui». L’atleta incrociò le braccia, mascherando il disagio che la sua stessa affermazione gli aveva causato. «Il mio traghetto era due volte più grande di questo. Solo la maledetta balena può averlo affondato, sogno o meno».

Braska e Auron rimasero in silenzio, ma la genuina curiosità dell’Invocatore gli fece dimenticare presto il dubbio sulla veridicità delle sue parole.

«E dopo? Come sei arrivato qui?»

Jecht scosse la testa e fece spallucce.

«Il primo ricordo che ho è il mio risveglio nella prigione dove mi avete recuperato».

«Dopotutto, forse hai subito le tossine di Sin per davvero…» commentò Braska.

«Chissà. Sia come sia, vedere la nave che si avvicina mi mette ansia».

Come se non aspettasse altro, Auron sogghignò compiaciuto e si voltò verso il mezzo di trasporto.

«Se ti spaventa, puoi sempre rimanere qui e lasciarci andare».

Braska aggrottò le sopracciglia e sbuffò molto infastidito, ma stavolta notò che Jecht non l’aveva presa alla leggera come aveva imparato a fare con Auron.

L’atleta aveva infatti serrato i muscoli della mandibola e stretto gli occhi, sembrava pronto a caricare un mostro. Complici le poche ore di sonno e la ferita ancora aperta della sera prima, Jecht era arrivato ormai al limite della sua pazienza: era stanco, davvero stanco.

«Auron, girati e guardami,» disse Jecht con voce dura e ferma.

Braska, preoccupato che i due si fossero azzuffati proprio all’arrivo del traghetto, cercò di calmare il Guardiano più anziano, ma stavolta si vide messo da parte con ben poca gentilezza.

«Hai forse deciso di farti del male?» rispose il monaco con un sorriso beffardo sul volto.

«Non ho intenzione di venire alle mani con te, dannato idiota. È ora di darci un taglio, una volta per tutte».

L'atleta si avvicinò minaccioso, ma rimase comunque a distanza di sicurezza per non provocare una risposta aggressiva nell’altro. Squadrò il monaco da capo a piedi sfruttando la sua statura, incutendo un certo disagio nel compagno, che dovette per forza alzare gli occhi su di lui.

«Che vuoi?» chiese Auron senza arretrare di un millimetro.

«Le mie decisioni mi appartengono, ragazzo. Tutte quante. Quelle orribili del passato, e quelle dolorose del presente. Tu c’eri quando dicevo a mia moglie di amarla sapendo di mentire? O quando inventavo scuse per non stare con mio figlio, terrorizzato dall’idea che mi guardasse dritto negli occhi e mi dicesse che mi odiava? Tu c’eri, Auron? Hai mai vissuto queste cose?»

Jecht scandí bene parola per parola, enfatizzando soprattutto le ultime due domande retoriche. Sentiva il suo petto alzarsi e abbassarsi velocemente, ma non poteva permettersi di mostrare debolezze. 

Il monaco, dal canto suo, non mostrò mai le sue. Continuò a reggere il suo sguardo furente senza tentennare, ma l’istinto di abbassare il capo c’era, ed era forte: sentire Jecht ammettere ad alta voce il male che aveva fatto, era qualcosa di grande impatto. 

Per tutto il viaggio era stato vago sulla faccenda, dicendo che non era un buon marito e un buon padre, ma Auron era sempre stato convinto che fosse solo una mossa da vigliacchi per liberarsi delle proprie responsabilità; visto il soggetto poi, ne era praticamente certo.

«Se ci tieni tanto alle tue decisioni, perché me le hai rivelate?» 

«Quando non ti atteggi a monaco che segue rigidamente i precetti senza farsi domande, o a guerriero pronto a sacrificare la propria vita senza darle valore, sei solo un ragazzo un po’ burbero con cui mi sento bene e con cui mi confido».

Braska rimase profondamente colpito da quelle parole. Non riusciva a dar voce ai suoi pensieri, ma ben presto si rese conto che non poteva farlo. Si portò una mano al volto, iniziando a capire cosa stava avvenendo tra i due.

L’istinto alla fine prevalse: Auron serrò la mascella e abbassò il capo, conscio di aver tirato troppo la corda con il compagno. Fece per andarsene, ma Jecht lo chiamò di nuovo.

«Non ho finito,» disse l'atleta, indicando Braska. «Sai benissimo perché lui ha bisogno di entrambi. Se la presenza di due Guardiani può in qualche modo salvare Braska e te dalla morte, allora vi seguirò in capo a questo mondo del cazzo. Sono stato chiaro?»

Un moto di disperazione si fece largo nell'animo di Braska, che a stento trattenne un singhiozzo. Che lui dovesse morire era fatto noto fin dall’inizio: l’Invocatore aveva dovuto scendere a patti con se stesso e accettare il suo destino con non poche difficoltà, in quella cella claustrofobica in cui lo avevano rinchiuso per essere processato da suo fratello, sangue del suo sangue.

Il pensiero che presto avrebbe lasciato quella terra lo faceva ancora tremare, di tanto in tanto, quando non era visto dai compagni, ma riusciva sempre a ritrovare la serenità. Perfino Jecht aveva accettato la sentenza che pendeva sulla sua testa.

Tuttavia, in quel momento, Braska comprese che Jecht era venuto a conoscenza delle sorti del Guardiano, cosa fino a quel momento taciuta. Erano state formulate numerose teorie nel corso degli anni: Guardiani che non sopravvivevano al viaggio di ritorno; che, dopo la missione, si ritiravano a vita contemplativa; addirittura, c’era chi pensava che i Guardiani fossero coinvolti nel processo che portava l’Invocatore alla morte.

Auron era ben consapevole di cosa lo aspettasse, ma non Jecht. Lui voleva solo tornare a casa, nella sua strana Zanarkand, ma ora le cose erano drammaticamente cambiate: aveva imparato ad amare coloro che si sarebbero immolati e, nonostante le rivelazioni che aveva avuto, non aveva rinunciato e aveva perseverato per loro, consapevole del rischio di perdere tutto.

Perdere la sua casa e i suoi affetti, perdere un caro amico, perdere un giovane amore.

Braska chiuse gli occhi per accusare il duro colpo che stava ricevendo, per poi riaprirli a fatica e vedere Jecht e Auron che ancora si sfidavano con lo sguardo, ma il monaco aveva chiaramente rilassato l’espressione del volto.

Il pensiero di Jecht completamente solo al mondo lo faceva impazzire. L’Invocatore fece un profondo respiro, e si appuntò mentalmente di prenderlo da parte per parlargli: se davvero, davvero, Jecht si fosse trovato davanti alla scelta tra loro e Zanarkand, doveva tornare a casa, o lui non avrebbe mai potuto morire serenamente.

Quando Auron si voltò per recarsi al traghetto, Jecht mise le mani sui fianchi e respirò a pieni polmoni, soddisfatto di se stesso ma anche duramente provato. L’atleta si girò verso Braska con un gran sorriso, che si spense lentamente nel vedere il volto cupo del compagno.

«Prima o poi te lo avrei detto che lo sapevo, sai. Me lo ha detto Auron ieri sera,» tentò di giustificarsi.

Braska scosse la testa e fece un gesto con la mano, tranquillizzandolo.

«Avrei dovuto dirtelo io tempo fa. Temevo non avresti accettato di venire».

«Volevo tornare a casa, Braska. Sarei venuto in ogni caso».

L’Invocatore annuì, per poi raggiungere il compagno e avviarsi insieme verso il traghetto. Non si erano affatto accorti del capannello di persone che si era formato nell'attesa, così raggiunsero Auron e si misero in fila.

La nave, un battello che a una vela rettangolare abbinava una ruota caratteristica dei mezzi che si muovevano a vapore, aspettava placidamente i suoi ospiti sul molo.

I tre compagni di viaggio rimasero composti ad aspettare il proprio turno di imbarco, ognuno con gli occhi che vagavano sui membri dell’equipaggio, accomunati da una divisa scura sul cui bavero spiccava un rosario di perle bianche. Ognuno portato da quell’uniformità a pensare che egli non poteva essere più diverso dagli altri due; per vestiti, per colore della pelle, per animo.

La stanchezza aveva iniziato a colpirli, ma per loro fortuna riuscirono a salire in fretta e si presero dei posti a sedere sul ponte, dove Braska si accasciò quasi immediatamente. Cullati dal vento e dalle onde, i tre si assopirono senza possibilità d'appello, ridestandosi solo quando erano ormai lontani dalla costa e il sole era alto nel cielo.

Mentre Braska sonnecchiava ancora, Jecht ritenne opportuno camminare un po', nel tentativo di svegliarsi del tutto, mentre Auron socchiuse appena un occhio, incerto se riposare ancora o meno.

Infine, infastidito dalla luce, si arrese e, spingendo con entrambe le mani sulle cosce, si alzò in piedi e prese a fissare il mare. Presto tuttavia fu colto dall’inquietudine di non vedere la fine di quella distesa e preferì riportare gli occhi su Jecht che passeggiava avanti e indietro. Qualcuno gli gettava sguardi distratti, per poi tornare alle proprie occupazioni. 

Ad un tratto, il monaco notò che tutt'attorno a lui il mondo s’era fatto più buio. Alzò gli occhi al cielo, del tutto sgombro da nubi, e vide che sopra la sua testa s’era addensato uno stormo di volatili. Uno di loro, staccatosi dai suoi simili, si abbassò di quota e parve puntare verso di loro.

«Vieni,» una voce distorta proveniva dalla creatura che si era posata sulla battagliola. «Vieni».

Gli pareva di aver già visto creature come quelle, a Luka, e di aver sentito il nome Condor nelle preghiere dei marinai che lasciavano i loro ex voto a Bevelle. Era un volatile di dimensioni considerevoli, dal piumaggio bianco e azzurrino. Era avvinghiato con le zampe curve al parapetto, e nonostante Auron avesse sentito provenire dalla sua direzione un verso simile in modo inquietante a una parola umana, il suo lungo becco uncinato non s’era aperto. La sua coda, troppo corta rispetto al corpo per potergli fornire un qualche ausilio nel volo, sembrava lo scheletro atrofico di una spina dorsale. 

«Vattene, uccellaccio».

«Vieni».

Il Condor aprì le ali, reclinò all’indietro la testa e consegnò un grido sgraziato al cielo prima di alzarsi in volo. Le nuvole gravide di pioggia avevano coperto ogni lembo d’azzurro, e nel sentire il rimbombo di un tuono Auron alzò gli occhi.

L’aria tremò del ruggito della fine.

Prima ancora che la sua mente potesse reagire, il monaco mosse un passo all’indietro sul ponte, come un animale di fronte a un’eclissi. Un corpo enorme aveva coperto il Sole, un enorme ventre ricoperto da scaglie chiare che grondavano acqua salmastra. Era impossibile abbracciare per intero con lo sguardo la bestia.

«Sin!»

A quel grido, Auron portò di riflesso la mano sull’elsa. Di nuovo il suo corpo aveva reagito prima che l’intelletto potesse arrivare a sussurrargli che era inutile combattere. Che sarebbe stato meglio partire pochi attimi prima sulle ali del Condor.

Un dolore lancinante gli attraversò l’occhio destro, come se qualcuno l’avesse trapassato con un pugnale. Il monaco serrò i pugni e i denti nel tentativo di resistere, incassò la testa nelle spalle e le portò in avanti come un toro.

Le persone sulla nave gridavano e lui era costretto a rimanere immobile, schiacciato dalla forza che promanava dal corpo di Sin. Era composto da lunioli, come tutti i mostri che aveva combattuto sino a quel momento. Ma in nessuno di loro aveva mai percepito un’energia tale. Era qualcosa che si possiede solo quando si è in tanti

Davanti ai suoi occhi, ormai persi in un delirio vuoto, era apparsa una stanza dalle pareti color amaranto. Le finestre, strette e poste troppo in alto, non riuscivano a rendere l’ambiente meno soffocante. Auron osservò la schiena scoperta dell’uomo di cui era nolente discepolo, decorata da un paramento che si usava nel tempio di Macalania: una fascia terminante con due dischi di bronzo. Il suo sguardo si soffermò sulla falena sulla sua scapola, per poi percorrere la linea della spina dorsale. 

«Lei l’ha mai visto, Richter?»

Alan si voltò appena.

«Cosa?»

«Sin». 

Le spalle di Alan furono scosse dalla risata inspiegabile, troppo acuta, che gli uscì dalla bocca. Auron gli guardò i canini: ricordava che uno fosse storto, ma erano sempre stati così appuntiti?

«Alla fine hai capito che non sono io».

Il monaco aggrottò le sopracciglia, confuso. Non ebbe tempo di ribattere, o di domandare, perché un cumulo di falene brune coprì Alan, come attratto dal suo sangue. Lo consumarono, rendendolo null’altro che una voce.

«Non sono io la fine del mondo».

Sin scosse la superficie del mare con il mugghio tremendo dei suoi polmoni. Scaglie vive caddero sulla nave, alcune schiantandosi fatalmente contro la superficie del ponte, altre scagliandosi, guidate da un istinto assassino, contro l’equipaggio della nave.

Auron fu accecato dall’ira d’essere costretto a rimanere immobile e dalla luce dei lunioli emanati da Sin, che lo soverchiavano. Strinse con forza la mano guantata, nel tentativo di tornare a una realtà che non riusciva a raggiungere, ma che ricordava. Lo reclamava, eppure lui non capiva più dove fosse il cielo e dove la terra.

Distinse, immersa nel bianco della sua visione, la figura di una donna che camminava verso di lui. Dapprima fu solo un fantasma, ma poi si ammantò di una veste di seta trasparente, e furono distinguibili i suoi fianchi, le cosce tenere, i gioielli che le adornavano le bianche braccia, i capelli. Auron piantò a terra la spada e si inchinò: Yevon gli aveva inviato l’immagine di Yunalesca, sua Figlia, affinché resistesse dinanzi a Sin. Yevon lo amava ancora, pur se lui aveva tradito la propria virtù.

Yunalesca, di fronte alla sua professione di devozione, sorrise. È l’amore, sembrò dire, null’altro che l’amore, ciò che può infiammare le tenebre. È quello che provò Zaon quando visse e morì per me.

È l’amore, Padre.

 

*

 

Ixion scagliò un fulmine verticale contro il mare. Sin urlò, ferito, e si rintanò nei suoi abissi. Qualche scintilla azzurra crepitò sulla superficie dell’acqua prima di estinguersi.

Auron tornò con rabbia al mondo, e nel momento in cui la sua spada tagliò a metà una Scaglia, la nave ondeggiò paurosamente, come se all’improvviso fosse diventata leggera quanto una foglia portata da un torrente.

Al monaco saltò il cuore in gola. Si chiese dove fossero Braska e Jecht mentre nell’aria si levava una sirena, ma non poté fare altro che correre verso l’ennesimo nemico e ucciderlo con un singolo fendente.

«…amo perso il controllo d- nave,» gracchiò un altoparlante in mezzo alle urla e allo scroscio dell’acqua. «Sgo- te- er l’attracco d’emergenza».

Una Scaglia di Sin lanciò al cielo un ruggito tanto acuto da suonare quasi ridicolo.

«Ripeto: sgombrare il ponte per l’attracco d’emergenza!»

 

*

 

Sotto le nuvole livide, la sabbia assumeva un colore verdastro che la faceva sembrare travestita da erba. Un deserto travestito da pianura. Affondate tra le dune, rovine di un tempo che nessuno ricordava più offrivano un raro rifugio agli animali e agli uomini che procedevano sotto al sole. Avrebbero continuato a correre da un’oasi all’altra fino a quando il deserto non li avrebbe chiamati a sé, la loro acqua si sarebbe tramutata nella nebbia che faceva perdere i viaggiatori di notte, le loro ossa in cibo per i vermi delle sabbie. Così, com'era sempre stato, il cerchio dell’isola di Bikanel sarebbe tornato su se stesso. Gli spiriti degli uomini, quando sarebbe venuto il momento, si sarebbero staccati dall’anima di Sanubia e avrebbero ricominciato a esistere.

Eppure, quell’anima che permeava tutto stava guardando con curiosità verso la nave che aveva appena effettuato un attracco di fortuna sulla spiaggia all’estremità meridionale dell’isola. Con le grosse zampe da felino disegnate dalle nuvole, e gli occhi che erano lampi, forse si stava chiedendo cosa ne avrebbe dovuto fare di quelli che erano sbarcati, ingranaggi aggiuntivi nella sua macchina già perfetta. Avrebbe dovuto accoglierli, o restituirli al mare da cui erano venuti?

Jecht guardava il sole stagliarsi sopra le dune, i piedi appoggiati su una sabbia dura che gli scottava le piante, benché fosse abituato a girare scalzo e ormai avesse sviluppato una certa resistenza. Dava le spalle alla spiaggia su cui la nave aveva effettuato con successo un attracco di fortuna, con ancora nelle orecchie le urla dei passeggeri e dell’equipaggio che tentavano di resistere all’assalto di Sin, aggrappandosi ai parapetti con tanta forza da spezzarsi le unghie fino all’osso. Alcuni non ce l’avevano fatta.

Lui sì, a riprova che i bastardi sono duri a morire, ed era diventato un naufrago per la seconda volta.

«Jecht!»

Il richiamo di Braska lo fece voltare e correre subito verso la nave: dal tono allarmato, doveva essere successo qualcosa di molto urgente.

«Signor Invocatore», stava dicendo qualcuno, «la prego, lo aiuti!»

Attorno al timone si era radunato un capannello di persone, attraverso cui Jecht dovette farsi strada a spallate. Riconobbe all’istante Braska grazie al suo copricapo: era chino su un uomo, di cui riusciva solo a distinguere l’uniforme. Numerose macchie di sangue la coprivano all’altezza del petto.

«Cazzo».

«È il capitano,» gli spiegò Braska, con un tono non toccato dalle emozioni. Voltò con una manovra esperta il ferito, strappandogli un gemito di dolore, e lo appoggiò con la schiena contro la struttura che reggeva il timone. La vernice bianca mandò uno scintillio al sole caldo del deserto, e quello si lamentò ancora, gli occhi ridotti a due fessure, prima di muovere di poco la testa.

La sua spalla sinistra era stata trapassata da parte a parte da una rigida squama color sabbia, che pareva affilata e dura quanto una pietra. Una parte di Sin. Delle escrescenze bianche la punteggiavano qua e là, e granelli di sale si erano rappresi in mezzo al sangue del malcapitato.

«Devo estrarla,» dichiarò Braska. Jecht, che cominciava a sentire la bocca riarsa, arricciò le labbra, ma si fece avanti per mettersi a disposizione dell’Invocatore. «Aiutami a tenerlo fermo».

L’atleta obbedì e si chinò per sorreggere il capitano. Temeva che si sarebbe agitato un bel po’ quando il dolce Braska gli avrebbe scavato la carne con una daga. 

«Ehi,» lo richiamò, cercando di mantenere un tono tranquillo. I suoi lineamenti eano stravolti dal dolore. «Andrà tutto bene, ok? Sono un Guardiano dell’Invocatore».

L’uomo strinse i denti per soffocare un grido e Braska si affrettò a slacciargli i bottoni della giacca.

«Dov’è Auron?» gli chiese Jecht, allarmato.

«È andato a prendere quello che mi serve».

Braska chiese a Jecht di tenere dritto il capitano quanto più possibile, manovra non facile e per lui dolorosa, mentre gli sfilava di dosso ogni indumento dalla cinta in su, così da avere una visione completa della ferita.

L’Invocatore analizzò con cura ogni dettaglio, dal colore del sangue, alla profondità raggiunta dalla scaglia, alla capacità di movimento dell’arto: l’uomo ferito non riusciva a stringere il pugno, ma perlomeno muoveva le dita della mano e non aveva riportato danni a organi vitali.

Indaffarato nelle sue valutazioni, non si accorse di Auron che, nel frattempo, era tornato con un kit di pronto soccorso piuttosto scarno, dotato solo di bende, unguenti disinfettanti e qualche utensile per suture, insufficienti a chiudere una ferita simile. Il monaco attese nuovi ordini, mentre Braska arricciava le labbra, frustrato. 

«Mi serve qualche minuto per pensare».

Jecht invitava il capitano a respirare a fondo per rendere il dolore sopportabile e non farsi prendere dal panico, mentre Braska rifletteva velocemente sulla strategia più sicura da attuare. Con poche frecce al suo arco, non aveva molta scelta.

«Ok, ascoltatemi bene. La procedura è rischiosa, ma non possiamo fare altrimenti,» esordì l’Invocatore. «Dobbiamo essere veloci e precisi, o il capitano rischia di morire dissanguato. E non è l’unico problema».

«Che Yevon mi aiuti…» disse l’uomo con le lacrime agli occhi.

«Che tipo di problema?» chiese Auron, rimanendo concentrato.

«Queste bende andrebbero messe in acqua bollente, ma non abbiamo tempo. Anche se riusciamo a chiudere il taglio e a evitare che perda troppo sangue, c'è il rischio che la ferita si infetti. Avrei bisogno di alcune erbe medicinali, ma siamo nel deserto».

«Nel deserto ci sono gli Al Bhed…» disse il capitano con un filo di voce.

Jecht guardò Braska che annuì serio, mentre Auron non sembrava molto entusiasta della piega che stava prendendo la situazione.

«Sono la nostra unica speranza. Non sarà una passeggiata trovarli, ma abbiamo proprio bisogno di aiuto,» commentò l’Invocatore con un sospiro.

«Allora è deciso. Ora, però, concentriamoci qui,» disse Jecht guardando negli occhi il ferito. «Sei pronto? Coraggio, amico: Braska è il migliore che ci sia».

Il capitano annuì tremando come una foglia, mentre Braska trasse un lungo e profondo respiro prima di iniziare a dirigere i suoi Guardiani.

«Jecht, prendi tutte le garze che puoi e preparati a tamponare la ferita con tutta la pressione del tuo corpo. Se non fosse sufficiente, usa anche i suoi vestiti».

L’atleta obbedì, nervoso per il compito che gli era stato affidato.

«Auron, tu estrarrai la scaglia. Devi avere le mani fermissime, più che puoi, e tirare in verticale senza muoverti. Te la senti?»

Il monaco annuì, mettendosi in posizione davanti alla scaglia. Per questa prima operazione, Braska si mise di lato per tenere fermo il povero uomo, che nel frattempo stava recitando alcune preghiere al dio.

«Vai, Auron. Lento e costante».

Il giovane Guardiano obbedì, saggiando dapprima la resistenza della scaglia, per poi iniziare a rimuoverla. Le urla del capitano strinsero il cuore di Jecht che, tuttavia, non poteva permettersi di distrarsi: doveva tenere sotto controllo la ferita, tamponando qua e là durante l’estrazione. Una volta rimossa la scaglia, il sangue iniziò a scorrere copioso.

Braska fece distendere velocemente l’uomo sulla schiena e Jecht fece come ordinato: usò il suo peso per fare pressione e tamponare quanto più poteva, mentre Braska usava la sua magia in modo attento. 

Auron, rimasto da parte, si occupò di tenere sotto controllo lo stato di coscienza del capitano che, divenuto pallido, faceva fatica a tenere gli occhi aperti. 

Braska respirava a fondo per mantenere saldi i nervi: non poteva permettersi di essere precipitoso, anche se l’uomo stava perdendo man mano perdendo le forze, o non avrebbe chiuso la ferita in modo adeguato, e sarebbe morto comunque.

Dopo molti minuti di tensione, l’Invocatore portò a termine l’operazione: Auron confermò che l’uomo respirava ed era rimasto vigile, seppur esausto.

Jecht guardò sotto le sue mani lordate di sangue, e notò che la ferita era quasi del tutto chiusa, anche se sarebbe rimasta la cicatrice. Tirò un sospiro di sollievo, e si prodigò a pulire un minimo il torace del capitano con ciò che era rimasto. 

Braska si sedette a terra tirando il fiato, esausto, ma molto soddisfatto del risultato ottenuto. Chiamò alcuni uomini rimasti a guardare e li istruì sul da farsi, ordinando loro di trovare delle coperte e tenere il capitano al caldo, e di muoverlo solo dopo qualche ora. 

Auron diede una pacca affettuosa sulla spalla del suo Invocatore, che gli sorrise di rimando, per poi dirigersi verso Jecht, sporco di sangue fino ai gomiti. Gli porse la giacca lacerata del capitano per pulirsi, gesto inaspettato da parte dell’atleta.

«Grazie, ragazzo. Servirebbe un tuffo in mare per lavare via tutto,» disse Jecht ironizzando.

«Braska deve riposare prima di partire. Se vuoi, puoi farlo,» rispose Auron ammiccando verso l’Invocatore. «Sei stato bravo».

Jecht sorrise compiaciuto, e accolse l’invito del compagno: scese a terra accompagnato dai complimenti dei superstiti, per poi mettere i piedi in mare e tirare un sospiro di piacere. Si rese conto di star accusando il caldo, così si immerse nelle acque basse e iniziò a lavarsi.

La visione del sangue che fluiva via e colorava tutto di rosso lo inquietò più di quanto avrebbe voluto: gli ricordava le vite perse durante l’attacco di Sin, le loro urla, il terrore nel suo cuore. Fece una smorfia disgustata al suo stesso riflesso: non avrebbe permesso alla maledetta balena di farlo sentire a disagio nel suo mare.

Jecht si prese alcuni attimi di pace, per poi ricongiungersi ai compagni e incamminarsi nel deserto, benedetti dalle preghiere dei naufraghi che invocavano la protezione del dio.

Dopo pochi minuti di viaggio, Braska si tolse il copricapo e Auron il cappotto, mentre Jecht accusava il dolore del caldo bruciante sulle piante dei piedi. 

«Magari è la volta buona che ti procuri delle scarpe,» disse Auron con un ghigno.

L’atleta sbuffò, non volendogli dare la soddisfazione di soffrire davanti a lui, ma quando stava per replicare notò delle lamiere bruciate disseminate qua e là tra le dune. 

«Ci stiamo avvicinando alla Fortezza Base degli Al Bhed,» disse Braska battendo lo scettro sul metallo. «Questi sono loro scarti».

«Scarti?» ripeté Auron in tono interrogativo.

Braska fece vagare gli occhi per le dune prima di rispondergli:

«Scarti, frammenti di una civiltà precedente…» Il corpo verde di un Kyactus scomparve dietro un cumulo di sabbia. «A volte nemmeno loro li distinguono più. Essasuna lusa ih Bedohl, si dice qui. “Immemore come un Bedohl”».

Senza rallentare la marcia, Auron fissò lo sguardo nello stesso punto in cui quello di Braska stava cercando mostri.

«E la ritengono una cosa positiva?» domandò.

«Non l’ho mai capito».

«Quindi in giro ci sono macchine vere e proprie?» 

La domanda di Jecht interruppe le loro filosofie con un timore più terreno.

«Non lo escluderei, per questo dobbiamo fare molta attenzione,» rispose l’Invocatore asciugandosi la fronte.

«Tua moglie era Al Bhed, giusto? Ne sai molto sulle loro abitudini,» commentò Jecht senza riflettere troppo.

Braska sorrise amaro al ricordo di Emma, che al contempo gli scaldava il cuore. Puntò gli occhi tra le dune, aspettandosi da un momento all'altro l’arrivo di un mezzo cingolato; Emma, sorridente e raggiante quanto quel sole intenso, si sbracciava per salutare lui, venuto fin laggiù per intercedere presso il suo popolo. Sul suo polso destro spiccava la bandana rossa che lui le aveva regalato.

La parola di Yevon era una parola di pace.

Vedendo l’Invocatore perso nei suoi pensieri, Jecht rivolse la sua curiosità ad Auron.

«Perchè odiate tanto le loro macchine? Non me lo avete mai spiegato».

Auron, provato dal caldo intenso, dovette inumidirsi le labbra prima di rispondere.

«Nella dottrina, le macchine sono affronti a Yevon, vanno contro la natura. Solo il dio può creare,» disse il monaco boccheggiando.

«Immaginavo,» rispose Jecht con ironia.

Seguendo i mucchi di lamiere che si facevano sempre più alti, dopo tempo indefinito arrivarono ad un avamposto estraneo. Jecht lo osservò con la curiosità che lo contraddistingueva: inviava bagliori metallici sotto il sole e la sua forma rastremata in cima, che poi continuava in un più largo cono capovolto, gli ricordava quella delle trottole con cui giocava da bambino.

Un ronzio artificiale, assieme al suono di Braska che si schiariva la gola, lo sottrassero ai ricordi.

«Sono l’Invocatore Braska,» disse, portando vicino alle labbra un apparecchio di metallo scuro. «Richiedo l’accesso alla Base».

Infastidito dalla sabbia, Auron socchiuse le ciglia e fissò l’uomo che stava proteggendo. Gli sembrava sempre più un estraneo, e si sorprese dal vederlo usare una macchina proibita, nonostante la sua fede in Yevon fosse grande. Eppure, esistevano amori che andavano oltre, come quello che lui aveva avuto per sua moglie.

Braska attese qualche secondo, e quando non ricevette risposta alcuna infilò una mano nella borsa che portava al fianco. Strinse forte il pugno proprio sopra alla copertina di My nucy tamma cyppea. La rosa delle sabbie.

«Mi ricevete? Richiedo l’accesso alla Base. Mi servono medicine per un ferito». 

Il ronzio grave di una sirena risuonò tra le dune, coprendo il fischio del vento che agitava la sabbia. L’imponente trottola che stava di fronte a loro vibrò, trasmettendo il suo moto a tutta l’aria attorno, e alla sabbia. Jecht e Auron indietreggiarono, Braska rimase immobile e alzò la testa.

La Base si aprì come un insolito frutto. Dieci bracci d’acciaio, ognuno dei quali spingeva una pesante torre dello stesso materiale, si separarono dal corpo centrale. Le ruote nere che sormontavano le torri cominciarono a girare per portare verso l’esterno un peso piuttosto oneroso. 

Anche se si trovavano ad almeno quaranta passi d’altezza, i tre riuscirono bene a distinguere dieci bocche da fuoco che puntavano verso il deserto. 

«Che fate?» ribatté l’Invocatore a denti stretti. Si avvicinò la radiolina alla bocca e strinse l’altra mano attorno allo scettro. Sopra la sua testa, a opera di Auron dei lunioli si erano addensati per formare uno scudo che li copriva tutti e tre. «Non mi riconoscete? Non sono un nemico!»

La radiolina di Braska emise un gracchiare che presto si trasformò nella voce di una donna.

<Certo che ti ho riconosciuto,> disse, <è proprio per quello che ho armato i cannoni>.

Dal corpo metallico della fortezza si staccò un undicesimo braccio, che terminava con un grosso martello. Mosso da un pistone, quello cominciò a battere ritmicamente la terra. 

Nel sentire la sabbia vibrare sotto i suoi piedi, Braska tentennò. I suoi Guardiani gli lanciarono uno sguardo preoccupato mentre lui provava a dire:

«Samira, sei tu?»

<Braska!> quel nome fu quasi mangiato dal rumore del martello che batteva la terra. Qualcosa in lontananza, tra le dune, sembrava alzare più sabbia rispetto al vento. Pareva smuoverla da sotto.

All’interno della sala dei comandi principale della Fortezza Base, una donna bionda sorrise. Le luci artificiali le coloravano d’arancione il viso e, quando il suo sorriso si allargò fino a diventare feroce, gli anelli d’argento che le abbellivano i canini mandarono un brillio nella stanza.

<...Che cazzo di accoglienza pensavi che ti riservassi?>

  
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