CAPITOLO 39:
L’ALFA E L’OMEGA
Nonostante
la notte promettesse temperature gradevoli, Jecht era tormentato da
brividi
gelidi che gli impedivano il sonno. Raggomitolato sotto la sua coperta,
strinse
i denti esausto e venne a capo del fatto che no, quel freddo non veniva
dal
mare, ma lo aveva dentro.
Si chiese
se, malauguratamente, non avesse contratto qualche malattia, ma non
aveva per
niente voglia di svegliare il povero Braska, che aveva un disperato
bisogno di
ogni ora di riposo disponibile.
Luka dal
grande stadio, il giudice Alan, tutta quella dannata faccenda in cui
erano
rimasti invischiati, lo avevano consumato senza pietà e
senza poterci fare
nulla. E poi, quasi più di tutto, c’era Auron.
Jecht
drizzò la schiena a pezzi, cercando di assecondare il
movimento placido della
barca che, normalmente, lo avrebbe rilassato fino a farlo addormentare,
ma non
quella notte: come accadeva spesso, il mare era specchio
dell’anima di Jecht, e
come le onde si muovevano senza sosta, così facevano i suoi
pensieri.
Ormai era
abituato a litigare con Auron, ma quella volta era diverso: desiderava
davvero
tanto avere la sua approvazione, almeno per una volta, almeno per
quella volta
in cui si sentiva sicuro di fare la cosa giusta.
Nonostante
tutto, ne era ancora convinto. Che ne sapeva Auron, giovane monaco che
non
aveva mai conosciuto la vita coniugale, di come funzionavano quelle
cose?
Soprattutto di come funzionava la sua, di situazione? Tuttavia,
rassicurarsi in
quel modo non era sufficiente per allentare il nodo allo stomaco che
non lo
aveva mai abbandonato, nemmeno quando si trovava nella sua Zanarkand.
Quel nodo
allo stomaco era un monito, un parassita che gli ricordava
costantemente che
c’era qualcosa che non andava, che c’era sempre
qualcosa di cui preoccuparsi e
pentirsi, che non andava mai bene niente.
Si era
infuriato così tanto sul ponte poche ore prima, giurando a
se stesso che non
avrebbe permesso ad Auron di distruggere l’equilibrio che
aveva costruito con
tanta fatica, da non rendersi conto che lui lo aveva già
fatto.
Jecht
strinse la coperta tra le mani, cercando di respirare a fondo per non
farsi
prendere dal panico. Si era troppo abituato alle cose impossibili,
pensò, come
quando Auron gli aveva stretto le mani sul campo di battaglia, o quando
lo
aveva baciato per la prima volta: ottenere la sua approvazione e
realizzare il
suo sogno romantico era la più grande delle
assurdità a cui puntava, quella che
gli serviva di più, ma aveva confidato troppo nella fortuna.
L’atleta
voltò la testa, cercando nel buio pesto il monaco che, come
aveva immaginato,
si era coricato il più lontano possibile da lui.
Serrò la mascella, pensando
che non era giusto che solo lui si tormentasse nel cuore della notte
per colpa
sua. Niente di ciò che stava vivendo era giusto, e
sperò con tutto il cuore che
anche Auron vivesse un po' della sua agonia.
Resosi
conto che, probabilmente, era in preda a qualche delirio dovuto alla
stanchezza, cercò di applicare le tecniche di respirazione
che aveva imparato
per calmare i nervi e fare apnee più lunghe in partita, cosa
che gli riuscì
solo in parte.
Richiuse
gli occhi pregando di dormire ma, delirio o meno, doveva prendere atto
di un
dolore concreto che lo aveva raggiunto: dopo molto tempo che non
accadeva,
Jecht si sentì di nuovo solo e perso in un mare che non lo
riconosceva e non lo
voleva.
La notte
passò con una lentezza insopportabile, e la preghiera mossa
da Jecht non fu
esaudita. Inchiodato in uno stato di dormiveglia costante, la sua mente
fu
pervasa da sogni lucidi strani e inquietanti, dove era incerto se fosse
cosciente
o meno.
Più
esausto della sera prima, vedendo la luce del sole filtrare dalle
finestrelle
sporche di quella bagnarola, Jecht rinunciò definitivamente
all’idea di
riposarsi e decise di alzarsi.
Si
avvicinò a Braska e lo svegliò con carezze
gentili, mentre Auron lo chiamò con
voce volutamente sgraziata. Quando vide la faccia devastata del monaco,
probabilmente reduce anche lui dalla notte insonne, si sentì
un poco più
allegro.
L’Invocatore
sbadigliò sonoramente e si mise in piedi a fatica, non
abituato a risvegliarsi
accompagnato dalle onde del mare. Jecht si offrì come
appoggio, e gli diede una
pacca sulla spalla amichevole.
«Se
troveremo l’occasione, ci riposiamo sul traghetto, che ne
dici?» propose
l’atleta abbozzando un sorriso stanco.
«Ah,
ci
puoi giurare…»
Auron non
disse una parola e si preparò in fretta, uscendo dalla
sottocoperta molti
minuti prima dei compagni per fumare una sigaretta che non
c’era. Quando furono
tutti e tre sul molo, sotto la luce del sole, Jecht sentì
l’istinto bruciante
di tuffarsi e farsi una sana nuotata, ma il traghetto era
già in vista.
Braska
usava lo scettro per aiutarsi a tenersi dritto, cosa che non
sfuggì agli occhi
del monaco.
«Signore,
tutto bene?»
L’Invocatore
si portò la mano libera alla schiena e si
stiracchiò, facendosi sfuggire una
smorfia di dolore.
«Quella
barchetta non è proprio adatta per dormirci
dentro,» rispose, cercando di
sdrammatizzare. «D’altronde, o quella o la strada,
giusto?»
Auron
annuì sospirando, poi iniziò ad incamminarsi
senza fretta, accusando a sua
volta la fatica. Jecht fece lo stesso, ma avvertì qualcosa
di strano: si guardò
intorno volgendo lo sguardo al porto, al mare, alla città,
respirando il
profumo di salsedine e portandosi dentro l’ormai familiare
ansia che gli
mordeva la bocca dello stomaco, con in lontananza il suono acuto del
traghetto
che annunciava il suo arrivo.
Si
fermò
qualche istante per capire cosa stesse succedendo, ed era come se si
fosse
fermato il mondo.
«Jecht?
Tutto bene?» chiese Braska preoccupato.
L’atleta
fece per dire qualcosa, ma non fece altro che rimanere a bocca aperta,
indeciso
su come esprimersi. Auron si girò a guardarlo infastidito,
pronto a sorbirsi
l’ennesima lagna.
«Ho
già
visto questa scena,» disse l’atleta, confuso.
«Ti è mai capitato, Braska?»
«Qualche
volta. È una sensazione davvero strana, sì. Cosa
hai ricordato?»
«Come
sono
finito qui, su Spira».
Il monaco
non si aspettava una risposta del genere proprio in quel momento e,
incuriosito, si avvicinò ai compagni per ascoltare meglio.
«È
praticamente lo stesso, identico scenario: io, sul molo di Zanarkand in
una
calda mattina qualunque, aspettando la nave,» disse Jecht con
un filo di voce.
Rimase in
silenzio per qualche secondo, ragionando su come, evidentemente,
passare la
notte a rimuginare sulla sua città, la sua famiglia e le sue
intenzioni,
avessero scatenato dei ricordi che aveva sopito da tempo.
«E
dove
volevi andare?» chiese Braska sinceramente curioso.
«Volevo
sottopormi ad un allenamento intensivo in mare aperto. Stavo perdendo
colpi in
partita, e… beh, mentre viaggiavamo, la nave è
stata affondata».
«Affondata?
Da cosa? Se ti trovavi a Zanarkand, o così dici,»
replicò Auron con
scetticismo.
Jecht
abbassò lo sguardo, cercando di recuperare le memorie di
quel tragico evento,
anche se era abbastanza certo della risposta.
«Se
non
avete mai sentito parlare di mostri marini che affondano le navi, direi
proprio
che è stato Sin».
Braska
cercò Auron con gli occhi, e il giovane Guardiano gli
restituì lo sguardo, ma
fu lo stesso Jecht a dare voce ai loro pensieri.
«Sì,
lo
so. Come può Sin aver attaccato in un posto che nemmeno
esiste? Non sono così
sciocco da pretendere che mi crediate, non dopo tutto ciò
che ho appreso qui».
L’atleta incrociò le braccia, mascherando il
disagio che la sua stessa
affermazione gli aveva causato. «Il mio traghetto era due
volte più grande di
questo. Solo la maledetta balena può averlo affondato, sogno
o meno».
Braska e
Auron rimasero in silenzio, ma la genuina curiosità
dell’Invocatore gli fece
dimenticare presto il dubbio sulla veridicità delle sue
parole.
«E
dopo?
Come sei arrivato qui?»
Jecht
scosse la testa e fece spallucce.
«Il
primo
ricordo che ho è il mio risveglio nella prigione dove mi
avete recuperato».
«Dopotutto,
forse hai subito le tossine di Sin per davvero…»
commentò Braska.
«Chissà.
Sia come sia, vedere la nave che si avvicina mi mette ansia».
Come se
non aspettasse altro, Auron sogghignò compiaciuto e si
voltò verso il mezzo di
trasporto.
«Se
ti
spaventa, puoi sempre rimanere qui e lasciarci andare».
Braska
aggrottò le sopracciglia e sbuffò molto
infastidito, ma stavolta notò che Jecht
non l’aveva presa alla leggera come aveva imparato a fare con
Auron.
L’atleta
aveva infatti serrato i muscoli della mandibola e stretto gli occhi,
sembrava
pronto a caricare un mostro. Complici le poche ore di sonno e la ferita
ancora
aperta della sera prima, Jecht era arrivato ormai al limite della sua
pazienza:
era stanco, davvero stanco.
«Auron,
girati e guardami,» disse Jecht con voce dura e ferma.
Braska,
preoccupato che i due si fossero azzuffati proprio all’arrivo
del traghetto,
cercò di calmare il Guardiano più anziano, ma
stavolta si vide messo da parte
con ben poca gentilezza.
«Hai
forse
deciso di farti del male?» rispose il monaco con un sorriso
beffardo sul volto.
«Non
ho
intenzione di venire alle mani con te, dannato idiota. È ora
di darci un
taglio, una volta per tutte».
L'atleta
si avvicinò minaccioso, ma rimase comunque a distanza di
sicurezza per non
provocare una risposta aggressiva nell’altro.
Squadrò il monaco da capo a piedi
sfruttando la sua statura, incutendo un certo disagio nel compagno, che
dovette
per forza alzare gli occhi su di lui.
«Che
vuoi?» chiese Auron senza arretrare di un millimetro.
«Le
mie
decisioni mi appartengono, ragazzo. Tutte quante.
Quelle orribili del
passato, e quelle dolorose del presente. Tu c’eri quando
dicevo a mia moglie di
amarla sapendo di mentire? O quando inventavo scuse per non stare con
mio
figlio, terrorizzato dall’idea che mi guardasse dritto negli
occhi e mi dicesse
che mi odiava? Tu c’eri, Auron? Hai mai vissuto queste
cose?»
Jecht
scandí bene parola per parola, enfatizzando soprattutto le
ultime due domande
retoriche. Sentiva il suo petto alzarsi e abbassarsi velocemente, ma
non poteva
permettersi di mostrare debolezze.
Il monaco,
dal canto suo, non mostrò mai le sue. Continuò a
reggere il suo sguardo furente
senza tentennare, ma l’istinto di abbassare il capo
c’era, ed era forte:
sentire Jecht ammettere ad alta voce il male che aveva fatto, era
qualcosa di
grande impatto.
Per tutto
il viaggio era stato vago sulla faccenda, dicendo che non era un buon
marito e
un buon padre, ma Auron era sempre stato convinto che fosse solo una
mossa da
vigliacchi per liberarsi delle proprie responsabilità; visto
il soggetto poi,
ne era praticamente certo.
«Se
ci
tieni tanto alle tue decisioni, perché me le hai
rivelate?»
«Quando
non ti atteggi a monaco che segue rigidamente i precetti senza farsi
domande, o
a guerriero pronto a sacrificare la propria vita senza darle valore,
sei solo
un ragazzo un po’ burbero con cui mi sento bene e con cui mi
confido».
Braska
rimase profondamente colpito da quelle parole. Non riusciva a dar voce
ai suoi
pensieri, ma ben presto si rese conto che non poteva farlo. Si
portò una mano
al volto, iniziando a capire cosa stava avvenendo tra i due.
L’istinto
alla fine prevalse: Auron serrò la mascella e
abbassò il capo, conscio di aver
tirato troppo la corda con il compagno. Fece per andarsene, ma Jecht lo
chiamò
di nuovo.
«Non
ho
finito,» disse l'atleta, indicando Braska. «Sai
benissimo perché lui ha bisogno
di entrambi. Se la presenza di due Guardiani può in qualche
modo salvare Braska
e te dalla morte, allora vi seguirò in
capo a questo mondo del cazzo.
Sono stato chiaro?»
Un moto di
disperazione si fece largo nell'animo di Braska, che a stento trattenne
un
singhiozzo. Che lui dovesse morire era fatto noto fin
dall’inizio: l’Invocatore
aveva dovuto scendere a patti con se stesso e accettare il suo destino
con non
poche difficoltà, in quella cella claustrofobica in cui lo
avevano rinchiuso
per essere processato da suo fratello, sangue del suo sangue.
Il
pensiero che presto avrebbe lasciato quella terra lo faceva ancora
tremare, di
tanto in tanto, quando non era visto dai compagni, ma riusciva sempre a
ritrovare la serenità. Perfino Jecht aveva accettato la
sentenza che pendeva
sulla sua testa.
Tuttavia,
in quel momento, Braska comprese che Jecht era venuto a conoscenza
delle sorti
del Guardiano, cosa fino a quel momento taciuta. Erano state formulate
numerose
teorie nel corso degli anni: Guardiani che non sopravvivevano al
viaggio di
ritorno; che, dopo la missione, si ritiravano a vita contemplativa;
addirittura, c’era chi pensava che i Guardiani fossero
coinvolti nel processo
che portava l’Invocatore alla morte.
Auron era
ben consapevole di cosa lo aspettasse, ma non Jecht. Lui voleva solo
tornare a
casa, nella sua strana Zanarkand, ma ora le cose erano drammaticamente
cambiate: aveva imparato ad amare coloro che si sarebbero immolati e,
nonostante le rivelazioni che aveva avuto, non aveva rinunciato e aveva
perseverato per loro, consapevole del rischio di perdere tutto.
Perdere la
sua casa e i suoi affetti, perdere un caro amico, perdere un giovane
amore.
Braska
chiuse gli occhi per accusare il duro colpo che stava ricevendo, per
poi
riaprirli a fatica e vedere Jecht e Auron che ancora si sfidavano con
lo
sguardo, ma il monaco aveva chiaramente rilassato
l’espressione del volto.
Il
pensiero di Jecht completamente solo al mondo lo faceva impazzire.
L’Invocatore
fece un profondo respiro, e si appuntò mentalmente di
prenderlo da parte per
parlargli: se davvero, davvero, Jecht si fosse trovato davanti alla
scelta tra
loro e Zanarkand, doveva tornare a casa, o lui non
avrebbe mai potuto
morire serenamente.
Quando
Auron si voltò per recarsi al traghetto, Jecht mise le mani
sui fianchi e
respirò a pieni polmoni, soddisfatto di se stesso ma anche
duramente provato.
L’atleta si girò verso Braska con un gran sorriso,
che si spense lentamente nel
vedere il volto cupo del compagno.
«Prima
o
poi te lo avrei detto che lo sapevo, sai. Me lo ha detto Auron ieri
sera,»
tentò di giustificarsi.
Braska
scosse la testa e fece un gesto con la mano, tranquillizzandolo.
«Avrei
dovuto dirtelo io tempo fa. Temevo non avresti accettato di
venire».
«Volevo
tornare a casa, Braska. Sarei venuto in ogni caso».
L’Invocatore
annuì, per poi raggiungere il compagno e avviarsi insieme
verso il traghetto.
Non si erano affatto accorti del capannello di persone che si era
formato
nell'attesa, così raggiunsero Auron e si misero in fila.
La nave,
un battello che a una vela rettangolare abbinava una ruota
caratteristica dei
mezzi che si muovevano a vapore, aspettava placidamente i suoi ospiti
sul molo.
I tre
compagni di viaggio rimasero composti ad aspettare il proprio turno di
imbarco,
ognuno con gli occhi che vagavano sui membri dell’equipaggio,
accomunati da una
divisa scura sul cui bavero spiccava un rosario di perle bianche.
Ognuno
portato da quell’uniformità a pensare che egli non
poteva essere più diverso
dagli altri due; per vestiti, per colore della pelle, per animo.
La
stanchezza aveva iniziato a colpirli, ma per loro fortuna riuscirono a
salire
in fretta e si presero dei posti a sedere sul ponte, dove Braska si
accasciò
quasi immediatamente. Cullati dal vento e dalle onde, i tre si
assopirono senza
possibilità d'appello, ridestandosi solo quando erano ormai
lontani dalla costa
e il sole era alto nel cielo.
Mentre
Braska sonnecchiava ancora, Jecht ritenne opportuno camminare un po',
nel
tentativo di svegliarsi del tutto, mentre Auron socchiuse appena un
occhio,
incerto se riposare ancora o meno.
Infine,
infastidito dalla luce, si arrese e, spingendo con entrambe le mani
sulle
cosce, si alzò in piedi e prese a fissare il mare. Presto
tuttavia fu colto
dall’inquietudine di non vedere la fine di quella distesa e
preferì riportare
gli occhi su Jecht che passeggiava avanti e indietro. Qualcuno gli
gettava
sguardi distratti, per poi tornare alle proprie occupazioni.
Ad un
tratto, il monaco notò che tutt'attorno a lui il mondo
s’era fatto più buio.
Alzò gli occhi al cielo, del tutto sgombro da nubi, e vide
che sopra la sua
testa s’era addensato uno stormo di volatili. Uno di loro,
staccatosi dai suoi
simili, si abbassò di quota e parve puntare verso di loro.
«Vieni,»
una voce distorta proveniva dalla creatura che si era posata sulla
battagliola.
«Vieni».
Gli pareva
di aver già visto creature come quelle, a Luka, e di aver
sentito il nome Condor
nelle preghiere dei marinai che lasciavano i loro ex
voto a Bevelle.
Era un volatile di dimensioni considerevoli, dal piumaggio bianco e
azzurrino.
Era avvinghiato con le zampe curve al parapetto, e nonostante Auron
avesse
sentito provenire dalla sua direzione un verso simile in modo
inquietante a una
parola umana, il suo lungo becco uncinato non s’era aperto.
La sua coda, troppo
corta rispetto al corpo per potergli fornire un qualche ausilio nel
volo,
sembrava lo scheletro atrofico di una spina dorsale.
«Vattene,
uccellaccio».
«Vieni».
Il Condor
aprì le ali, reclinò all’indietro la
testa e consegnò un grido sgraziato al
cielo prima di alzarsi in volo. Le nuvole gravide di pioggia avevano
coperto
ogni lembo d’azzurro, e nel sentire il rimbombo di un tuono
Auron alzò gli
occhi.
L’aria
tremò del ruggito della fine.
Prima
ancora che la sua mente potesse reagire, il monaco mosse un passo
all’indietro
sul ponte, come un animale di fronte a un’eclissi. Un corpo
enorme aveva
coperto il Sole, un enorme ventre ricoperto da scaglie chiare che
grondavano
acqua salmastra. Era impossibile abbracciare per intero con lo sguardo
la
bestia.
«Sin!»
A quel
grido, Auron portò di riflesso la mano sull’elsa.
Di nuovo il suo corpo aveva
reagito prima che l’intelletto potesse arrivare a
sussurrargli che era inutile
combattere. Che sarebbe stato meglio partire pochi attimi prima sulle
ali del
Condor.
Un dolore
lancinante gli attraversò l’occhio destro, come se
qualcuno l’avesse trapassato
con un pugnale. Il monaco serrò i pugni e i denti nel
tentativo di resistere,
incassò la testa nelle spalle e le portò in
avanti come un toro.
Le persone
sulla nave gridavano e lui era costretto a rimanere immobile,
schiacciato dalla
forza che promanava dal corpo di Sin. Era composto da lunioli, come
tutti i
mostri che aveva combattuto sino a quel momento. Ma in nessuno di loro
aveva
mai percepito un’energia tale. Era qualcosa che si possiede
solo quando si è in
tanti.
Davanti ai
suoi occhi, ormai persi in un delirio vuoto, era apparsa una stanza
dalle
pareti color amaranto. Le finestre, strette e poste troppo in alto, non
riuscivano a rendere l’ambiente meno soffocante. Auron
osservò la schiena
scoperta dell’uomo di cui era nolente discepolo, decorata da
un paramento che
si usava nel tempio di Macalania: una fascia terminante con due dischi
di
bronzo. Il suo sguardo si soffermò sulla falena sulla sua
scapola, per poi
percorrere la linea della spina dorsale.
«Lei
l’ha
mai visto, Richter?»
Alan si
voltò appena.
«Cosa?»
«Sin».
Le spalle
di Alan furono scosse dalla risata inspiegabile, troppo acuta, che gli
uscì
dalla bocca. Auron gli guardò i canini: ricordava che uno
fosse storto, ma
erano sempre stati così appuntiti?
«Alla
fine
hai capito che non sono io».
Il monaco
aggrottò le sopracciglia, confuso. Non ebbe tempo di
ribattere, o di domandare,
perché un cumulo di falene brune coprì Alan, come
attratto dal suo sangue. Lo
consumarono, rendendolo null’altro che una voce.
«Non
sono io la fine del mondo».
Sin scosse
la superficie del mare con il mugghio tremendo dei suoi polmoni.
Scaglie vive
caddero sulla nave, alcune schiantandosi fatalmente contro la
superficie del
ponte, altre scagliandosi, guidate da un istinto assassino, contro
l’equipaggio
della nave.
Auron fu
accecato dall’ira d’essere costretto a rimanere
immobile e dalla luce dei
lunioli emanati da Sin, che lo soverchiavano. Strinse con forza la mano
guantata, nel tentativo di tornare a una realtà che non
riusciva a raggiungere,
ma che ricordava. Lo reclamava, eppure lui non capiva più
dove fosse il cielo e
dove la terra.
Distinse,
immersa nel bianco della sua visione, la figura di una donna che
camminava
verso di lui. Dapprima fu solo un fantasma, ma poi si
ammantò di una veste di
seta trasparente, e furono distinguibili i suoi fianchi, le cosce
tenere, i
gioielli che le adornavano le bianche braccia, i capelli. Auron
piantò a terra
la spada e si inchinò: Yevon gli aveva inviato
l’immagine di Yunalesca, sua Figlia,
affinché resistesse dinanzi a Sin. Yevon lo amava ancora,
pur se lui aveva
tradito la propria virtù.
Yunalesca,
di fronte alla sua professione di devozione, sorrise. È
l’amore, sembrò
dire, null’altro che l’amore,
ciò che può infiammare le tenebre. È
quello
che provò Zaon quando visse e morì per me.
È
l’amore, Padre.
*
Ixion
scagliò un fulmine verticale contro il mare. Sin
urlò, ferito, e si rintanò nei
suoi abissi. Qualche scintilla azzurra crepitò sulla
superficie dell’acqua
prima di estinguersi.
Auron
tornò con rabbia al mondo, e nel momento in cui la sua spada
tagliò a metà una
Scaglia, la nave ondeggiò paurosamente, come se
all’improvviso fosse diventata
leggera quanto una foglia portata da un torrente.
Al monaco
saltò il cuore in gola. Si chiese dove fossero Braska e
Jecht mentre nell’aria
si levava una sirena, ma non poté fare altro che correre
verso l’ennesimo
nemico e ucciderlo con un singolo fendente.
«…amo
perso il controllo d- nave,» gracchiò un
altoparlante in mezzo alle urla e
allo scroscio dell’acqua. «Sgo- te- er
l’attracco d’emergenza».
Una
Scaglia di Sin lanciò al cielo un ruggito tanto acuto da
suonare quasi
ridicolo.
«Ripeto:
sgombrare il ponte per l’attracco d’emergenza!»
*
Sotto le
nuvole livide, la sabbia assumeva un colore verdastro che la faceva
sembrare
travestita da erba. Un deserto travestito da pianura. Affondate tra le
dune,
rovine di un tempo che nessuno ricordava più offrivano un
raro rifugio agli
animali e agli uomini che procedevano sotto al sole. Avrebbero
continuato a
correre da un’oasi all’altra fino a quando il
deserto non li avrebbe chiamati a
sé, la loro acqua si sarebbe tramutata nella nebbia che
faceva perdere i
viaggiatori di notte, le loro ossa in cibo per i vermi delle sabbie.
Così,
com'era sempre stato, il cerchio dell’isola di Bikanel
sarebbe tornato su se
stesso. Gli spiriti degli uomini, quando sarebbe venuto il momento, si
sarebbero staccati dall’anima di Sanubia e avrebbero
ricominciato a esistere.
Eppure,
quell’anima che permeava tutto stava guardando con
curiosità verso la nave che
aveva appena effettuato un attracco di fortuna sulla spiaggia
all’estremità
meridionale dell’isola. Con le grosse zampe da felino
disegnate dalle nuvole, e
gli occhi che erano lampi, forse si stava chiedendo cosa ne avrebbe
dovuto fare
di quelli che erano sbarcati, ingranaggi aggiuntivi nella sua macchina
già
perfetta. Avrebbe dovuto accoglierli, o restituirli al mare da cui
erano
venuti?
Jecht
guardava il sole stagliarsi sopra le dune, i piedi appoggiati su una
sabbia
dura che gli scottava le piante, benché fosse abituato a
girare scalzo e ormai
avesse sviluppato una certa resistenza. Dava le spalle alla spiaggia su
cui la
nave aveva effettuato con successo un attracco di fortuna, con ancora
nelle
orecchie le urla dei passeggeri e dell’equipaggio che
tentavano di resistere
all’assalto di Sin, aggrappandosi ai parapetti con tanta
forza da spezzarsi le
unghie fino all’osso. Alcuni non ce l’avevano fatta.
Lui
sì, a
riprova che i bastardi sono duri a morire, ed era diventato un naufrago
per la
seconda volta.
«Jecht!»
Il
richiamo di Braska lo fece voltare e correre subito verso la nave: dal
tono
allarmato, doveva essere successo qualcosa di molto urgente.
«Signor
Invocatore», stava dicendo qualcuno, «la prego, lo
aiuti!»
Attorno al
timone si era radunato un capannello di persone, attraverso cui Jecht
dovette
farsi strada a spallate. Riconobbe all’istante Braska grazie
al suo copricapo:
era chino su un uomo, di cui riusciva solo a distinguere
l’uniforme. Numerose
macchie di sangue la coprivano all’altezza del petto.
«Cazzo».
«È
il
capitano,» gli spiegò Braska, con un tono non
toccato dalle emozioni. Voltò con
una manovra esperta il ferito, strappandogli un gemito di dolore, e lo
appoggiò
con la schiena contro la struttura che reggeva il timone. La vernice
bianca
mandò uno scintillio al sole caldo del deserto, e quello si
lamentò ancora, gli
occhi ridotti a due fessure, prima di muovere di poco la testa.
La sua
spalla sinistra era stata trapassata da parte a parte da una rigida
squama
color sabbia, che pareva affilata e dura quanto una pietra. Una parte
di Sin.
Delle escrescenze bianche la punteggiavano qua e là, e
granelli di sale si
erano rappresi in mezzo al sangue del malcapitato.
«Devo
estrarla,» dichiarò Braska. Jecht, che cominciava
a sentire la bocca riarsa,
arricciò le labbra, ma si fece avanti per mettersi a
disposizione
dell’Invocatore. «Aiutami a tenerlo
fermo».
L’atleta
obbedì e si chinò per sorreggere il capitano.
Temeva che si sarebbe agitato un
bel po’ quando il dolce Braska gli avrebbe scavato la carne
con una daga.
«Ehi,»
lo
richiamò, cercando di mantenere un tono tranquillo. I suoi
lineamenti eano
stravolti dal dolore. «Andrà tutto bene, ok? Sono
un Guardiano
dell’Invocatore».
L’uomo
strinse i denti per soffocare un grido e Braska si affrettò
a slacciargli i
bottoni della giacca.
«Dov’è
Auron?» gli chiese Jecht, allarmato.
«È
andato
a prendere quello che mi serve».
Braska
chiese a Jecht di tenere dritto il capitano quanto più
possibile, manovra non
facile e per lui dolorosa, mentre gli sfilava di dosso ogni indumento
dalla
cinta in su, così da avere una visione completa della ferita.
L’Invocatore
analizzò con cura ogni dettaglio, dal colore del sangue,
alla profondità
raggiunta dalla scaglia, alla capacità di movimento
dell’arto: l’uomo ferito
non riusciva a stringere il pugno, ma perlomeno muoveva le dita della
mano e
non aveva riportato danni a organi vitali.
Indaffarato
nelle sue valutazioni, non si accorse di Auron che, nel frattempo, era
tornato
con un kit di pronto soccorso piuttosto scarno, dotato solo di bende,
unguenti
disinfettanti e qualche utensile per suture, insufficienti a chiudere
una
ferita simile. Il monaco attese nuovi ordini, mentre Braska arricciava
le
labbra, frustrato.
«Mi
serve
qualche minuto per pensare».
Jecht
invitava il capitano a respirare a fondo per rendere il dolore
sopportabile e
non farsi prendere dal panico, mentre Braska rifletteva velocemente
sulla
strategia più sicura da attuare. Con poche frecce al suo
arco, non aveva molta
scelta.
«Ok,
ascoltatemi bene. La procedura è rischiosa, ma non possiamo
fare altrimenti,»
esordì l’Invocatore. «Dobbiamo essere
veloci e precisi, o il capitano rischia
di morire dissanguato. E non è l’unico
problema».
«Che
Yevon
mi aiuti…» disse l’uomo con le lacrime
agli occhi.
«Che
tipo
di problema?» chiese Auron, rimanendo concentrato.
«Queste
bende andrebbero messe in acqua bollente, ma non abbiamo tempo. Anche
se
riusciamo a chiudere il taglio e a evitare che perda troppo sangue,
c'è il
rischio che la ferita si infetti. Avrei bisogno di alcune erbe
medicinali, ma
siamo nel deserto».
«Nel
deserto ci sono gli Al Bhed…» disse il capitano
con un filo di voce.
Jecht
guardò Braska che annuì serio, mentre Auron non
sembrava molto entusiasta della
piega che stava prendendo la situazione.
«Sono
la
nostra unica speranza. Non sarà una passeggiata trovarli, ma
abbiamo proprio
bisogno di aiuto,» commentò l’Invocatore
con un sospiro.
«Allora
è
deciso. Ora, però, concentriamoci qui,» disse
Jecht guardando negli occhi il
ferito. «Sei pronto? Coraggio, amico: Braska è il
migliore che ci sia».
Il
capitano annuì tremando come una foglia, mentre Braska
trasse un lungo e
profondo respiro prima di iniziare a dirigere i suoi Guardiani.
«Jecht,
prendi tutte le garze che puoi e preparati a tamponare la ferita con
tutta la
pressione del tuo corpo. Se non fosse sufficiente, usa anche i suoi
vestiti».
L’atleta
obbedì, nervoso per il compito che gli era stato affidato.
«Auron,
tu
estrarrai la scaglia. Devi avere le mani fermissime, più che
puoi, e tirare in
verticale senza muoverti. Te la senti?»
Il monaco
annuì, mettendosi in posizione davanti alla scaglia. Per
questa prima
operazione, Braska si mise di lato per tenere fermo il povero uomo, che
nel
frattempo stava recitando alcune preghiere al dio.
«Vai,
Auron. Lento e costante».
Il giovane
Guardiano obbedì, saggiando dapprima la resistenza della
scaglia, per poi
iniziare a rimuoverla. Le urla del capitano strinsero il cuore di Jecht
che,
tuttavia, non poteva permettersi di distrarsi: doveva tenere sotto
controllo la
ferita, tamponando qua e là durante l’estrazione.
Una volta rimossa la scaglia,
il sangue iniziò a scorrere copioso.
Braska
fece distendere velocemente l’uomo sulla schiena e Jecht fece
come ordinato:
usò il suo peso per fare pressione e tamponare quanto
più poteva, mentre Braska
usava la sua magia in modo attento.
Auron,
rimasto da parte, si occupò di tenere sotto controllo lo
stato di coscienza del
capitano che, divenuto pallido, faceva fatica a tenere gli occhi
aperti.
Braska
respirava a fondo per mantenere saldi i nervi: non poteva permettersi
di essere
precipitoso, anche se l’uomo stava perdendo man mano perdendo
le forze, o non
avrebbe chiuso la ferita in modo adeguato, e sarebbe morto comunque.
Dopo molti
minuti di tensione, l’Invocatore portò a termine
l’operazione: Auron confermò
che l’uomo respirava ed era rimasto vigile, seppur esausto.
Jecht
guardò sotto le sue mani lordate di sangue, e
notò che la ferita era quasi del
tutto chiusa, anche se sarebbe rimasta la cicatrice. Tirò un
sospiro di
sollievo, e si prodigò a pulire un minimo il torace del
capitano con ciò che
era rimasto.
Braska si
sedette a terra tirando il fiato, esausto, ma molto soddisfatto del
risultato
ottenuto. Chiamò alcuni uomini rimasti a guardare e li
istruì sul da farsi,
ordinando loro di trovare delle coperte e tenere il capitano al caldo,
e di
muoverlo solo dopo qualche ora.
Auron
diede una pacca affettuosa sulla spalla del suo Invocatore, che gli
sorrise di
rimando, per poi dirigersi verso Jecht, sporco di sangue fino ai
gomiti. Gli
porse la giacca lacerata del capitano per pulirsi, gesto inaspettato da
parte
dell’atleta.
«Grazie,
ragazzo. Servirebbe un tuffo in mare per lavare via tutto,»
disse Jecht ironizzando.
«Braska
deve riposare prima di partire. Se vuoi, puoi farlo,» rispose
Auron ammiccando
verso l’Invocatore. «Sei stato bravo».
Jecht
sorrise compiaciuto, e accolse l’invito del compagno: scese a
terra
accompagnato dai complimenti dei superstiti, per poi mettere i piedi in
mare e
tirare un sospiro di piacere. Si rese conto di star accusando il caldo,
così si
immerse nelle acque basse e iniziò a lavarsi.
La visione
del sangue che fluiva via e colorava tutto di rosso lo
inquietò più di quanto
avrebbe voluto: gli ricordava le vite perse durante l’attacco
di Sin, le loro
urla, il terrore nel suo cuore. Fece una smorfia disgustata al suo
stesso
riflesso: non avrebbe permesso alla maledetta balena di farlo sentire a
disagio
nel suo mare.
Jecht si
prese alcuni attimi di pace, per poi ricongiungersi ai compagni e
incamminarsi
nel deserto, benedetti dalle preghiere dei naufraghi che invocavano la
protezione del dio.
Dopo pochi
minuti di viaggio, Braska si tolse il copricapo e Auron il cappotto,
mentre
Jecht accusava il dolore del caldo bruciante sulle piante dei
piedi.
«Magari
è
la volta buona che ti procuri delle scarpe,» disse Auron con
un ghigno.
L’atleta
sbuffò, non volendogli dare la soddisfazione di soffrire
davanti a lui, ma
quando stava per replicare notò delle lamiere bruciate
disseminate qua e là tra
le dune.
«Ci
stiamo
avvicinando alla Fortezza Base degli Al Bhed,» disse Braska
battendo lo scettro
sul metallo. «Questi sono loro scarti».
«Scarti?»
ripeté Auron in tono interrogativo.
Braska
fece vagare gli occhi per le dune prima di rispondergli:
«Scarti,
frammenti di una civiltà precedente…»
Il corpo verde di un Kyactus scomparve
dietro un cumulo di sabbia. «A volte nemmeno loro li
distinguono più. Essasuna
lusa ih Bedohl, si dice qui.
“Immemore come un Bedohl”».
Senza
rallentare la marcia, Auron fissò lo sguardo nello stesso
punto in cui quello
di Braska stava cercando mostri.
«E
la
ritengono una cosa positiva?» domandò.
«Non
l’ho
mai capito».
«Quindi
in
giro ci sono macchine vere e proprie?»
La domanda
di Jecht interruppe le loro filosofie con un timore più
terreno.
«Non
lo
escluderei, per questo dobbiamo fare molta attenzione,»
rispose l’Invocatore
asciugandosi la fronte.
«Tua
moglie era Al Bhed, giusto? Ne sai molto sulle loro
abitudini,» commentò Jecht
senza riflettere troppo.
Braska
sorrise amaro al ricordo di Emma, che al contempo gli scaldava il
cuore. Puntò
gli occhi tra le dune, aspettandosi da un momento all'altro
l’arrivo di un
mezzo cingolato; Emma, sorridente e raggiante quanto quel sole intenso,
si
sbracciava per salutare lui, venuto fin laggiù per
intercedere presso il suo
popolo. Sul suo polso destro spiccava la bandana rossa che lui le aveva
regalato.
La parola
di Yevon era una parola di pace.
Vedendo
l’Invocatore perso nei suoi pensieri, Jecht rivolse la sua
curiosità ad Auron.
«Perchè
odiate tanto le loro macchine? Non me lo avete mai spiegato».
Auron,
provato dal caldo intenso, dovette inumidirsi le labbra prima di
rispondere.
«Nella
dottrina, le macchine sono affronti a Yevon, vanno contro la natura.
Solo il
dio può creare,» disse il monaco boccheggiando.
«Immaginavo,»
rispose Jecht con ironia.
Seguendo i
mucchi di lamiere che si facevano sempre più alti, dopo
tempo indefinito
arrivarono ad un avamposto estraneo. Jecht lo osservò con la
curiosità che lo
contraddistingueva: inviava bagliori metallici sotto il sole e la sua
forma
rastremata in cima, che poi continuava in un più largo cono
capovolto, gli
ricordava quella delle trottole con cui giocava da bambino.
Un ronzio
artificiale, assieme al suono di Braska che si schiariva la gola, lo
sottrassero ai ricordi.
«Sono
l’Invocatore Braska,» disse, portando vicino alle
labbra un apparecchio di
metallo scuro. «Richiedo l’accesso alla
Base».
Infastidito
dalla sabbia, Auron socchiuse le ciglia e fissò
l’uomo che stava proteggendo.
Gli sembrava sempre più un estraneo, e si sorprese dal
vederlo usare una
macchina proibita, nonostante la sua fede in Yevon fosse grande.
Eppure,
esistevano amori che andavano oltre, come quello che lui aveva avuto
per sua
moglie.
Braska
attese qualche secondo, e quando non ricevette risposta alcuna
infilò una mano
nella borsa che portava al fianco. Strinse forte il pugno proprio sopra
alla
copertina di My nucy tamma cyppea. La
rosa delle sabbie.
«Mi
ricevete? Richiedo l’accesso alla Base. Mi servono medicine
per un
ferito».
Il ronzio
grave di una sirena risuonò tra le dune, coprendo il fischio
del vento che
agitava la sabbia. L’imponente trottola che stava di fronte a
loro vibrò,
trasmettendo il suo moto a tutta l’aria attorno, e alla
sabbia. Jecht e Auron
indietreggiarono, Braska rimase immobile e alzò la testa.
La Base si
aprì come un insolito frutto. Dieci bracci
d’acciaio, ognuno dei quali spingeva
una pesante torre dello stesso materiale, si separarono dal corpo
centrale. Le
ruote nere che sormontavano le torri cominciarono a girare per portare
verso
l’esterno un peso piuttosto oneroso.
Anche se
si trovavano ad almeno quaranta passi d’altezza, i tre
riuscirono bene a
distinguere dieci bocche da fuoco che puntavano verso il
deserto.
«Che
fate?» ribatté l’Invocatore a denti
stretti. Si avvicinò la radiolina alla
bocca e strinse l’altra mano attorno allo scettro. Sopra la
sua testa, a opera
di Auron dei lunioli si erano addensati per formare uno scudo che li
copriva
tutti e tre. «Non mi riconoscete? Non sono un
nemico!»
La
radiolina di Braska emise un gracchiare che presto si
trasformò nella voce di
una donna.
<Certo
che ti ho riconosciuto,> disse, <è
proprio per quello che ho
armato i cannoni>.
Dal corpo
metallico della fortezza si staccò un undicesimo braccio,
che terminava con un
grosso martello. Mosso da un pistone, quello cominciò a
battere ritmicamente la
terra.
Nel
sentire la sabbia vibrare sotto i suoi piedi, Braska
tentennò. I suoi Guardiani
gli lanciarono uno sguardo preoccupato mentre lui provava a dire:
«Samira,
sei tu?»
<Braska!>
quel nome fu quasi mangiato dal rumore del martello che batteva la
terra.
Qualcosa in lontananza, tra le dune, sembrava alzare più
sabbia rispetto al vento.
Pareva smuoverla da sotto.
<...Che
cazzo di accoglienza pensavi che ti riservassi?>