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Autore: Cathy Holland    23/04/2024    1 recensioni
Sicilia, 1988. Tre bambini, Stefano, Enrico e Claudia, giocano insieme nella campagna bruciata dal sole estivo. Sono amici per la pelle, ma non sanno che tra loro c'è un segreto che può dividerli per sempre.
Milano, 2015. Stefano ha cambiato vita completamente e crede di essere libero dal passato, fino a quando non riceve una telefonata che lo riporta indietro, dove tutto è iniziato. E se ciò che si è lasciato alle spalle distruggesse il suo presente?
[Un nuovo capitolo ogni martedì]
Genere: Drammatico, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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PARTE QUARTA
SICILIA, ISOLA DI SANTO STEFANO
Luglio 2015

 

 

 

 

CAPITOLO 14
NATO CON LORO

 

 

 

 

«Grazie di essere venuto a prendermi» disse Vittoria.

Lanciò un’occhiata rapida e curiosa allo zio, poi tornò a guardare fuori dal finestrino dell’auto. Era un po’ strana, quella situazione. La BMW scorreva così silenziosamente e velocemente sulla strada da sembrare ferma, se non fosse stato per la vista della campagna che scorreva via in fretta oltre il parabrezza. I vetri oscurati chiusi e l’aria condizionata in azione rendevano l’ambiente ovattato, come separato dalla realtà esterna arroventata dal sole, quasi irreale. All’inizio nessuno dei due aveva parlato, ma poi Vittoria aveva sentito il bisogno di rompere quel silenzio pesante.

«Figurati» rispose Enrico a mezza voce. Gli occhiali da sole nascondevano ancora la sua espressione e sembrava ben attento a non guardare mai in direzione della nipote.

«Sicuro che non sia stato un problema rimandare il tuo viaggio?»

Enrico cambiò la marcia con un movimento fluido e controllato e rispose dopo qualche istante. «Sicuro.»

Vittoria gli lanciò un’ultima occhiata. «Ok, bene» mormorò e non aggiunse altro per il resto del viaggio. Se a lui non andava di parlare, non voleva certo forzarlo.

Arrivati al baglio, Enrico aprì il cancello di ferro con un piccolo telecomando, parcheggiò la macchina sotto la tettoia ed entrambi scesero in silenzio. Lui ignorò la porta d’ingresso e la scortò su per le scale del ballatoio. Vittoria si accigliò mentre saliva i gradini.

«Non le chiudete mai, le portefinestre?» domandò all’improvviso, curiosa.

Enrico era così raccolto in se stesso che ci mise un attimo ad afferrare il senso della domanda. Aggrottò la fronte, sfilandosi finalmente gli occhiali da sole, ma ancora non la guardava. «D’estate no. Fa già abbastanza caldo senza chiudere tutto.»

«Ma… non avete paura che entri qualcuno?»

Lui accennò un sorriso, mentre giocherellava con i Ray-ban. «Il cancello di solito è chiuso. E poi chi dovrebbe entrare? Qui si conoscono tutti. Non c’è nessun pericolo.»

«Sembra terribile» commentò Vittoria a voce molto bassa. Il sorriso di Enrico si allargò appena, ma non disse nulla. Lei lanciò un’occhiata al pianoforte chiuso che la aspettava, come tutte le mattine. «Posso salutare Edoardo?»

«Certo. Ti accompagno.»

Chissà cosa avrebbe detto Edoardo vedendola lì da sola. Se avesse fatto qualche battuta tagliente, come accadeva spesso, avrebbe messo in difficoltà Enrico ed era l’ultima cosa che lei voleva. D’altra parte, neppure incontrare il nonno da sola era un’idea particolarmente invitante. Forse le avrebbe fornito la possibilità di fargli qualche domanda, ed era quello che desiderava, ma non poteva negare che la cosa la innervosisse un po’. Quando arrivarono in cima alle scale, al primo piano, Enrico si fermò e Vittoria capì che non avrebbe proseguito insieme a lei.

«Tu non vieni?» chiese, incerta se esserne sollevata o meno.

Enrico conservò un’espressione neutra, ma quando rispose la sua voce aveva un tono definitivo. «Ho del lavoro da fare. Ci vediamo più tardi.»

Vittoria annuì. Le parve che lui volesse dire qualcos’altro, ma forse si era sbagliata o forse lo zio ci aveva ripensato, perché continuò lungo il corridoio a sinistra, dopo averle rivolto un mezzo sorriso gentile e freddo, senza aggiungere nulla.

Vittoria fece un sospiro leggero e svoltò a destra. La porta della stanza del nonno era socchiusa, come sempre, perché da fuori la sua voce si sentisse, se Edoardo fosse stato solo e avesse chiamato. Bussò piano, poi spinse la porta ed entrò. Sapeva che lo avrebbe trovato seduto sulla sua poltrona di pelle, in terrazza, sotto l’ombrellone bianco di forma quadrata, circondato da piante e fiori profumati e da un panorama mozzafiato in tutti i toni dell’azzurro e del blu. Chissà se riusciva comunque a goderne nelle sue condizioni.

Attraversando la stanza, che a quanto le aveva detto una volta Rosalia era una delle più luminose e calde della casa, le cadde l’occhio sulla fotografia in cornice d’argento sul cassettone. Si fermò. Quella foto attirava sempre il suo sguardo, ma fino ad allora non era mai entrata in quella stanza senza suo padre che la tallonava con espressione tempestosa e non l’aveva mai osservata bene. Prese la foto con delicatezza. Era in bianco e nero e la cornice era molto più pesante e spessa di quanto avesse immaginato. Guardò verso la terrazza: Edoardo era lì, in poltrona, le spalle rivolte verso la stanza, come ogni mattina quando lei saliva a salutarlo e a scambiare le poche chiacchiere che lui riusciva a sostenere. Stava peggiorando piuttosto rapidamente. Di solito c’era sempre l’infermiera o almeno una cameriera accanto a lui, ma dovevano essersi allontanate un momento.

Vittoria abbassò di nuovo lo sguardo sulla fotografia: una ragazza con un vestito chiaro e lunghi capelli sciolti sulle spalle sedeva su uno scoglio, vicino al mare, lo sguardo timido rivolto verso l’obiettivo, le ginocchia tra le braccia e un sorriso dolce sul viso dai tratti armoniosi e delicati. Chissà chi era. Pensierosa, si rigirò la fotografia tra le mani e scoprì che sul retro, ingiallito dal tempo, qualcuno aveva scritto una data. Giugno 1974. Vittoria rifletté, ma non le diceva nulla. D’altronde, non sapeva niente della famiglia.

Rimise a posto la fotografia e uscì in terrazza. In quel momento, Edoardo fu colto da un eccesso di tosse. Sul tavolino di ferro battuto accanto alla poltrona c’erano una brocca di cristallo lavorato piena d’acqua, un bicchiere e quello che sembrava un flacone di gocce. Vittoria versò in fretta dell’acqua nel bicchiere e lo porse al nonno, che continuava a tossire con violenza, ripiegato su se stesso come se fosse sul punto di spezzarsi. Lui sollevò appena la testa, incrociando per un attimo lo sguardo spaventato di Vittoria, prese il bicchiere con una mano tremante e bevve lentamente, a piccoli sorsi. Lei rimase in piedi a osservarlo con ansia. Quando il bicchiere fu vuoto, lo riprese con delicatezza dalla mano secca e grinzosa del vecchio e aspettò. Si chiese se non fosse il caso di chiamare l’infermiera. Edoardo, però, sembrava essersi ripreso. Aveva poggiato la testa all’indietro, contro la poltrona, e respirava a fatica come sempre, ma l’attacco era passato. Guardò sua nipote e abbozzò un sorriso stanco.

«Grazie, picciridda»¹ mormorò con voce roca e debole.

«Come stai?» Vittoria rimise il bicchiere sul tavolino e sedette sulla sedia di ferro vicino alla poltrona, coordinata con il tavolino, che di solito era riservata all’infermiera.

Edoardo lasciò andare un sospiro pesante e sibilante. «Peggio di ieri… e meglio di domani.»

«Mi dispiace.»

Rimasero in silenzio per un po’. Edoardo aveva chiuso gli occhi e lei si chiese se non fosse scivolato nel sonno. Era un’altra cosa che gli capitava spesso, insieme a quegli attacchi di tosse terribile che quasi lo soffocavano e lo lasciavano stremato. Poi il nonno parlò, all’improvviso, facendola sobbalzare per la sorpresa.

«Stefano?»

Vittoria strinse tra le mani i braccioli lavorati della sedia e cercò di farsi passare lo spavento. «Uhm… Papà non c’è, oggi. Sono venuta da sola» disse, cauta. Era meglio restare sul vago. Il nonno non chiese altro, ma emise una mezza risata simile a un latrato, gli occhi ancora chiusi.

«Già scappò, eh?»

Vittoria rifletté. Non sapeva cosa fosse meglio dire e, come le capitava spesso quando parlava con Edoardo, avvertiva un senso di disagio. Anche se non lo conosceva bene, era sicura di una cosa: la sua presenza era tutto fuorché rassicurante.

«Non è contento di stare qui. Siamo venuti perché gliel’ho chiesto io… E siamo rimasti perché gliel’ho chiesto io. Volevo conoscerti.»

«Farebbe qualsiasi cosa per te» commentò Edoardo con uno strano tono. «Sarai rimasta delusa, ora che mi hai conosciuto.» Aprì gli occhi di scatto e li puntò sulla nipote. Erano fermi, profondi e azzurri come quelli dei suoi figli. Come quelli di Vittoria. «O forse no… Stefano ti avrà parlato così male di me che non ti aspettavi niente.»

Vittoria capì che la stava mettendo alla prova e che, per quanto ostentasse la solita indifferenza sardonica, la risposta che lei avrebbe dato gli interessava parecchio. Ricambiò lo sguardo acuto del nonno con decisione.

«Veramente non parliamo mai di voi. Di te ed Enrico, intendo.»

Edoardo la fissò ancora per qualche momento, poi distolse lo sguardo e lo rivolse verso il mare. Da lì sembrava vicinissimo. Vittoria aveva sempre l’impressione di poterlo toccare semplicemente allungando la mano.

«E bravo Stefano… Perché complicarsi la vita, in fondo?» mormorò il nonno con tono ironico. A lei parve che parlasse con se stesso.

«Che vuoi dire?» domandò ugualmente, curiosa.

Lui non rispose, preso dai suoi pensieri. «Loro hanno sempre pensato che fosse tutta colpa mia» disse invece, all’improvviso.

Loro? Alludeva ai suoi figli? Probabilmente sì, eppure nella sua voce non c’era la minima traccia di rimorso, dispiacere o affetto. Non era sarcastico, ma la sua voce era fredda e controllata, come se fosse una questione di scarsa importanza. E comunque che razza di risposta era?

«E lo è? È colpa tua?» insisté Vittoria a bassa voce, la fronte corrugata, scrutando il viso del nonno e cercando di capirci qualcosa. Non era affatto sicura della piega che la conversazione stava prendendo, ma era la prima occasione che aveva modo di parlare con lui in solitudine. Non poteva fare altro che seguirla e sperare che la conducesse da qualche parte.

Edoardo emise un respiro roco, breve e sibilante, che fece rabbrividire Vittoria. Quando gli era vicina, si rendeva conto davvero di quanto fosse malato. «Le persone pensano quello che vogliono pensare. Quello che li ha divisi… è nato con loro o forse anche prima di loro. Non serviva che mi mettessi in mezzo io.»

«Cosa? Cos’è stato a separarli?»

Edoardo sospirò. Doveva essere molto stanco. Abbassò un attimo le palpebre, come se fossero troppo pesanti per tenerle su. «Più di una cosa, ma quella davvero importante una sola è. Quando due fratelli si innamorano della stessa donna è così che va a finire.»

Vittoria non riuscì a dare subito un senso a quella frase, che rimase a girarle nella testa per un po’ di tempo, mentre lei cercava affannosamente di afferrarla. La stessa donna? Ma quando? Stefano ed Enrico avevano trascorso separati la maggior parte delle loro vite. Suo padre era tornato sull’isola solo una volta, quando aveva circa vent’anni, quando Edoardo aveva scoperto di essere malato, quando Stefano aveva rivisto la mamma. Fu uno schiaffo. D’istinto sollevò una mano e se la posò sulla guancia accaldata. Guardò il nonno senza vederlo, sprofondata nei suoi pensieri. Era vero? Era possibile? Edoardo mentiva? O parlava a caso, con i pesanti farmaci che gli offuscavano la mente e la malattia che gli logorava il corpo e lo spirito?

D’impulso Vittoria aprì la bocca per chiedere qualcosa senza neanche sapere che cosa, quando Edoardo ricominciò a tossire, questa volta con violenza maggiore di prima. Era un altro attacco. Si piegò su se stesso e rantolò, sforzandosi di respirare, il viso congestionato che si deformava per la sofferenza. Doveva chiamare aiuto. Qualunque altro pensiero le volò via dalla mente. Scattò in piedi, corse verso la portafinestra e per un attimo il sole la accecò e quasi andò a sbattere contro l’infermiera, che stava uscendo a passo svelto sulla terrazza: una donna sui 45 anni, un po’ in sovrappeso, con una coda di capelli biondo scuro e un semplice completo da lavoro.

«Sta male!» ansimò Vittoria, saltando bruscamente all’indietro per non intralciarla, e subito si sentì una cretina totale. Si vedeva benissimo che Edoardo stava male.

La donna gli si era avvicinata rapidamente. Lanciò uno sguardo al vecchio, prese dal tavolino il flacone delle gocce e ne versò alcune nel bicchiere, poi aggiunse dell’acqua. Non la guardò nemmeno, concentrata com’era.

«Ci penso io» disse soltanto. Vittoria ebbe un attimo di esitazione, ma in fondo a cosa sarebbe servito restare lì? Annuì, indietreggiò di un passo, senza staccare gli occhi dal nonno, che ancora annaspava piegato in due. Poi abbassò la testa e rientrò in casa.

 

 

****

 

 

Vittoria trascorse quello che restava della mattina con la testa in una specie di nebbia. Più che suonare, strimpellò distrattamente sulla tastiera del pianoforte con dei risultati così agghiaccianti che immaginò tutti gli abitanti della casa tapparsi le orecchie per l’orrore. Se la Grandi l’avesse ascoltata, avrebbe chiesto la sua immediata espulsione dal Conservatorio. Lei stessa, però, si ascoltò a malapena.

Alle undici e un quarto Rosalia le portò un vassoio con una brocca di limonata fresca fatta in casa e i soliti biscotti con mandorle e pistacchi. Vittoria la ringraziò, sedette sul divano e rimase a fissare il vassoio per un tempo indefinito. Non aveva alcuna voglia di mangiare. Non aveva mai avuto meno fame in tutta la sua vita. Desiderava soltanto capire. Enrico, però, continuava a sfuggirle e il nonno… Si alzò in piedi e prese a gironzolare irrequieta per il salotto. La sua mente era un turbine, un vortice confuso di date ed eventi che lei cercava di incastrare in un puzzle che le restituisse un’immagine dotata di senso, ma con scarsi risultati. In fondo, era poi così importante? Se anche le parole del nonno fossero state vere, doveva essere successo molto tempo prima, prima che i suoi genitori si incontrassero di nuovo e si innamorassero. Era una cosa del passato, ormai morta e sepolta.

Era così importante?

Vittoria aggrottò la fronte, fermandosi davanti a una vetrinetta per osservare il proprio riflesso alterato dalle smerigliature e dalle incisioni delicate sul vetro. No, decise all’improvviso, il fatto in sé non era poi così importante. Certo, un po’ strano lo era, non poteva negarlo, ma senza dubbio avrebbe spiegato molte cose. E lei era venuta lì proprio per quello: trovare risposte.

Pensierosa, mosse qualche altro passo nella stanza, poi quasi senza rendersene conto uscì dal salotto. Salì automaticamente le scale e in cima si fermò. Lanciò una mezza occhiata indecisa a destra, verso la camera di Edoardo. Le avevano detto che si era ripreso dall’attacco e ora stava dormendo, quindi era inutile tornare da lui. Girò a sinistra, percorse un tratto di corridoio, oltrepassando una pianta ornamentale in un elaborato vaso di terracotta e una natura morta appesa al muro, poi svoltò ancora a sinistra. Si trovò davanti una doppia porta accostata. Sapeva dove conduceva, anche se non l’aveva mai varcata. Una volta aveva sbagliato strada mentre cercava il bagno e aveva incontrato una cameriera giovane e simpatica, Antonia, che l’aveva indirizzata dalla parte giusta dopo averle spiegato che quella doppia porta conduceva nello studio di Enrico Falconeri. Lì davanti Vittoria si fermò, trattenendo un po’ il fiato quasi senza accorgersene. Sollevò la mano e bussò pianissimo, come se non fosse certa di volersi far sentire all’interno. Nessuno rispose. Spinse appena la porta ed entrò.

Dal corridoio fresco e in penombra si ritrovò immersa nella luce calda e intensa del mattino che scolpiva ogni cosa con una nitidezza accecante. Davanti a lei c’era una specie di salottino. Due divani in pelle di un bianco immacolato erano disposti a L al centro della stanza e tra essi stazionava un tavolino basso di ferro battuto con il ripiano di cristallo lucente. Lungo le pareti erano disposti mobili scuri, lucidi e pesanti, in linea con l’arredamento del resto del baglio, e una pianta rampicante saliva sulla parete nell’angolo accanto al balconcino, esattamente di fronte alla porta.

Vittoria fece qualche passo nella stanza, gettando uno sguardo veloce oltre i vetri aperti e le tende bianche: sotto c’era il cortile del baglio. Sulla destra, il salottino comunicava con lo studio vero e proprio. In precedenza, forse, c’era stata una parete divisoria, poi abbattuta per creare un unico vasto spazio. Al centro dello studio si stagliava come una regina una massiccia scrivania di mogano, la più grande che Vittoria avesse mai visto. Aveva il tipico aspetto dei mobili antichi, ma conservati con estrema cura, la superficie consunta e intaccata levigata da uno spesso strato di morbida cera. A destra della scrivania un altro balconcino affacciava sul cortile e alle sue spalle su ergeva un’imponente libreria.

Vittoria fece il giro della scrivania, stando ben attenta a camminare sul tappeto soffice per attutire il rumore dei passi, si avvicinò alla libreria per osservarla meglio. Se mai fosse caduta addosso a qualcuno lo avrebbe ridotto in poltiglia. Era carica di volumi dalle copertine rigide e scure, faldoni, schedari. Non sembrava nulla di interessante e Vittoria le girò presto le spalle. Non poteva perdere troppo tempo. Con un sospiro, si girò verso la scrivania e abbracciò l’intero ambiente con lo sguardo, accigliata. Niente. Non c’era niente. Ma in fondo cosa stava cercando, esattamente? Che ci faceva lì? Era solo uno studio. Non c’era niente di personale, lo stile della casa lo inglobava completamente. Non le diceva un bel niente di Enrico e del passato. Abbassò gli occhi sulla superficie perfettamente in ordine della scrivania, senza neppure un foglio fuori posto o una penna di traverso. Di colpo si rese conto che cercare qualcosa lì era inutile, qualunque fosse la cosa che aveva pensato di trovare.

Sei una scema, si disse, serrando i pugni. Che te ne frega?

Era meglio uscire, prima che qualcuno entrasse e la beccasse a curiosare tra le cose di Enrico. Sarebbe stato atrocemente imbarazzante. In quel momento gli occhi le caddero sull’unica cosa fuori posto in tutta la stanza. Sulla parete a sinistra, dal lato opposto al balconcino, c’era un secrétaire² e uno dei suoi minuscoli cassettini non era ben chiuso come gli altri, ma leggermente aperto, come se fosse un cassetto che veniva aperto spesso e che non ci si preoccupava di richiudere con troppa cura. Si avvicinò a passo svelto, lo aprì e sbirciò dentro il suo contenuto: un oggetto che le parve una piccola fionda, un semplice rametto d’albero con due punte e un elastico consunto dall’uso; un orologio d’oro dall’aspetto antico, fragile, che a giudicare dalle dimensioni era fatto per essere portato in una tasca; una penna stilografica profilata in argento.

Vittoria aggrottò la fronte, perplessa, studiando quel curioso assortimento di oggetti diversi al quale non riusciva a dare un senso. Forse nemmeno c’era, un senso, e lei se ne stava lì a perdere tempo guardando delle stupide, vecchie cose dimenticate lì dentro da chissà quanto tempo. Rimise a posto il cassetto senza chiuderlo del tutto, lasciandolo come lo aveva trovato, e si lanciò nel salottino. Era a pochi passi dalla doppia porta quando questa si aprì all’improvviso ed entrò Enrico. Vittoria si bloccò di colpo, come se qualcuno l’avesse afferrata e tirata con forza per un braccio, e non riuscì a impedirsi di trasalire.

«Oh, no, non di nuovo» sbottò a mezza voce, spontaneamente, e subito dopo si morse il labbro. Era la stessa identica situazione di quella mattina, solo che al posto di Alberto c’era Enrico.

Lui inarcò appena le sopracciglia, fissandola. «Come?» domandò con tono educato.

Lei scosse la testa. «Ehm… No, niente» borbottò precipitosamente, poi tacque di botto, incapace di trovare una scusa accettabile per spiegare come mai stesse curiosando lì dentro. Si maledisse in silenzio. Come le era venuto in mente di ficcarsi in quella situazione? Che figuraccia.

Enrico non disse nulla. Indossava ancora il completo di lino beige e la camicia bianca di quando era venuta a prenderla e sembrava pronto per un servizio di moda estiva. A Vittoria sembrava che suo padre e suo zio avessero poco in comune, ma una cosa sicuramente c’era: un’eleganza spontanea, quasi distratta, nel vestire. Pensò a Edoardo, al suo aspetto sempre impeccabile nonostante fosse nella fase terminale di una malattia lunga e dolorosa. Si domandò se non avessero ereditato entrambi quella caratteristica da lui, o se forse non l’avessero assorbita inconsapevolmente quando lo osservavano da bambini.

«Posso fare qualcosa per te?» le chiese Enrico, con il solito tono cortese e distaccato. Non la guardava negli occhi, ma fissava un punto appena dietro la sua testa. Vittoria represse l’impulso insensato di voltarsi per vedere cosa catturava la sua attenzione.

«No… grazie. Ero salita per sapere come sta Edoardo, ma poi mi sono ricordata che sta dormendo e così…» Annaspò, ma non le veniva in mente nessuna motivazione ragionevole. Alla fine si arrese. «Ho pensato di fare un giro» confessò, le spalle che si afflosciavano appena. Era la cosa più vicina alla verità che fosse riuscita a pensare.

Lui, però, non sembrò perplesso o infastidito. Si limitò ad annuire, lanciando un’occhiata allo studio, come se stesse valutando la stanza per capire cosa ci trovasse lei. Per un folle attimo a Vittoria scappò da ridere e dovette lottare per trattenersi. «Capisco. Fai pure. Anche se dubito che qui dentro ci sia qualcosa di interessante per te. A meno che tu non abbia una segreta passione per i dati sulla produzione vinicola di Santo Stefano dal 1950 a oggi.»

Questa volta Vittoria lasciò uscire un sorriso liberatorio. «In realtà sono più interessata a quella prima del 1950.»

Lo zio la osservò per un attimo, poi anche le sue labbra si incurvarono appena. «Quella la conserviamo giù in cantina, mi dispiace» le rispose a tono e Vittoria fece una risatina nervosa. Le parve che un lampo sottile scorresse tra loro, rapidissimo, per poi spegnersi di colpo. «Se vuoi un libro ti consiglio di guardare in biblioteca.»

Vittoria sgranò gli occhi. «Avete una biblioteca?» Quello era troppo anche per i Falconeri.

«Sì. Non hai fatto un giro della casa quando sei arrivata?» Vittoria scosse il capo. Lui la guardò in silenzio per un secondo, negli occhi, questa volta. «Vuoi farlo adesso?»

«Possiamo?»

«Certo.»

«Non hai da fare?»

Lui stava già aprendo la doppia porta, poi si fece da parte per lasciarla passare. «Non preoccuparti.»

 

 

****

 

 

Il baglio era anche più grande di quanto Vittoria avesse immaginato. Lo zio le mostrò la biblioteca, che occupava un ambiente pari al salotto del primo piano, una stanza attrezzata per la ginnastica con tapis-roulant, pesi, panche per gli addominali e un punching ball, quattro camere per gli ospiti immacolate che profumavano come stanze di un albergo di lusso, un solarium con ombrellone, tavoli e sdraio affacciato sul mare, un salottino interamente occupato da una collezione di porcellane cinesi che (ne era sicura) avrebbe fatto la gioia di sua madre («Era una passione di mia nonna. La madre di Edoardo» le spiegò Enrico), bagni con appliques di cristallo alle pareti e pile di soffici asciugamani sulle superfici di marmo. Tramite le scale di servizio interne diedero anche un’occhiata alla cucina. Lungo la strada incontrarono Rosalia, che inarcò le sopracciglia vedendo quella strana coppia, ma si limitò a fare un cenno con la testa e ad allontanarsi senza commenti.

Vittoria osservò tutto con attenzione e curiosità. Era molto diverso da casa sua. L’appartamento in cui viveva con i genitori a Milano, in centro, era pieno di mobili moderni e opere d’arte contemporanea che sua madre adorava. Era quello il suo campo di specializzazione. Ci aveva anche scritto sopra la sua tesi di dottorato. A Vittoria piaceva casa sua, ma trovava il baglio più affascinante. Quello era un lusso antico, con una lunga storia alle spalle, e quella storia era la storia della sua famiglia, di tutte le persone che, una dopo l’altra, un matrimonio dopo l’altro, avevano portato fino alla sua nascita. Quel pensiero la colpì allora per la prima volta, con forza. Era sempre stata abituata a pensare di essere senza radici, come i suoi genitori, o meglio, che le sue radici non andassero più in profondità di quelle che avevano impiantato i suoi quando avevano lasciato Santo Stefano per cambiare vita. Aveva creduto che il suo mondo iniziasse e finisse con loro. Gironzolando per le stanze del baglio, il naso all’insù per guardare i soffitti dipinti a motivi naturali, capì che in realtà non era così. C’era qualcosa di emozionante nello sfiorare con un dito un panciuto vaso Ming bianco a fiori blu e pensare che in qualche modo quell’oggetto era anche parte di lei.

Camminavano per lo più in silenzio. Enrico la guidava, apriva la porta di una stanza, le dava qualche breve informazione e aspettava tranquillo che lei facesse un giro, poi la lasciava uscire per prima, richiudeva la porta e passavano alla stanza successiva. Vittoria gli lanciava ogni tanto un’occhiata curiosa di soppiatto che lui non notava o che forse fingeva di non notare. Era un po’ delusa: stava scoprendo la casa, ma lui restava un enigma.

Quando due fratelli si innamorano della stessa donna…

La frase di Edoardo non smetteva di ronzarle nella testa.

L’ultima tappa della visita furono le cantine, una lunga fila di stanzoni dal soffitto a volta a cui si accedeva dal cortile, tramite una porticina di ferro. Strutture di legno alte fino al soffitto ospitavano un numero indefinito di bottiglie di vino. File ordinate di botti antiche così grandi che Vittoria sarebbe riuscita a infilarci tutto il suo guardaroba, comprese le scarpe, e forse anche i trucchi, erano affiancate da attrezzi e macchinari dall’aspetto vissuto di cui non capì la funzione. Lo zio le disse che avevano tutti a che fare con i vecchi metodi di produzione del vino e che ormai non erano più utilizzati, ma avevano un valore storico. Aggiunse poi che lì sotto c’era solo una parte della produzione Falconeri. Il lavoro vero e proprio non si svolgeva al baglio, ma nella cantina, non molto distante da lì. Dopo un attimo di esitazione, aggiunse che se lei fosse stata curiosa di vederla, una volta l’avrebbe portata a visitarla.

«Grazie del giro. Mi è piaciuto» disse Vittoria. Erano ancora nelle cantine, al centro di una di quelle enormi stanze in cui risuonava un’eco che, insieme all’umidità, al fresco e alla penombra, faceva pensare a una grotta nel profondo di una montagna. Diede un’ultima occhiata intorno a sé, poi si voltò per uscire e lo zio, che le stava accanto con le mani nelle tasche, la seguì. «Questa casa sembra un museo.»

«Alcuni bagli lo sono diventati, in Sicilia. Oppure si sono trasformati in bed and breakfast o ristoranti di lusso. Edoardo non avrebbe mai permesso una cosa del genere qui, nella casa che i Falconeri abitano da generazioni.» A Vittoria sembrò di cogliere un velo di sarcasmo nelle sue parole, ma quando lo fissò la sua espressione era distaccata come sempre. «Il primo nucleo del baglio risale alla fine del Seicento. Fino ad allora la famiglia aveva vissuto in una palazzina in paese che poi crollò durante un terremoto.»

Rimasero in silenzio mentre raggiungevano la porticina di ferro. Enrico la fece passare per prima anche questa volta, poi richiuse la porta alle loro spalle con uno sferragliare pesante. Vittoria sbatté gli occhi e si mise una mano sulla fronte, cercando di riabituarsi alla luce accecante del sole.

«Va tutto bene?» Si voltò e vide che Enrico la stava osservando, una mano ancora sulla maniglia della porta. «Mi sembravi un po’ strana, prima.»

Vittoria fece un sorriso debole. Certo che doveva essergli sembrata un po’ strana: l’aveva sorpresa a curiosare nel suo studio. «Sì, è che… ero con Edoardo quando è stato male. È stato brutto» mormorò. «Non ho mai visto nessuno così.»

«Mi dispiace. Queste crisi stanno diventando più frequenti.»

Si avviarono insieme nel cortile, camminando lentamente e senza una meta precisa. Un paio di grosse api gli svolazzarono intorno per un po’, ronzando, prima di dirigersi verso i fiori in una delle aiuole. Vittoria inspirò l’aria calda e profumata e si sentì bene, rilassata e serena come raramente le capitava quando era al baglio.

«Sai» disse Enrico all’improvviso, «quando ho una brutta giornata di solito faccio due cose: prendo la barca e vado a nuotare al largo oppure vado da Calogero.» Sollevò il polso sinistro e gettò un’occhiata all’orologio luccicante sotto il sole. «Considerando l’ora, direi che è meglio optare per Calogero.»

«Chi è Calogero?»

Enrico sorrise in quel suo modo discreto e chinò la testa, come per nascondere la sua espressione prima che lei potesse leggervi la risposta. «Lo vedrai.»

«Ma tu… non vai più dai tuoi amici? L’Associazione Vini Siciliani?»

«Un’altra volta.»

Vittoria inarcò le sopracciglia. «L’incontro è saltato?»

Il sorriso di Enrico si allargò. «Qualcosa del genere. Andiamo.»

 

 

 

 

 

 

 

NOTE.

1. Piccolina.

2. Mobile antico in uso nel Settecento e nell’Ottocento, composto da cassetti, nicchie e un piano ribaltabile.

   
 
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