PARTE QUARTA
SICILIA, ISOLA
DI SANTO STEFANO
Luglio 2015
CAPITOLO 14
NATO CON
LORO
«Grazie
di essere
venuto a prendermi» disse Vittoria.
Lanciò
un’occhiata
rapida e curiosa allo zio, poi tornò a guardare fuori dal
finestrino dell’auto.
Era un po’ strana, quella situazione. La BMW scorreva
così silenziosamente e
velocemente sulla strada da sembrare ferma, se non fosse stato per la
vista
della campagna che scorreva via in fretta oltre il parabrezza. I vetri
oscurati
chiusi e l’aria condizionata in azione rendevano
l’ambiente ovattato, come
separato dalla realtà esterna arroventata dal sole, quasi
irreale. All’inizio
nessuno dei due aveva parlato, ma poi Vittoria aveva sentito il bisogno
di
rompere quel silenzio pesante.
«Figurati»
rispose
Enrico a mezza voce. Gli occhiali da sole nascondevano ancora la sua
espressione e sembrava ben attento a non guardare mai in direzione
della
nipote.
«Sicuro
che non sia
stato un problema rimandare il tuo viaggio?»
Enrico
cambiò la marcia
con un movimento fluido e controllato e rispose dopo qualche istante.
«Sicuro.»
Vittoria gli
lanciò
un’ultima occhiata. «Ok, bene»
mormorò e non aggiunse altro per il resto del
viaggio. Se a lui non andava di parlare, non voleva certo forzarlo.
Arrivati al
baglio,
Enrico aprì il cancello di ferro con un piccolo telecomando,
parcheggiò la
macchina sotto la tettoia ed entrambi scesero in silenzio. Lui
ignorò la porta
d’ingresso e la scortò su per le scale del
ballatoio. Vittoria si accigliò
mentre saliva i gradini.
«Non
le chiudete mai, le
portefinestre?» domandò all’improvviso,
curiosa.
Enrico era
così
raccolto in se stesso che ci mise un attimo ad afferrare il senso della
domanda. Aggrottò la fronte, sfilandosi finalmente gli
occhiali da sole, ma
ancora non la guardava. «D’estate no. Fa
già abbastanza caldo senza chiudere
tutto.»
«Ma…
non avete paura
che entri qualcuno?»
Lui
accennò un sorriso,
mentre giocherellava con i Ray-ban. «Il cancello di solito
è chiuso. E poi chi
dovrebbe entrare? Qui si conoscono tutti. Non c’è
nessun pericolo.»
«Sembra
terribile»
commentò Vittoria a voce molto bassa. Il sorriso di Enrico
si allargò appena,
ma non disse nulla. Lei lanciò un’occhiata al
pianoforte chiuso che la
aspettava, come tutte le mattine. «Posso salutare
Edoardo?»
«Certo.
Ti accompagno.»
Chissà
cosa avrebbe
detto Edoardo vedendola lì da sola. Se avesse fatto qualche
battuta tagliente,
come accadeva spesso, avrebbe messo in difficoltà Enrico ed
era l’ultima cosa
che lei voleva. D’altra parte, neppure incontrare il nonno da
sola era un’idea
particolarmente invitante. Forse le avrebbe fornito la
possibilità di fargli
qualche domanda, ed era quello che desiderava, ma non poteva negare che
la cosa
la innervosisse un po’. Quando arrivarono in cima alle scale,
al primo piano,
Enrico si fermò e Vittoria capì che non avrebbe
proseguito insieme a lei.
«Tu
non vieni?» chiese,
incerta se esserne sollevata o meno.
Enrico
conservò
un’espressione neutra, ma quando rispose la sua voce aveva un
tono definitivo.
«Ho del lavoro da fare. Ci vediamo più
tardi.»
Vittoria
annuì. Le
parve che lui volesse dire qualcos’altro, ma forse si era
sbagliata o forse lo
zio ci aveva ripensato, perché continuò lungo il
corridoio a sinistra, dopo
averle rivolto un mezzo sorriso gentile e freddo, senza aggiungere
nulla.
Vittoria fece un
sospiro leggero e svoltò a destra. La porta della stanza del
nonno era
socchiusa, come sempre, perché da fuori la sua voce si
sentisse, se Edoardo fosse
stato solo e avesse chiamato. Bussò piano, poi spinse la
porta ed entrò. Sapeva
che lo avrebbe trovato seduto sulla sua poltrona di pelle, in terrazza,
sotto
l’ombrellone bianco di forma quadrata, circondato da piante e
fiori profumati e
da un panorama mozzafiato in tutti i toni dell’azzurro e del
blu. Chissà se
riusciva comunque a goderne nelle sue condizioni.
Attraversando la
stanza, che a quanto le aveva detto una volta Rosalia era una delle
più
luminose e calde della casa, le cadde l’occhio sulla
fotografia in cornice
d’argento sul cassettone. Si fermò. Quella foto
attirava sempre il suo sguardo,
ma fino ad allora non era mai entrata in quella stanza senza suo padre
che la
tallonava con espressione tempestosa e non l’aveva mai
osservata bene. Prese la
foto con delicatezza. Era in bianco e nero e la cornice era molto
più pesante e
spessa di quanto avesse immaginato. Guardò verso la
terrazza: Edoardo era lì,
in poltrona, le spalle rivolte verso la stanza, come ogni mattina
quando lei
saliva a salutarlo e a scambiare le poche chiacchiere che lui riusciva
a
sostenere. Stava peggiorando piuttosto rapidamente. Di solito
c’era sempre
l’infermiera o almeno una cameriera accanto a lui, ma
dovevano essersi
allontanate un momento.
Vittoria
abbassò di
nuovo lo sguardo sulla fotografia: una ragazza con un vestito chiaro e
lunghi
capelli sciolti sulle spalle sedeva su uno scoglio, vicino al mare, lo
sguardo timido
rivolto verso l’obiettivo, le ginocchia tra le braccia e un
sorriso dolce sul
viso dai tratti armoniosi e delicati. Chissà chi era.
Pensierosa, si rigirò la
fotografia tra le mani e scoprì che sul retro, ingiallito
dal tempo, qualcuno
aveva scritto una data. Giugno 1974. Vittoria
rifletté, ma non le diceva
nulla. D’altronde, non sapeva niente della famiglia.
Rimise a posto
la
fotografia e uscì in terrazza. In quel momento, Edoardo fu
colto da un eccesso
di tosse. Sul tavolino di ferro battuto accanto alla poltrona
c’erano una
brocca di cristallo lavorato piena d’acqua, un bicchiere e
quello che sembrava
un flacone di gocce. Vittoria versò in fretta
dell’acqua nel bicchiere e lo
porse al nonno, che continuava a tossire con violenza, ripiegato su se
stesso
come se fosse sul punto di spezzarsi. Lui sollevò appena la
testa, incrociando
per un attimo lo sguardo spaventato di Vittoria, prese il bicchiere con
una
mano tremante e bevve lentamente, a piccoli sorsi. Lei rimase in piedi
a
osservarlo con ansia. Quando il bicchiere fu vuoto, lo riprese con
delicatezza
dalla mano secca e grinzosa del vecchio e aspettò. Si chiese
se non fosse il
caso di chiamare l’infermiera. Edoardo, però,
sembrava essersi ripreso. Aveva
poggiato la testa all’indietro, contro la poltrona, e
respirava a fatica come
sempre, ma l’attacco era passato. Guardò sua
nipote e abbozzò un sorriso
stanco.
«Grazie,
picciridda»¹
mormorò con voce roca e debole.
«Come
stai?» Vittoria
rimise il bicchiere sul tavolino e sedette sulla sedia di ferro vicino
alla
poltrona, coordinata con il tavolino, che di solito era riservata
all’infermiera.
Edoardo
lasciò andare
un sospiro pesante e sibilante. «Peggio di ieri… e
meglio di domani.»
«Mi
dispiace.»
Rimasero in
silenzio
per un po’. Edoardo aveva chiuso gli occhi e lei si chiese se
non fosse
scivolato nel sonno. Era un’altra cosa che gli capitava
spesso, insieme a
quegli attacchi di tosse terribile che quasi lo soffocavano e lo
lasciavano
stremato. Poi il nonno parlò, all’improvviso,
facendola sobbalzare per la
sorpresa.
«Stefano?»
Vittoria strinse
tra le
mani i braccioli lavorati della sedia e cercò di farsi
passare lo spavento.
«Uhm… Papà non
c’è, oggi. Sono venuta da sola» disse,
cauta. Era meglio restare
sul vago. Il nonno non chiese altro, ma emise una mezza risata simile a
un
latrato, gli occhi ancora chiusi.
«Già
scappò, eh?»
Vittoria
rifletté. Non
sapeva cosa fosse meglio dire e, come le capitava spesso quando parlava
con
Edoardo, avvertiva un senso di disagio. Anche se non lo conosceva bene,
era
sicura di una cosa: la sua presenza era tutto fuorché
rassicurante.
«Non
è contento di
stare qui. Siamo venuti perché gliel’ho chiesto
io… E siamo rimasti perché
gliel’ho chiesto io. Volevo conoscerti.»
«Farebbe
qualsiasi cosa
per te» commentò Edoardo con uno strano tono.
«Sarai rimasta delusa, ora che mi
hai conosciuto.» Aprì gli occhi di scatto e li
puntò sulla nipote. Erano fermi,
profondi e azzurri come quelli dei suoi figli. Come quelli di Vittoria.
«O
forse no… Stefano ti avrà parlato così
male di me che non ti aspettavi niente.»
Vittoria
capì che la
stava mettendo alla prova e che, per quanto ostentasse la solita
indifferenza
sardonica, la risposta che lei avrebbe dato gli interessava parecchio.
Ricambiò
lo sguardo acuto del nonno con decisione.
«Veramente
non parliamo
mai di voi. Di te ed Enrico, intendo.»
Edoardo la
fissò ancora
per qualche momento, poi distolse lo sguardo e lo rivolse verso il
mare. Da lì
sembrava vicinissimo. Vittoria aveva sempre l’impressione di
poterlo toccare
semplicemente allungando la mano.
«E
bravo Stefano…
Perché complicarsi la vita, in fondo?»
mormorò il nonno con tono ironico. A lei
parve che parlasse con se stesso.
«Che
vuoi dire?»
domandò ugualmente, curiosa.
Lui non rispose,
preso
dai suoi pensieri. «Loro hanno sempre pensato che fosse tutta
colpa mia» disse
invece, all’improvviso.
Loro? Alludeva
ai suoi
figli? Probabilmente sì, eppure nella sua voce non
c’era la minima traccia di
rimorso, dispiacere o affetto. Non era sarcastico, ma la sua voce era
fredda e
controllata, come se fosse una questione di scarsa importanza. E
comunque che
razza di risposta era?
«E lo
è? È colpa tua?»
insisté Vittoria a bassa voce, la fronte corrugata,
scrutando il viso del nonno
e cercando di capirci qualcosa. Non era affatto sicura della piega che
la
conversazione stava prendendo, ma era la prima occasione che aveva modo
di
parlare con lui in solitudine. Non poteva fare altro che seguirla e
sperare che
la conducesse da qualche parte.
Edoardo emise un
respiro roco, breve e sibilante, che fece rabbrividire Vittoria. Quando
gli era
vicina, si rendeva conto davvero di quanto fosse malato. «Le
persone pensano
quello che vogliono pensare. Quello che li ha divisi…
è nato con loro o forse
anche prima di loro. Non serviva che mi mettessi in mezzo io.»
«Cosa?
Cos’è stato a separarli?»
Edoardo
sospirò. Doveva
essere molto stanco. Abbassò un attimo le palpebre, come se
fossero troppo
pesanti per tenerle su. «Più di una cosa, ma
quella davvero importante una sola
è. Quando due fratelli si innamorano della stessa donna
è così che va a finire.»
Vittoria non
riuscì a
dare subito un senso a quella frase, che rimase a girarle nella testa
per un
po’ di tempo, mentre lei cercava affannosamente di
afferrarla. La stessa donna?
Ma quando? Stefano ed Enrico avevano trascorso separati la maggior
parte delle
loro vite. Suo padre era tornato sull’isola solo una volta,
quando aveva circa
vent’anni, quando Edoardo aveva scoperto di essere malato,
quando Stefano aveva
rivisto la mamma. Fu uno schiaffo. D’istinto
sollevò una mano e se la posò
sulla guancia accaldata. Guardò il nonno senza vederlo,
sprofondata nei suoi
pensieri. Era vero? Era possibile? Edoardo mentiva? O parlava a caso,
con i
pesanti farmaci che gli offuscavano la mente e la malattia che gli
logorava il
corpo e lo spirito?
D’impulso
Vittoria aprì
la bocca per chiedere qualcosa senza neanche sapere che cosa, quando
Edoardo
ricominciò a tossire, questa volta con violenza maggiore di
prima. Era un altro
attacco. Si piegò su se stesso e rantolò,
sforzandosi di respirare, il viso
congestionato che si deformava per la sofferenza. Doveva chiamare
aiuto.
Qualunque altro pensiero le volò via dalla mente.
Scattò in piedi, corse verso
la portafinestra e per un attimo il sole la accecò e quasi
andò a sbattere
contro l’infermiera, che stava uscendo a passo svelto sulla
terrazza: una donna
sui 45 anni, un po’ in sovrappeso, con una coda di capelli
biondo scuro e un
semplice completo da lavoro.
«Sta
male!» ansimò
Vittoria, saltando bruscamente all’indietro per non
intralciarla, e subito si
sentì una cretina totale. Si vedeva benissimo che Edoardo
stava male.
La donna gli si
era
avvicinata rapidamente. Lanciò uno sguardo al vecchio, prese
dal tavolino il
flacone delle gocce e ne versò alcune nel bicchiere, poi
aggiunse dell’acqua.
Non la guardò nemmeno, concentrata com’era.
«Ci
penso io» disse
soltanto. Vittoria ebbe un attimo di esitazione, ma in fondo a cosa
sarebbe
servito restare lì? Annuì,
indietreggiò di un passo, senza staccare gli occhi
dal nonno, che ancora annaspava piegato in due. Poi abbassò
la testa e rientrò
in casa.
****
Vittoria
trascorse
quello che restava della mattina con la testa in una specie di nebbia.
Più che
suonare, strimpellò distrattamente sulla tastiera del
pianoforte con dei
risultati così agghiaccianti che immaginò tutti
gli abitanti della casa
tapparsi le orecchie per l’orrore. Se la Grandi
l’avesse ascoltata, avrebbe
chiesto la sua immediata espulsione dal Conservatorio. Lei stessa,
però, si
ascoltò a malapena.
Alle undici e un
quarto
Rosalia le portò un vassoio con una brocca di limonata
fresca fatta in casa e i
soliti biscotti con mandorle e pistacchi. Vittoria la
ringraziò, sedette sul
divano e rimase a fissare il vassoio per un tempo indefinito. Non aveva
alcuna
voglia di mangiare. Non aveva mai avuto meno fame in tutta la sua vita.
Desiderava soltanto capire. Enrico, però, continuava a
sfuggirle e il nonno… Si
alzò in piedi e prese a gironzolare irrequieta per il
salotto. La sua mente era
un turbine, un vortice confuso di date ed eventi che lei cercava di
incastrare
in un puzzle che le restituisse un’immagine dotata di senso,
ma con scarsi
risultati. In fondo, era poi così importante? Se anche le
parole del nonno fossero
state vere, doveva essere successo molto tempo prima, prima che i suoi
genitori
si incontrassero di nuovo e si innamorassero. Era una cosa del passato,
ormai
morta e sepolta.
Era
così importante?
Vittoria
aggrottò la
fronte, fermandosi davanti a una vetrinetta per osservare il proprio
riflesso
alterato dalle smerigliature e dalle incisioni delicate sul vetro. No,
decise
all’improvviso, il fatto in sé non era poi
così importante. Certo, un po’ strano
lo era, non poteva negarlo, ma senza dubbio avrebbe spiegato molte
cose. E lei
era venuta lì proprio per quello: trovare risposte.
Pensierosa,
mosse
qualche altro passo nella stanza, poi quasi senza rendersene conto
uscì dal
salotto. Salì automaticamente le scale e in cima si
fermò. Lanciò una mezza
occhiata indecisa a destra, verso la camera di Edoardo. Le avevano
detto che si
era ripreso dall’attacco e ora stava dormendo, quindi era
inutile tornare da
lui. Girò a sinistra, percorse un tratto di corridoio,
oltrepassando una pianta
ornamentale in un elaborato vaso di terracotta e una natura morta
appesa al
muro, poi svoltò ancora a sinistra. Si trovò
davanti una doppia porta
accostata. Sapeva dove conduceva, anche se non l’aveva mai
varcata. Una volta
aveva sbagliato strada mentre cercava il bagno e aveva incontrato una
cameriera
giovane e simpatica, Antonia, che l’aveva indirizzata dalla
parte giusta dopo
averle spiegato che quella doppia porta conduceva nello studio di
Enrico
Falconeri. Lì davanti Vittoria si fermò,
trattenendo un po’ il fiato quasi
senza accorgersene. Sollevò la mano e bussò
pianissimo, come se non fosse certa
di volersi far sentire all’interno. Nessuno rispose. Spinse
appena la porta ed
entrò.
Dal corridoio
fresco e
in penombra si ritrovò immersa nella luce calda e intensa
del mattino che
scolpiva ogni cosa con una nitidezza accecante. Davanti a lei
c’era una specie
di salottino. Due divani in pelle di un bianco immacolato erano
disposti a L al
centro della stanza e tra essi stazionava un tavolino basso di ferro
battuto
con il ripiano di cristallo lucente. Lungo le pareti erano disposti
mobili
scuri, lucidi e pesanti, in linea con l’arredamento del resto
del baglio, e una
pianta rampicante saliva sulla parete nell’angolo accanto al
balconcino,
esattamente di fronte alla porta.
Vittoria fece
qualche
passo nella stanza, gettando uno sguardo veloce oltre i vetri aperti e
le tende
bianche: sotto c’era il cortile del baglio. Sulla destra, il
salottino
comunicava con lo studio vero e proprio. In precedenza, forse,
c’era stata una
parete divisoria, poi abbattuta per creare un unico vasto spazio. Al
centro
dello studio si stagliava come una regina una massiccia scrivania di
mogano, la
più grande che Vittoria avesse mai visto. Aveva il tipico
aspetto dei mobili
antichi, ma conservati con estrema cura, la superficie consunta e
intaccata
levigata da uno spesso strato di morbida cera. A destra della scrivania
un
altro balconcino affacciava sul cortile e alle sue spalle su ergeva
un’imponente libreria.
Vittoria fece il
giro
della scrivania, stando ben attenta a camminare sul tappeto soffice per
attutire il rumore dei passi, si avvicinò alla libreria per
osservarla meglio.
Se mai fosse caduta addosso a qualcuno lo avrebbe ridotto in poltiglia.
Era
carica di volumi dalle copertine rigide e scure, faldoni, schedari. Non
sembrava nulla di interessante e Vittoria le girò presto le
spalle. Non poteva
perdere troppo tempo. Con un sospiro, si girò verso la
scrivania e abbracciò
l’intero ambiente con lo sguardo, accigliata. Niente. Non
c’era niente. Ma in
fondo cosa stava cercando, esattamente? Che ci faceva lì?
Era solo uno studio.
Non c’era niente di personale, lo stile della casa lo
inglobava completamente.
Non le diceva un bel niente di Enrico e del passato. Abbassò
gli occhi sulla
superficie perfettamente in ordine della scrivania, senza neppure un
foglio
fuori posto o una penna di traverso. Di colpo si rese conto che cercare
qualcosa lì era inutile, qualunque fosse la cosa che aveva
pensato di trovare.
Sei una scema, si disse,
serrando i pugni. Che
te ne frega?
Era meglio
uscire,
prima che qualcuno entrasse e la beccasse a curiosare tra le cose di
Enrico.
Sarebbe stato atrocemente imbarazzante. In quel momento gli occhi le
caddero
sull’unica cosa fuori posto in tutta la stanza. Sulla parete
a sinistra, dal
lato opposto al balconcino, c’era un secrétaire²
e uno dei suoi
minuscoli cassettini non era ben chiuso come gli altri, ma leggermente
aperto,
come se fosse un cassetto che veniva aperto spesso e che non ci si
preoccupava
di richiudere con troppa cura. Si avvicinò a passo svelto,
lo aprì e sbirciò
dentro il suo contenuto: un oggetto che le parve una piccola fionda, un
semplice rametto d’albero con due punte e un elastico
consunto dall’uso; un
orologio d’oro dall’aspetto antico, fragile, che a
giudicare dalle dimensioni
era fatto per essere portato in una tasca; una penna stilografica
profilata in
argento.
Vittoria
aggrottò la
fronte, perplessa, studiando quel curioso assortimento di oggetti
diversi al
quale non riusciva a dare un senso. Forse nemmeno c’era, un
senso, e lei se ne
stava lì a perdere tempo guardando delle stupide, vecchie
cose dimenticate lì
dentro da chissà quanto tempo. Rimise a posto il cassetto
senza chiuderlo del
tutto, lasciandolo come lo aveva trovato, e si lanciò nel
salottino. Era a
pochi passi dalla doppia porta quando questa si aprì
all’improvviso ed entrò
Enrico. Vittoria si bloccò di colpo, come se qualcuno
l’avesse afferrata e
tirata con forza per un braccio, e non riuscì a impedirsi di
trasalire.
«Oh,
no, non di nuovo»
sbottò a mezza voce, spontaneamente, e subito dopo si morse
il labbro. Era la
stessa identica situazione di quella mattina, solo che al posto di
Alberto
c’era Enrico.
Lui
inarcò appena le
sopracciglia, fissandola. «Come?»
domandò con tono educato.
Lei scosse la
testa.
«Ehm… No, niente» borbottò
precipitosamente, poi tacque di botto, incapace di
trovare una scusa accettabile per spiegare come mai stesse curiosando
lì dentro.
Si maledisse in silenzio. Come le era venuto in mente di ficcarsi in
quella
situazione? Che figuraccia.
Enrico non disse
nulla.
Indossava ancora il completo di lino beige e la camicia bianca di
quando era
venuta a prenderla e sembrava pronto per un servizio di moda estiva. A
Vittoria
sembrava che suo padre e suo zio avessero poco in comune, ma una cosa
sicuramente c’era: un’eleganza spontanea, quasi
distratta, nel vestire. Pensò a
Edoardo, al suo aspetto sempre impeccabile nonostante fosse nella fase
terminale di una malattia lunga e dolorosa. Si domandò se
non avessero
ereditato entrambi quella caratteristica da lui, o se forse non
l’avessero
assorbita inconsapevolmente quando lo osservavano da bambini.
«Posso
fare qualcosa
per te?» le chiese Enrico, con il solito tono cortese e
distaccato. Non la
guardava negli occhi, ma fissava un punto appena dietro la sua testa.
Vittoria
represse l’impulso insensato di voltarsi per vedere cosa
catturava la sua attenzione.
«No…
grazie. Ero salita
per sapere come sta Edoardo, ma poi mi sono ricordata che sta dormendo
e così…»
Annaspò, ma non le veniva in mente nessuna motivazione
ragionevole. Alla fine
si arrese. «Ho pensato di fare un giro»
confessò, le spalle che si
afflosciavano appena. Era la cosa più vicina alla
verità che fosse riuscita a
pensare.
Lui,
però, non sembrò
perplesso o infastidito. Si limitò ad annuire, lanciando
un’occhiata allo
studio, come se stesse valutando la stanza per capire cosa ci trovasse
lei. Per
un folle attimo a Vittoria scappò da ridere e dovette
lottare per trattenersi.
«Capisco. Fai pure. Anche se dubito che qui dentro ci sia
qualcosa di
interessante per te. A meno che tu non abbia una segreta passione per i
dati
sulla produzione vinicola di Santo Stefano dal 1950 a oggi.»
Questa volta
Vittoria
lasciò uscire un sorriso liberatorio. «In
realtà sono più interessata a quella
prima del 1950.»
Lo zio la
osservò per
un attimo, poi anche le sue labbra si incurvarono appena.
«Quella la
conserviamo giù in cantina, mi dispiace» le
rispose a tono e Vittoria fece una
risatina nervosa. Le parve che un lampo sottile scorresse tra loro,
rapidissimo, per poi spegnersi di colpo. «Se vuoi un libro ti
consiglio di
guardare in biblioteca.»
Vittoria
sgranò gli
occhi. «Avete una biblioteca?» Quello era troppo
anche per i Falconeri.
«Sì.
Non hai fatto un
giro della casa quando sei arrivata?» Vittoria scosse il
capo. Lui la guardò in
silenzio per un secondo, negli occhi, questa volta. «Vuoi
farlo adesso?»
«Possiamo?»
«Certo.»
«Non
hai da fare?»
Lui stava
già aprendo
la doppia porta, poi si fece da parte per lasciarla passare.
«Non
preoccuparti.»
****
Il baglio era
anche più
grande di quanto Vittoria avesse immaginato. Lo zio le
mostrò la biblioteca,
che occupava un ambiente pari al salotto del primo piano, una stanza
attrezzata
per la ginnastica con tapis-roulant, pesi, panche per gli addominali e
un punching
ball, quattro camere per gli ospiti immacolate che
profumavano come stanze
di un albergo di lusso, un solarium con ombrellone, tavoli e sdraio
affacciato
sul mare, un salottino interamente occupato da una collezione di
porcellane
cinesi che (ne era sicura) avrebbe fatto la gioia di sua madre
(«Era una
passione di mia nonna. La madre di Edoardo» le
spiegò Enrico), bagni con appliques
di cristallo alle pareti e pile di soffici asciugamani sulle superfici
di
marmo. Tramite le scale di servizio interne diedero anche
un’occhiata alla
cucina. Lungo la strada incontrarono Rosalia, che inarcò le
sopracciglia
vedendo quella strana coppia, ma si limitò a fare un cenno
con la testa e ad
allontanarsi senza commenti.
Vittoria
osservò tutto
con attenzione e curiosità. Era molto diverso da casa sua.
L’appartamento in
cui viveva con i genitori a Milano, in centro, era pieno di mobili
moderni e
opere d’arte contemporanea che sua madre adorava. Era quello
il suo campo di
specializzazione. Ci aveva anche scritto sopra la sua tesi di
dottorato. A
Vittoria piaceva casa sua, ma trovava il baglio più
affascinante. Quello era un
lusso antico, con una lunga storia alle spalle, e quella storia era la
storia
della sua famiglia, di tutte le persone che, una dopo
l’altra, un matrimonio
dopo l’altro, avevano portato fino alla sua nascita. Quel
pensiero la colpì
allora per la prima volta, con forza. Era sempre stata abituata a
pensare di
essere senza radici, come i suoi genitori, o meglio, che le sue radici
non
andassero più in profondità di quelle che avevano
impiantato i suoi quando
avevano lasciato Santo Stefano per cambiare vita. Aveva creduto che il
suo
mondo iniziasse e finisse con loro. Gironzolando per le stanze del
baglio, il
naso all’insù per guardare i soffitti dipinti a
motivi naturali, capì che in
realtà non era così. C’era qualcosa di
emozionante nello sfiorare con un dito
un panciuto vaso Ming bianco a fiori blu e pensare che in qualche modo
quell’oggetto era anche parte di lei.
Camminavano per
lo più
in silenzio. Enrico la guidava, apriva la porta di una stanza, le dava
qualche
breve informazione e aspettava tranquillo che lei facesse un giro, poi
la
lasciava uscire per prima, richiudeva la porta e passavano alla stanza
successiva. Vittoria gli lanciava ogni tanto un’occhiata
curiosa di soppiatto
che lui non notava o che forse fingeva di non notare. Era un
po’ delusa: stava
scoprendo la casa, ma lui restava un enigma.
Quando due
fratelli
si innamorano della stessa donna…
La frase di
Edoardo non
smetteva di ronzarle nella testa.
L’ultima
tappa della
visita furono le cantine, una lunga fila di stanzoni dal soffitto a
volta a cui
si accedeva dal cortile, tramite una porticina di ferro. Strutture di
legno
alte fino al soffitto ospitavano un numero indefinito di bottiglie di
vino. File
ordinate di botti antiche così grandi che Vittoria sarebbe
riuscita a infilarci
tutto il suo guardaroba, comprese le scarpe, e forse anche i trucchi,
erano
affiancate da attrezzi e macchinari dall’aspetto vissuto di
cui non capì la
funzione. Lo zio le disse che avevano tutti a che fare con i vecchi
metodi di
produzione del vino e che ormai non erano più utilizzati, ma
avevano un valore
storico. Aggiunse poi che lì sotto c’era solo una
parte della produzione
Falconeri. Il lavoro vero e proprio non si svolgeva al baglio, ma nella
cantina, non molto distante da lì. Dopo un attimo di
esitazione, aggiunse che
se lei fosse stata curiosa di vederla, una volta l’avrebbe
portata a visitarla.
«Grazie
del giro. Mi è
piaciuto» disse Vittoria. Erano ancora nelle cantine, al
centro di una di
quelle enormi stanze in cui risuonava un’eco che, insieme
all’umidità, al
fresco e alla penombra, faceva pensare a una grotta nel profondo di una
montagna. Diede un’ultima occhiata intorno a sé,
poi si voltò per uscire e lo
zio, che le stava accanto con le mani nelle tasche, la
seguì. «Questa casa
sembra un museo.»
«Alcuni
bagli lo sono
diventati, in Sicilia. Oppure si sono trasformati in bed and breakfast
o ristoranti
di lusso. Edoardo non avrebbe mai permesso una cosa del genere qui,
nella casa
che i Falconeri abitano da generazioni.» A Vittoria
sembrò di cogliere un velo
di sarcasmo nelle sue parole, ma quando lo fissò la sua
espressione era
distaccata come sempre. «Il primo nucleo del baglio risale
alla fine del Seicento.
Fino ad allora la famiglia aveva vissuto in una palazzina in paese che
poi crollò
durante un terremoto.»
Rimasero in
silenzio
mentre raggiungevano la porticina di ferro. Enrico la fece passare per
prima
anche questa volta, poi richiuse la porta alle loro spalle con uno
sferragliare
pesante. Vittoria sbatté gli occhi e si mise una mano sulla
fronte, cercando di
riabituarsi alla luce accecante del sole.
«Va
tutto bene?» Si
voltò e vide che Enrico la stava osservando, una mano ancora
sulla maniglia
della porta. «Mi sembravi un po’ strana,
prima.»
Vittoria fece un
sorriso debole. Certo che doveva essergli sembrata un po’
strana: l’aveva
sorpresa a curiosare nel suo studio. «Sì,
è che… ero con Edoardo quando è stato
male. È stato brutto» mormorò.
«Non ho mai visto nessuno così.»
«Mi
dispiace. Queste
crisi stanno diventando più frequenti.»
Si avviarono
insieme
nel cortile, camminando lentamente e senza una meta precisa. Un paio di
grosse
api gli svolazzarono intorno per un po’, ronzando, prima di
dirigersi verso i
fiori in una delle aiuole. Vittoria inspirò l’aria
calda e profumata e si sentì
bene, rilassata e serena come raramente le capitava quando era al
baglio.
«Sai»
disse Enrico
all’improvviso, «quando ho una brutta giornata di
solito faccio due cose:
prendo la barca e vado a nuotare al largo oppure vado da
Calogero.» Sollevò il
polso sinistro e gettò un’occhiata
all’orologio luccicante sotto il sole.
«Considerando l’ora, direi che è meglio
optare per Calogero.»
«Chi
è Calogero?»
Enrico sorrise
in quel
suo modo discreto e chinò la testa, come per nascondere la
sua espressione
prima che lei potesse leggervi la risposta. «Lo
vedrai.»
«Ma
tu… non vai più dai
tuoi amici? L’Associazione Vini Siciliani?»
«Un’altra
volta.»
Vittoria
inarcò le
sopracciglia. «L’incontro è
saltato?»
Il sorriso di
Enrico si
allargò. «Qualcosa del genere. Andiamo.»
NOTE.
1. Piccolina.
2.
Mobile antico in uso nel
Settecento e nell’Ottocento, composto da cassetti, nicchie e
un piano
ribaltabile.