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Autore: Ghostclimber    27/04/2024    2 recensioni
Rukawa era finalmente a bordo dell'aereo, diretto in America. La terra del basket.
E quella sensazione di cadere a pezzi, di sentire le cuciture della sua anima che cominciavano a tendersi, pronte a strapparsi, altro non era che il legittimo timore di fronte a qualcosa di nuovo e sconosciuto.
Genere: Angst, Drammatico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Hanamichi Sakuragi, Kaede Rukawa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ayako aveva finalmente trovato il modo di portarsi in pari con lo studio a sufficienza da andare ad assistere ad una partita di Hanamichi, e intendeva proporgli un picnic.

Per poco non se ne dimenticò, di fronte allo spettacolo incredibile del suo gioco: era veramente diventato un fenomeno, e le sue doti di trascinatore, che allo Shohoku già avevano cominciato ad emergere, ora erano diventate un pilastro dell’intera squadra.

Stava già andando via, con la sua sporta per il cibo sottobraccio, quando si sentì chiamare: “Ayako senpai!”

“Oh! Hanamichi! È vero! Aspetta.” Ayako prese un grosso respiro, poi esclamò: “Hanamichi Sakuragi, sei stato fantastico! Io… io non ho parole, veramente, sei stato… waaah!” Hanamichi rise, la prima risata sincera da un bel po’, le mani sui fianchi e la testa alta come ai bei vecchi tempi.

“Senti, se non hai da fare ti va di fare un picnic insieme a me?” chiese Ayako, sollevando la sporta, “Intanto che ancora non fa così freddo.”

“Beh, ecco…” nicchiò Hanamichi, “Io veramente esco con un’altra persona, ma sono sicuro che non le dispiacerà se ti unisci a noi.”

“Davvero?” si stupì Ayako. Fino a un paio di settimane prima, Hanamichi sembrava completamente a pezzi; le sembrava assurdo che si fosse trovato qualcuno in così poco tempo.

“Sì, certo, anzi, secondo me ti piacerà un sacco, e poi… ah, eccola! Kikochan!” Ayako si voltò e vide una faccia quasi nota.

“Ohilà, Hanamicchan! Oh, ma tu sei… Ayako san, da quanto tempo!”

“Ehm, io non…”

“Ayako san, lei è Kumiko, forse te la ricordi dalle medie. È la cugina di Kaede.”

“Ah-ah-ah!” lo rimbeccò Kumiko.

“E va bene, la cugina del deficiente,” si corresse Hanamichi.

“Oh! Oh, sì, mi ricordo vagamente di te,” disse Ayako, “Non sembri più così timida.”

“Deformazione professionale,” ribatté lei.

“Ohi, non ti scoccia se Ayako si unisce a noi per pranzo?” chiese Hanamichi.

“Assolutamente no, possiamo parlar male del deficiente?” rispose Kumiko, una scintilla di astio nello sguardo. Ayako ridacchiò.

Hanamichi propose il parco Rokkokumiyama, e insieme si incamminarono. Durante il tragitto, si scambiarono convenevoli leggeri, e sia Kumiko sia Ayako si sperticarono di lodi per il gioco di Hanamichi, cosa che lo fece ridere parecchio, imbarazzato e inorgoglito.

 

*****

 

La vita di Rukawa era miserabile, non c’era un altro modo di dirlo.

Le lezioni erano a malapena comprensibili, aveva consegnato due tesine parziali che non era certo avessero senso e i voti che aveva preso riflettevano la sua impressione: doveva trovare un modo di alzare nuovamente la media, altrimenti gli avrebbero impedito di giocare a basket, addio borsa di studio e addio tutto quanto.

In panchina, fermo a gelarsi le chiappe mentre i suoi compagni di squadra erano in campo, Rukawa si chiese cosa diavolo ci fosse in lui che non andava: al primo anno di liceo aveva rischiato, ma durante il secondo anno si era fatto dare una mano e al terzo anno se l’era cavata allegramente da solo, tanto da chiedersi cosa mai gli fosse preso in prima per non saper nemmeno risolvere un’equazione di primo grado.

Ora, invece, anche con la matematica fuori dai giochi visto che si era iscritto ad un corso di veterinaria, sembrava tutto incomprensibile. Anche con l’aiuto del tutor che gli avevano assegnato, un ragazzo di origini giapponesi molto sveglio e molto disponibile, non riusciva a cavare un ragno dal buco.

E non riusciva a fidarsi.

Nemmeno di Shin, che si era offerto di seguirlo passo passo con le tesine; Rukawa aveva rifiutato sdegnosamente, sostenendo di potersela cavare da solo.

Nel frattempo, era ancora ospite di Miyagi, cucinava e puliva per sdebitarsi, e alla terza partita della sessione invernale ancora non era entrato in campo nemmeno per un paio di minuti. E la cosa peggiore era che, vedendo gli altri giocare, anche lui si sarebbe tenuto in panchina. Ma ora fumava, quasi letteralmente, di rabbia.

In campo contro i Thorne c’erano i Cougar.

La squadra in cui giocava Sawakita.

Rukawa prese il coraggio a quattro mani e andò dal coach: “Coach, mi faccia scendere in campo. È importante.”

Il coach non rispose per un minuto buono, poi chiese: “Importante per te o per la squadra, Rukawa?” distolse lentamente lo sguardo dal gioco e lo fissò nei suoi occhi.

Rukawa aveva la risposta, naturalmente, ma sapeva già che era troppo stupida per essere valida. Insistere l’avrebbe solo fatto stare in panchina per più tempo.

Si sedette di nuovo e cercò di concentrarsi sul gioco, ma non c’era verso: continuava a pensare a come si sarebbe comportato lui al posto di Jones, o di Pitt, o di Rosenbaum. A come avrebbe saputo interpretare il minimo segno da parte di Miyagi, una discesa a canestro mancata da parte di Pitt che lui avrebbe sicuramente portato a termine, invece di passare la palla a LaFayette che era già marcato e già stanco.

“Rukawa,” chiamò il coach, “Ascoltami bene, perché non mi ripeterò.” Rukawa sobbalzò: non si era accorto che il coach si era alzato per andare a sedersi di fianco a lui.

“Tu giochi bene. Hai talento, e si vede, non devi dubitare di questo. Ma nella mia squadra non c’è posto per un arrogante so-tutto che pensa di poter salvare la partita solo con la propria presenza. Qui non sei in Giappone, qui sei in America, e tutto è più grande. So che tu eri uno dei più alti della tua squadra, ed è normale che tu sia abituato a vedere il gioco facile, dall’alto. Ma qui non sei un gigante, qui sei quasi basso per giocare a basket. Io voglio vederti in campo, lo capisci? Ma non ti ci posso mandare, se pensi di poter giocare da solo con la squadra al tuo servizio.”

“Lo capisco, coach,” rispose Rukawa, lo sguardo annebbiato da lacrime di frustrazione che mai e poi mai si sarebbe permesso di versare.

“Sei disposto ad imparare? A provarci, qui, ora, contro i Cougar?”

“Sì, coach!” rispose Rukawa. Qualunque cosa pur di trovarsi di nuovo faccia a faccia con Sawakita e sbattergli in faccia il proprio talento.

“Forza, scaldati,” disse il coach, alzandosi di nuovo, “Tra due minuti entri al posto di LaFayette. Se mi dice un’altra volta che non è vero che fuma lo riempio di mazzate, guardalo, sta sputando un polmone.” Rukawa si alzò e si tolse la felpa; il movimento parve cogliere l’interesse dei giocatori in campo.

LaFayette si indicò, negli occhi uno sguardo esausto e speranzoso, e Sawakita fece un piccolo sorriso interessato. Miyagi, invece, annuì con aria fiduciosa, proprio come ai bei vecchi tempi dello Shohoku.

Mancava solo Hanamichi.

 

*****

 

Hanamichi si sentiva a suo agio con quelle due.

Ayako aveva preparato degli onigiri da sballo, e si era pure ricordata che il suo ripieno preferito era tonno e maionese, mentre Kumiko aveva portato le rimanenze della sera prima del ristorante in cui lavorava; per quanto ad Hanamichi facesse un po’ senso mangiare roba che era stata cucinata anche dal Capo Scimmione Uozumi, si era dovuto ricredere: era tutto gustosissimo.

Per uno che non sentiva il sapore del cibo da settimane, si disse un po’ mesto, era un gran progresso. Forse ce l’avrebbe fatta anche stavolta, rifletté, ma nemmeno lui riusciva a sentirsene convinto. La realtà dei fatti era che non si sarebbe sentito davvero bene fin quando non avrebbe avuto Kaede di nuovo tra le braccia; e ciò era quanto di più vicino ad un mai più che gli riuscisse di considerare.

“Forse è ancora troppo fresca,” disse, e non si accorse di aver parlato ad alta voce fin quando Ayako e Kumiko non gli rivolsero un corale “Huh?”

“Pensavo, che adesso sto bene, ma più tardi non lo so.”

“Ti manca Kaede,” disse Ayako, e non era una domanda. Hanamichi annuì e Kumiko gli mise in mano un dorayaki alla Nutella.

“Mangia,” disse, “E per adesso cerca di sentirti meglio che puoi.” Hanamichi le sorrise e diede un morso al dolcetto.

“Come mai vi sentite?” chiese Ayako, rivolta a Kumiko, “Non sapevo che vi conosceste.”

“Il Panda ha fatto mesi a portarselo dietro anche ai pranzi dalla nonna,” spiegò Kumiko, “Poi, dopo che è partito, ho telefonato ad Hanamichi per avere sue notizie, perché figurati se quell’idiota mi chiama a dirmi come sta, e lì Hanachan mi ha detto tutto.”

“Tu che ne pensi?” Kumiko fece spallucce: “Non saprei. Sul subito non ci volevo credere, pensavo che Hanachan mi stesse prendendo per il culo.” Ayako annuì.

Quello rafforzava la sua teoria che ci fosse qualcosa che proprio non andava.

Hanamichi, fingendosi disinteressato, e piacevolmente sazio per l’abbondante mangiata, si distese sulla schiena e chiuse gli occhi; pochi minuti dopo russava.

“Non mi torna, Ayako,” disse Kumiko, interrompendo un discorso frivolo sulla vegetazione del parco, “Non mi torna per niente.”

“Cosa pensi che sia successo?”

“Penso che Kacchan sia andato nel panico,” rispose Kumiko, a voce molto bassa, “Credo abbia pensato che… oh, non lo so. Che l’America era già una sfida abbastanza grossa senza aggiungerci il peso di una relazione a distanza. Lo conosci, sai che lui di suo si fa vivo solo se proprio non può evitarlo.”

“Hanamichi ci avrebbe pensato per tutti e due,” ribatté Ayako.

“Sono d’accordo. Ma credo che Kacchan abbia trovato una contro argomentazione negativa a qualunque obiezione positiva.”

“È davvero così spaventato?” chiese Ayako, abbassando ulteriormente la voce. Kumiko annuì: “E se tu potessi dirlo a Miyagi san mi faresti davvero un favore. Kacchan… lui non è come tutti. Lui ha bisogno… ha bisogno di affetto. E mi spezza che sia lontano e da solo.”

“Ryochan sicuramente capirà,” disse Ayako, mettendole una mano sul polso, “Glielo dirò e lui farà del suo meglio per aiutarlo, stanne certa. È una promessa.” Kumiko sorrise.

 

*****

 

La partita finì con una vittoria abbastanza brutale dei Cougars. Rukawa era stato in campo dieci minuti, e si sentiva al top: dei quarantun punti che erano riusciti a mettere a segno, diciassette erano suoi. I compagni di squadra l’avevano riconosciuto immediatamente come la punta di diamante che era e non avevano esitato a passargli la palla, mentre Miyagi aveva cercato di coprire il fatto che tutti stavano puntando su di lui evitandolo.

Sawakita era stato un problema solo per i primi cinque minuti: ripreso il ritmo, e riportate alla mente tutte le loro precedenti interazioni, Rukawa era riuscito a dribblarlo con successo, rendendo il proprio gioco imprevedibile. A volte passava, a volte si smarcava e scendeva a canestro da solo: non si preoccupava dei passaggi, tanto aveva capito che la palla sarebbe tornata da lui, alla fine.

I ragazzi parlavano di organizzare una festicciola di consolazione, e Jones si occupò personalmente di invitare anche Rukawa; per quanto non fosse il tipo da feste, Rukawa accettò: dopotutto, era stato in campo, era l’eroe anche se quella particolare avventura si era conclusa con un insuccesso. Riteneva, a torto o a ragione, di essere il motivo per cui i Thorne non si erano dovuti ritirare a metà gioco per manifesta incapacità.

Persino il coach aveva fatto i complimenti a tutti per il buon gioco che erano riusciti a mantenere, nonostante la schiacciante superiorità dei Cougars, e aveva promesso loro allenamenti spaccaossa in vista del prossimo incontro, che non sarebbe stata un’amichevole, ma una vera e propria partita di campionato.

Rukawa sentì le prime stilettate di panico coglierlo sotto la doccia, mentre i compagni di squadra cantavano tutti insieme Cotton Eye Joe; non riuscì nemmeno a ridere quando Rosenbaum sfoderò un falsetto da Britney Spears per la strofa con voce femminile.

Se quella era un’amichevole, giocata come un’amichevole, come sarebbe stato in campionato? I suoi ricordi tornarono al primo anno di liceo, all’amichevole contro il Ryonan e alla successiva partita di campionato. Era stato come affrontare due squadre diverse, e grazie al cielo lo Shohoku era effettivamente una squadra diversa, altrimenti avrebbero perso malamente e il campionato nazionale l’avrebbero guardato da casa, col culo che bruciava. E la prima volta, all’amichevole, avevano perso di strettissima misura, non di venti punti.

 

Uscì per ultimo dallo spogliatoio; Miyagi gli aveva detto che l’avrebbe preceduto a casa per fare un colpo di telefono ad Ayako. Il coach era ancora seduto a bordo campo, e prendeva appunti sul suo blocco; Rukawa sentì una potente ondata di nostalgia per i tempi in cui era ancora allo Shohoku, vicecapitano della squadra di basket, e uscendo dallo spogliatoio trovava Anzai e Miyagi che discutevano, mentre Ayako prendeva appunti per gli allenamenti del giorno dopo.

Gli parve ora che quelle giornate fossero luminose, tranquille pur nell’esuberante routine dello Shohoku, notoriamente la squadra più casinista della prefettura. Gli sembrava di sentire l’odore dei ciliegi in fiore fuori da scuola, quel profumo caratteristico delle belle giornate di primavera, quando il sole comincia a prolungare il proprio addio serale e l’aria resta calda e fragrante sempre più a lungo, in maniera quasi percepibile da un giorno all’altro.

Gli sembrò di aver barattato la promessa della propria felicità per un sogno che si stava dimostrando troppo grande per lui.

“Coach,” chiamò.

“Ah, Rukawa, proprio te cercavo,” rispose lui, terminò di scrivere un appunto e rimise il cappuccio alla penna: “Come pensi di aver giocato?” Rukawa cercò le parole e un’accurata traduzione prima di rispondere.

“Per il livello del gioco, bene. Ma come ha detto lei, questa era solo un’amichevole.” il coach si girò di sbieco sulla sedia e gli fece cenno di sedersi sulla panchina.

“Mi ricordo… in prima liceo. Abbiamo fatto un’amichevole contro un’altra squadra. È andata abbastanza bene, abbiamo perso per un paio di punti. Poi li abbiamo incontrati di nuovo in campionato e…” Rukawa si morse un labbro, poi ammise: “Non sembravano nemmeno la stessa squadra. Abbiamo vinto solo perché avevamo in squadra un talento che è migliorato esponenzialmente e…” Rukawa dovette deglutire alla sola menzione di Hanamichi, “E Miyagi, e un altro giocatore di altissimo livello.”

“Hai capito, ora, quanto dovrai migliorare?” chiese il coach. Rukawa annuì: “Lavorerò sodo, coach, glielo prometto.”

“Molto bene,” fu la risposta, “Ora vai, i tuoi compagni ti aspettano a quella festa di cui non sono assolutamente al corrente.”

“Sì, coach.”

“E, Rukawa?”

“Nh?”

“Ti sfiancherò fino a farti rimpiangere di essere nato,” disse il coach, “Ma, Dio mi è testimone, farò di te un giocatore da NBA.” Rukawa sorrise, si inchinò e poi corse via, felice.

 

*****

 

Quando rientrò a casa, Miyagi stava mettendo giù il telefono.

“MERDA, è tardissimo!” gli urlò in faccia.

“Ma se hai appena messo giù il telefono,” disse Rukawa.

“Sì, ma ecco, Ayako aveva un sacco di cose da raccontarmi, e io pure, ah tra l’altro sei stato bravo oggi, ma dove diavolo ho messo le scarpe, mettiti un paio di jeans e un maglione che qui non ti vogliono vedere in divisa anche quando siamo a cazzeggio, comunque una cosa tira l’altra, e poi lei mi manca davvero da morire, non immagini quanto, e non vedo l’ora che sia Natale che torno a trovarla, e… oh, aspetta.” Miyagi sporse la testa fuori dalla porta: stavano in un ex hotel riadattato a dormitorio, e molti altri ragazzi della squadra abitavano lì.

“LAFA CE L’ABBIAMO QUALCUNO CHE PORTA LE BIRRE?”

Dal corridoio venne la voce di LaFayette: “No, stasera solo Fanta e acqua naturale, e da mangiare hummus vegano, ma per chi mi prendi, muso giallo?”

“Volevo solo essere sicuro, sai che non sopporto il tuo culo del Maine da sobrio!” Miyagi rientrò nell’appartamento, “Scusa, dicevamo?”

“Dicevamo che io sono pronto, tu?”

“Pronto anch’io, possiamo andare.” Rukawa si sentì improvvisamente in trappola. L’ultima cosa al mondo che voleva fare era andare a una cazzo di festa, si sentiva vecchio nelle ossa e aveva la curiosa, agghiacciante impressione che quella giornata fosse troppo bella per essere vera. Voleva tornare a casa, ma la strada per poterlo fare era lunga e tortuosa.

Gli mancavano le strade di merda di Kamakura, gli mancava correre in riva al mare tra i relitti e le carcasse di pesci arenati, gli mancava quel catorcio coi freni lisi che osava chiamare bicicletta, gli mancava quella spostata di sua cugina e gli mancava Hanamichi.

Voleva pronunciare il suo nome, ripeterlo a se stesso come un mantra finché lui non si fosse materializzato in quella stanza in cui tecnicamente lui non poteva stare, voleva sentire di nuovo i suoi baci sulla pelle, e le sue dita che gli solleticavano il palmo della mano, un giochetto così sciocco eppure così bello quando era lui a farlo.

Mentre Miyagi già si stava girando per uscire, Rukawa lo prese per un braccio e disse: “Ehi.”

“Sì?” chiese Miyagi. Rukawa esitò. Non aveva pronunciato il suo nome per due settimane, ma sperava che dirlo ad alta voce l’avrebbe fatto sentire meglio.

“Hai notizie di Hanamichi?” chiese. Gli parve di essersi appena buttato da un elicottero, con lo zaino della merenda al posto del paracadute.

Miyagi aprì la bocca, stupito, poi il suo sguardo si addolcì e disse: “Ayako è stata a una sua partita, ieri, ha detto che è una bestia, in senso buono. Poi hanno fatto un picnic con anche… non mi ricordo il nome, comunque tua cugina.”

“Kumiko. È una tua fan,” disse Rukawa, molto a sproposito.

“Beh, le manderò l’autografo,” rispose Miyagi, “Comunque…” esitò, “Hanamichi sta soffrendo molto la tua mancanza.” disse.

“E io la sua,” rispose Rukawa, in un barlume di sincerità che si affrettò a dissimulare.

“E allora perché, Rukawa? Perché l’hai lasciato?” Rukawa non rispose, e fu salvato dall’entrata trionfale di LaFayette, che non solo non aveva il minimo senso della privacy, non solo aveva una cassa di birra davanti ai piedi, ma stringeva anche una bottiglia di gin in una mano e una di vodka, insieme a una sigaretta ancora spenta, nell’altra.

Si atteggiò a ragazzina indifesa: “Non è che qui c’è qualche bel maschione che mi aiuta a portare queste cose tanto pesanti?” chiese, sbattendo le ciglia. Uno spettacolo atroce.

“Ci pensiamo noi,” disse Miyagi, e insieme a Rukawa trasportò la cassa di birra, mentre LaFayette li precedeva fumando una sigaretta.

Anche Hanamichi a volte fumava, rifletté Rukawa, e il sapore di sigaretta sulla sua lingua non mancava mai di farlo eccitare, per motivi non meglio precisati.

“Miyagi,” chiamò a bassa voce.

“Sì?”

“Non ancora.”

 

*****

 

Hanamichi si coricò, esausto.

Era stata una giornata bella ma stancante, tra la partita e il pomeriggio che chissà come si era trasformato in una sessione di shopping.

La sua mente, traditrice, andò alle prime partite che aveva giocato all’università, quando ancora Rukawa era in Giappone e i suoi unici impegni erano allenarsi e imparare meglio l’inglese nella speranza che qualche università rispondesse alle sue lettere.

Era stato un periodo di sospensione, con Hanamichi che da un lato sperava davvero che il sogno di Kaede si realizzasse, e che dall’altro non poteva che sperare che lui restasse, che ricevesse solo rifiuti e si iscrivesse anche lui ad un’università locale, possibilmente la stessa sua, e decidesse che loro due bastavano a fare una bella vita.

Eppure, era stato anche un periodo deliziosamente intenso, con loro due che passavano insieme ogni momento libero, quasi stessero inconsciamente cercando di mettere da parte il maggior numero di cose belle possibili, da conservare per un giorno di pioggia.

Hanamichi sapeva che una relazione a distanza non era facile da mantenere, era rimasto in contatto con Miyagi e sapeva quanto stesse soffrendo per la lontananza da Ayako, ma sapeva anche che era possibile. E non era nemmeno definitiva, si sarebbero visti durante le vacanze estive e per Natale, Rukawa sarebbe potuto tornare ad ogni interruzione delle lezioni e poi avrebbero deciso per il futuro: se a Rukawa non fosse andata bene, sarebbe potuto tornare a casa e farsi una vita in Giappone, mentre se fosse arrivato in NBA avrebbe potuto mandare ad Hanamichi un biglietto di sola andata e lui sarebbe partito.

E invece, di punto in bianco Rukawa era andato da lui, avevano fatto l’amore e poi lui aveva detto: “Questa è l’ultima volta. Dopodomani parto per il North Dakota.”

Ripensandoci, memore anche del lunghissimo elenco di Motivi Per Cui Il Panda è Stronzo che gli aveva sciorinato Kumiko dopo aver saputo, Hanamichi si rendeva conto che quel comportamento, qualsiasi giustificazione avesse, non era ammissibile.

Una voce nella testa cercò di dirgli che quel suo ragionamento altro non era che una tecnica di autodifesa, perché la realtà dei fatti era che Kaede era andato in America e l’aveva piantato, e lui doveva scendere a patti con la situazione, ma lui la ignorò: se anche fosse stato così, in quel momento non poteva far altro. Non se aveva ancora rispetto per se stesso, e ne aveva.

Doveva superare la rottura con Kaede, e se anche non avesse mai più voluto un partner nella vita, che male c’era? Aveva gli amici, aveva il basket, non aveva bisogno di essere innamorato. Non era come alle medie, quando non aveva un cazzo nella vita e si guardava intorno fino a trovare un’altra su cui riversare i propri sentimenti in eccesso, ora era quasi un adulto e come tale poteva comportarsi.

Sì, ma mi manca.

Il pensiero gli attraversò la mente, e lui lo zittì con astio. Non ne aveva bisogno, non adesso che era solo, non adesso che calava la notte e il silenzio faceva domande a cui non sapeva rispondere. Non adesso. Non ancora.

 

*****

 

Mentre Hanamichi si addormentava, Rukawa si stava risvegliando da un sonno che gli era parso innaturalmente lungo.

“Ugh,” commentò, alzando la testa dal cuscino. Si sentiva rincoglionito all’ennesima potenza, come se avesse dormito dodici ore di fila, ma si sentiva anche riposato.

Si alzò e aprì gli occhi: strano. La luce del sole sembrava arrivare dal lato sbagliato.

Dopo una breve sortita in bagno, durante la quale orinò per quella che gli parve un’ora, tornò in salotto e intravide Miyagi, in piedi in cucina.

“Buongiorno,” disse. Miyagi rispose con uno sbadiglio da ippopotamo, poi disse: “Uova.”

“Nh?”

“Uova, volevo fare delle uova. Vuoi delle uova?”

“Faccio io,” disse Rukawa, e Miyagi gli lasciò volentieri il posto. Sembrava in grado di mettere in fila le parole, ma non molto di più.

“Che ore sono?” chiese Rukawa, aprendo il frigorifero..

“Ahnnn… le tre del pomeriggio.” Rukawa si voltò di scatto, con due uova in mano: “Cosa?”

“Benvenuto nel mondo dei bimbi grandi, Rukawa,” disse Miyagi, “Alla sera leoni, al mattino coglioni.”

“Non mi ricordo granché,” ammise Rukawa, rompendo le uova con maestria contro il bordo dei fornelli.

“No, manco io, ma LaFa ci ha sicuramente portati a casa interi,” disse Miyagi.

“Questo lo vedo.”

“Allora, com’è stata la tua prima sbronza? Come ti senti?” Rukawa scosse la padella per dare uniformità all’omelette, poi tornò al frigorifero per recuperare del formaggio.

“Bene. Sto bene,” disse, poi si lasciò sfuggire un sorrisetto.





Bella raga, come la va?
Come potete notare è tornata una vecchia amica, uhhh e pensare che una volta era un self insert, ormai mi somiglia solo per la quantità di parolacce che riesce a dire in un discorso normale. Ed è persino diventata più alta di me, 'sta stronza.
Comunque, due capitoli e due citazioni del mio amato Max, chi le ha colte?
Una ficcina bonus a chi le becca!
Come sempre, grazie per il vostro supporto e battete un colpo se avete gradito!
XOXO

 

   
 
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