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Autore: Flying_lotus95    27/04/2024    0 recensioni
[Capitoli dal 1° al 9° revisionati]
Giappone, inizio anni'60. Un gruppo di sei ragazzi affronta le proprie vicende quotidiane, combattendo con un passato che non vuole lasciarli liberi. Mario Minakami è intenzionato a scoprire chi si cela dietro l'omicidio di Rokurota Sakuragi, l'uomo che sei anni prima aveva preso lui e i suoi amici sotto la sua ala e li aveva reintrodotti nella società, affrontando non poche difficoltà; Joe Yokosuka, meticcio, è alle prese con un passato ingombrante, una sorella da salvare, e un amore da proteggere; Tadayoshi Tooyama è un soldato delle Forze Armate del Giappone, sposato con la dolce Mina. Tra sensi di colpa e paure, dovrà affrontare i suoi demoni una volta per tutte...
Assieme ai loro ex compagni di cella, Ryuji Noomoto, Noboru Maeda e Mansaku Matsuuda, i tre si ritroveranno faccia a faccia ad affrontare un pericolo comune, che minaccerà il loro futuro, la loro "terra promessa".
[Leggera presenza OOC]
Genere: Azione, Drammatico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Lemon, Otherverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 11




 
  • Maggio, Kanazawa, prefettura di Ishikawa, anno 21 dell'epoca Showa (1946)

“E maje, nun m"o dicerе maje
Ca m'hê vuluto bene, ca nun m'hê scurdato maje”



 
Per Rokurota quelli appena trascorsi erano stati i giorni più intensi della sua vita.
Aveva ricevuto il richiamo alle armi, un modo come un altro per non risultare un prigioniero di guerra a piede libero, e sebbene sua madre Hayami si fosse dimostrata profondamente contraria, il ragazzo si era presentato ugualmente in caserma per dare le sue generalità e ripromettere - stavolta però non verso la propria terra - fedeltà e devozione alla Nazione vincitrice, ossia agli Americani.
Rokurota, sebbene riluttante, aveva accettato il suo destino di soldato fantoccio soltanto per un solo motivo misto alla speranza: voleva ritrovare Mariya ad ogni costo.
Non si era mai rassegnato all'idea che fosse potuta morire al fronte o su di una barella anonima di un campo base.
Mariya era viva, da qualche parte, e quella divisa gli avrebbe permesso di svolgere le sue indagini indisturbato, senza incappare in grosse rogne.
O almeno, questo era ciò che il suo ottimismo gli lasciava pensare.
Era immerso nella vasca da bagno da così tante ore che persino i polpastrelli gli si erano raggrinziti, eppure Rokurota non accennava ad alzarsi e a fuoriuscire dall'acqua che era diventata sempre più fredda.
Tra l'altro, l'idea di scivolare sul bagnato, a causa del ginocchio, gli impediva maggiormente di agire, restando lì fermo, avvolto nella condensa scaturita dall'umidità.
Con la testa appoggiata al bordo della vasca, i capelli bagnati che gli azzeccavano la fronte, si lasciò scorrere davanti agli occhi tutti i ricordi che gli ballavano in testa da giorni.
Il primo incontro con Mariya a scuola, dieci anni prima, i loro giri in bici, il primo bacio sotto al ciliegio, il secondo dato nella libreria di casa Sakuragi, e poi il nulla, il vuoto. 
Mariya era svanita nel nulla, e a nulla erano valse le ricerche che Rokurota aveva svolto, arrivando persino a chiedere a Yuzuki spiegazioni, che, ovviamente, non arrivarono.
Poi la richiesta di partire per il fronte, contro il volere di sua madre, la voglia di lasciare quel posto che gli ricordava tutto della ragazzina di cui si era follemente innamorato.
La guerra poi era stato un cambio di scenario senza precedenti.
La violenza, la fame, la sporcizia, la disumanità, tutto in nome di un ideale di sopraffazione e potenza. Prima di allora, Rokurota non aveva mai imbracciato un fucile, non aveva mai dovuto sparare contro un suo simile.
Poi il ritrovarsi inaspettatamente con Mariya aveva totalmente stravolto le cose.
Rokurota non aveva più avuto voglia di morire in quella guerra suicida, voleva combattere per vivere assieme alla donna che amava.
Poi quell'ultima spedizione e la prigionia dei Russi.
Ed infine, il ritorno a casa, e di Mariya non vi era stata più alcuna traccia, di nuovo…
Senza accorgersene, Rokurota strinse forte le dita sul marmo bianco della vasca: se avesse avuto le unghie più lunghe, lo avrebbe certamente graffiato, quel bianco immacolato.
Voleva ferirlo e sporcarlo più di quanto non lo fosse già lui di suo.
La porta scorrevole del bagno si aprì nel mentre, rivelando la presenza di Setsuko dall'altro lato.
Rokurota voltò il viso verso di lei, stanco. Quegli occhi dalle diramazioni grigiastre erano così spente che, nel vederle, Setsuko faticò a trattenere un sospiro.
Afferrò un asciugamano con cura e si avvicinò alla vasca.
«Sarebbe ora di uscire, no?» fece, aprendolo per accoglierlo.
Rokurota, con qualche sforzo, si sollevò dall'acqua, non si premurò neanche di coprirsi tra le gambe. Setsuko arrossì all'istante nel vedere così esposta la sua nudità.
Rokurota abbassò lo sguardo lì, sollevando l'angolo destro della bocca in un sorriso muto.
«Non sapevo ti facessero arrossire i rubinetti guasti» disse, sollevando prima la gamba col ginocchio malandato e poi l'altra. L'allusione ai suoi fallimentari tentativi di approccio nei bordelli fu piuttosto sottile. 
Setsuko gli coprì le parti basse con l'asciugamano con una certa fretta.
«Non essere ridicolo!» borbottò lei, afferrandone un altro dal servo muto. Glielo passò sulle braccia, sulle mani, sul petto, sull'addome, sulla schiena…
Non vi era un lembo di pelle immacolato: graffi e cicatrici erano ovunque, lungo tutto il corpo. Era cambiato così tanto nel giro di pochi anni…
Del ragazzino che aveva salutato poco prima della partenza al fronte sembrava non esserci rimasta neanche la più piccola traccia.
Setsuko tastava per assorbire meglio le gocce d'acqua e i residui di sapone, combattendo contro la voglia di poggiarvi le labbra sopra, zittendo ogni pensiero torbido.
Da quando Rokurota era tornato, Setsuko percepiva il proprio corpo come una pila elettrica, scariche elettriche le percorrevano la pelle e gli organi interni come travolti da un vortice.
Si staccò da lui per prendere aria. Sarebbe impazzita se gli fosse stata ancora così vicina.
Prese la stampella e gliela porse, con entrambe le mani, ma Rokurota la rifiutò.
«Non mi servirà ancora per molto» dichiarò, uscendo dal bagno e cercando di nascondere la zoppia il più possibile.
Setsuko si limitò a guardarlo uscire, apprensiva, ma rassegnata.
Rokurota non avrebbe mai ammesso a cuor leggero di essere in difficoltà e di aver bisogno di aiuto. Non dopo aver preso la decisione di continuare ad essere un soldato, anche se era tutta una stupida farsa.
Arrivato in camera da letto, Rokurota afferrò gli indumenti intimi alla cieca, riposti precedentemente da Setsuko sul materasso, e se li infilò con aria scocciata e occhi assonnati.
Mentre stava per stendersi, Setsuko lo raggiunse, dandogli una mano.
«Sono a posto così, tranquilla» cercò di liquidarla, cercando però di non apparire scortese. Non sopportava più di essere trattato come un perfetto inetto, come se la sua convalescenza non dovesse più finire. Gradiva poco tutte quelle attenzioni asfissianti da parte di sua madre e della servitù. Sorbirsele anche da parte di Setsuko o dai suoi amici era decisamente troppo.
«Ti ricordo che sono un'infermiera, assistere te è nulla in confronto a ciò che ho visto in questi anni» ribadì l'altra, neanche l'avesse letto nel pensiero.
Rokurota roteò impercettibilmente i bulbi oculari.
«Ma adesso non siamo in guerra… e non sono un moribondo» sottolineò secco Rokurota, mettendosi a sedere, lamentando un lieve dolore alla schiena.
Setsuko sollevò un sopracciglio, poco convinta.
«Non sarai un moribondo, ma un leggero rottame forse sì» dichiarò, e con un panno bianco, prese a sfregargli i capelli bagnati con energia, ignorando volutamente le proteste dell'amico di sempre.
«Sei rimasto troppo tempo a mollo in vasca… adesso ti verranno i reumatismi» bofonchiò, frizionando rapida i suoi capelli, incurante del fatto che glieli avrebbe potuti tirare se non fosse stata più accorta.
«Fai sempre il contrario di ciò che ti viene detto, Rokurota! Anche Tenko-san ti ha detto di riposare… tu invece la notte vuoi andare girando» ormai Setsuko si lamentava a ruota libera, e Rokurota glielo lasciò fare, stanco di ribattere.
Si lasciò frizionare i capelli ancora per qualche minuto, poi la tortura finì, e poté tornare a poggiare la schiena sul cuscino, stendendo a fatica il ginocchio dolorante.
«Domani ti taglio questi capelli» continuò Setsuko, passandogli le dita a mo’ di pettine tra di essi «così sembri un barbone. E un soldato deve mantenere una certa immagine».
Rokurota scostò con eleganza il capo dalle dita della ragazza, deglutendo accigliato.
«Figurati quanto importa a quella banda di usurpatori quanto lunghi porto i capelli» decretò, schizzinoso. 
«Ci considerano i loro segugi, mentre entrano nei letti delle nostre donne e si lasciano vezzeggiare con qualsiasi stronzata vengano incantati».
Setsuko lo fissò duramente.
«Non possiamo cambiare di molto le cose, Rokurota. Noi la guerra l'abbiamo persa».
Ma a Rokurota, della vittoria o della sconfitta del Giappone, interessava meno di zero.
Il giorno in cui aveva sentito, all'ospedale da campo, attraverso una radio rudimentale e malmessa, la dichiarazione di resa dell'imperatore Hirohito, il suo animo era rimasto calmo, fermo in sé stesso.
Odiava con tutte le forze quell'uomo che aveva spinto la sua Nazione a compiere scelte scellerate e suicide, che aveva lasciato che donne innocenti e ignare venissero ripetutamente violentate dal suo stesso esercito, che giovani uomini venissero strappati alla loro quotidianità, mentre lui se ne stava comodamente seduto nella sua residenza imperiale, a blaterare frasi sull'importanza della resistenza e della grandezza del suo popolo.
Confinato in quell'isola del Pacifico, Rokurota si era sentito abbandonato, senza una vera guida che potesse orientarlo.
L'amore per Mariya aveva fatto sì che non avesse perso quel briciolo di umanità nei confronti del prossimo, in qualche modo assurdo si era sentito protetto.
Dormire a pochi centimetri di distanza dal corpo martoriato della donna che amava lo aveva fatto sentire completo, soddisfatto, al sicuro.
Era stato come vivere in un'oasi circondata dalla morte e dalla devastazione.
Perdere di nuovo Mariya era stato un colpo troppo grande, che Rokurota aveva cercato di colmare anche occupando i futon delle prostitute di Itogawa, senza però alcun successo.
Un movimento delicato sulla tempia lo distrasse dai suoi ricordi.
Le dita di Setsuko presero ad allontanargli le ciocche sottili dalla fronte, carezzandogli dietro l'orecchio con la scusa di accomodargliele.
Una pressione morbida poco vicino alla base della palpebra fece irrigidire Rokurota, socchiudendo le palpebre.
Il dolce bacio che Setsuko gli aveva dato scivolò lentamente sullo zigomo, per poi finire sulla guancia fresca di rasatura e dopobarba, e lentamente poggiarsi sul collo, all'altezza del pomo d'Adamo.
Rokurota assecondò quel vezzo, mentre il petto inspirava aria con più rapidità. 
Non appena le labbra di Setsuko raggiunsero la clavicola, fu allora che Rokurota si decise a scostarla, con gentilezza.
«Non posso, Setsuko» dichiarò in un soffio, le pupille due pozzanghere languide e tristi «non posso fare questo a Mariya».
Come scottata, Setsuko raddrizzò la schiena, alzando il capo con risentimento. Lo aveva sempre saputo che non avrebbe mai avuto una chance con lui, ma in quelle settimane aveva cominciato a sperare che Rokurota fosse riuscito a dimenticare quell'amore giovanile, che fosse andato oltre, magari insieme a lei. 
«Così hai intenzione di rimanere solo per tutta la vita? Ad inseguire un fantasma?» lo rimproverò Setsuko, sebbene rimase composta e dura, lì sul posto.
Rokurota assottigliò lo sguardo, risentito da quelle parole.
«Finché non ne avrò la certezza assoluta, apparterrò a Mariya in corpo e spirito. E se dovessi scoprire che…» non riuscì neanche a dirlo, ma Setsuko seguì il suo sguardo puntato verso il secondo cassetto del mobiletto, dove teneva conservate le capsule di cianuro. Rabbrividì al solo pensiero che Rokurota potesse spingersi a tanto, e assieme al ribrezzo si unì anche la rabbia e l'impotenza. 
La rabbia di non poter essere così importante da fargli cambiare idea e l'impotenza di non poter far nulla per cambiare lo stato delle cose.
«Spero che quando capirai che non ne sarà valsa la pena aspettarla, non sia troppo tardi per te, Rokurota» tagliò corto la donna, allontanandosi dal suo letto. 
Non chiuse la porta con forza, eppure Rokurota sussultò, chiudendo gli occhi con eccessiva stanchezza, sia fisica che morale.
Avrebbe voluto dirle che teneva davvero tanto alla sua amicizia, che la rispettava a tal punto da non volerla usare come un ripiego, ma avvertì che sarebbero state solo parole inutili in quel momento.
Si preparò all'ennesima notte insonne, fissando vacuo oltre la finestra, dove la luna in cielo brillava languida e leggiadra, mesta quanto lui.
Senza volerlo, si portò una mano all'altezza del cuore, auscultandoselo. 
«Ti prego, almeno stanotte, dammi pietà» mormorò al suo cuore, affranto.
Provò a socchiudere le palpebre, e sperò che Mariya potesse venirlo a trovare in sogno, semmai fosse riuscito ad addormentarsi.

 
 
“T'aggio vuluto bbene e me n'hê vuluto tu”
 
 
 
Intanto sotto lo stesso cielo, sotto la stessa luna placida e mesta, qualcuno al campo base americano aveva preso la decisione più faticosa e sofferta della sua vita.
Mariya si era truccata in modo impeccabile, ravvivato i capelli, indossato il vestito regalatole da Sanders, messo su due gocce di profumo di rosa canina. Non amava particolarmente quell'aroma, ma anche quello era stato un regalo del colonnello.
Non era una cosa nuova per lei: compiacere un uomo per il proprio tornaconto personale aveva appreso a farlo col tempo, e non sempre era riuscita ad essere convincente.
Ma in quel caso ne andava della sopravvivenza dei suoi cari e del suo amato figlio. Se il destino l'aveva condotta fino a lì, avrebbe dovuto almeno sfruttare la situazione a suo vantaggio. 
Con la morte nel cuore e lo stomaco che le ribolliva dal disgusto, bussò alla porta di Sanders, non aspettando realmente il suo permesso per entrare. 
Varcò la porta con grazia, con passo sicuro, che non tradiva alcuna incertezza.
Andrew la fissò come se davanti agli occhi gli fosse apparsa un'immagine divina.
Si alzò dalla scrivania, raddrizzando la schiena.
«Hai bisogno di qualcosa, Mariya?» chiese, mentre l'altra si sedette sull'altro lato della scrivania, accavallando lentamente le gambe con aria confidente e sfacciata.
Lo trafisse con quegli occhi meravigliosi, che col trucco risaltarono maggiormente il suo perfetto taglio orientale.
«Non mi offri da bere stasera?» chiese Mariya, abbozzando un sorrisetto malizioso.
In faccia, una maschera perfetta di cinismo e seduzione.
Dopo una leggera esitazione, Sanders raggiunse il mobiletto dei liquori, prendendo del whisky e due bicchieri di vetro in perfetto stato.
Ne versò metà bicchiere ciascuno, per poi porglierlo con un leggero inchino del capo.
Mariya prese il bicchiere e lo sorseggiò, mantenendo il contatto visivo diretto con lui, seduttiva.
«Questa sì che è una sorpresa!» esclamò esterrefatto il marine, sorseggiando anche lui il suo drink «Ero già pronto a mettermi l'anima in pace…» dichiarò, per poi poggiare il bicchiere accanto a Mariya, avvicinandosi volutamente al suo bel viso, reggendosi sulle nocche della mano.
La carezza della giapponese non tardò ad arrivare, mentre i loro volti si facevano sempre più vicini.
Quello era il momento perfetto per sganciare la sua bomba.
«Voglio stringere un patto con te, Andrew».
Mariya soffiò quella frase al suo orecchio, dando l'illusione all'altro di ricevere un bacio sull'orecchio.
«Mi concederò a te, sarò la tua donna se vorrai».
Indietreggiò col busto, le mani si chiusero a pugno sulla scrivania.
«Ma in cambio, alla mia famiglia non dovrà mancare nulla. A mio figlio non dovrà mancare nulla».
Mariya non lo chiamò volutamente per nome, altrimenti non avrebbe retto e quella pantomima sarebbe uscita allo scoperto, e Sanders avrebbe provato pena e disgusto per lei, a tal punto da mandare tutto a monte.
Mariya non poteva permettersi errori, non se era in ballo la sorte della sua creatura.
Sanders, da parte sua, poggiò una mano sul ginocchio della ragazza, per poi lasciarla scivolare lungo la coscia, con aria rapita.
Era da mesi che aveva desiderato che giungesse quel momento, in ogni geisha di Itogawa aveva rivisto il suo volto, le sue mani che gli percorrevano il petto, il calore che non riusciva più a tenere a bada.
Quando arrivò a stringerle una natica da sotto il vestito, Mariya camuffò perfettamente l'imbarazzo con la malizia, azzerando ogni pensiero.
Si obbligò a non chiudere gli occhi, se lo avesse fatto, quella mano sarebbe diventata magicamente di Rokurota e la fantasia le avrebbe disinibito l'animo, rendendola vulnerabile.
«Non è un sogno, vero?» chiese per sicurezza Sanders, con sguardo velato, ma attento.
Mariya continuò a mascherare il suo disagio dietro un sorrisetto provocatorio.
«No, non lo è» la voce sempre più ridotta ad un filo, sebbene stesse provando a sorridere.
Divaricò leggermente le gambe, per permettere al colonnello di avvicinarsi maggiormente.
I loro volti ormai così vicini che Mariya poteva sentire l'alito di whisky carezzarle il naso.
«Allora, ci stai alle mie condizioni?» ribadì Mariya, prima che il colonnello si lasciasse trasportare dai fumi della passione, perdendo il lume della ragione.
Sanders le afferrò il mento, senza farle troppo male, e lo sollevò all'altezza del suo sguardo.
Quell'espressione contenuta ma famelica per un attimo la atterrì, riportandole alla mente ricordi spiacevoli.
«Anything for you, my sweet lily».
Dopodiché le baciò il collo, inizialmente con dolcezza, per poi diventare sempre più istintivo, passionale.
Mariya si mostrò accomodante, stendendosi sul ripiano della scrivania, aggrappata al bordo della stessa con una mano, mentre con l'altra si aggrappava alla nuca dell’altro, sospirando dal naso.
Da lì in poi, si concesse il lusso di chiudere gli occhi, e di lasciar andare la fantasia.
Chiedendo mille volte perdono a Rokurota per quella scelta sofferta e deplorevole, ovunque egli si trovasse in quel momento. Sempre se fosse stato ancora vivo.

 

 
“Tanto 'o ssaje che mo che staje luntana
E nun te siente cchiù ll'anema"


 
Rokurota si svegliò nel cuore della notte, sudato e con il fiatone.
Non ricordava di aver sognato, ma il cuore in petto gli palpitava freneticamente, e l'agitazione gli aveva lasciato spasmi lungo tutto il corpo.
Si mise a sedere, quando, grazie al chiarore della luna, si accorse di una macchia scura sul cavallo dei calzoni. Divaricò leggermente le gambe, e percepì qualcosa di umido tra le cosce.
Sbuffò impercettibilmente, pensando di essersi urinato addosso mentre dormiva.
Negli ultimi tempi era una cosa che gli capitava spesso, Kensuke gli aveva detto che era una reazione post traumatica a quello che aveva vissuto e che col tempo sarebbe passato da solo.
Alzò l'elastico dell'indumento e infilò titubante due dita, per accertarsi della cosa. 
Gli scappò uno spasmo, un brivido gli percorse il bassoventre nello sfiorare con i polpastrelli la zona delicata.
Non ricordava di aver fatto un sogno licenzioso, non ricordava proprio niente in generale.
Una volta ritratta la mano, Rokurota avvertì le dita appiccicose, sfregandole tra loro.
Esaminò la cosa per qualche minuto, tornando a stendersi nuovamente, non smettendo di fissare quelle dita.
Se le portò poi alle labbra, e se le baciò, socchiudendo gli occhi.
Il nome di Mariya gli sfuggì tra le labbra, in un gemito.
Cosa avrebbe dato per averla lì accanto, anche solo per abbracciarla e annusarle i capelli!
Rise di sé stesso e della sua fragilità emotiva, mentre una lacrima prese a scendergli lungo il viso, mescolandosi al sudore corporeo.
Faticò a tornare a dormire, la voglia gli ruggiva nella pancia senza sosta, chiedeva di essere assecondata. Ma Rokurota preferì ignorarla, vergognandosene.
«Mariya…».
Ancora il suo nome, di nuovo un gemito strozzato, mentre si girava di lato, dando le spalle alla luna, che continuava ad assistere silenziosa quelle due anime sole, che si cercavano senza riuscire a trovarsi.



 
E ogne vota che se fa notte
Allucche cchiù forte”
(Tropico ft. Madame - Anema ‘e notte)





 
  • Aprile, Kanazawa, prefettura di Ishikawa, anno 35 dell'epoca Showa (1960)
 
Il ronzio molesto delle zanzare stava iniziando a far saltare i nervi a Tadayoshi.
Ne aveva già uccise dieci nell'arco di tre ore, o almeno ci aveva provato, dandosi schiaffi sul collo, sulla guancia e sugli avambracci scoperti.
Quella era l'unica cosa fastidiosa che si era verificata durante la mattinata, da quando avevano raggiunto quel terreno in aperta campagna, poco fuori la periferia della cittadina.
Tadayoshi era rimasto in disparte a supervisionare il lavoro dei suoi uomini, con la sua immancabile espressione truce, nascosta però da un paio di Ray-Ban scuri a goccia.
Quell'operazione di disinnesco era capitata quasi a fagiolo il giorno prima: Tadayoshi sapeva che dietro quell'onere si nascondeva lo zampino di Murata, pronto a fargliela pagare come aveva promesso.
Ma, senza farlo apposta, il capo squadra gli aveva fatto un favore: andare nei campi alla ricerca di bombe inesplose si era rivelato un ottimo modo per buttarsi sul lavoro e non dare adito ai pensieri di palesarsi.
E per le prime ore del mattino era andata esattamente così, tra una chiacchiera e un ordine impartito, il tempo era scivolato senza incontrare ostacoli.
Ma proprio mentre la mente aveva iniziato a rilassarsi, erano tornati i pensieri e con essi quel senso di vergogna che da cinque giorni a quella parte non avevano lasciato scampo al giovane capitano delle Forze Armate.
Ripensava a quanto accaduto a Toshinori, a Mina e a quella notte di confusione e passione trascorsa con lei al suo ritorno.
Da allora i rapporti tra loro si erano freddati ancor di più, complici anche i turni notturni in caserma e le missioni affidategli da Hagino riguardo ai documenti dei migranti clandestini coreani.  
A Tadayoshi quella situazione di stallo con Mina non gli piaceva affatto, eppure non riusciva a non pensare che con lei si era comportato da vero cafone senza scrupoli.
Non riusciva a guardarla senza pensare di averla forzata a stare con lui, ad averla spinta a resistere al suo stesso passo, senza pensare di poter esagerare o risultare inopportuno.
Il confronto con l'uomo che aveva convissuto con sua madre si faceva sentire sempre più forte, e l'aria gli mancava ogni volta che riviveva a memoria il giorno in cui, in preda all'ira, lo aveva riempito di pugni e calci, quasi Tadayoshi avesse voluto cancellare quell'essere dalla faccia della terra.
Si trovò addirittura a pensare che, di lì a poco, forse anche Mina gli avrebbe potuto puntare contro un'arma per difendersi, creargli un'altra cicatrice sul corpo, in viso, ovunque… un altro monito per ricordargli da dove venisse, di cosa il suo animo e il suo corpo fossero composti.
Di menzogne e violenza, nulla più.
Tadayoshi aveva rilasciato un lungo sospiro, quando, appoggiato con il fondoschiena sul cofano della jeep militare, riconobbe il suono di passi lenti e cadenzati avvicinarsi alla vettura.
Produsse un sorriso di circostanza nel riconoscere il comandante Hagino, che gli ricambiò cordiale il sorriso.
«Che cosa mi combini, Tadayoshi!» fu il buongiorno che Eichi Hagino dedicò al soldato, senza risultare risentito o diffidente.
Tadayoshi abbassò il capo, mordendosi il labbro inferiore per non ridere.
«Immagino quante belle parole abbia speso per me il capo squadra» scherzò, lo sguardo duro, nascosto dietro le lenti a goccia, che fissava il campo scavato e rivangato dai suoi stessi uomini.
«Una pioggia di elogi, dovevi sentirlo! Credo si sia divertito molto con te a Toshinori!».
Anche Hagino resse il gioco, divertito. Si appoggiò anche lui sul cofano, di fianco a Tadayoshi, ammirando anche lui l'operato dei soldati in azione, chi con metal detector per individuare gli ordigni e chi con zappe e pale pronti a rivangare il terreno.
«Non potevo muovere un passo senza che Murata non lo notasse… meriterei un'altra promozione solo per averlo sopportato!».
Davanti a qualcun altro, Tadayoshi non si sarebbe mai permesso di dire una cosa del genere, ma parlare con Hagino, in un certo senso, era come parlare con una persona di famiglia. Difatti, il comandante rise della sua battuta con estremo gusto.
«Fai bene a non dargli troppo peso… Dopotutto sei superiore a lui di grado, non ti conviene scendere al suo livello» lo rassicurò Hagino, dandogli una pacca amichevole sulla spalla. 
L'inimicizia tra Tadayoshi e Murata durava già dai tempi in cui il primo era solo un semplice cadetto. A Murata non era mai andato giù il fatto che Tadayoshi fosse sempre pronto ad aiutare i compagni e ad essere di supporto, attirandosi così l'ammirazione dei più deboli e insicuri. 
Poi lo scavalco di gradi e il matrimonio con la prima nipote di donna Miyasugi aveva semplicemente fatto il resto.
«A me basterebbe che si astenesse dal commentare certe sciocchezze… ma sarebbe come chiedere troppo, perciò…».
Un rombo di motore alle loro spalle interruppe il loro discorso, che si voltarono entrambi per vedere chi si stesse avvicinando al sentiero.
Per quell'operazione di disinnesco avevano dovuto chiudere la strada, i mezzi troppo pesanti avrebbero potuto intralciare l'operazione con le loro vibrazioni dettate dal movimento sul terreno.
Quando Hagino mise a fuoco la targa del camion, cambiò espressione repentinamente.
Uno dei soldati del posto di blocco si avvicinò ad entrambi, con una certa fretta.
«Guai in vista» commentò Hagino, piccato.
Tadayoshi non colse subito ciò che il comandante volesse insinuare.
«Comandante! Capitano!» scattò il soldato nel saluto militare. 
«Cosa c'è?» s'impostò Tadayoshi, assumendo la sua perfetta forma di militare.
«Il guidatore del camion dice che deve passare, che ha un carico piuttosto urgente e che non può tardare» riportò il soldato, rigido come una roccia.
Tadayoshi aggrottò la fronte a quelle parole, fissando per un momento Eichi Hagino, che invece di ricambiare lo sguardo, lo puntò verso l'altro soldato con aria impassibile.
«Ma l'area è interdetta, glielo avete spiegato?» provò Tadayoshi, vedendo che Hagino non aveva mosso ancora lamentele.
Il soldato annuì più volte, rapido.
«Certo signore, ma…»
«Hanno il visto americano, giusto?» s'intromise Hagino, con cipiglio serio.
Tadayoshi vide il giovane indugiare nella risposta, per poi annuire nuovamente, con titubanza.
«Vieni con me, Tooyama» dichiarò poi il comandante, muovendosi alla volta del camion incriminato. Tadayoshi lo seguì confuso, e dietro di lui la giovane recluta che era scesa per informarli sulla questione.
Una volta avvicinati alla vettura, Tadayoshi intravide due donne, molto giovani. La prima doveva avere all'incirca la sua età, la seconda era certamente più piccola.
Vestivano entrambe tute da lavoro, davano l'aria di lavorare nell'ambito della meccanica.
E in più, non avevano caratteristiche simili a quelle orientali, anzi. I loro volti erano occidentali, e anche i colori rafforzarono tale teoria.
«Abbiate pazienza! Mio zio sta aspettando questo carico da due settimane! Se ci bloccate il passaggio come facciamo a raggiungere la fabbrica?» fece la più giovane, con aria sfrontata. 
«La strada è interdetta, signorina! I mezzi troppo pesanti non possono passare! Trovate altre strade per raggiungere la fabbrica!» la intimò uno dei soldati del posto di blocco, fermo e impassibile.
La ragazzina sogghignò con disprezzo, portandosi le mani ai fianchi. A Tadayoshi diede l'impressione che non fosse una tipa troppo malleabile, e di ciò ne rise sotto i baffi.
«Lasciare un avviso qualche giorno prima era troppo impegnativo, vero? Vi siete svegliati stamattina e avete deciso di giocare agli scavi archeologici!» commentò ancora la ragazzina, incurante del fatto che sarebbe potuta essere ammonita non solo a parole.
«Ascoltami bene, mocciosa presuntuo-»
«Aspetti, la prego! La perdoni». La più grande decise d'intervenire, frapponendosi tra la ragazzina e il soldato giapponese.
«È che questo carico è davvero troppo importante, e se prendiamo altre strade rischiamo di rovinare il contenuto con gli scossoni provocati dalle buche. La prego, ci lasci passare, facciamo in fretta».
Il soldato guardò con sufficienza entrambe, e sarebbe stato pronto a ripetere la stessa tiritera di prima, magari con più durezza, se non fosse stato per l'intervento repentino di Tadayoshi.
«Aspetta un attimo, Umida» lo intimò, avvicinandosi al trio con calma, togliendosi i Ray-Ban dal viso.
Non appena Tadayoshi scoprì il viso al sole, la ragazza più giovane spalancò lo sguardo sgomenta. 
Nell'osservarla, Tadayoshi notò che il colore delle sue pupille era insolito, di un verde così limpido che ai raggi del sole parevano pozze di acqua salmastra.
Ma non fu solo quel dettaglio a rapirlo particolarmente.
Quel volto lo aveva già visto altrove, gli risultò abbastanza familiare.
«Cosa state trasportando di così urgente?» chiese, rivolto proprio alla giovane che lo fissava con insistenza.
«Motori e carburante per i nostri aerei» rispose l'altra, al suo posto.
Tadayoshi le dedicò attenzione, buttando l'occhio sulla targhetta identificativa che portava appuntata al petto.
A macchina, vi era scritto sopra in romaji il proprio nome: Soraia.
«Siamo partite stamattina che era ancora buio e non vi era nessun posto di blocco… avremmo dovuto fare in fretta, ma l'ordine ha tardato il suo arrivo al porto» continuò la giovane di nome Soraia, molto più diplomatica della seconda.
Tadayoshi annuì alle sue parole, alternando lo sguardo su entrambe, studiandone i movimenti e i gesti.
Tra le due, la ragazzina dall'aria familiare faticava a mantenere una certa calma, come se non riuscisse a trattenere il bisogno di chiedere se, ed eventualmente dove, si fossero già incontrati.
«Potete controllare se volete, non abbiamo nulla da nascondere» propose Soraia, accomodante.
A Tadayoshi non sfuggì l'occhiata in tralice che la più piccola le dedicò, come a volerla intimare di non tirare troppo la corda con quegli individui.
Tuttavia, finse di non farci caso e ordinò ad Umida di farle proseguire.
«Ma signore-»
«È solo un camion, possiamo concedere loro di passare. A maggior ragione se vanno di fretta» chiosò Tadayoshi, senza dare al soldato possibilità di controbattere.
Si voltò poi verso Hagino, sperando di ricevere la sua approvazione, cosa che fortunatamente ottenne.
«Grazie infinite, capitano» replicò la più grande, in perfetto giapponese.
Aveva un viso dolce, ma uno sguardo molto deciso, sicuro.
Tadayoshi reclinò il capo abbozzando un sorriso di cortesia, dopodiché l'altra tornò al posto del guidatore con una certa fretta.
La più piccola continuò a sfidare Tadayoshi in silenzio, dimostrandogli che non si sarebbe comprato la sua fiducia per così poco.
Quando poi decise di tornare sul camion, il richiamo del comandante Hagino bloccò entrambi sul posto.
«Signorina Bruno!» esclamò, apparendo cordiale.
Tadayoshi scattò nel sentire quel cognome.
«Portate i miei saluti al vecchio Angelo! Spero se la passi bene» continuò poi il comandante, inchinandosi col capo in segno di riverenza.
La giovane si toccò la coppola in segno di saluto, restando sempre guardinga. Ma non smise neanche un secondo di fissare Tadayoshi con fare minaccioso.
E fu in quel momento che quest'ultimo ebbe l'illuminazione.
L'aveva vista in compagnia di un altro ragazzo - Tadayoshi ricordò fosse il fratello - quella sera al Three Wishes, quando Rurika lo aveva chiamato per conto di Hagino per la questione dei documenti. 
Ricordò perfino che Rurika l'aveva anche chiamata per nome.
«Eva?» tentò infatti, più per ricordare a voce alta che per chiamarla nell'effettivo.
La ragazza si voltò di scatto, lo sguardo sbarrato. 
«Eva, sali su, dobbiamo andare» la chiamò poi dal veicolo Soraia, sempre paziente.
Non ci mise molto a sgattaiolare sul posto del passeggero, battendo così forte la portiera, che Tadayoshi sobbalzò, neanche fosse stato lì vicino al veicolo.
Il camion partì qualche secondo più tardi, e nel mentre il veicolo avanzava, gli occhi di Eva continuavano ad essere puntati verso il volto sorpreso di Tadayoshi, che seguì con lo sguardo il camion che si allontanava dal posto di blocco, come un enorme elefante impigrito che inciampava in qualche buca di passaggio.
 

«Non dovresti sfidarli così Eva, sono pur sempre militari!» la rimproverò garbatamente Soraia, intenta a guidare il veicolo nonostante la strada non troppo asfaltata.
Eva si limitò a guardarla con aria annoiata, mentre si toglieva il berretto per ravvivarsi i capelli lunghi color miele.
«Sono sempre dei rompicoglioni!» commentò scorbutica, guardando fuori dal finestrino.
Soraia abbozzò un sorriso in risposta.
«E modera il linguaggio!» continuò Soraia, mantenendosi tranquilla, ma con un principio di ilarità in volto e nella voce.
Eva la guardò storto per qualche secondo, per poi nascondere il viso tra le ginocchia.
Non voleva farsi beccare a sorridere a sua volta.
 

«Come al solito, la famiglia Bruno ce la ritroviamo sempre tra i piedi!».
Commentò così Hagino, riprendendo la via degli scavi, con Tadayoshi che lo seguiva, intento a non scivolare sulle pietre.
Improvvise domande cominciarono ad affiorargli in testa, in merito a quella vicenda.
«Comandante, quella ragazzina… la sera che sono stato convocato al Three Wishes… ecco, ho avuto come la sensazione che Rurika la conoscesse».
Hagino si fermò, voltandosi verso Tadayoshi, le mani strette dietro la schiena.
«È così, infatti» confermò, placido.
«Lei e suo fratello sono i nipoti diretti di Augusto Bruno. Penso tu ne abbia sentito parlare, a suo tempo».
Tadayoshi diniegò il capo, in dubbio. Non gli risultava nessuno con quel nome, per di più occidentale.
Hagino produsse un sorriso sghembo alla sua reazione.
«Augusto Bruno è stato un ingegnere aeronautico di fama mondiale. Durante la guerra, venne mandato qui in Giappone per fondare la sua filiale di fabbriche aeronautiche qui, in seguito agli accordi tra il nostro Imperatore e il loro Duce» iniziò così a spiegare Hagino, proseguendo a passeggiare su quel terreno non proprio stabile, tornando a dare le spalle a Tadayoshi.
«Portò con sé moglie e figli, il fratello Angelo lo raggiunse qualche anno più tardi» proseguì, con aria così solenne, che Tadayoshi non ci pensò neanche per un attimo a concedersi una distrazione.
«Quindi sono dei pezzi grossi questa famiglia» provò a riassumere Tadayoshi, cercando di raccapezzarci qualcosa.
«Non direi» rettificò Hagino, assumendo un espressione leggermente altezzosa.
«Li definirei più dei colossi decaduti» specificò, fermandosi di punto in bianco, rischiando di venir investito da Tadayoshi senza volerlo.
«Un tempo, durante la guerra, era una famiglia molto potente, al pari dei Miyasugi e dei Sakuragi. Ma adesso… » seguì una pausa di qualche minuto, che Tadayoshi non seppe cogliere se fosse ad effetto o per mancanza di termini giusti da usare per continuare il discorso.
«Diciamo che le loro scelte sbagliate ne hanno decretato la rovina». Hagino affermò quelle parole quasi con una certa insolenza. A Tadayoshi sembrò addirittura che di tale fatto ne fosse contento.
«Ma la loro fabbrica è ancora in uso, giusto? Quindi non se la passano poi così male…» esclamò il giovane capitano, ormai incuriosito da quella vicenda.
Hagino sghignazzò a labbra chiuse.
«Al tempo fabbricavano aerei da guerra, bombardieri e caccia… adesso per sopravvivere, realizzano i velivoli per la marina militare statunitense, e si occupano per lo più di motori e meccanica varia» continuò a delucidare il comandante, con quell'espressione talmente ambigua da mandare Tadayoshi ai matti.
«Quindi state dicendo che sono passati da un capo ad un altro» chiosò lui in seguito, aggrottando le sopracciglia.
Hagino approvò la sua risposta con un cenno positivo del capo.
Ma Tadayoshi non era ancora del tutto soddisfatto a riguardo.
«Cosa intendevate prima con “scelte sbagliate”? Sono incappati in debiti?». Tadayoshi pose quella domanda con innocenza, pensando di ricevere in risposta qualcosa di ovvio.
Ma Hagino, prima di soddisfare le sue aspettative, indugiò, assumendo quasi una posizione di difesa.
«Dammi retta, ragazzo… meno si ha a che fare con quelle persone, è meglio sarà per tutti».
A Tadayoshi quell'ammonimento risultò talmente strano da mandarlo in confusione.
«Perché sono dei gaijin?». Fu l'unica spiegazione plausibile che riuscì a trovare per giustificare le parole di Hagino.
Il comandante tornò a fissarlo, gli occhi torvi a causa del sole insistente.
«Non solo…» e si diede una rapida occhiata intorno, come a volersi accertare che nessuno stesse lì ad origliare la loro conversazione.
Si avvicinò all'orecchio di Tadayoshi, cercando di risultare il più naturale possibile.
«I due figli di Augusto, Attilio e Lidia, sono coinvolti nell'omicidio di Rokurota».
Tadayoshi spalancò le palpebre a quella rivelazione bomba. 
Guardò dritto negli occhi il comandante, sperando stesse scherzando.
«Omicidio?! Ma il suo caso era stato archiviato come suici-»
«Ad Atsumichi Sakuragi è convenuto far passare la morte del figlio per suicidio. Per vie ufficiose, sono queste le voci che corrono. Ma non temere» e mise una mano sulla spalla del più giovane, che lo fissava allibito «L'hanno pagata cara. Entrambi.».
Tadayoshi non aveva mai avuto soggezione e paura di Hagino: in quanto amico d'infanzia dell'uomo che lo aveva accolto in casa come un figlio, sapeva che in lui avrebbe trovato sempre un qualcosa di molto simile all'appoggio e al rifugio.
Ma quando lo sentì pronunciare quella frase rimase di sasso, come se davanti agli occhi non riconoscesse l'uomo che Eichi Hagino era stato fino ad allora.
Dal suo sguardo traspariva una goduria strana, annientante.
Un moto di paura vorticò nel cuore di Tadayoshi, estraniandolo.
«E quei due ragazzini, loro-»
«Loro espiano i peccati dei loro scellerati parenti. Ti basta sapere questo. Nulla di più, nulla di meno».
Dette queste parole, Hagino si allontanò, riprendendo la strada con lo stesso fare assorto di prima.
Tadayoshi rimase con molte più domande in testa di quante ne avesse prima di iniziare quella conversazione.
Lo shock nello scoprire che Rokurota non si fosse ucciso lo lasciò a rimuginare per tutto il tempo. 
Mario aveva ragione, aveva sempre avuto ragione a dubitare.
Tadayoshi non poté non ripetere a mente quelle parole, come una cantilena fastidiosa.
Almeno smise di pensare a Mina e al suo passato, per fare spazio a quella nuova realtà che, era più che prevedibile, avrebbe preannunciato aria di guai in arrivo.




 
***
 


«Ohh, ma quanto mi hai ringiovanita, Kimiko-chan! Sei sempre una garanzia in questo salone di bellezza!».
Joe, seduto su una poltroncina all'ingresso, sentì chiaramente gli elogi che donna Chieko aveva elargito a quella giovane parrucchiera di nome Kimiko.
La stessa che, pochi minuti prima, gli aveva servito un vassoio con thé e mochi ai fagioli han, sotto lo sguardo scandalizzato di Omiko-san, la padrona del salone.
Quella donna non vedeva di buon occhio gli hafū e gli stranieri in generale: avrebbe fatto attendere bellamente Joe fuori la porta se non fosse stato per la presenza di donna Chieko, specificando che il ragazzo fosse in sua compagnia.
A Joe i mochi non piacevano molto, ma ne morse uno ugualmente sia per premiare la gentilezza di quella giovane impiegata, che lo aveva visto lì tutto solo in attesa che la permanente di donna Chieko fosse pronta, e sia per indispettire la proprietaria, rivolgendole un sorriso cordiale, come a volerla sfacciatamente ringraziare.
La donna, seduta al bancone, ricambiò quel gesto con un sorriso tirato.
«Ha gradito i nostri mochi, gentile signorino?» chiese con falso interesse, mantenendo quella maschera di gentilezza che risultava ancor più finta del normale agli occhi esperti di Joe.
«Molto, signora» replicò lui, mellifluo.
La donna chinò il capo con approvazione, per poi girarsi dall'altra parte e assumere un'espressione disgustata, borbottando qualche offesa a bassa voce.
Il biondo non si soffermò troppo ad ascoltarla, non gli interessava il giudizio che aveva su di lui quella sconosciuta.
Pochi minuti più tardi, donna Chieko lo raggiunse, con la permanente fatta e le unghie impeccabilmente laccate.
«Datemi retta, Omiko-san, date un aumento a questa ragazza» e sorrise a Kimiko mentre le sistemava la mantella sulle spalle «Ha le mani d'oro, farà carriera un giorno!».
Kimiko sorrise riconoscente alla donna, chinando il capo in avanti. Le ciocche del suo carré corto e nero le ricaddero sul viso come tendine scure.
«Prende già quanto le spetta, Chieko-sama. Ricordatevi che questo è un salone per bene!» replicò Omiko-san, elargendo nuovamente quel suo sorriso di finta cortesia.
Joe e Kimiko si rivolsero uno sguardo eloquente d'intesa.
«Oh ma lo so bene, Omiko-san. Altrimenti non verrei qui a rimettermi a nuovo con immenso piacere» commentò donna Chieko, con il suo solito fare accomodante.
«E devo dire che con questa ragazza tra le vostre impiegate» continuò, appoggiando una mano sul braccio della giovane parrucchiera «ci vengo con molto più piacere del solito».
Il sorriso della proprietaria del salone si smorzò appena, cercando di restare composta. 
Non avrebbe potuto controbattere a lungo alle parole di una delle donne più importanti della prefettura. Oltre alla mancanza di rispetto, ci avrebbe rimesso il nome e il suo lavoro, se solo donna Chieko avesse desiderato.
Ma quel lato nefasto e assoluto del potere non apparteneva all'indole giusta dell'anziana, che preferiva colpire sottilmente a parole, piuttosto che commettere colpi bassi in nome di un potere che considerava “terreno” e inutile, sotto certi aspetti.
«Vi aspettiamo al prossimo appuntamento, Chieko-sama» concesse Omiko, inchinandosi come da costume.
Donna Chieko ricambiò l'inchino, seguita a sua volta da Joe, mostrando tutta la riverenza di cui era capace. 
Si guadagnò prontamente lo sguardo ostile di Omiko e quello ammirevole di Kimiko, con annesso un sorrisetto complice.
Dopo il congedo e l'uscita dal salone dei due, Omiko tornò al bancone, mettendo in ordine le cambiali e le banconote sistemate in cassa.
«Torna al tuo posto, Kimiko» disse poi sprezzante, rivolta alla giovane.
«Ma prima sistemati la parrucca. Non voglio che le clienti facciano domande».
Kimiko annuì, a testa bassa. Una sottile ciocca bionda, sfuggita alle forcine, le era scivolata lungo la tempia, accarezzandole dolcemente la gota come un filo d'oro. Mentre si recava verso lo spogliatoio, Kimiko se la sistemò elegantemente dietro l'orecchio, sospirando stanca, stando bene accorta a non farsi sentire dalla sua insopportabile datrice di lavoro.
 

«Quella donna è una vera arpia! Peggio di mia nuora, è incredibile!».
Il commento di donna Chieko arrivò ovattato alle orecchie di Joe.
Quella mattina faceva un caldo così umido, che in più di un'occasione al ragazzo era sembrato che gli girasse tutto attorno, come all'interno di un vortice.
In più, i raggi del sole gli fustigavano gli occhi chiari senza dargli tregua. Li aveva già stropicciati due o tre volte nell'arco di quelle poche ore.
Ogni tanto, a turno, i ragazzi del Rainbow si offrivano di accompagnare donna Chieko durante le sue compere, per aiutarla con le buste e i pacchi che si scarrozzava da un negozio all'altro.
Nonostante avesse dato il giorno libero alla sua governante Ichika, l'anziana donna aveva deciso ugualmente di non rinunciare alla sua giornata di giri e spese.
Joe si era offerto volentieri di farle compagnia, aveva sentito la necessità di cambiare aria, i pensieri su Meg negli ultimi giorni si erano intensificati a tal punto da lasciarlo disorientato.
Aspettava con trepidazione il momento in cui avrebbe affrontato la questione con Tadayoshi, assieme a Mario.
Quella rivelazione sul presunto omicidio di Rokurota aveva scombussolato maggiormente il suo equilibrio interiore, arrivando addirittura a temere che Meg potesse esserne perfino coinvolta.
Joe scosse rapidamente il capo a quell'eresia, non voleva neanche tenerla in considerazione quell'opzione nefasta.
«Mi stai ascoltando, Joe-kun?».
La voce allegra e impettita di donna Chieko lo ridestò dai suoi macabri pensieri, apprestandosi a sorriderle, cordiale.
«Sì sì, donna Chieko, sì» affermò, impacciato.
L'anziana lo studiò per qualche secondo, per poi annuire, comprensiva.
Si chiuse la mantella sul petto, mentre avanzava col suo immancabile bastone da passeggio.
«Non ci restare troppo male, figliolo. Quella donna non ha simpatia verso le persone speciali» dichiarò sorniona, guardando dritta davanti a sé, a mento alto.
«Maltratta persino quella poveretta, obbligandola a nascondere la sua identità… come se poi non avessi capito che è un hafū proprio come te».
Donna Chieko non espresse quel pensiero con cattiveria o saccenza, bensì lo fece con una punta di rammarico nella voce.
Per qualche strano motivo, Joe si sentì come se avesse appena ricevuto una carezza materna sul capo, dal nulla.
Si ritrovò a sorridere, grato.
«Lo so, la conosco. È un'amica di Mario» specificò Joe, spostando le buste delle compere da una mano all'altra.
Donna Chieko lo fissò indagatrice, improvvisamente interessata a quella risvolta inaspettata.
«Un'amica?» chiese canzonatoria, aspettandosi subito il pettegolezzo piccante al varco.
Ma Joe scosse il capo, divertito.
«Ah, no no! Con Mario non c'è nulla oltre l'amicizia. E ormai so capire quando ci prova con qualcuna oppure no, e Kimiko non è nel suo raggio d'azione» spiegò, umettandosi più volte le labbra sottili.
Donna Chieko sghignazzò.
«Per carità, non ci avrei visto nulla di male! Sono stata giovane anch'io, capisco come funzionano certe cose, mio caro!» chiarì l'anziana, scacciando con la mano un moscerino molesto che le ronzava ad un millimetro dal naso.
Joe sorrise nuovamente alle sue parole. Quella donna, in certe occasioni, le sembrava quasi irreale per quanto fosse aperta e recettiva a tutto ciò che le stava attorno.
Pensò che Tadayoshi, in parte, era stato fortunato ad acquisire, attraverso la moglie, una parente tanto preziosa come quella vecchietta arzilla. Non per il suo indiscusso potere, ma per la sua apertura mentale ed empatica, che la rendevano una donna speciale, tanto amata a Kanazawa e dintorni.
«Comunque, sono proprio contenta che tu mi abbia accompagnato in questo giretto! Farmi vedere in giro con un così bel fanciullo mi riempie d'orgoglio… quasi quasi ti presenterei come mio nipote a tutti gli effetti!».
Joe continuò a sorridere, sebbene ad un certo punto la luce dai suoi occhi svanì appena.
Nonostante nelle parole di donna Chieko non vi fosse presente alcun secondo fine, quell'ombra sottile ma ingombrante l'aveva avvertita ugualmente, quasi l'avesse richiamata inconsciamente.
Brutti ricordi tornarono a fargli visita, momenti che facevano fatica ad assopirsi o sparire.
I complimenti ricevuti dopo un servizio ben svolto, le carezze che diventavano sempre più morbose, il senso di abbandono totale dopo la fine di un rapporto…
«Lascia che mi sdebiti, Joe-kun!».
L'allegria irruenta della vecchia signora riportò Joe al presente, in una strada affollata battuta dal sole di aprile.
Sobbalzò quando donna Chieko gli si accostò, assottigliando lo sguardo.
«Che ne diresti se ti comprassi un paio di occhiali da sole?» dichiarò, giuliva.
Joe sollevò un sopracciglio, interdetto.
«Cosa?» chiese incredulo.
Donna Chieko smorzò una risatina.
«Dovrai pur proteggere questi bellissimi occhi che ti ritrovi, no? L'iride chiara è molto delicata alla luce solare… lascia che ti porti in un negozietto carino, là potrai scegliere il modello che più ti piace».
L'entusiasmo di donna Chieko colpì inaspettatamente Joe, che per qualche secondo, pensò fosse semplicemente troppo.
«Ma donna Chieko, io- insomma… non voglio farle spendere soldi inutilmente! Poi per uno come me…».
Joe la buttò sul ridere, ma quel gesto lo aveva toccato così tanto che gli occhi gli divennero improvvisamente lucidi.
La vita gli aveva insegnato troppo presto e troppo bruscamente che nulla veniva dato in cambio di nulla, che tutto possedeva un costo, non sempre indolore.
«A maggior ragione, per uno come te» replicò con dolcezza la donna, sorridendogli orgogliosa. 
«Meriti un premio per esserti accollato senza lamentarti questa vecchietta pimpante e stralunata» commentò, impiantando sul marciapiede la punta del suo bastone.
Una lacrima traditrice scese sulla guancia del ragazzo, che provvide ad asciugare con il dorso della mano, fingendo noncuranza.
«Siete troppo buona, donna Chieko!» affermò Joe, schiarendosi la gola.
L'anziana lo guardò tenera, allo stesso modo di come aveva guardato per tanti anni i suoi figli adorati, e le sue nipoti in seguito.
«Cerco di essere giusta, non buona» affermò con malinconica dolcezza, persa in un lontano ricordo.
«È un insegnamento che ho ricevuto dal mio amato marito, anni fa» e sorrise al vento, sperando che quel suo sorriso giungesse al suo destinatario, ovunque egli si trovasse.
A Joe, in quel momento, gli venne la vaga impressione di essere improvvisamente di troppo. Sorrise mestamente.
«E poi sono ricca, e dei miei soldi ci faccio quello che mi pare!» esclamò all'improvviso donna Chieko, facendo sobbalzare Joe sul posto.
Nel giro di un secondo, si ritrovò sotto braccio dell'anziana, impacciato tra le buste che stringeva tra le dita.
«Inizia a pensare al modello che ti piace» dichiarò ringalluzzita donna Chieko, riprendendo a camminare.
Joe si abituò al suo passo, lasciatosi convincere. 
«Sceglierò un modello economico» dichiarò in seguito, placido.
«Vedi di finirla, ragazzino!» lo minacciò donna Chieko, dandogli una leggera spintarella con la spalla.
Senza saperlo, quel giorno Joe sarebbe andato incontro al suo destino, nel modo più strano e inatteso possibile.


Katsuya trattenne l'ennesimo sbuffo scocciato con enorme fatica.
Quella mattina faceva un caldo così umido che il tessuto sintetico della divisa gli si appiccicava addosso, aumentando il suo nervosismo e intorpidendone i movimenti.
Aveva capito troppo tardi di essere stato raggirato da quella volpe di sua cugina, ma sapeva, d'altronde, che ciò che gli era stato implicitamente richiesto entrava nei suoi doveri di figlio, e non aveva potuto ribellarsi più del necessario.
I preparativi per il matrimonio di Akira e Miyako procedevano spediti, e Katsuya, suo malgrado, non aveva potuto farsi troppo da parte, nonostante lo avesse desiderato con tutto sé stesso.
L'unica cosa a cui aspirava era godersi un po’ di pace, chiudersi in stanza e annotare sul proprio diario qualche frase elaborata ascoltando qualche disco jazz o blues, stando bene attento a non farsi scoprire dai genitori, in particolare da suo padre, integerrimo sostenitore della cultura giapponese.
Ma quella mattina, Rurika era stata talmente convincente da spingerlo ad uscire in compagnia di sua madre Kyoko, aiutandola negli ultimi acquisti necessari all'evento che avrebbe allietato la loro famiglia di lì a qualche settimana.
«Vorrei capire perché non se ne occupa zia Hime di queste compere, visto è il suo di figlio a sposarsi!» si lasciò scappare Katsuya in un borbottio, prontamente silenziato da una gomitata ben assestata da parte di Rurika, che gli sorrise melliflua.
«Perché zia Kyoko è una donna molto generosa e affabile, e sotto sotto vuole essere pronta per il tuo matrimonio!».
Katsuya la guardò di traverso nel sentirle dire una cosa del genere.
Mentre loro due erano sotto braccio, Kyoko era intenta a scegliere i merletti per i centrotavola, lasciandosi consigliare dalle commesse e annuendo convinta ad ogni loro proposta. 
«Non ho intenzione di sposarmi, almeno per il momento» ci tenne a chiarire Katsuya, impassibile. Rurika sbuffò una risata, neanche il cugino acquisito avesse sparato la miglior battuta del suo repertorio.
«Perché secondo te Akira lo é?» buttò lì Rurika, studiando il profilo del ragazzo con i suoi occhi da gatta.
Katsuya stralunò gli occhi, soffocando un'imprecazione tra i denti.
«Lasciamo perdere…» disse soltanto, tornando a fissare sua madre e le commesse, intente a mostrare tessuti e ricami con gesti pratici e precisi.
«Ancora non vi parlate voi due? Dalla sera del bacio?». Rurika esclamò quella frase con indifferenza, come se il peso di quelle parole fosse pari al nulla. Inconsciamente, Katsuya gliene fu grato. Con Rurika si era sempre sentito libero di esprimersi e di affermare ciò che voleva, nonostante lei, con le sue battutine taglienti, non si dimostrasse sempre tanto accomodante.
«Non è dalla sera del bacio…» mormorò, abbassando il capo nonostante avesse i suoi occhiali da sole a coprirgli lo sguardo «Ho provato a parlarci, ma mi ha detto che era ubriaco e che per lui quello che era successo non valeva niente».
Katsuya spiegò i fatti a Rurika fingendo un distacco che con gli apparteneva. Come se il rifiuto di suo cugino non lo avesse ferito mortalmente, lasciandolo col cuore insanguinato per giorni interi.
Rurika abbassò i suoi di occhiali da sole, scrutando l'espressione di Katsuya con estrema attenzione.
«E cosa ti aspettavi? Che ti dichiarasse amore eterno?» lo sfidò lei, con la sua solita aria beffarda.
Katsuya mise su leggermente il broncio alle sue parole.
«No, questo no…» biascicò «Forse per un attimo mi ero illuso che…».
Si umettò le labbra per non continuare. Oltre a quella lite, si era aggiunto anche il rimprovero riguardo la sua ostinazione a voler ritrovare la madre biologica, un pezzo di passato che non lo aveva mai davvero abbandonato. 
Akira era stato tutto per Katsuya: un fratello maggiore, un migliore amico, un senpai, forse anche qualcosa di più. Qualcosa di sbagliato, inconcepibile.
«Katsuya, Akira ti vuole bene come un fratello. Siete inseparabili da sempre, probabilmente, ubriaco o no, quel bacio per lui avrà semplicemente significato il suo bene per te, null'altro» si spiegò Rurika, cercando di apparire ovvia agli occhi di Katsuya.
Ma il ragazzo non parve della sua stessa opinione.
«E se non fosse stato solo quello? Se avesse accettato di sposarsi per scappare da sé stesso?» rincarò la dose Katsuya, stando bene attento a non lasciarsi sfuggire nulla di compromettente.
«D'altronde non sarebbe il primo a commettere un ripiego simile» commentò poi, guardandosi attorno, sospettoso.
Rurika si portò due dita sul ponte del naso.
«Avete provato due emozioni diverse, tutto qua» chiosò, sospirando.
Ma Katsuya non fu dello stesso avviso.
«È solo un codardo, ecco cos'è» dichiarò, risentito.
Rurika lo fissò con eloquenza, indispettita.
«Prova a metterti nei suoi panni, Katsuya. Sai cosa significherebbe, nel caso remoto in cui davvero fosse come dici tu, accettare la sua natura? Akira non sopporterebbe di perdere anche zio Yusaku, e questo dovresti saperlo perfettamente».
Sì, Katsuya purtroppo lo sapeva molto bene.
Per Akira, perdere il padre da bambino era stato un colpo enorme.
Il generale Hitomura era stato una figura paterna a suo modo, un esempio da seguire, così come donna Kyoko era stata una figura materna per Rurika.
Loro tre, fin da bambini, avevano conosciuto la privazione e la mancanza delle figure genitoriali.
Sapeva, inoltre, che era la rabbia e il risentimento a parlare al suo posto, ma Katsuya ancora non si sentiva pronto a scendere a patti con la ragione.
Mettere il muso e battere i piedi a terra gridando all'ingiustizia gli riusciva di gran lunga più semplice.
Proprio mentre stava per controbattere, donna Kyoko uscì dal negozio, con una busta enorme e l'aria soddisfatta.
«Eccomi qua! Scusate l'attesa ragazzi!» si scusò la donna, trafelata ma allegra.
Katsuya si limitò a sorridere alla madre, nascondendo magistralmente ogni inquietudine dietro le lenti scure e l'imponenza della divisa.
Rurika si mostrò invece interessata agli acquisti della zia.
Presero a camminare per un breve tratto, poi Rurika si fermò dinnanzi all'ufficio delle poste, alludendo ad una pratica da sbrigare per conto del generale, congedandosi da donna Kyoko e dal cugino.
«Ah, quasi dimenticavo!» esclamò donna Kyoko, portandosi una mano alla fronte, una volta rimasta sola col figlio.
«Devo passare al negozio di ottica per far aggiustare gli occhiali da lettura di tuo padre. Hanno una stanghetta rotta» spiegò velocemente la donna, rovistando nella borsa, alla ricerca del paio d'occhiali incriminato.
«Mi accompagneresti, tesoro? Giuro che non ci metterò molto» chiese poi, poggiando una mano sul braccio di Katsuya, guardandolo con immenso affetto.
Katsuya, dal canto suo, non era mai riuscito a negarle nulla, soprattutto se poi gli rivolgeva quegli sguardi innamorati, che lo imbarazzavano e intenerivano al contempo da anni.
«Certo, mamma, andiamo pure» acconsentì il ragazzo, porgendo il braccio alla madre adottiva, permettendole di appoggiarsi. Tanto per quella mattina aveva già dato buca in caserma, avrebbe recuperato con gli orari notturni, cosa che in quei giorni avrebbe di gran lunga preferito anziché stare a casa e sorbirsi ancora i preparativi di quel matrimonio che gli andava sempre più di traverso.
Katsuya s'incamminò così verso il negozio assieme alla madre, ignaro del fatto che, di lì a poco, si sarebbe compiuto il suo destino.
 

Joe si ritrovò davanti agli occhi così tanti modelli di occhiali che per poco non si era lasciato scappare un'espressione poco colloquiale dalla bocca per la sorpresa.
Donna Chieko conversava gentilmente con i proprietari del negozio di ottica, mentre lui aveva gli occhi della commessa puntati addosso, non con disprezzo o sufficienza, bensì come un normalissimo cliente qualunque che andava seguito in ogni mossa.
In totale imbarazzo, Joe rispondeva ai sorrisi della donna con altrettanti sorrisi e cenni del capo, incapace di proferire parola.
Aveva appena preso uno dei modelli che la commessa gli aveva mostrato con estremo garbo, indossandoli davanti allo specchio, che il campanello della porta annunciò l'arrivo di un nuovo cliente.
Joe si voltò per curiosità, senza avvertire alcun presagio imminente. Qualche istante dopo, ebbe come la sensazione che il cuore gli si fosse fermato per qualche secondo, colto di sorpresa.
Una signora di bell'aspetto e ben agghindata, anche se priva di spocchia, era accompagnata da un giovane soldato, rigido, il viso coperto dagli occhiali da sole, i capelli neri messi fermi dal gel e le braccia rigorosamente tenute dietro la schiena.
Joe non poté credere ai propri occhi, pensò sulle prime che la vista gli stesse giocando un brutto scherzo.
Quello non era un semplice soldato.
Era quel soldato: il giovane della retata e della motocicletta che faticava a partire.
Il giovane che, dal nulla, gli aveva restituito la piastrina militare di suo padre.
Il giovane che scherzosamente aveva soprannominato soldato valoroso.
Il giovane il cui nome rispondeva a Katsuya Hitomura.
«Chieko-sama, anche lei qui?» esordì la donna, visibilmente contenta di averla riconosciuta.
Donna Chieko le ricambiò il sorriso, premurosa.
«Kyoko-san, quale onore!» la salutò, abbassando il capo con riverenza.
«Sono contenta di rivederla! Non l’ho vista in questi giorni al circolo, temevo foste indisposta» precisò donna Kyoko, continuando ad essere ossequiosa. 
Donna Chieko scosse il capo, divertita.
«Nulla di preoccupante! Alla mia età ogni tanto si ha bisogno di qualche giorno di riposo… anche se ne dimostro molti di meno, sono pur sempre vecchiarella!».
Donna Kyoko rise delle parole dell'anziana, coprendosi le labbra con le dita curate.
«Meglio così, allora!» e le strinse calorosa l'avambraccio «Mi annoio in sua assenza al circolo! Siete il mio braccio destro durante le partite di mahjong, non potrei fare a meno di voi» continuò donna Kyoko, guadagnandosi il sorriso ammiccante e genuino di donna Chieko.
Nel mentre seguiva distrattamente quel breve scambio di battute, Joe buttava ogni tanto lo sguardo verso il soldato, rimasto impostato e in silenzio dietro la donna che era entrata con lui. Lo scrutò incuriosito, quasi a studiarne ogni dettaglio. Che fosse bello e attraente era senza dubbio un dato di fatto.
Un brivido lo colse lungo la nuca quando lo vide sfilarsi gli occhiali da sole, con perfetta nonchalance, e poggiarli nel taschino sul davanti, con gesti attenti e minuziosi.
Fu in quel breve frangente che i loro occhi s'incontrarono, per qualche secondo.
Per riflesso, Joe indietreggiò di un passo, ma uno spasmo involontario alle labbra gli fece assumere un'espressione equivoca.
Un'espressione che il giovane soldato, sulle prime, sembrò non gradire.
Lo sguardo che gli rivolse, infatti, era torvo ed interdetto, come se avesse beccato qualcuno in un momento inappropriato.
Joe ricambiò quello sguardo sorridendogli imbarazzato, ma abbassò subito dopo gli occhi al pavimento, sentitosi improvvisamente giudicato. 
Tornò così al suo modello di occhiali, che aveva tolto dal viso senza rendersene conto, appena la porta del negozio si era aperta.
«C'è qualche modello di suo gusto, signorino?» fece la commessa, con aria servile.
Joe scosse nervosamente il capo, tirando le labbra in un sorriso nervoso.
Avrebbe voluto inventare una scusa e uscire fuori da lì a gambe levate, ma non gli andava proprio di fare un torto a donna Chieko, non dopo le belle parole che aveva speso per lui e in più rifiutando un suo dono.
Trascinato com'era dai suoi pensieri, non si accorse della vicinanza improvvisa di qualcuno alle sue spalle.
«Hitomura-san! La servo subito, il tempo di aiutare il cliente nella scelta del modello!».
Joe trasalì nel constatare che quel giovane si era avvicinato proprio a loro due, con aria fiera e seria, anche troppo per i suoi gusti.
«Nessun problema, Goto-san, mia madre doveva far riparare gli occhiali di mio padre. Penso chieda il favore direttamente a Fushigure-san» spiegò Katsuya, indicando il gruppetto formato dalla madre, donna Chieko, Fushigure e sua moglie, i proprietari del negozio di ottica.
La commessa calò il capo in segno di cortesia, mantenendo quel suo sorriso professionale che, agli occhi di Joe, parve certamente più sincero di quello della proprietaria del salone di bellezza.
Poi Katsuya allungò il collo sui modelli esposti sul bancone, studiandoli uno per uno, mostrandosi indifferente alla presenza di Joe.
O almeno, così era parso al giovane hafū.
«Sono molto belli, non trova?» chiese dal nulla Katsuya, cogliendo Joe alla sprovvista. Sulle prime, infatti, faticò a credere che si stesse davvero rivolgendo a lui.
Tutte le volte che Joe lo aveva incontrato, Katsuya aveva sempre avuto un'aura timida, impacciata.
Quel giorno gli sembrò invece quasi mostrare l'opposto.
Gli lanciò uno sguardo fugace, prima di rispondergli.
«Ehm sì, sono tutti molto belli…» prese un modello in mano, leggendo l'etichetta attaccata alla stecca «… e costosi» commentò poi, serrando i denti.
Katsuya soffocò una risata tra le labbra, colpito da tanta ingenuità.
«La qualità si paga! Se volevate un paio di occhiali economico, potevate trovarlo al mercato! Ma non vi garantisco la durata effettiva, né la loro grande utilità!» rispose il soldato, con una punta di spocchia che irritò non poco Joe sul momento.
Probabilmente si trovava nel suo ambiente da ricco e privilegiato e non si sarebbe lasciato sfuggire l'occasione di dimostrare la sua superiorità.
«Però guardare e provare non costa nulla» ribatté comunque, mettendo su uno di quei sorrisi di circostanza che avrebbe fatto perdere la calma persino ad un bonzo di montagna.
Katsuya assottigliò lo sguardo a quella battuta, lanciata apposta per pungolare il suo ego.
«Ma costerà sicuramente il tempo della commessa che vi sta servendo con garbo e cortesia!». Anche Katsuya mise su quel sorrisetto di finta cortesia, sfidandolo. Non aveva però fatto i conti con lo sguardo glaciale che Joe gli rivolse automaticamente, iniziando a sentirsi risentito da quelle velate accuse. Era tutta la mattina che sorbiva attacchi velati a destra e a manca, sguardi in tralice che sottolineavano la sua diversità.
Che quelle frecciatine arrivassero anche da parte di quel ragazzo, aveva iniziato a smuovere un certo fastidio in lui, che, invece di nasconderlo, lo palesò tutto attraverso la sua espressione risentita.
«Probabilmente sono di gusti difficili, oltre che parsimonioso». Tuttavia, Joe mantenne la voce calma e impassibile, nonostante il fastidio gli prudesse come un'ortica sulla pelle.
Quella danza di sguardi era cominciata senza che nessuno dei due lo avesse deciso, una danza che a tratti sembrava una lotta animata, per assumere successivamente connotazioni torbide, sfumate.
«Se posso permettermi» Katsuya interruppe quel gioco di sguardi per prendere con delicatezza un modello appeso accanto allo specchio, che studiò per qualche secondo.
«Goto-san, faccia indossare questo al suo cliente». Joe si sentì spiazzato nel ritrovarsi improvvisamente tagliato fuori da quella conversazione, corrucciando lievemente la fronte.
Vide il soldato porgere gli occhiali alla commessa, che li prese con estrema riverenza, prima di offrirli ad un Joe stupefatto.
Il ragazzo, posato il paio precedente, prese i nuovi con estrema delicatezza, portandoseli al naso sperando di non farli cadere.
Non appena il mondo si colorò di sfumature marrognole, attraverso la lente scura, Joe fissò il riflesso di Katsuya allo specchio, studiandone il profilo serio e impostato, anche un po’ arrogante. Gli provocava fastidio, non aveva dubbi a riguardo, eppure… 
Eppure non smetteva di pensare a quanto quell’arroganza gli calzasse così bene addosso, nonostante gli incutesse soggezione.
«Oh, ma questo paio di occhiali da sole è meraviglioso!».
Donna Chieko s'intromise dal nulla, facendo tornare Joe con i piedi per terra. 
«Vedo dunque che hai scelto! Bene, sono contenta, ti stanno proprio bene!» civettò l'anziana, scambiando un gesto di approvazione prima con Goto-san, e poi con il giovane Hitomura, che ricambiarono entrambi con un cenno del capo.
«Non gli danno, secondo voi, un'aria da attore del cinema?» istigò donna Chieko, rivolgendosi in particolar modo a Katsuya, che abbassò lo sguardo interdetto, come colto in flagrante in qualche affare illecito.
Ma nella risposta tutto ciò non trasparì.
«Gli occhiali da sole sono solo un accessorio. Li si deve saper portare».
Joe non riuscì a capire se quel giovanotto sfrontato lo stesse prendendo in giro o volesse risultare simpatico agli occhi delle due donne. Perché in entrambi i casi, Joe lo trovò grossolano come tentativo.
Grossolano, ma tenero al tempo stesso.
«Il signorino Hitomura ha ereditato da suo padre il generale il gusto per le lenti scure… non a caso, sono i nostri migliori clienti» affermò Goto-san, sempre ossequiosa.
Donna Chieko fissò entrambi con aria sbarazzina.
«Beh, direi che possiamo procedere all'acquisto» dichiarò soddisfatta l'anziana, carezzando la schiena di Joe con fare materno.
Katsuya abbassò il capo in segno di rispetto.
«Avete un animo nobile, Hitomura-kun» commentò ancora donna Chieko, sorridendo calorosa alla volta del soldato.
Il ragazzo scosse il capo, ma non gli sfuggì il sorrisetto beffardo che Joe tentò di smorzare, mentre sfilava le lenti per consegnarle alla commessa.
Cosa ci troverà di così tanto divertente, quello lì?
Quel pensiero lo colse improvviso, tentando ugualmente di contenersi e mostrarsi intaccato da quel gesto.
«Avete dato una mano al mio giovanotto… sa, Joe-kun non è abituato a frequentare certi ambienti» continuò donna Chieko, impettita come se stesse parlando di un suo nipote di sangue e ne vantasse le gesta al primo capitato sotto tiro.
Katsuya si limitò a fissarlo inespressivo, sollevando a tratti il mento.
Non riusciva a capire cosa legasse una donna come la Miyasugi ad un ragazzo hafū di Itogawa che, probabilmente, poteva tranquillamente essere coinvolto in qualche affare losco.
Pensò male, dunque, malissimo. 
Lo guardò giudicante, sprezzante.
Katsuya fece proprio come la sua famiglia si sarebbe aspettato che si comportasse con uno come Joe o con chiunque considerato inferiore perché diverso.
«Grazie per l'aiuto, Hitomura-san».
Tuttavia, Joe chinò il capo riconoscente, fissandolo, per contro, con quei suoi occhi splendenti e limpidi, bellissimi.
Katsuya abbassò il capo di rimando, per sfuggire a quella maledetta trappola.
«Ho solo saldato un debito» mormorò a voce talmente bassa che persino donna Chieko, che gli era più vicina, faticò ad ascoltare.
Joe fece per chiedergli di ripetere, ma si trattenne dal farlo.
La scena di entrambi che si davano da fare per spingere quella motocicletta malandata gli era tornata in mente, come evocata da quel sussurro.
Come anche quella in cui si vedeva porgere la piastrina di Joseph, con aria imbarazzata.
Joe avrebbe voluto sorridere, ma non gli sembrò il caso. 
«Katsuya, andiamo! Fushigure-san ha già fatto!». Donna Kyoko raggiunse il figlio, sorridendogli affettuosa. Katsuya ricambiò tiepidamente, ma con lo stesso trasporto.
Dopo l'ennesimo congedo, Joe seguì con lo sguardo la schiena di Katsuya mentre usciva dalla porta, rapito.
Il richiamo di donna Chieko lo riportò in sé.
«Non vedo l'ora di vederteli sfoggiare per le strade di Itogawa!» dichiarò giuliva, mentre rovistava nella pochette nera, alla ricerca del portafoglio.
Joe le sorrise riconoscente, anche se con aria persa.
Si convinse che, presto, quella sensazione gli sarebbe scivolata addosso come acqua fresca.
Perché un nome non lo conosceva per identificarla. E ciò che non possiede nome, non ha motivo di esistere.



 
***



La lampadina appesa al soffitto dell'alloggio andava leggermente ad intermittenza.
Meg la osservava dal letto, stesa e con lo sguardo vacuo, distratto.
Sapeva che avrebbe dovuto farla riparare, ma la voglia di interagire con il genere umano era sempre al limite, per cui anche fare una semplice richiesta a qualcuno le pesava enormemente.
L'unica persona con cui avrebbe messo da parte la propria misantropia ormai la teneva a debita distanza da giorni, e in cuor suo Meg sapeva che se lo fosse meritato.
Kouki dormiva a sonno pieno, con il braccino fuori dagli scialli in cui Meg lo aveva imbavagliato per non fargli prendere freddo.
A breve quegli scialli non sarebbero più bastati a coprirlo totalmente: a Kouki sarebbe servito un lettino, dei cuscini e delle coperte come si deve. Non sarebbe rimasto in eterno un esserino minuto da proteggere. Sarebbe cresciuto, sarebbe diventato alto, bello, chissà se col carattere di Meg o di Vince, e chissà quante donne avrebbe ammaliato in futuro, una volta diventato adulto…
Quando Meg si fermava a pensarci, increspava le labbra in un sorriso consapevole, come se quel futuro potesse vederlo e toccarlo con le proprie mani.
Si alzò a fatica dal suo letto sfatto, raggiungendo il piccolo sul divanetto.
Si sedette sul bordo e cercò di infilargli il braccino tra gli scialli, toccandolo come se fosse un pezzo di cristallo, delicato da maneggiare.
Gli lasciò poi una carezza ruvida sulla fronte un po’ sudata, asciugandogli col pollice qualche gocciolina.
Da quando Meg si era lasciata scappare con Vince quella verità su di lui, i suoi gesti nei confronti del figlio erano cambiati, poco alla volta.
Da insofferente e distaccata, Meg aveva iniziato a prenderlo più in braccio, sebbene iniziasse a pesare, a preparargli lei stessa il latte, nonostante a volte lo avesse bollito troppo o troppo poco.
Qualche volta si metteva ad annusargli la testolina, immaginando che emanasse lo stesso profumo di Vince, sopprimendo la voglia di correre da lui e chiedergli di abbracciarla.
Meg guardava il suo bambino e sperava al contempo di reprimere quel vuoto che, dal giorno in cui lo aveva riavuto dentro di sé, Vince le aveva lasciato.
Non era servito a niente toccarsi di nascosto, prima di dormire o durante il bagno. 
Quella voglia bruciava tra le gambe e le si dipanava nello stomaco, senza darle scampo.
Un bussare improvviso la colse di sorpresa, facendola quasi saltare sul divano dove era seduta.
Lo udì una seconda volta, prima di decidersi ad aprire la porta.
Quasi colta da un'eccitazione febbrile, Meg si precipitò alla porta con passo euforico.
Dal profondo del cuore, sperò di trovarsi Vince alla porta, che fosse lui a cercarla a quell'ora della notte, anche solo per discutere e litigare ancora.
«Vince!» si lasciò scappare Meg, non appena aprì la porta trafelata, con l'aspettativa dipinta sul volto arrossato.
Ma il suo entusiasmo si assopì all'istante nel constatare che non era stato il suo marine a bussare alla sua porta.
«Aspettavi qualcuno?».
La voce gentile e pacata di Lily diede modo a Meg di darsi un contegno, mettendo da parte la delusione che stava provando in quel frangente.
«No, affatto. Non aspettavo proprio nessuno» biascicò, muovendo nervosamente le pupille ovunque.
Si strinse nel cardigan blu, mordendosi l'interno della guancia, infastidita.
Lily represse un sorriso a quella reazione, dopotutto non era una stupida. Meg, come tutte le altre ragazze del campo, era un libro aperto per lei.
«Posso entrare?» chiese ugualmente, facendo finta di nulla.
Meg si limitò soltanto a scostarsi dalla porta, incrociando le braccia sotto al seno.
Lily entrò con passo elegante, guardandosi velocemente intorno. Nel vedere Kouki dormire sul divano, le si aprì un sorriso bellissimo in viso.
«Stasera ha fatto il bravo» constatò, non staccando gli occhi da dosso al bimbo.
Meg annuì scocciata.
«Si vede che si era stancato» commentò piatta, mostrandosi indifferente alle attenzioni di Lily.
Raggiunse la sedia e si sedette, allungando una mano verso il pacchetto di Marlboro Gold. Dopo avervi rovistato con le dita dentro, Meg afferrò una sigaretta e se la portò alle labbra.
«Vuoi compagnia?» chiese la più grande, guardandola con affetto, come aveva sempre fatto.
Con la sigaretta bloccata tra le labbra, Meg la fissò per qualche secondo, per poi scuotere il capo in senso di negazione.
«Scusa, dimentico che ti fa male» si giustificò lei, poggiando la sigaretta sul tavolo, stringendola tra le dita sottili.
Lily sorrise nuovamente a quella inaspettata premura.
«E non solo a me, a quanto pare» e si voltò verso Kouki, mentre si sedeva anche lei, di fronte a Meg, sulla sedia.
La ragazza sbuffò, appoggiando la guancia sul pugno chiuso. 
«Sto cercando di migliorare, va bene?» brontolò, gonfiando le guance come una bambina capricciosa.
«Anche se non importa a nessuno, ma fa lo stesso» e tirò su col naso, poggiando la schiena allo schienale di legno della sedia, a testa bassa.
Lily allungò una mano verso quelle di Meg, carezzandole delicatamente il dorso con la punta delle dita. «Per caso, quando intendi nessuno, ti riferisci ad un certo soldato italo-americano dagli occhi verdi e il cuore buono?».
Meg si umettò le labbra, fissando il pavimento con aria colpevole.
Nascondere qualcosa a quella donna era davvero un'ardua impresa.
«Non ha il cuore buono!» replicò con sufficienza «è uno stronzo come tutti gli altri».
È stronzo per colpa mia, lo so.
Meg avrebbe voluto urlarle quelle parole, ma per orgoglio personale se le lasciò scivolare dentro al cuore, come un balsamo velenoso.
«Uno stronzo che stavi aspettando con trepidazione, mi è sembrato» ribatté Lily sorniona, guardandola di sottecchi.
Meg la fissò per qualche secondo dritta in quegli occhi dal taglio incantevole, ormai scoperta.
«E da cui mi sarei lasciata scopare senza alcuna dignità, se lo avesse voluto».
Meg sussurrò quella frase con aria sconfitta, mentre una lacrima le scese lungo la guancia, seguita da una seconda, una terza…
Tentò di asciugarsi il viso con il dorso della mano, ma fu inutile. Il suo volto era una maschera bagnata, che aveva lavato via ogni bugia ed ipocrisia.
Lily si alzò dalla sedia e la raggiunse, lasciando che appoggiasse la testa all'altezza del suo ventre piatto. Le carezzò via i fili biondi dal viso, lasciandola libera di sfogarsi. 
Meg si lasciò consolare, nascondendosi tra le braccia di quella donna che, nonostante tutto, le dimostrava sempre un gran bene e un grande affetto.
«Lo avevo capito, sai?» le confessò Lily, massaggiandole il viso con dolcezza «Che ci tenessi in modo particolare a Vince… e tu a lui».
Meg strofinò il viso sul tessuto del vestito di Lily, come una bambina in cerca di coccole materne.
«Non è solo questo». Sentì che era giunto il momento di parlare, di buttare fuori tutto quello che in quegli anni aveva represso con la forza, ammaccandole il cuore e i sentimenti senza pietà.
Lily le dedicò uno sguardo indagatore.
«Non ci tengo a lui… io lo amo, l'ho sempre amato e desiderato tanto».
Un singhiozzo le bloccò per qualche secondo il respiro in gola.
«Dopo che- dopo che Rokurota-san mi aveva portata via da Maerata» e nel sentire il nome dell'uomo che aveva amato da sempre fuoriuscire dalla voce tremula di Meg, Lily sospirò stringendo le palpebre, reprimendo la violenta mancanza che le si agitò dentro «Vince è stato l'unico… l'unico uomo che ho fatto entrare nel mio letto. L'unico e il solo che mi abbia fatto battere il cuore».
Meg si aggrappò alle braccia di Lily, sollevando il volto per guardarla dritta negli occhi e pretendere di essere guardata a sua volta.
«Voleva portarmi in America con lui… voleva sposarmi» le lacrime di nuovo pronte a scendere, mentre Lily gliele asciugava piano con un tratto di pollice «Ma poi è scomparso, non si è presentato al nostro appuntamento… e io…» un singhiozzo le smorzò la frase «io volevo- dovevo dirgli una cosa importante…».
Lily la vide voltarsi in lacrime verso il bambino, che ronfava leggermente beato, ignaro del fatto che la sua mamma stesse piangendo al ricordo di momenti dolci e amari.
Fu allora che ottenne la conferma ad un sospetto che aveva nutrito da tempo. Un sospetto che era diventato improvvisamente realtà.
«E questa cosa importante lui adesso la sa?» chiese, carezzandole la testa con delicatezza.
Meg non smise di fissare il figlio neanche per un secondo.
«È- è complicato» affermò con voce flebile, ma inaspettatamente composta.
«Avrei voluto dirglielo non appena l'ho rivisto qui alla base, ma…» un sospiro dal naso «ma sono un'idiota. Ho travisato le sue parole, e da quel giorno mi faccio del male per fare del male anche a lui. Lo detesto così tanto da volerlo far uscire di testa, da provocargli una reazione… ma per lui ormai sono invisibile. Non valgo niente. Ed è tutta colpa mia».
Meg si aggrappò con più forza di prima al ventre di Lily, stringendosi a lei con disperazione.
Lily ricambiò il calore di quell'abbraccio, comprensiva.
Aveva avuto da sempre il sospetto che Vince fosse il padre di Kouki, ma le mancavano prove concrete per poter decretare la cosa con chiarezza.
Quella sera, Meg le aveva servito tutte le prove su di un piatto d'argento, senza che lei muovesse un dito. O meglio, una piccola spinta l'aveva data, senza però aspettarsi chissà che risultato.
Aveva colto Meg in un buon momento, pensò.
Magari sarebbe stata disposta a dirle anche altro, a confessarle altre cose.
Soddisfando così il vero motivo per il quale era andata a trovarla.
Lily sperò davvero che quella fosse la volta buona per chiarire quei lati oscuri di quella vicenda amara che aveva coinvolto tutti loro, tre anni prima.


 
***


 
«Io quello lì lo strozzo con le mie mani!».
Mario sbraitò quell'affermazione girando come una trottola impazzita per la stanza, sotto lo sguardo allibito di Satō, intento a leggere un libro sulla lotta comunista su cui non riusciva a concentrarsi, a causa sua.
Per fortuna avevano chiuso bene i paraventi, così i vicini non avrebbero curiosato all'interno della villa che un tempo era appartenuta a Rokurota.
«Come gli è saltato in testa ad Ao di dire ad Eri che mi batto negli incontri clandestini al porto?» continuò Mario, incurante degli sguardi infastiditi che Satō gli rifilava ogni due passi.
«E quale sarebbe il problema, scusa? Sei sempre stato un pugile tu, no?» dichiarò distrattamente Satō, voltando pagina con aria scocciata.
Nel sollevare lo sguardo si ritrovò la mano offesa di Mario coperta dal guanto a pochi centimetri di distanza dal naso, cogliendolo impreparato.
«Questo!» segnalò Mario, con ovvietà «È questo il problema! Mi sono premurato che nessuno lo venisse a sapere, fino ad ora…».
«Perché temi la reazione di tua madre?» chiese ingenuamente Satō, sollevando un sopracciglio.
Si guadagnò l'occhiata inviperita dell'altro, come a volerlo fulminare lì sul posto, nell'immediato.
«Non solo la sua» specificò, seccato.
Se i ragazzi fossero venuti a conoscenza di quella sua bravata nascosta, come minimo gli avrebbero messo fuori uso anche la mano sinistra, e probabilmente neanche sarebbe bastato a fermarlo a battersi nei match clandestini.
Non era colpa sua se il ring esercitava su di lui un richiamo fortissimo, una pulsione talmente vitale che solo il sesso, il più delle volte, riusciva a compensare.
«Sono nella merda, Satō, nella merda più nera!» sbraitò ancora Mario, sollevando gli occhi al cielo.
Satō roteò le pupille, chiudendo con sommo disappunto il libro che aveva in mano.
«In pratica devi trovare questi soldi entro due settimane… quindi ti converrà dormire direttamente al porto, puoi chiedere ad Ao-san se può darti il mio stesso alloggio» lo canzonò lo studente universitario, mettendo su un sorriso tiratissimo e fasullo.
Mario grugnì dal disappunto alla sua presa in giro.
«Un'altra parola e ti trascino per i capelli in caserma! Idiota!» minacciò, sapendo già dal principio che non l'avrebbe mai fatto.
Rispettava troppo Mitsuha e Yukino per fare loro una cosa del genere, dopo tutti gli sforzi che avevano fatto per salvare il fratello dalla galera. 
«Se vuoi una mano, mi presto volentieri!» esordì in risposta Satō, ignorando la sua minaccia momentanea.
Mario scosse il capo, deciso.
«Tu devi stare buono e soprattutto fermo fino alla partenza per Shanghai. È un problema mio, lo risolvo io».
Aveva da poco finito di parlare che sentì qualcuno bussare alla porta di casa.
Sulle prime Mario pensò, e sperò, di esserselo immaginato, ma nel percepirlo ancora, si mise in allerta.
«Potrebbe essere Setsuko-san?» chiese Satō, guardando Mario come se sperasse in una sua affermazione alla propria domanda. Ma Mario non lo rassicurò neppure con lo sguardo.
«Ha il turno in ospedale, e anche se fosse avrebbe le chiavi…» rispose, vago.
«Nasconditi nell'armadio a muro, vado a vedere chi è» si decise poi, lasciando la stanza con leggera titubanza.
Una volta raggiunto la porta, e assicuratosi che quel piantagrane di Satō avesse eseguito il suo ordine, indugiò per qualche secondo davanti al portone, indeciso sul da farsi. 
Afferrò il calzascarpe di metallo che stava dietro la porta, nascondendoselo dietro la schiena. Nel caso più estremo, lo avrebbe usato come arma per difendere lui e Satō.
Aprì con cautela, sbirciando oltre l'uscio.
Tirò un sospiro di sollievo, misto ad enorme sorpresa, nel ritrovarsi Junko fuori la veranda, ancora con la divisa universitaria addosso e la borsa dei libri a tracolla.
«Tu che ci fai qui?» chiese Mario, scioccato.
Junko sorrise timidamente, portandosi una ciocca nera dietro l'orecchio.
«Niente, sono due giorni che ti sei dato alla macchia, e ho pensato di portarti qualche libro dalla biblioteca» dichiarò placida, guardando Mario con aspettativa.
«È stata Setsuko a dirmi che ti trovavi alla villa».
Mario soffocò una risata a quella rivelazione. La sua madrina gli aveva raccomandato discrezione, eppure lei era stata la prima ad infrangere tale regola.
Poggiò a terra il calzascarpe e le lasciò libero il passaggio, invitandola ad entrare.
Giunsero nella stanza dove poco prima aveva dato adito alla propria disperazione davanti ad un perplesso Satō.
«Junko, prima però devo dirti una cosa… non sono da solo in questo momento» volle specificare subito Mario, a scanso di equivoci.
La ragazza lo fissò stupita.
«Stai dicendo che sei in compagnia di una… ragazza?».
Junko avvampò nel formulare quella frase, cercando di dissimulare poggiando ovunque lo sguardo, men che meno su Mario, lì di fronte a lei.
Sulle prime, lui non seppe che dire, imbarazzato. Poi prese coraggio, riempiendosi d'aria il petto con una certa imponenza.
«No, no assolutamente» chiarì, grattandosi il naso con nervosismo.
«Puoi uscire da lì, Satō, muoviti!» disse poi alla volta dell'armadio, tossicchiando per stemperare l'agitazione.
Junko sgranò gli occhi nel vedere quel giovanotto alto e allampanato uscire con difficoltà dall'anta stretta dell'armadio, con aria scombussolata.
Avrebbe voluto prendere in giro Mario sul fatto di aver nascosto la presenza di quel ragazzo in quel modo, ma la voglia di scherzare le passò in fretta nel riconoscere in quel tipo Satō Kobuchi, suo compagno di università.
«Kobuchi-san?!» esclamò appunto Junko, portandosi una mano alla bocca.
«Yoshida-san» si limitò a dire Satō, con tono meno allarmato.
«Bene, sono contento di dover sorvolare sui convenevoli» s'intromise Mario, frapponendosi anche fisicamente tra i due.
Junko avanzò di qualche passo nella stanza, poggiando a terra la borsa.
«Ma… la polizia lo sta cercando ovunque! Come ha fatto a nascondersi qui?».
Sebbene avesse Satō a pochi centimetri di distanza, Junko preferì rivolgere le sue perplessità ad un riottoso Mario, stanco solo all'idea di dover dare spiegazioni.
Tuttavia, non poté tirarsi indietro dal farlo.
«Le sue sorelle mi hanno parlato di lui… e così-»
«E così ti sei messo fare di nuovo il buon samaritano!».
Junko non lo disse con rimprovero, bensì con consapevolezza. Ormai conosceva abbastanza bene l'amico da aspettarsi che avrebbe potuto tranquillamente compiere un gesto simile. Sarebbe addirittura rimasta delusa se fosse accaduto il contrario.
Si guardò poi attorno, con le braccia incrociate sotto al seno, squadrando ogni angolo della stanza.
«D'accordo» esclamò infine «cosa posso fare?» chiese poi pratica, abituata a dare la sua disponibilità, dove necessario.
Mario però scosse il capo, contrario.
«Tu niente! È già tutto risolto… Satō partirà per Shanghai la settimana prossima» specificò il ragazzo, con aria sicura. Ma Junko non si accontentò di sapere solo questo.
«E con quali soldi? E soprattutto, con quali documenti?».
Mario si sentì con l'acqua alla gola, sebbene Junko non lo stesse pressando o intimidendo. Parlava cauta, realmente interessata a sapere, per filo e per segno, quanto stesse accadendo.
«Abbiamo entrambe le cose» chiosò, portandosi le mani ai fianchi, sperando che la curiosità di Junko si fosse acquietata con quelle fugaci informazioni.
«È solo questione di giorni, Yoshida-san» s'intromise Satō, con una certa urgenza.
«Giusto il tempo di prendere il vaporetto e sparire… per un po’».
Un leggero senso di colpa s'impossessò delle ultime parole di quella frase, provocato dallo sguardo truce che la ragazza gli dedicò.
«Certo» rispose, infatti, con una certa saccenza «Tu scappi via, mentre le tue sorelle devono pagare al posto tuo. Ti rendi conto che Yukino è solo una ragazzina, e nonostante tutto si è impegnata per non lasciare tutto nelle mani di Mitsuha? Hai idea di quanto alto sia il costo della tua libertà?».
Non era la prima volta che Junko affrontava quel discorso con Satō.
All'università, durante le riunioni, si era ritrovata spesso a dire la propria, soprattutto quando i sindacati dello Zengakuren interrompevano le lezioni per manifestare, precludendo a tanti studenti il normale svolgimento delle lezioni.
Anche per lei qualcosa in quella società andava rivista e cambiata, ma era fermamente convinta che gli atti estremisti non avrebbero condotto nessuno da nessuna parte.
Junko era troppo pacata per sostenere apertamente la causa e troppo poco tollerante per astenersi del tutto da essa.
Durante le ultime manifestazioni, si era ben guardata dal prendervi parte, per non precludersi il proprio futuro accademico.
Sapeva di aver compiuto un gesto egoistico, ma c'erano delle cose sul quale non avrebbe potuto sindacare molto: sulla sua natura di donna e sulla limitatezza delle possibilità che le venivano concesse.
Junko era stata fortunata, e non avrebbe buttato quella fortuna alle ortiche per inseguire un ideale che i più avevano elevato a legge assoluta.
Tutte queste cose, sia Mario che Satō le sapevano bene, per questo nessuno dei due osò obbiettare le parole di Junko.
Il secondo si limitò solo ad umettarsi le labbra e abbassare il capo.
«Giuro sulla tomba dei miei genitori, che le ripagherò fino all'ultimo centesimo. Il loro sacrificio non resterà vano». Fu tutto quello che Satō si sentì di dire, col cuore in mano. Rivolse uno sguardo supplichevole alla volta di Mario, sperando di ottenere comprensione da parte sua.
In effetti, Mario comprendeva bene le ragioni sia dell'uno che dell'altra, e sperò davvero in cuor suo che i sacrifici di quelle due povere ragazze non venissero buttati all'aria con un soffio di vento.
«Vorrei poterti credere, Satō, davvero» dichiarò sommessa Junko, fissando il tatami con insistenza, come a voler fare ordine nella sua testa, cercando nel frattempo un appiglio.
«Ad ogni modo» cambiò poi discorso «Immagino siate affamati. Vi preparo qualcosa per cena» propose, e nell'uscire, afferrò Mario per il braccio, guardandolo con il suo sguardo volutamente ammaliante.
«Vieni con me di là a preparare?» chiese con semplicità, indicando con la testa la stanza che dava sull'ingresso.
Mario annuì, rivolgendo un ultimo sguardo a Satō, che nel frattempo aveva ripreso in mano il libro che stava leggendo poco prima.
«Ti chiamiamo appena sarà pronto» gli comunicò Mario pratico, prima di uscire dalla stanza con Junko.
Satō si limitò a fare un cenno di assenso col capo, che passò del tutto inosservato.
 

Setsuko aveva lasciato le uova e il pangrattato nella dispensa.
Era riuscita a trovare delle fettine di maiale a buon prezzo quella mattina, assieme al miso per il ramen e il nattō, uno dei piatti che Mario più odiava in assoluto.
Gli ricordava l'infanzia durante la guerra, quando sua zia lasciava fermentare i fagioli di soia per ore e, assieme a quel poco di riso che riuscivano a racimolare in giro, si nutrivano per giorni, a piccole dosi, nonostante la fame acuta.
Yuzuki era arrivata persino a togliersi il riso dalla ciotola pur di far mangiare lui, restio a dover consumare nattō per diversi giorni di fila.
All'epoca Mario era piccolo, non capiva quanto fosse importante avere un pasto caldo al giorno in tavola. O almeno, né sua zia né suo nonno si erano mai azzardati a fargli provare cosa significasse restare a digiuno. Si sarebbero entrambi strappati gli occhi e le viscere, pur di non lasciarlo morire di fame.
Nonostante ciò, a distanza di tempo, Mario fissò quella ciotola con evidente disgusto stampato in faccia.
Stava impanando le fettine di maiale con le bacchette, mentre Junko al suo fianco sbatteva le uova energicamente. Al vederli da fuori, sembravano una coppietta sposata e molto affiatata. Mario abbozzò un sorriso al solo pensiero.
«Come mai Setsuko ti ha detto che ero qui?» chiese poi Mario dal nulla, intento ad afferrare la fettina senza farla cadere nel lavabo.
Junko lo fissò in tralice.
«È passata al Rainbow e mi ha detto che eri alla villa, e che probabilmente avresti avuto bisogno di me» affermò, mentre muoveva le bacchette sempre più velocemente nella cremina giallastra che si era formata.
A Mario scappò un sogghigno.
Aveva sempre avuto la strana impressione che Setsuko volesse spingere entrambi l'una accanto all'altro, e questa cosa puntualmente lo faceva sorridere, a volte amaramente a volte di gusto.
«Avevo capito che eri invischiato in uno dei tuoi traffici… una mano ti sarebbe comunque servita, no?» disse cauta, senza distogliere lo sguardo dal suo operato.
Mario la fissò di sbieco per qualche secondo.
«Ti ricordo che non sono l'unico che traffica al Rainbow» sottolineò piccato, mentre aggiungeva della farina al pangrattato con la mano sana.
«Vero, ma sei l'unico difficile da gestire» commentò Junko, sollevando un sopracciglio.
«E ogni tanto, parti in solitaria senza avvisare nessuno» lo rimbeccò, dandogli una spallata leggera.
Risero entrambi, Mario con aria più impacciata rispetto a Junko, che rise con più gusto.
«So cosa stai pensando… riguardo a Satō, intendo».
Il momento di ilarità durò abbastanza poco.
Mario decise di tornare sul nocciolo della questione, cercando di tenere a bada la difensiva che puntualmente veniva innalzata come un muro.
«Penserai che sto aiutando un criminale a sfuggire alla giustizia, che-»
«Mario, io non reputo Satō un criminale. Come non reputo criminali né te, né nessuno dei ragazzi del locale» lo interruppe Junko, avvicinando la ciotola con l'uovo sbattuto alle fettine. 
Mario ne immerse una con l'ausilio delle bacchette, per poi girarla nella farina e nel pangrattato. L'olio stava cominciando a soffriggere nella casseruola.
«L'unica cosa che gli recrimino, è il voltare le spalle alle sue responsabilità. Lascerà le sue sorelle a sbrogliare da sole i problemi che lui gli ha causato, anche se involontariamente» spiegò Junko, con la calma che l'aveva sempre contraddistinta.
Mario immerse nell'olio la fettina di maiale.
«I suoi genitori sono morti, e Mitsuha è la sorella maggiore. Non avrebbe mai abbandonato il fratello al suo destino» disse Mario, mentre lo sfrigolio dell'olio sovrastava l'ultima parte della frase.
Junko gli avvicinò maggiormente la ciotola, per permettergli di inzupparne un'altra.
«E i suoi doveri di fratello maggiore nei confronti di Yukino, allora?».
Mario la fissò per qualche secondo, aspettando il resto della filippica.
«Quella ragazzina ha lasciato la scuola per non lasciare tutto l'onere alla sorella più grande… mi chiedo se lui davvero questi sacrifici li vede o fa finta di non vederli».
Mario inasprì lo sguardo, il diaspro delle pupille tremò.
«Li vede, sono sicuro che li vede. Ma non tutti sono responsabili come te, Junko».
Mario si morse la lingua nel dire quelle cose. Non avrebbe voluto risultare sprezzante, e sperò di non averla offesa. Ma serviva ben altro per offendere Junko, e fino ad allora, i suoi modi bruschi non avevano intaccato la sua placidità caratteriale.
Lo guardò, infatti, con aria serena, anche se piccata.
«A volte penso che solo noi donne siamo votate al sacrificio, al posto di voi uomini. Mi chiedo cosa sarebbe stato della mia famiglia, se io non ci fossi stata».
Quella domanda se l'era posta anche Mario, infinite volte. Junko si era presa cura della madre ammalata, dei fratelli più piccoli, e del padre, che fino a qualche tempo fa non riusciva a trovare un lavoro fisso da nessuna parte. Il Rainbow aveva donato alla sua famiglia stabilità sia economica che morale.
Mario l'aveva sempre ammirata per questo, vedendola conciliare lo studio assieme agli impegni del locale e della propria famiglia.
E sì, forse aveva ragione quando diceva che le donne erano più votate al sacrificio rispetto a loro.
E di esempi sotto mano ne aveva, a cominciare da sua zia, sua madre…
Sua madre.
La donna che più aveva detestato e amato al mondo, oltre ogni logica, sapendo con certezza di esserne ricambiato, soprattutto nell'amore.
Perché l'amore Mario lo aveva conosciuto, sotto qualsiasi forma. E la forma più bella e vera l'aveva ricevuta dall'uomo che un giorno si era presentato da lui, sbruffone come suo solito, dichiarando di essere suo padre. 
Quanto amore Rokurota gli aveva trasmesso con gli anni!
E, a pensarci, lui si era sacrificato per lui, e in seguito per i ragazzi, più di chiunque altro.
Rokurota poteva essere il perfetto esempio che avrebbe potuto scalfire la teoria di Junko.
Proteggere non era una questione di genere, era una questione di cuore.
Mario questo lo sapeva, gli era stato insegnato così, da sempre.
«Mario, il katsudon, sta bruciando!».
Il richiamo improvviso di Junko lo riportò al presente, buttandosi a capofitto con le bacchette, incurante dell'olio che saltava di qua e di là.
«Vado a dire a Satō di rendersi utile con l'insalata» disse poi Junko, carezzandogli dolcemente la spalla.
Mario annuì, concentrato a salvare il katsudon.
Mangiare avrebbe alleggerito il peso dei pensieri, pensò grossolanamente.
Almeno per un paio d'ore.



 
***
 


Meg si era un po’ calmata dopo essersi accoccolata sulla spalla di Lily.
Tirava ancora su col naso, ma le palpebre erano talmente pesanti che, probabilmente, si sarebbe addormentata di lì a poco.
Ma Lily pensò di sfruttare la cosa a proprio vantaggio. 
Aveva promesso a Mario che avrebbe indagato sulla vicenda di Rokurota, nonostante l'argomento le bruciasse nel petto come carbone ardente.
In più, la sua preoccupazione riguardo ad una possibile avvicinamento di Maerata la faceva stare talmente in allerta da non farle chiudere occhio.
Era andata da Meg principalmente per accertarsi che quell'essere non fosse talmente sfrontato da presentarsi alla sua porta e avanzare pretese.
Lily l'avrebbe difesa con le unghie e con i denti se fosse stato necessario.
Si concesse un lungo respiro, prima di iniziare a tastare il terreno con la più piccola.
«Così tu e Vince vi conoscete già? Da due anni, giusto?».
Abbassò leggermente lo sguardo, per accertarsi che Meg non si fosse appisolata nel frattempo.
La vide sollevare lo sguardo azzurrino verso il proprio, due lapislazzuli bagnati di acqua e sale, colmi di aspettativa.
«Sì» rispose laconica, poggiando meglio la guancia sulla spalla di Lily.
Quest'ultima annuì col capo, carezzandole i capelli.
«E dopo che vi siete lasciati, non hai più rivisto Maerata, è così?» indagò ancora, sperando di scegliere le parole giuste, senza darle modo di chiudersi nuovamente a riccio.
Meg annuì distrattamente.
«Sì, è così» rispose. «Sapevo che mi stava cercando: lo avevo rivisto a Shibuya, ma Vince mi aveva promesso che non avrebbe lasciato che mi torcesse un solo capello».
Lily carpì l'informazione continuando ad annuire, con estrema attenzione.
«A Vince avevi parlato di lui?». La carezza sui capelli di Meg si fece più lenta.
«Sì, gli avevo raccontato tutto» confessò Meg, con voce rotta dalla stanchezza.
Lily annuì nuovamente.
«Gli hai detto anche che sei sposata con lui?» avanzò, soppesando le parole col timore di risultare inopportuna e provocare una reazione indesiderata nella più piccola.
«Sì, non gli nascosi nulla».
Tuttavia, Meg risultò alquanto collaborativa quella sera.
Lily, in cuor suo, aveva desiderato che ciò accadesse. Tastare lentamente il terreno stava portando i suoi frutti.
«E cos'altro sa Vince… di te?».
Meg la guardò nuovamente, come a voler cogliere altro attraverso le sue parole, o se necessario, attraverso i suoi silenzi.
«Cos'altro avrei dovuto dirgli?» chiese ingenuamente, mentre il sospetto iniziava a farsi largo nel suo animo.
Lily deglutì prima di continuare.
«Beh, non so… qualcosa riguardo al prima di Shibuya. Qualcosa su…» socchiuse gli occhi prima di pronunciare il suo nome, trattenendo un sospiro «qualcosa su Rokurota, magari».
Lily avrebbe voluto aggiungere anche altri nomi, ma pensò che sarebbe stato più opportuno procedere per gradi. Già il solo menzionare l'amore perduto della sua vita le aveva provocato un dolore al petto lancinante ed istantaneo. Si portò una mano alle fedi che portava attaccate al collo, giocandoci distrattamente con le dita.
Se non me l'avessi chiesto tu, Mario, non lo avrei mai fatto.
Lily formulò quel pensiero, cercando di non trasmettere nulla alla ragazza appoggiata a lei sul letto. Avrebbe ammortizzato tutto dietro ad un sorriso di circostanza, come sempre.
Tanto presa dai suoi tormenti, però, non si accorse dello sguardo sempre più sottile che la più piccola le stava rivolgendo.
«Perché avrei dovuto parlargliene?» chiese stizzita, scrutando il viso di Lily come a volerci trovare da sola una risposta.
«Ecco…» prese tempo lei «vista la sintonia che si è creata tra voi, pensavo-»
«Lily» la interruppe bruscamente Meg, alzandosi col busto e mettendosi meglio a sedere. Gli occhi due pezzi di ghiaccio affilati.
«Ho come la sensazione che tu voglia chiedermi qualcosa di scomodo» ipotizzò, e dalla reazione che vide nella donna - gli occhi da cerbiatta le si spalancarono appena - capì di aver centrato il punto.
Lily deglutì, non perdendo il contatto visivo con Meg.
«Scomodo?! No, affatto!» dichiarò, tradendo una leggera esitazione nella voce.
Ma Meg non parve bersela la sua risposta.
«Cosa vuoi sapere, Lily?» chiese dura, continuando a fissarla con astio.
Lily agitava convulsamente le dita attorno alle fedi, come a volersi aggrappare ad un'ancora per non affogare.
Il suo sguardo nervoso e spaventato si scontrò con quello di Meg, glaciale e scontroso.
Tuttavia, inspirò profondamente dal naso, stringendo nel palmo le due fedi, con tutta la forza che aveva. Le sarebbero rimasti i segni rossi, ma poco le importava. Quel gesto lo compiva sempre quando aveva bisogno di acquisire forza.
«Ho bisogno di chiederti una cosa, Meg. Non è facile per me parlarne, non con leggerezza almeno. Quindi ti chiedo la massima collaborazione».
Nel sentirla parlare così, Meg rilassò di poco lo sguardo, incuriosita dalle sue parole.
«Tu sai com'è morto Rokurota, non è vero?».
Fu a quel punto che Meg spostò lo sguardo altrove, poggiandolo verso il figlioletto addormentato.
Lily poteva capirlo se Meg non avesse voluto parlare per proteggere sé stessa e Kouki, non l'avrebbe biasimata per quello.
«So quello che sanno tutti» dichiarò poi, con sguardo perso «che si è gettato da quella palazzina, ad Itogawa».
Lily le poggiò una mano sulla spalla, voleva richiamare la sua attenzione.
«Però tu hai detto a Mario che lo hanno ucciso…» soffiò, aveva la bocca arsa.
Meg tornò a guardarla, stavolta con meno riguardo di prima.
«Te lo ha chiesto lui di fare domande?» domandò allarmata, il petto che le si muoveva rapido per stare al passo col respiro concitato.
Lily cercò di dissimulare, aveva bisogno di tempo per elaborare una scusa plausibile.
«Meg, di Mario ti puoi fidare, lui-»
«Io non mi fido di nessuno!»
«Lo so, però di Rokurota ti sei fidata a suo tempo, e-»
«Ed è stato un grosso errore farlo! Mi dispiace Lily, ma su questa faccenda non spiaccicherò parola!».
Meg apparve così risoluta che Lily dovette arrendersi all'evidenza, ammettendo la propria sconfitta.
«Va bene, non insisterò oltre» le rispose, abbassando lo sguardo con dispiacere.
Meg la fissò per qualche altro secondo, dandosi il tempo di calmarsi.
«Non capisco perché ti fai così tanto abbindolare da quel tizio. È per il fatto che somiglia molto al tuo amato Rokurota?» chiese poi, studiando l'espressione stranita che si dipinse sul volto della donna.
Sulle prime, Lily rimase interdetta a quelle parole, per poi prorompere in un sorrisino di scherno, dai contorni amari.
«Tu non mi dici i tuoi segreti, perché dovrei rivelarti i miei?» fece, fintamente piccata.
Meg non smise di fissarla, portandosi le ginocchia al petto per poggiarvi la testa sopra.
«Te lo porti a letto?» chiese poi, senza troppi preamboli.
Lily rimase assente per qualche minuto, per poi addolcire lo sguardo in un'espressione languida, nostalgica.
«Ti lascio riposare» chiosò Lily, con la sua solita espressione illeggibile che metteva su ogni volta che qualcuno provava a farle estrapolare qualcosa di cui non amava parlare. Lily non diceva mai un “no” netto, declinava tutto con sorrisi cortesi e occhiate eloquenti, come a voler far distogliere l'attenzione su di sé con delicatezza, senza dare nell'occhio. Aveva imparato con il tempo a muoversi leggiadra anche sugli argomenti che le avevano spezzato il cuore. 
Aveva quasi raggiunto la porta, quando un bussare improvviso mise in allerta tutte e due.
Kouki si rigirò negli scialli, come un bruco avvolto nella sua crisalide.
«Chi sarà?» si voltò allarmata Lily verso la più piccola, stupita quanto lei.
«Non ne ho idea…» dichiarò Meg, per poi chiudersi a riccio, stringendosi le ginocchia al petto con forza.
«Se fosse Terence?» chiese, con la faccia nascosta tra le braccia.
Lily si voltò nuovamente verso la porta. Armata di coraggio, allungò un braccio tremante alla volta della maniglia, aveva il palmo sudato.
Aprì con cautela la porta, ma fuori non vi trovò nessuno. Andò sulla piccola veranda, per dare uno sguardo in giro.
A parte qualche sporadico soldato che passeggiava da solo o in dolce compagnia, Lily non scorse alcun viso estraneo nel suo raggio visivo.
Fece per rientrare, quando col piede andò a sbattere contro un pacchetto, poggiato sullo zerbino della porta.
Lo esaminò per qualche minuto buono, accovacciandosi a terra con cautela.
Quando lo prese in mano, lo ispezionò diverse volte, come a voler trovare un indizio che potesse ricondurre al mittente. Ma non vi era scritto niente al di sopra.
«Chi era allora?» chiese Meg accovacciata nel suo angolino, nel vedere Lily rientrare con aria perplessa.
«Chiunque fosse, ha lasciato questo» dichiarò l'altra, mostrandole il pacchetto.
Alla luce aveva un colore giallo paglierino, un po’ unto ai lati.
Meg fissò l'oggetto come se tra le mani di Lily vi fosse custodito uno spirito maligno.
«Puoi aprirlo tu?» le chiese la bionda, non azzardando a muovere un dito, atterrita.
Anche Lily avvertì una certa apprensione nel dover scoprire cosa ci fosse al suo interno.
Pensò subito al peggio, di ritrovarsi le interiora di un animale tra le mani, o qualsiasi altra cosa che potesse risultare intimidatoria.
Sfilò lo spago lentamente, per poi scartare l'involucro, con le dita che tremavano.
Si stupì di trovare al suo interno un braccialetto di cuoio, vagamente rossiccio.
Su di esso, vi era intagliato un piccolo uccello con le ali spiegate, intento a spiccare il volo.
Nel vederlo, Meg aguzzò la vista, sciogliendosi dalla posizione in cui si era costretta.
Allungò il collo verso l'oggetto per vedere di cosa si trattasse.
Lily tirò un sospiro di sollievo nel constatare che Meg sembrò rilassarsi nel vedere quel braccialetto.
«Ma chi…?» provò a chiedere la giovane hafū, nel prendere in mano quell'accessorio.
Lily continuò a fissare il braccialetto, la carta del pacchetto accartocciata tra le mani.
«Che possa essere un regalo di Vince? Vuole essere un gesto di riavvicinamento?» provò ad indovinare Lily, sollevando un sopracciglio.
«Ha un'aria familiare…» confessò Meg, nello scrutarlo attentamente, passando il pollice soprattutto sull'uccellino in rilievo.
Doveva essere una specie particolare, che in quel momento non le sovveniva.
Dalla carta in cui era avvolto il pacchetto, scivolò un biglietto, che cadde a terra come un petalo delicato, senza far rumore.
Lily lo prese e lo porse direttamente a Meg, senza proferire parola.
Meg lo prese, aprendolo lentamente.
Non lesse ad alta voce, e dalla sua espressione, Lily riuscì a cogliere poco o nulla.
«Che dice?» chiese ad un certo punto la donna, divorata dalla curiosità.
Pregò in cuor suo che non vi fossero scritte minacce o proposte oscene.
«Spero ti piaccia» dichiarò la giovane, laconica.
Lily aggrottò le sopracciglia.
«Tutto qui?» indagò «Non si è firmato?». La probabilità che fosse da parte di Maerata era alquanto elevata, e Lily non riusciva per nulla ad accantonarla, anche se avrebbe voluto farlo con tutto il cuore.
«Nessuna firma» confermò Meg, ripiegando il biglietto, per poi poggiarlo sul comodino lì accanto.
«Comunque adesso voglio cercare di riposare» disse poi la ragazza, coricandosi e stendendo le gambe snelle lungo il materasso.
Lily colse l'antifona, dirigendosi verso la porta. Ci sarebbe stato modo di capire da parte di chi era stato fatto quello strano regalo.
«Se hai bisogno… lo sai già» le disse, prima di congedarsi.
Meg annuì, e seguì con lo sguardo la porta chiudersi, con estrema cautela. 
Passato qualche secondo, Meg riprese il biglietto, riaprendo e rileggendo il contenuto con sguardo dubbioso.
A Lily aveva omesso volutamente la prima parte del biglietto. Tutte quelle domande su Rokurota, sulla sua morte, le avevano fatto crescere una certa ansia addosso. Non riusciva a capire da parte di chi fosse quel regalo, non sapeva neanche se sarebbe stato giusto percepirlo realmente come tale.
 
Anche se con un po’ di ritardo,
spero ti piaccia.

 
Nessuna firma, scritto in perfetto inglese.
Meg si portò il pugno chiuso sulla fronte, sospirando. Chiunque fosse stato, aveva solo una certezza a disposizione.
Quel braccialetto non era stato Vince a mandarglielo, né a scriverle quel biglietto. Lo stesso avrebbe potuto affermare su Joe, e ancor meglio su Maerata.
Socchiuse gli occhi, sperando di non incappare in incubi talmente vividi da sembrare reali, se non addirittura simili a ricordi.



 
***


 
C'era troppa aria viziata in quella stanza.
Tutte le donne, sette per l'esattezza, erano intente chi a ricamare, chi a sparlare di altre detenute, chi a contare i giorni che le restavano prima del rilascio.
Fuori il sole illuminava tutto con i suoi raggi benevoli, portando anche un po’ di luce attraverso le grate di quella cella.
L'unica donna gaijin lì presente era appoggiata con la spalla alla grata, il viso rivolto verso la luce con gli occhi socchiusi, un dolce sorriso stampato sul volto.
Nella stanza vi era trambusto come sempre, ma a lei sembrava non interessare, come se la sua mente fosse altrove, fuori da quelle mura, in strada, sognando di passeggiare di nuovo sotto al sole come un tempo, assaporando la libertà a pieni polmoni.
«Quanto manca al pranzo? Ho fame!» si lamentò una delle donne, intenta a sprimacciare il cuscino prima di riporlo assieme al futon in un angolo della stanza, assieme agli altri.
«Ho voglia di sgranchirmi le gambe! Devo prendere un po’ di sole durante l'ora d'aria» commentò un'altra, intenta a massaggiarsi i polpacci con una certa enfasi.
Tutto quel vociare venne interrotto dal rumore provocato dalla serratura che veniva aperta, a doppia mandata.
Dietro la porta, apparve un secondino, che entrò nella stanza con aria imponente.
Non era troppo in là con gli anni, si portava giovane.
La sua venuta poteva significare solo due cose: guai in vista per qualcuno o grandi notizie per qualcun altro.
«Lidia Bruno!» chiamò il secondino, affilando lo sguardo a mandorla nel cercare di scrutare la diretta interessata.
«Lidia Bruno è in questa cella?» chiese di nuovo il secondino, rivolgendo uno sguardo sprezzante a tutte le detenute.
La donna gaijin affacciata alla finestra si voltò lentamente verso l'entrata, trovandosi faccia a faccia col secondino, che la stava fissando con sufficienza. 
«Eccomi» disse, con voce tranquilla, serena.
«Ho visite?» chiese poi, pensando fosse quello il motivo per il quale quell'uomo fosse venuto ad importunarla.
«Per te» rispose invece il secondino, allungando un braccio con un foglio in mano nella sua direzione.
La donna di nome Lidia avanzò di qualche passo, prendendo con estrema delicatezza il foglio che le era stato porto.
«Ha bisogno di un traduttore?» chiese l'uomo, con meno minaccia nella voce rispetto a prima.
Lei scosse il capo con decisione.
«So leggere il giapponese, non serve» chiarì, mantenendosi pacata ed educata.
Si prese qualche minuto per leggere i kanji scritti a macchina, con aria attenta.
La sua espressione assunse sfumature di stupore e sorpresa, incuriosendo una delle sue compagne di cella, avvicinatasi per sbirciare ciò che vi era scritto.
«Credo di non aver capito bene qui» e con un dito, Lidia indicò il kanji incriminato, mostrandolo anche a Kiku, la detenuta che le si era avvicinata per leggere.
«Avrebbe a che fare col significato di libertà, ma-»
«Nessun errore» la interruppe il secondino,  «La prossima settimana verrai rilasciata. Inizia a prepararti».
Non le diede modo di chiedere spiegazioni, perché uscì repentinamente, chiudendosi la porta e non dimenticando di fissare la doppia mandata.
Lidia rimase a fissare la porta con aria attonita, indecisa se scoppiare a piangere dalla felicità o rimanere composta e rimandare i festeggiamenti una volta uscita dal carcere.
«Lidia-chan, hai visto? Il tuo Dio ti ha ascoltata!» esultò Kiku al posto suo, scuotendola.
Tutte le altre detenute si avvicinarono con cautela, contagiate anche loro dalla lieta notizia. 
«Non mi sembra vero» sussurrò a mezza voce Lidia, le lacrime ferme alle lunghe ciglia «rivedrò la mia famiglia!». 
Si portò una mano alla bocca, soffocando un singhiozzo. Kiku le cinse le spalle, con fare materno.
Avevano legato molto durante quei tre lunghi anni di detenzione.
«Il bene vince sempre, Lidia-chan. Sono così contenta, neanche dovessi uscire io stessa a momenti!» disse Kiku, abbracciandola con calore. Lidia ricambiò con altrettanto ardore, lasciando che le lacrime scivolassero lungo le guance smunte.
Erano tre anni che aspettava quel momento, ed era arrivata persino a non crederci più, che avrebbe trascorso il resto della sua vita rinchiusa tra quelle quattro mura grigie e imponenti.
Accolse con gioia le congratulazioni delle sue compagne di sventura, tutte felici di vederla finalmente tornare a casa.
Presto per lei quell'incubo sarebbe finito, e l'unico vero ostacolo che la separava dalla liberazione era l'attesa.
Sperando di non volare troppo in alto con le aspettative, e di non coltivare desideri invano.




 
Prima che parta il linciaggio per la lunghezza smoderata del capitolo (sì, ne sono consapevole 🤪) volevo appunto spiegare che non mi sono voluta porre limiti nella stesura di mia iniziativa. Ho scritto lasciando andare ogni freno inibitorio, e tutto quello che avevo da dire, l'ho detto. 
Ne sono pentita? Assolutamente no.
Ogni scena qui riportata ha il suo valore e non ha nulla di riempitivo. Se è presente, è perché aveva necessità di esistere, sia per motivi di trama che per motivi “affettivi” 😁
Vivete questo capitolo come il flusso di un fiume, una nuotata tranquilla e rilassante in mare aperto. D'ora in poi, lunghi o corti che siano, mi assicurerò che i capitoli di Promised Land trasmettano questo bellissimo stato d'animo, che vi prenda per mano e si apra a voi con la stessa naturalezza con cui questa banda di sconnessi si apre a me mentre scrivo su tutti loro 🥰
Ah, a fine capitolo è finalmente entrato in scena il personaggio che da tanto tempo aspettavo che uscisse, la mia adorata Lidia. Spero l'apprezzerete tanto quanto io già non l'adori di mio.
Avrò modo di parlare di lei nel prossimo capitolo, che le sarà quasi tutto interamente dedicato. Avrete modo di conoscerla, e con lei tanti altri personaggi (alcuni sono anche già spuntati fuori senza far rumore… ma preparatevi, perché ne faranno eccome!).
Capirete più avanti perché considero Lidia un personaggio molto importante 😉 intanto datele un caloroso benvenuto, che già ci penserà qualcun altro a fare lo scorbutico... :-P
Grazie per esserci ancora. Spero la lettura vi sia stata lieta ❤
   
 
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