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Autore: LubaLuft    29/04/2024    1 recensioni
Questa BokuAka è lo spin off di "Di gatti, dinosauri e chiari di luna" ma può essere letta anche da sola.
Dal testo:
"Accade allora qualcosa che ha sempre a che fare con gli eventi che si sommano casualmente e si attestano poi come fatti.
È un fatto che nella carrozza dopo la sua, verso la coda del treno, ci sia Kōtaro Bokuto, con la sua tuta dei MSBY Jackals, che dorme occupando quasi due posti. Keiji si ferma reggendosi con una mano al poggiatesta del sedile di fronte e resta in muta contemplazione di ciò che ha davanti.
Kōtaro è immenso. Una gamba allungata sotto il tavolino, l’altra piegata e aperta, a mostrare l’interno della coscia, tesa e muscolosa. Le spalle sono rilassate, larghe. Accoglienti.
La testa è reclinata verso il finestrino, dalle orecchie scende il filo degli auricolari. Le braccia, massicce, sono incrociate sul petto.
Quando dorme è serio. Solenne, quasi (..) Keiji osserva ora le sue mani. Quante volte hanno salvato Kōtaro? Quante volte gli hanno alzato un punto, scatenando felicità, godimento, esaltazione laddove solo poco prima c’era stato smarrimento, difficoltà, estraniamento? Quante volte gli ha gridato 'tua, Bokuto-san!'
E perché ora è così difficile svegliarlo? ..."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Keiji Akaashi, Koutaro Bokuto
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 2 - Inaspettato 


Kōtaro è in fondo un ragazzo semplice. 

Lavoratore instancabile, quando si allena è capace di rimanere per ore a schiacciare diagonali e parallele, con il suo braccio destro che sventaglia veri e propri missili Katyusha. 

Forse è meno veloce e agile di Hinata ma i suoi colpi sono micidiali, rumorosi, eclatanti. Lo sono anche i suoi servizi al salto, quando li schiaccia l’aria stride al passaggio della palla, che dopo il rimbalzo sul parquet semplicemente fugge via, come se non volesse più avere a che fare con quella mano terribile. E i suoi compagni di squadra lo ammirano senza pudore, specie quando è l’ultimo a lasciare il campo. Fischiano, si gettano ai suoi piedi, lo adorano come una divinità pagana con la faccia di un gufo e il corpo di un ciclope. Solitamente, il carnevale finisce quando Atsumu Miya, che è il suo alzatore, si rompe definitivamente le palle. Anche basta! Gli dice imitando i gesti dell’arbitro che fischia la fine del set.

Kōtaro allora capitola e accetta di andarsi a fare una doccia e nel mentre continua a saltellare e a scambiare versi strani con Hinata, l’unico che sembra capirlo davvero. Del resto, secondo Miya e Sakusa, entrambi fanno parte dello stesso regno animale.

 

Dopo un allenamento, per quanto duro, Kōtaro si concede sempre un pasto abbondante, meglio se con i compagni di squadra. 

E poi un cinema, a volte, o un locale. O una passeggiata senza meta, per risucchiare nelle sue iridi spropositate le luci impazzite della città. Adora i colori, il casino, l’allegria senza capo né coda della sua città, adora viverci.

 

E poi, a volte, ha anche una sana voglia di sesso

 

Kōtaro è semplice anche nelle questioni sentimentali. Non è innamorato di nessuno, è una specie di asceta mezzo monaco mezzo schiacciatore laterale che tuttavia tiene in grande considerazione le sue pulsioni sessuali, che rispetta e sente essere parte integrante del suo carattere così espansivo, e sa perfettamente quando dare loro sfogo e con chi. 

Tutte le volte, lui e Kurō si dicono che fra amici normalmente non accadono certe cose.

Fra amici si esce a fare danni, si va a un concerto, a una festa. O semplicemente si chiacchiera sul divano davanti a una partita con una birra in mano. Insomma, non si finisce a letto insieme! 

E invece, tra loro due queste cose accadono. Accadono anche con altri, in verità, ma con Kurō è diverso, sono due perfetti scopamici (così li chiama Kenma Kozume, l’unico che lo sa - “Ma la vostra è una BokuKurō o una KurōBoku? Insomma, chi sta sopra e chi sotto?”. E loro due neanche si imbarazzano “È riduttivo!……”).

 

Lo hanno fatto insieme per la prima volta, ai tempi del liceo. La loro prima volta in assoluto. 

 

La curiosità e la voglia poteva venirgli solo con il suo Bro, sudati dopo una partita e senza apparentemente altri desideri nei quali incanalare endorfine e adrenalina. Uno sguardo sornione, qualche battuta nell’aria da qualche giorno, un paio di commenti sulle ragazze così insignificanti che conoscevano, un paio di birre scure invece di una sana bevanda proteica e a casa di Tetsurō ci erano andati giù dritti, si erano strappati le tute di dosso, erano caduti dal letto, si erano rotolati sul tappeto.

Avevano riso della situazione prima, dopo e durante.

Prima perché ammettere con gioia di essere entrambi attratti dal loro stesso sesso li faceva sentire ancora più complici. Dopo perché potevano commentare il fatto compiuto senza ipocrisie.

Durante perché… beh, giocare con Kurō senza vestiti addosso era stato come spararsi cinque set ai nazionali senza time out.

 

Bro, posso fare…  questo…? 

Mmm… Sì…

E questo…?

… questo lo faccio prima io!

Bro…. Ti piace?

Tu che dici…

Dico che….

 

Si erano dati del tempo per capire se c’era altro oltre a ormoni e follia ma no, non c’era altro. Si volevano bene e basta e farlo era talmente divertente e liberatorio che ci erano ricaduti.

Ci ricadevano.  

Spesso.

Per questo quel sabato sera, a Sendai, Kōtaro telefona al suo Bro, che però lo manda in bianco. Ci può stare, se ha da lavorare - e anche lui non è a Sendai per svago ma per una questione di ingaggi a cui peraltro non darà seguito: c’è andato solo per una semplice formalità, nei Jackals sta da dio e vuole rimanerci ancora a lungo.

E allora decide di ripartire subito per Tokyo, prende al volo l’ultimo Hayabusa che ci mette pochissimo, ed è talmente stanco che crolla quasi subito, sente quel languore che gli fa desiderare il suo nido in pieno centro, con le finestre insonorizzate e i suoi cuscini morbidi.

Si addormenta in una carrozza che lentamente si svuota, cullato dall’andatura uniforme del treno.

 

Lo sveglia il tocco gentile del capotreno, un uomo sulla sessantina, solenne, elegante, in guanti bianchi. 

Lo ringrazia, si stiracchia aprendo le braccia, getta nella pattumiera i resti della sua cena, afferra il borsone e scende.

 

La banchina è abbastanza affollata perché sul binario adiacente nel frattempo è arrivato un altro treno.

Cammina lentamente quando all’improvviso quelli davanti a lui si fermano tutti e si allungano a guardare, come se un ostacolo fosse comparso improvvisamente a fermare il loro flusso ordinato. C’è infatti un ragazzo per terra, con un trolley rovesciato e uno zaino aperto, il cui contenuto è sparpagliato sul cemento, e sembra essere in difficoltà.

 

Kōtaro è alto e piazzato, si infila fra i curiosi, sbircia e poi nota qualcosa di familiare. Deve essere la forma delle spalle, o il colore e il taglio dei capelli, o il profilo, ora che lo guarda meglio. 

La linea delle labbra, strette e tirate nei momenti difficili. Gli occhi sottili. E le sue mani che brancolano aperte sul cemento, mani che conosce benissimo.

È Keiji Akaashi.

Lo chiama, si avvicina, si abbassa fino a inginocchiarsi accanto a lui. Akaashi è confuso eppure, stranamente, non sembra sorpreso di vederlo.

È Kōtaro quello sorpreso.

Sa che quello è Akaashi eppure è diverso, una specie di Non-Akaashi

Più magro, dimesso, disordinato. E Akaashi è tutto fuorché disordinato: è un ragazzo che brilla per la sua organizzazione, è l’anima del Fukurodani, è il luogotenente del coach. È colui che ha sempre tirato fuori il meglio dalla sua maglietta numero 4.

Kōtaro non è mai stato bravo con le parole perché ne dice oggettivamente troppe e tutte insieme, smonta le orecchie a chi gli sta intorno, la sua è una comunicazione irruenta e convulsa. 

E in questo momento, tutto ciò che Akaashi ha sempre rappresentato per lui si sovrappone alle sensazioni che gli dà questo strano ragazzo inginocchiato sulla banchina, che porta il suo stesso nome e che ha il potere di silenziarlo letteralmente.

Sono almeno due anni che Kōtaro non lo vede e non lo sente. A un certo punto il suo numero non ha mai più squillato e forse sta proprio lì la causa di questo senso di estraneità nella familiarità che lo fa ammutolire.

Due anni che improvvisamente gli sembrano infiniti. Due anni che anche lui ha contribuito a scavare perché non lo hai mai cercato.

Tende allora le mani verso di lui e lo aiuta a tirarsi su, anzi lo prende fra le braccia e subito nota che è più leggero di come se lo ricorda. Quando, in partita, dopo un punto, lo abbracciava e lo sollevava, sentiva i suoi muscoli tonici e guizzanti, meno sviluppati dei suoi ma allenati e armoniosi. Ora invece lo sente fragile, dimagrito. Diminuito.

Raccoglie le sue cose sparpagliate, lo convince a fermarsi con lui a bere un tè. Gli porta zaino e trolley e nel mentre lo osserva.

Sono soprattutto le spalle a colpirlo. Sempre larghe e sottili ma impercettibilmente curve. Il suo passo è sempre tranquillo ma affaticato. Cammina a testa bassa, come se stesse cercando qualcosa che ha perso e non riesce a ritrovare.

Kōtaro non se lo sa spiegare in maniera esauriente - di solito con le parole non è bravo neppure a parlarsi da solo, va in confusione abbastanza facilmente, ecco perché a volte si smonta e l’intera squadra lo vede afflosciarsi senza un motivo apparente - ma il suo amico Akaashi in questo istante lo colpisce dritto in un punto del suo petto che normalmente lavora in maniera meccanica (il cuore è una volgare pompa che si comprime e si decomprime, diceva il suo professore di scienze all’Accademia). Decide che, qualsiasi cosa abbia Akaashi, resterà lì con lui, nonostante sia quasi l’una di notte. Decide di aver cura di lui ma in maniera discreta, di tenere la voce bassa. Soprattutto, decide di ascoltarlo, semmai vorrà parlargli.

In stazione, entrano nel primo bar che trovano aperto. Un bar per viaggiatori anonimi, neon sparati a palla e musica commerciale, nonostante l’ora tarda.

Una cameriera che sbadiglia porta al loro tavolo un vassoio con il tè e un paio di sandwich e poi sparisce.

Kōtaro intanto si vede dall’esterno e non si riconosce. Normalmente, avrebbe già preso con lui un normalissimo discorso sul più e sul meno, adatto a una conversazione fra vecchi amici che il caso ha fatto ritrovare, ma non riesce a trovare un pretesto per iniziarla.

La sua mente visualizza una specie di gomitolo del quale non trova il capofilo, il suo cuore rimbomba di qualcosa di strano perché è strano lo sguardo di Akaashi. Kōtaro non è bravo con le parole ma l’istinto lo avvisa che il suo amico sta ancora male e forse non è solo per l’emicrania.

E, cosa inaudita per lui, Kōtaro continua a restare in silenzio.

È Akaashi il primo a parlare.

“Grazie, Bokuto-San. Un tè caldo era quello che mi ci voleva.”

“Ma ti pare, Akaashi! Sono pur sempre un tuo senpai!!” E via sgranare gli occhi e a puntarsi il pollicione sul petto.

Kōtaro sente lentamente riaggiustarsi la sintonia con il suo solito io, il chiacchierone infinito, e il motivo è il sorriso appena accennato ma infinitamente dolce di Akaashi, che gli fa sorridere anche gli occhi.

Quegli occhi infatti non sono cambiati, sono sempre sottili e blu, pacati. Kōtaro li accoglie nei suoi, dopo anni in cui  praticamente li ha visti solo in pessime foto caricate sulla chat del Fukurodani e poi neanche più in quella.

Sotto quei neon sono naturali, bellissimi. Gli sono mancati.

La volgare pompa intanto accelera ancora. 

“Beh… allora come te la passi?”

“A parte l’emicrania? Bene…”

“Ma non sapevo che ne soffrissi! Voglio dire, per due anni siamo stati ins… cioè abbiamo giocato insieme, dormito nella stessa stanza…”

“In quei due anni non ne ho sofferto quasi mai.”

“Già, me ne sarei accorto… anche se di solito eri tu quello che in generale si accorgeva di tutto…!”

“Mi venivano soprattutto durante le vacanze o quando viaggiavo con i miei. Quando ero… lontano, insomma…”

“E ora che siamo vicini? Come ai vecchi tempi!!” Tuona Kōtaro.

La risposta che si aspetta è qualcosa del tipo e ora sto meglio ma l’emicrania mi ritornerà presto se non abbassi il volume, Bokuto-san e invece Akaashi risponde con un filo di voce chiudendo gli occhi “Continua a parlarmi, Bokuto-san.”

Kōtaro allora non se lo fa ripetere due volte e lo sommerge di parole, letteralmente.

Gli racconta di tutto, di più. Il capo del gomitolo è finalmente nelle sue mani e comincia a dipanarsi. Gli parla dei Jackals, della nazionale. Di come vive, dei vecchi compagni di squadra. Apre i cassetti della memoria e tira fuori di tutto, a mani basse.

La Golden Week, le partite di qualifica, quel giorno che aveva dimenticato come si schiacciava una diagonale.

Le sue depressioni estemporanee, passate alla storia del club di pallavolo del Fukurodani.

La grigliata con il Karasuno, lo Shinzen, il Nekoma e l’Ubugawa.

La sera in cui faceva freddo e Akaashi lo ha fatto rientrare in albergo perché non si ammalasse.

E lentamente, con naturalezza, all’inizio senza rendersene conto, Kōtaro inizia a tirare fuori storie e ricordi che riguardano loro due soltanto. 

Ne è già consapevole, a modo suo, a livello istintivo, ma è mentre ne parla che comprende l’estensione di Akaashi nella sua vita, quanto sia ancora presente e importante. 

E un sentimento inaspettato si infila fra quelli che lo riguardano e a cui è già abituato: prova una terribile nostalgia. Gli manca anche se è lì, di fronte a lui, avvolto da un mistero insondabile, e sembra maledettamente fragile, talmente fragile che teme che la sua voce potente possa incrinarlo. 

Capisce poi che anche Akaashi gli sta parlando ma solo con gli occhi, i quali pur restando dolci si fanno impercettibilmente sempre più lontani ogni minuto che passa. È come se qualcosa lo stesse trascinando nuovamente in stazione, verso un binario qualsiasi che lo aspetta per portarlo chissà dove. Anzi, ci sta già andando chissà dove. È il posto da dove è venuto, il posto in cui ha vissuto da solo per tutti quegli anni.

E a quel punto, Kōtaro si ferma, punta le mani sul tavolo e fa tremare le tazze ormai vuote.

E poi glielo chiede, diretto e serio: “Keiji-san… che cos’hai?”


(Ringrazio DrkRaven per aver definito "scopamici" i due Bro, il concetto era in effetti quello ma mancava la parola giusta 😆😆)

   
 
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