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Autore: Gahan    21/09/2009    1 recensioni
Andare avanti nel tempo, e scoprire che il mondo è andato del tutto a rotoli. Alcuni scienziati tentano di creare una macchina per andare vent'anni avanti nel tempo e cercare di sistemare il tutto. Ho avuto un addestramento militare, due anni, ho avuto una carriera scolastica colma di soddisfazioni, e ora, grazie a questi scienziati, sto vivendo un incubo. Ho paura. Ma non voglio darlo troppo a vedere, a causa del mio orgoglio. Il mio nome non è importante, la mia storia lo è molto di più. Ecco cosa succede, quando la scienza interferisce col futuro. Ed ecco a voi la mia storia. Buon divertimento a voi, perchè io di certo, non mi divertirò...
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo
Il Principio
 
Com’è fatto un mostro? Me lo chiedevo sempre da bambino. Poi, crescendo, ho smesso di credere in quelle cose. Quando qualcuno mi chiedeva se credevo ai fantasmi, agli alieni, o a qualunque altra cosa che non fosse scientificamente provata, gli rispondevo che erano tutte favole per bambini.
A scuola tutti mi prendevano per un genio. Ho imparato a godere di quel soprannome. Fino alla terza media la mia vita era stata un disastro. Quando sono entrato al liceo tutto è cambiato. I miei voti spiccavano tanto che, un mese dopo la fine degli esami di terza media, con cui sono uscito col massimo dei voti, mi è arrivata una lettera. Era un liceo “speciale” come aveva detto mia madre quando le chiesi se era stata lei a fare la domanda d’iscrizione e lei rispose di sì.
Per tutti i cinque anni ho sempre avuto la media più alta di tutto l’istituto. Ma, al contrario delle medie, dove ricevevo solo disprezzo dagli altri per il mio livello d’intelletto superiore rispetto alla media, qui tutti mi facevano i complimenti e mi invidiavano. Mi sentivo importante lì dentro. E quando, alla fine degli esami, mi arrivò un’altra lettera che mi chiedeva di prendere parte ad un esperimento scientifico, non mi tirai certo indietro. Solo un mese dopo, mi resi conto del mio gigantesco errore.
La settimana successiva, preciserò anche la data, ossia dal giorno 01 luglio 2074, al 07 luglio 2074, gli scienziati del laboratorio sotterraneo della scuola mi fecero vari test. La prima domanda che mi fecero fu se avevo mai donato o perso un organo. Io risposi di no. Poi continuarono chiedendomi di allergie, malattie, tumori e altra roba del genere. L’ultima domanda, che fu quella che mi colpì di più, era se avevo mai assistito ad episodi paranormali o alieni. Risposi di no, e ci tenei a precisare che non credevo a quelle idiozie. Lo scienziato che avevo davanti tentò di sopprimere una risatina. Io feci finta di non averci fatto caso. Lo stesso tizio mi disse che avevo i requisiti adatti per poter prendere parte a quell’esperimento. E si fece sfuggire una parola che cominciò a farmi pentire di quella scelta. La parola in questione era cavia. Adesso mi sembrava tutto molto più chiaro. Di scienziati lì in mezzo ne avevano più che abbastanza per un esperimento, quello che gli mancava era una cavia umana.
Mi fecero uscire dal luogo dove mi facevano i test, e io camminai fino a casa pensando a cosa mi sarebbe successo in quel laboratorio. Agli studenti non era permesso di entrarci, e nemmeno ai cittadini, a causa delle radiazioni che venivano emesse da alcune macchine. Ma giravano alcune storie nella scuola a proposito di quel laboratorio. Storie di urla, sangue e gente che spariva. In effetti un paio di quelle leggende, se si possono chiamare così, sembravano proprio vere. Come quella di Charles Mander, che aveva attraversato quella porta da solo, una volta, registrando tutto quello che vedeva con una telecamera. Poi, appena la porta automatica si chiuse alle sue spalle, l’obiettivo diventò tutto nero. Si sentirono delle grida e, quando si rivide qualcosa, la telecamera era sdraiata per terra, e Charles non c’era più. A scuola si sapeva questa cosa, perché, il giorno dopo, una ragazza che si era persa per la scuola, passò davanti alla porta del laboratorio. Quando le porte si aprirono e vide la telecamera per terra, la raccolse e scappò via. Quel video comparve poi nello schermo della scuola perché quella ragazza l’aveva messo nella custodia di un documentario sull’energia nucleare. Proprio per farci vedere cos’era successo.
Inutile dire che poi quel video è stato tolto dalla circolazione e il laboratorio protetto da un riconoscimento vocale. Per evitare che l’incidente si ripetesse di nuovo.
Non riuscivo a capire perché, ma da quando mi avevano posto quella domanda sugli episodi paranormali o alieni, soffrivo un po’ di paranoia. Mi fidavo a tal punto del giudizio scientifico, che quella domanda fece crollare tutto ciò di cui ero convinto fino a quel momento. Accettai l’esistenza di qualcuno che ci guardava dall’alto. E anche il fatto che i miei nonni, morti entrambi nella grande epidemia del 2061, potevano ancora essere dietro di me. Che idiota che ero. Ma io non anticiperò nulla della mia storia. Perché voglio che voi, che leggerete o ascolterete la mia storia, sappiate tutto a tempo debito.
Comunque. La mia casa non era altro che un piano di quei nuovi palazzi. Non era un semplice appartamento. Era un piano intero. E anche abbastanza bello a vedersi. Sì, se ve lo state chiedendo, la mia famiglia era benestante. Papà dirigeva una catena di concessionarie, perché, al contrario di ogni mio sogno, non avevano ancora inventato un sistema antigravitazionale per le macchine. Quindi andavano ancora su quattro ruote. Ma in compenso hanno inventato un modo per far andare avanti le macchine senza bisogno della benzina. Perché il petrolio era finito da uno o due decenni, e l’ingegno umano continuerà a sorprenderci sempre. Non vi spiegherò come funzionano questi nuovi motori, perché è un discorso che non aderisce con la mia storia. Dicevo… ah sì, mamma era una delle migliori dottoresse che girassero a quei tempi.
Quando arrivai al mio piano, trovai i miei genitori a braccia spalancate, e con una torta in mano. Gli chiesi perché e loro mi risposero che avevo intrapreso la carriera che era stata la prima di papà. Io le risposi che si stava sbagliando. Non era possibile che mio padre fosse stato in quel laboratorio. Per quella sera preferirono tralasciare il racconto.
Il giorno dopo mi scordai di chiederglielo di nuovo, e così fu per tutto il mese.
Passai quel mese a studiare tutti i misteri della storia in cui si parlasse di un possibile intervento alieno. Per qualche giorno mi chiesi come aveva fatto quella gente a trovare un modo per contattare le forme di vita aliene. Per tutto il mese rimasi rinchiuso in camera mia, sorprendendomi del fatto che mia madre non si lamentava di dovermi portar il pranzo e la cena in camera.
Studiai tutto quello che c’era da studiare. Tutto quello che i libri di storia non raccontano. Finché, una notte, precisamente a mezzanotte e qualche minuto, arrivò una telefonata. Mia madre rispose, ma stranamente non continuò a parlare per ore. La sentii camminare verso la mia porta, con un passo simile a quello dei condannati a morte che vanno al patibolo. Bussò. Entrò. E con gli occhi sgranati mi disse che era il laboratorio. Mi chiesi perché aveva quell’aria spaventata, ma poi capii tutto. Al telefono lo stesso scienziato che mi aveva mandato la lettera di domanda per la partecipazione all’esperimento, mi avvertì che, a causa di un problema che non volle specificare, l’esperimento sarebbe iniziato tra sette ore. Mia madre aveva sempre avuto paura di quel momento, come se io fossi destinato a sparire nel nulla.
Non preparai niente, tranne un sacchetto con un po’ di cibo dentro, perché mi avevano detto che l’esperimento sarebbe durato qualche giorno. E dal momento in cui io entravo nel laboratorio, non ne sarei più uscito fino alla fine dell’esperimento.
Mio padre mi strinse la mano, mia madre mi baciò sulla fronte, e poi attraversai la porta di casa. Incosciente dell’immenso errore che stavo commettendo.
Mai ero stato più spaventato. Ma ormai non potevo certo tirarmi indietro. Camminai per quel pezzo di città che separava la mia casa dalla scuola.
La pioggia cominciò a bagnarmi il volto, e mi costrinse a correre sotto il balcone di una piccola abitazione. Da quella casa uscì poco dopo una ragazza che aveva più o meno la mia età. Mi guardò con uno sguardo dolce. Poi mi chiese dove stavo andando prima che iniziasse a piovere. Io le risposi che stavo andando alla scuola lì vicino. E lei disse che mi avrebbe accompagnato, perché anche stava andando lì. Durante il viaggio mi parlò del fatto che qualche giorno prima le era arrivata una lettera. Era la stessa lettera che era arrivata a me. E che ora si stava dirigendo al laboratorio. Allora le dissi che anch’io dovevo andare nel laboratorio. In un certo senso mi sentii felice del fatto che c’era un’altra persona che andava in quel posto insieme a me.
Quando arrivammo davanti al cancello della scuola, lei volle sapere il mio nome. Glielo dissi, poi le chiesi il suo. Si chiamava Jill.
Entrammo e subito i ricordi dei cinque anni passati lì dentro riaffiorarono nella mia mente. Da quando mi era arrivata la lettera di accettazione alla scuola. I test d’ingresso dove presi il massimo dei voti. E poi ogni giorno. La mia prima vera storia d’amore con Aleesha. E come scordarla, con lei ho passato la notte più bella della mia vita.
Passammo davanti a tutte le classi, dovevamo arrivare fino in fondo al corridoio per arrivare all’ascensore. Nella telefonata mi dissero anche che cosa dovevo fare per passare le esagerate misure di sicurezza di quel posto. Misi i miei occhi davanti a una specie di robot grande quanto la mia testa. Questo aprì gli occhi che erano in realtà dei piccoli televisori. Fece una scannerizzazione dei miei occhi, e dopo qualche secondo la porta di ferro accanto a me e Jill si aprì. Entrammo. Un soldato ci chiese chi eravamo e, dopo aver chiesto l’autorizzazione attraverso un’auricolare, ci fece entrare. Passammo attraverso un cunicolo stretto, e io mi chiesi quando avevano trovato il tempo di creare una simile struttura sotto la scuola. Ero talmente assorto nei miei pensieri, che Jill mi afferrò per una spalla appena in tempo per evitare che io sbattessi contro il portone del laboratorio.
Non sapevamo cosa fare. Non avevo proprio pensato a chiedere come entrare. Jill bussò, io allarmato tentai di fermarla, ma quando arrivai a bloccarle il braccio, era troppo tardi. Mi chiese perché la volevo fermare, e io le rivelai che avevo paura. Mi prese per mano, come se fosse stata mia madre, e poi mi disse che non sarebbe successo niente lì dentro.
Un colpo. Riempì il corridoio dietro di noi con un suono cupo. Un altro. E un altro ancora, non sapevamo dove andare. Qualunque cosa ci fosse dietro a quel portone, doveva essere grande, forte, e abbastanza arrabbiata da poter essere pericolosa. Un grido di dolore ci distrasse un attimo dal grigio della porta. Non c’era nessuno. Mi guardai intorno alla ricerca di qualche uscita sicura. A un paio di metri a sinistra di Jill c’era un vecchio fucile. Non come quelli che si usano oggi, che sparano un segmento di laser verde che si ricaricano grazie ad uno zainetto a cui è attaccato. E che di solito i militari tengono attaccato alla schiena. Ma più grande, molto più ingombrante di quelli che mi facevano usare nell’esercito durante i miei due anni obbligatori prima del liceo. Quelli erano lunghi sessanta centimetri circa. Mentre quello che era appoggiato al muro era di un’ottantina di centimetri. Vicino c’erano delle munizioni a pallettoni, come quelle che venivano usate durante le guerre mondiali. La presi e la caricai, anche se non sapevo bene come fare. Poi mirai contro la porta i cui cardini si stavano rompendo.
Si ruppe e cadde con un boato che mi fece male alle orecchie, mentre Jill se le era coperte. Sparai un colpo tra la polvere dei pezzi di muro che cadde insieme alla porta. Il proiettile non colpì nulla, e si andò a conficcare in un computer dall’altra parte della stanza. Quando quella specie di nebbia calò e mi permise di guardare all’interno del laboratorio, notai che effettivamente non c’era nulla. Non riuscii a spiegarmi chi o cosa fosse la causa di quei colpi. Abbassai l’arma e mi girai verso Jill. Lei aveva gli occhi sgranati come se avesse visto un fantasma. Mi girai nella direzione del suo sguardo e lo vidi. Un corpo era disteso a terra. Avevo quattro fori sul petto. Lo spostai e quello cadde di lato. Qualcosa gli aveva trapassato il corpo. Ero certo che non fosse un’arma al laser, perché sul suo camice non c’era nessun segno di bruciato. Allora pensai ad un fucile anticarro, ma esclusi subito l’idea a causa della finezza dei buchi. Le uniche due cose che potevano avergli provocato una simile atrocità potevano essere, o dei proiettili di precisione, oppure degli artigli molto lunghi.
Sotto di lui cominciava una striscia di sangue che proseguiva per una decina di metri fino alla fine del corridoio. Non poteva essere di un umano. Il tratto coperto era troppo. E la scia troppo densa perché potessero essere quegli otto litri di sangue che in media un uomo adulto ha.
Rimisi il calcio del fucile sulla spalla. Girammo un angolo. Man mano che ci avvicinavamo di più, sentivamo qualcuno ansimare. Credevo fosse uno scienziato rimasto in vita. Appena passai oltre un pezzo di muro crollato che mi nascondeva da possibili cecchini, rimasi incredulo. Un essere orribile era entrato nel mio campo visivo, senza orecchie, pelato, con la pelle color marroncino e degli artigli lunghi una trentina di centimetri, era magrissimo. Se fosse stato umano gli avrei potuto vedere chiaramente le costole. L’anca sporgeva dal suo corpo. Aveva dei piedi scheletrici, un sottile strato di pelle copriva le ossa dal pavimento sulla pianta, mentre il resto era scoperto e mezzo marcio. I muscoli dei polpacci erano marcati, ma sembravano essere i soli che aveva. La colonna vertebrale spuntava anch’essa e rimaneva attaccata al corpo solo da alcuni piccoli fili di carne neri. Le braccia erano formate da solo scheletro. Tranne le mani, che, nonostante fossero anch’esse ossute, erano coperte da uno strato di pelle, come quella dei piedi e del tronco. La testa aveva una strana forma allungata. Intorno a lui c’erano una decina di corpi insanguinati. Diede il colpo di grazia a quello che gli stava davanti. E l’ansimare di quel tizio, improvvisamente si bloccò. Dissi a Jill di tornare nella stanza precedente e trovarsi un rifugio sicuro e di restare pronta per una fuga. Lei si nascose dietro due blocchi di muro crollato.
Il cuore mi batteva così forte che non potei fare a meno di chiedermi se quel coso lo sentisse. L’adrenalina era alle stelle. Un momento prima di premere il grilletto e far esplodere la testa di quel bastardo mi fermai. Mi chiesi perché i militari di guardia al di fuori del laboratorio non erano intervenuti. Quando lo capii era troppo tardi. Un altro essere come quello che mi stava davanti era entrato alle mie spalle. Jill era terrorizzata. Fece la cosa peggiore che poteva fare. Allungò una gamba e quello cadde.
Non potevo aspettare oltre. Il tonfo del primo mostro aveva attirato l’attenzione del secondo, che già stava correndo verso di me. Sparai un colpo alla schiena di quello che stava per terra, che si accasciò al suolo. Ma fui troppo lento nel girarmi, e l’altro mi fu addosso nel giro di qualche secondo. Emanava una puzza di carne in decomposizione che mi fece venire la nausea.
Avvicinò i suoi occhi rossi senza pupille ai miei. Io avevo perso il fucile, e ora non potevo fare altro se non guadagnar tempo cercando di non far ammazzare né Jill e tantomeno me.
La sua faccia era inespressiva, gli occhi e la bocca avevano una forma umana, mentre il naso non era altro se non due piccoli buchi.
Credevo di essere spacciato. Ma mi ero scordato di una cosa. Lì dentro non stavamo solo in due. Jill prese il fucile che le era scivolato vicino alle gambe. E sparò. Il colpo lo prese in pieno su una spalla. E il proiettile poi graffiò anche la mia. Ringraziai il fatto che avesse una pelle così dura.
Urlò e poi sparì. Svanì nel nulla. Diventando invisibile ad occhio nudo. Mi rialzai ed andai verso Jill. Lei mi porse il fucile con il braccio sinistro perché aveva la spalla destra slogata a causa del rinculo del colpo. Le promisi che se fossi riuscito ad uccidere quel mostro, gliel’avrei rimessa a posto. Anche se avevo solo visto come fare dalla professoressa di educazione fisica.
Piano piano spostammo i due blocchi fino ad appoggiarli al muro. Era strano però che il nemico non avesse provato ad ucciderci mentre eravamo distratti, come se ci stesse dando un vantaggio.
Ora noi avevamo tre lati su quattro coperti, ma sapevamo che comunque, se non escogitavamo qualche metodo per poterci accorgere della presenza del nemico, eravamo spacciati.
A Jill venne un’idea. Mi fece uscire, convinta che il mostro mi sarebbe saltato addosso a vista, ma lei tenne con sé il fucile. Così, nel momento che io fossi stato atterrato dal mostro, lei avrebbe sparato, sperando di non colpire me. Ma quel piano risultò solo un inutile spreco di energie per spostare i blocchi. Perché nessuno di noi due, aveva pensato che la ferita alla spalla avrebbe procurato una notevole emorragia al nostro nemico. Così, appena uscii, mi feci restituire il fucile, e sparai un po’ più a sinistra della chiazza volante che si trovava a un paio di metri da me. E che, molto probabilmente, il nemico era sicuro che né io, né Jill, avremmo visto.
Il foro d’uscita del proiettile fece staccare dal corpo alcuni frammenti di carne, che volarono via insieme al sangue.
Un secondo prima che il colpo gli perforasse il corpo, lui era tornato visibile. Non sapevo cosa fosse, e neanche perché si trovasse lì in quel momento. Ma non me ne importava molto, perché se uno era venuto da fuori, era quasi impossibile che non ce ne fossero altri.
Rimisi a posto la spalla di Jill. Anche se penso di averle fatto davvero male, lei non emise neanche un gemito. Poi ci mettemmo a lavoro per sbarrare al meglio possibile tutti i buchi da cui potevano entrare altri mostri. E solo dopo, andammo a cercare qualche indizio sul da farsi.
Tornammo dove avevamo visto il primo nemico, e cercammo nelle tasche e nelle mani dei cadaveri, ovviamente di quelli che ancora le avevano, qualcosa che ci potesse dire qualunque cosa. Lo trovammo nella mano dello scienziato che avevo visto morire. Era un registratore da palmo, ossia un comunissimo registratore, ma piccolo talmente tanto da poter stare in un pugno. Il messaggio diceva:
 
Il nuovo esperimento che dobbiamo portare a termine, sarà forse la speranza di salvezza per le generazioni future. Questo messaggio è per le cavie che devono sottoporsi alla macchina. L’abbiamo chiamato il tempo trasportatore, perché per partire bisogna inserire sia le coordinate di atterraggio, che l’anno in cui si vuole arrivare. La macchina non è perfetta, il primo problema che abbiamo riscontrato è che può portare solo nel futuro. Il secondo problema riscontrato, è che l’umano il quale viene trasportato, non può andare più avanti di 100 chilometri dal luogo dove è situata la macchina, e nemmeno 100 anni più avanti. Il terzo problema, e forse il più importante, è quello delle radiazioni. Di queste, durante il trasporto, ne vengono rilasciate un quantitativo assai alto. Ma, alcuni uomini, riescono ad assorbirle senza morire, grazie ad una particolare sostanza che hanno nel sangue. Questo è il caso di alcuni militari, i quali sono stati già trasportati da qualche giorno, e il vostro, Jill Mauser, e… beh, il tuo nome non è importante, ragazzo. Voi due verrete trasportati esattamente di 20 anni. Nella base militare a non più di un’ottantina di chilometri da qui. Lì il tenente Pounder vi dirà cosa fare. Spero di riuscire a sopravvivere a questo esperimento per potervi dare questo messaggio di persona. Comunque, in caso contrario, vi dico che la macchina per il trasporto si attiva semplicemente premendo l’unico pulsante sul pannello di controllo, e si disattiverà appena sarete arrivati alla destinazione che gli abbiamo messo. E si trova alla fine della stanza con i computer. Se troverete questo messaggio quando io sarò morto, volevo solo dirvi che, il medico che vi ha fatto i test, scherzava quando ha parlato di alieni. In quel mondo c’è ben altro. L’unico consiglio che vi posso dare è: guardatevi le spalle, pensate solo alla vostra vita. Buona fortuna.
 
Quel messaggio ci aveva spaventati un po’ tutti e due. Era vero che prima eravamo spaventati all’idea degli alieni, ma il non sapere cosa ci aspettasse al di là di quel viaggio fantascientifico, ci spaventava ancora di più.
In fondo è così che è fatto l’uomo, no? Se tutto va bene secondo i suoi piani, non teme nulla, ma se qualcosa accade all’improvviso, senza che tu sappia cosa è, e nemmeno perché sia successa, ti mette una paura come se ti potesse uccidere da un momento all’altro. La paura dell’ignoto ha accompagnato il cammino dell’uomo in ogni suo passo. Alcuni tentano di sconfiggerla pensando che dopo la vita ci sia qualcosa, per alcuni il paradiso, per altri l’inferno, alcuni credono persino nella reincarnazione. Non ho mai creduto a queste cose. Credo nel destino, ma non faccio parte di quella cerchia di persone che tentano in ogni modo di far credere agli altri ciò in cui vogliono che credano. Ognuno creda a quello che vuole, a me non me ne importa nulla.
Comunque, tornando alla storia, eravamo soli. Io e lei. Jill tremava ancora di paura per prima. Io non ero da meno. Con l’unica differenza che io cercavo di tenere un atteggiamento più dignitoso. Rimanemmo cinque buoni minuti a contemplare il vuoto davanti a noi.
Eravamo soli.
Intorno a noi il sangue fresco scivolava ancora su una parete. Imbrattava il pavimento per metri. Sporcava noi.
La paura tremenda di non poter più tornare indietro da quel giorno, ci aveva attanagliati. L’unico indizio sul nostro futuro ero un registratore.
In quel momento il mondo cessò di esistere per noi due. Eravamo appena due ragazzi. Eppure avevamo la sensazione che quella scelta avrebbe cambiato la nostra vita.
Quando aprii bocca l’odore acre del sangue me la riempì.
Dissi che io sarei andato, e che lei non era tenuta a seguirmi se non voleva. Neanche quando pronunciai quelle parole, riuscii a distogliere lo sguardo da quel pannello alla fine della stanza.
Feci il primo passo. Jill mi afferrò per un braccio. Mi girai e notai che stava piangendo. Le chiesi perché, e lei mi rispose che non voleva andare. Che le sarebbe costato troppo andare via dal luogo dove era cresciuta.
Le diedi il fucile. E anche le munizioni. Le spiegai come si ricaricava, e le dissi che non doveva assolutamente esitare a sparare a chiunque le avesse sbarrato la strada. Poi la lasciai tornare indietro.
Io, invece, cominciai a camminare, sempre dritto. Niente poteva dissuadermi dalla mia decisione. Schiacciai il pulsante, e una forza cominciò ad attirarmi all’interno di un arco di metallo. Dentro il quale aveva preso forma un cerchio perfetto di quello che sembrava un liquido nero. Man mano che diventava più grande, la forza diventava sempre maggiore. Dovetti aggrapparmi ad una libreria per non essere trascinato via. Ma poco dopo, sentendo un colpo provenire dalla zona dove avevo trovato i cadaveri, mi lasciai. Scivolai dentro a quel liquido come fosse aria. Ma non uscii dall’altra parte dell’arco. No. Continuai ad andare sempre più giù. Finché, in mezzo a tutto il nero, cominciarono a formarsi le sagome di alcuni carri armati. E cominciai a sentire degli uomini gridare ordini. E colpi di mitragliatrice e fucili venire sparati come se fosse in pieno atto una guerra.
Quando il paesaggio che mi stava intorno diventò più chiaro, vidi una decina di soldati, che combattevano contro una specie di uomo alto tre metri. Grasso come i vecchi lottatori di sumo, pelato, e con un occhio solo. Grande come la testa di un uomo. La pupilla non c’era, e gli occhi erano rossi. La pelle era marrone chiaro come quella dei primi due mostri che avevo visto.
Senza che me ne accorgessi, il trasporto era finito. Ora ero fermo, dentro un edificio mezzo distrutto. Era una postazione militare.
Qualcuno mi afferrò per una spalla, e mi gettò a terra. Per mia fortuna era un uomo. Si presentò a me come il tenente Pounder. Mi chiese se avevo partecipato ad un addestramento militare. Poi mi chiese se prediligevo qualche arma. E io gli dissi che generalmente le sapevo usare tutte. Mi porse un mitra con un lanciagranate incorporato. Anche questo, come il fucile nel laboratorio, aveva i caricatori a proiettili.
Non ebbi il tempo di chiedere perché, visto che quell’uomo se ne andò dai compagni a combattere subito dopo avermi dato alcune munizioni.
Io rimasi lì, seduto in mezzo ad alcuni sacchi. Sentii vagamente un colpo sparato da un fucile da cecchino, o almeno così era sembrato a me. Perforò l’occhio del mostro. E quello cadde a terra. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo. Avevo paura.
Mi rialzai solo dopo che la folata di vento causata da quel corpo che cadeva verso il suolo terminò.
Il tenente si avvicinò di nuovo a me. Sputò per terra, e poi mi puntò l’indice contro. Mi chiese perché ero da solo. E io gli raccontai cos’era successo nel laboratorio. Lui imprecò. Poi mi spiegò il perché di quel viaggio. Ossia che il nostro compito d’ora in avanti, era quello di trovare un luogo, da dove nascevano quei mostri. Mi spiegò anche che fino ad adesso esistevano solo tre specie di mostri. I fantasmi, che erano quelli che mi avevano attaccato nel laboratorio. I ciclopi, quello che avevano appena ucciso era uno di loro. E i giganti. Ovvero degli esseri alti in media sette o otto metri, che avevano il tronco ricoperto di spuntoni. E, per fortuna, ne erano rimasti una decina, perché gli altri erano già tutti morti.
Poi mi diede una maschera per la visione termica, perché, mi disse, era l’unico modo per vedere un fantasma quando diventava invisibile. L’ultima cosa che mi disse, fu che, io avevo percorso un viaggio di venti anni, quindi ora avevo trentotto anni. Ne ebbi la conferma, quando mi diedero uno specchio.
L’ultima cosa che le mie orecchie sentirono quel giorno, fu qualcosa che colpì il pavimento, di cui io non riuscii a vedere l’origine, perché troppo lontana. L’ultima cosa che ricordo di quel momento, è una lastra di metallo, una di quelle che componevano il soffitto di quel luogo, cadermi in testa a causa delle scosse create da quel qualcosa. Poi divenne tutto nero. Io svenni, e da quel momento, inizia la nostra vera e propria storia. Che io racconterò, man mano che la vivrò.

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