Capitolo 2
“Dopo la fine”
Akane era davanti ai suoi occhi, immobile,
(morta)
supina sul proprio letto, come in procinto di svegliarsi da un momento
all’altro,
(ma non si sarebbe alzata mai più)
il volto sereno, candido, fresco, privo di turbamenti.
“Ora hai visto?”
Era troppo per lui.
“Rispondimi, Ranma! Hai
visto?”
Troppo.
“Ranma!”
Il ragazzo ignorò l’interrogativo del padre, che
continuava a scuoterlo per la spalla. Quest’ultimo, come
rassegnatosi, allentò la presa mormorando
un’ultima volta il suo nome. Approfittando
dell’attimo favorevole, il figlio diede a Genma un violento
strattone e riuscì a sottrarsi dalla sua portata.
Spalancò la finestra e scappò via, balzando di
tetto in tetto. Quando dopo un tempo indefinito – secondi,
minuti? – toccò nuovamente terra, notò
che anche il cielo pareva aver condiviso la sua furia. La quiete di
prima era stata sostituita da un sommesso brontolio. Diverse nubi
grondanti d’acqua avevano approfittato delle ultime ore per
radunarsi in massa ed erano ormai sul punto di sgravarsi del loro peso.
Ranma non ebbe il tempo di rendersene pienamente conto, che di fatto,
goccia dopo goccia, una pioggia leggera cominciò a bagnare
le strade. Ma a lui non importava. Riprese la propria corsa. Doveva
assolutamente allontanarsi da casa Tendo o sarebbe impazzito. Sempre
che non fosse già diventato
folle.
Eppure avrebbe giurato di averla vista. Camminare lungo il corridoio
del piano di sopra. Entrare nella camera degli ospiti. Akane.
Questo non era possibile.
Perché lei era in camera sua. Nel suo letto.
Come la sera prima e il giorno precedente e quell’altro
ancora.
Tentando di scacciare i ricordi, essi riaffiorarono alla mente ancora
più violenti. Quel poco di ragione che avvertiva
distintamente dentro di sé ricostruì con una cura
spietata lo stato dei fatti.
E ripensò una volta di più a Jusendo. Al suo
scontro con Safulan. Ad Akane che, per salvarlo dai filamenti che
uscivano dal corpo di quel moccioso tentando di inglobarlo al proprio
interno, girava il Rubinetto della Fenice arrestando l’acqua
della Fonte delle pozze maledette che dava forza alla sua mutazione. E
infine al violento lampo di luce da cui il corpo della fidanzata era
uscito rimpicciolito e completamente disidratato.
Immagini che lo tormentavano sia da sveglio che nel sonno.
Quand’era cosciente, almeno, poteva sforzarsi di scacciarle
da sé. Una volta addormentato, al contrario, era del tutto
succube e impotente di fronte a esse.
Non poteva sopportarlo, per questo ormai si rifiutava di dormire. Volta
dopo volta, era sempre più difficile riprendersi
dall’illusione del risveglio, dalla speranza che si trattasse
solo di un incubo, che Akane fosse pronta a strapparlo dal sonno con
una violenta secchiata d’acqua, rimproverandolo accigliata
che per colpa sua avrebbero fatto tardi a scuola.
La speranza. Si era presa gioco di lui tante di quelle volte…
Una di queste, già in Cina, a Jusendo, per mezzo della guida
delle Sorgenti Maledette.
Akane poteva essere salvata. Nulla di
più semplice, aveva spiegato la guida. Sarebbe bastato usare
la stessa acqua magica di Jusendo per invertire il processo di
disidratazione prima che Akane chiudesse gli occhi ed esaurisse la
propria energia vitale. Non c’era che da sconfiggere Safulan,
dopotutto.
La speranza. Non può forgiare la realtà a proprio
piacimento. Rivide se stesso. Lui che vinceva. Lui che sparava un Hiryu
Shoten Ha per
spezzare il Rubinetto del Drago. Lui che si faceva investire dal getto
d’acqua perché anche Akane ne fosse avvolta. E il
corpo di Akane che tornava istantaneamente alla normalità.
Eppure stavolta
(“Ha… ha chiuso gli occhi!”)
aveva agito troppo tardi.
Ranma aveva perso.
L’illusione si era dissolta.
Ma non era che la prima. Ne erano seguite altre. E perfino sogni nei
quali invece faceva
in tempo a
salvare Akane, così da rendere il risveglio ancora
più amaro.
Infine quest’ultimo miraggio. Il più crudele,
perché stavolta era sveglio. E perché Ranma, a
differenza delle esperienze precedenti, non riusciva in alcun modo a
scrollarsi di dosso la sensazione che non fosse affatto tale.
Al contrario, riflettendoci si sentiva sempre più convinto
di essere lui nel giusto, non gli
altri. E avvertiva un nuovo vigore, una nuova adrenalina
scorrergli per il corpo, simile a quella che lo caricava
nell’imminenza di un combattimento. Probabilmente era questo
che doveva fare: combattere. Contro il suo vecchio. Contro chi non gli
credeva. Perfino contro l’evidenza. Combattere era
ciò che sapeva fare meglio.
Tuttavia…
Si chiese se potesse accettare a se stesso di recare ancora dolore alle
persone cui teneva.
Ripensò a quand’era entrato nella camera dei
genitori quasi fuori di sé, convinto di trovarvi Akane. Si
raffigurò il volto addolorato di sua madre. E quello
sconvolto e ansimante di Ucchan, il viso bagnato di sudore come se
avesse vissuto lei in prima persona i suoi incubi.
La confusione si fece di nuovo strada nel proprio animo. Appena un
attimo prima, si era sentito pronto a dare qualunque cosa pur di
conferire un corpo al nemico invisibile che lo irrideva,
così da poterlo affrontare apertamente. Adesso si domandava
quanto veramente fosse alto il prezzo di una simile battaglia.
Se fosse tale da coinvolgere anche loro.
E se lui, anche in questo caso, sarebbe stato disposto a pagarlo.
Nabiki si morse il labbro, indispettita. Ormai il sonno non sarebbe
tornato.
La sua implacabile mente calcolatrice non aveva tardato a mettersi
all’opera, quantificando il danno materiale e morale
involontariamente inflittole dal giovane Saotome. Come avrebbe fatto
l’indomani a scuola? Lei non era come Ranma, continuava ad
andarci regolarmente tutti i giorni e, proprio quello successivo,
avrebbe dovuto sostenere un importante compito in classe. Con tutto
quel sonno perso, in quali condizioni l’avrebbe affrontato?
Né si sarebbe potuta consolare con i soliti affari. Con
Ranma trincerato in casa da giorni, ogni aria di profitto sembrava di
colpo spirata via. Nessuna foto allettante, nessuna pretendente, nessun
rivale. Tutte le persone che, per un motivo o per un altro, orbitavano
intorno al ragazzo con il codino non si erano fatte più
vedere. Come se non fosse sufficiente tutto ciò, perfino
Kuno-chan si era misteriosamente dileguato nel nulla.
Sciocchi, perché non capivano?
La vita va avanti. Non si ferma per la tragedia di una persona, di una
famiglia. Tutto scorre, e l’importante è non
rimanere indietro. Cinico? Forse. Ma l’esperienza
(“mamma…”)
le aveva insegnato da tempo che questo era l’unico modo di
affrontare il mondo: percepire la realtà circostante come un
unico circolo vizioso di vita e di morte; ricordarsi che, anche quando
tutto appare finito, c’è sempre un
‘dopo’.
Le disgrazie… accadono, è inevitabile. Certo,
quando aveva visto Ranma tornare a Nerima con sua sorella in quello
stato, in quelle condizioni, Nabiki non si era sentita tanto disposta
nei confronti di una simile filosofia: al contrario, era stata tentata
per un attimo di aggredire il giovane incosciente con la treccia, di
fargliela pagare personalmente per non aver saputo salvare Akane. Poi,
poco a poco, l’adrenalina era calata, facendola di nuovo
tornare in sé.
Da quel momento, Nabiki Tendo non aveva più perso il
controllo di se stessa.
“Tieni.”
La ragazza si scosse per un attimo dai propri pensieri, rivolgendo la
sua attenzione al bicchiere che Kasumi le aveva appena offerto.
“Cos’è?” Domandò
oziosamente, nonostante potesse constatarlo da sola.
“Del latte caldo.” Rispose con prontezza la sorella
maggiore, come se si fosse preparata a dover dare una spiegazione.
“Non c’è niente di meglio per
riconciliare il sonno.”
Nabiki le rivolse un sorriso furbo.
“Se sei qui in cucina a pensare a me, forse dovresti
piuttosto prenderne tu una tazza.”
Kasumi ricambiò il sorriso con un altro più
innocente.
“Oh…” Accennò. “Io
non ho bisogno di dormire molto. Sai che non ne sono mai stata
capace.”
“È vero. Al contrario, io rivendico il diritto di
godere di tutte quante le mie ore di riposo.”
“Sei sempre stata una dormigliona.”
“Ma mai ritardataria.” Precisò Nabiki,
sorseggiando il latte. “Non c’è nulla di
male a dormire tanto, quando si è poi sufficientemente
organizzati in modo tale da arrivare a scuola in perfetto orario. Al
contrario di alcune persone di mia conoscenza.”
“Beh, tu più di loro riesci a non lasciarti
coinvolgere dalle numerose distrazioni di
questo quartiere.”
“Non è poi così difficile.”
“Cielo, ricordo però che, quando frequentavo io la
scuola superiore, il Furinkan non era un ambiente così
movimentato.”
“Se è per questo, non lo era nemmeno fino
all’arrivo di Ranma.” Si lasciò scappare
la secondogenita delle Tendo.
“Non essere cattiva…”
Cattiva? Nabiki udì per un attimo se
stessa, quasi fossero due persone diverse. E la Nabiki spettatrice non
poteva fare a meno di chiedersi come potesse l’altra Nabiki
Tendo, quella ragazzina che parlava alla sorella maggiore in maniera
così saccente, dire cose tanto banali e insensibili.
Come se…
“Dico solo la verità.”
Perseverò la Nabiki parodia di se stessa.
“È lui che porta scompiglio. Ma la sua scenata di
stanotte gli costerà cara: quando tornerà, gli
presenterò un bel conto… e soprattutto la mia
polaroid pronta a immortalare una certa ragazza col codino in abiti
discinti.”
“Sai che non sta bene.”
“Sei la solita…”
La solita? Già, erano entrambe le
solite.
Come se non fosse accaduto nulla.
Proprio in quel momento, Kasumi si alzò in piedi.
“Io penso piuttosto che, invece di aspettarlo, ora tornerai
di sopra a dormire.”
“Ma Kasumi…”
Le due Nabiki sussultarono allo stesso tempo, quando la sorella
maggiore accarezzò loro una spalla.
A quel contatto, si sentirono di nuovo una persona sola.
“Tanto vedrai che tornerà presto.”
Sussurrò Kasumi. “Non c’è
nessun bisogno che tu stia qui ad aspettarlo. Non
preoccuparti.”
Nabiki non ebbe né il tempo né la voglia di
ribellarsi. Udì attentamente i passi di Kasumi uscire dalla
cucina, accompagnati da uno scroscio proveniente
dall’esterno, quindi finì di gustare il suo latte.
Fuori pioveva. È piacevole, pensò, bere qualcosa
di caldo mentre fuori piove.
Quella Kasumi… a volte perfino lei finiva per
sottovalutarla, ma in casi come questi dava il meglio di sé
dimostrando di saper leggere nel cuore delle persone. In un certo
senso, Nabiki era sollevata all’idea di non essere
l’unica in famiglia capace di ciò.
D’altronde, in loro scorreva lo stesso sangue.
“Preoccupata, io?” Mormorò a mezza voce.
Sì, Nabiki poteva tranquillamente ammettere di esserlo. Ma
non preoccupata ‘per’ Ranma, semmai
‘di’ Ranma. Quel ragazzo con la treccia, che un
giorno di pioggia primaverile come tanti altri era arrivato a
stravolgere le loro vite così tranquille, costituiva tuttora
il maggior ostacolo che si frapponesse tra la sua famiglia e una
parvenza di ritorno alla normalità.
Adesso ci mancavano anche le sue patetiche visioni.
Si chiese quanto tempo ancora sarebbe occorso a Ranma per accettare il
fatto che Akane fosse morta.
E come mai non riuscissero ad ammetterlo del tutto nemmeno loro.
(Forse perché i morti stanno sottoterra?)
Anche nel loro discorso di pochi istanti fa, lei e Kasumi non erano
riuscite a non parlare al
presente, quasi che tutto stesse andando come al solito e
Akane fosse ancora tra loro. Anche questo era colpa di Ranma. In fin
dei conti, non è sempre colpa
di Ranma? Lui si era rifiutato di far seppellire o cremare la sorella,
la sorellina che dopotutto sembrava solamente dormire. In questo caso,
la sua testardaggine, il suo non volersi arrendere stavano contagiando
l’intera famiglia. Portandola lentamente alla rovina.
Perché non accettare la realtà? Akane sembrava dormire.
Però in lei non v’era traccia di respirazione,
né di circolazione sanguigna: il suo corpo non si
deteriorava – e loro ne conoscevano il motivo – ma
tutto il resto indicava inconfutabilmente che sua sorella minore era
morta.
Nient’altro. Perché non poteva essere tutto
così semplice? E perché la vecchia del Nekohanten
aveva detto quelle
cose…?
Posando il bicchiere ormai vuoto sul tavolo, Nabiki si accorse che la
sua mano tremava.
La pioggia, adesso, batteva scrosciante. Un tuono deflagrò a
poca distanza da lui.
Come se fosse stato un segnale, qualcosa esplose anche dentro di
sé, irradiandosi in ogni parte del proprio corpo.
Ranma gridò. Calciò. Urlò.
Colpì ripetutamente un nemico invisibile. Gridò
di nuovo.
Infine si arrestò, e lasciò che le ginocchia
sprofondassero nel terreno melmoso.
Ansimando, pregò di aver dato sfogo a tutto ciò
che gli bruciava nelle vene. E invece l’istinto gli
suggerì ancora un’altra via.
Improvvisamente avvertì un nuovo irrefrenabile bisogno. Si
slacciò il colletto della camicia bagnata fradicia,
strappando nella foga una parte del tessuto. E fissò con
rabbia il suo petto maschile. In quel momento, avrebbe sinceramente
desiderato riavere su di sé la maledizione di Jusenkyo.
(“Un uomo non piange!”)
Avrebbe voluto farlo, anche di nascosto, tanto nessuno avrebbe
riconosciuto le proprie lacrime in mezzo a quelle delle nubi nere. Ma
le parole del suo vecchio gli rimbombavano nella mente e gli impedivano
di cedere.
Provando a distrarsi, Ranma si guardò intorno. Riconobbe il
verde, l’odore dell’erba bagnata e la fila dei
lampioni ancora accesi nonostante l’orario. Doveva essersi
mosso a gran velocità – o chissà per
quanto tempo – dato che si trovava nel bel mezzo del parco
Shakujii Koen.
Imprecò silenziosamente. Non c’era un solo luogo
che non fosse ricco di memorie.
“È qui che abbiamo avuto il nostro primo
appuntamento.”
La voce lo colse alla sprovvista, facendolo trasalire. Aveva abbassato
la guardia a tal punto? Una figura familiare emerse dalle ombre,
sostando sotto i raggi di un lampione, a pochi metri da lui.
Rialzandosi da terra, Ranma la riconobbe subito.
“Mi hai seguito.”
Ukyo inclinò leggermente l’ombrello, attenta a non
bagnarsi, e alzò gli occhi verso un cielo lievemente
più chiaro di qualche minuto prima: si stava facendo giorno
e i raggi solari premevano, pur non riuscendo a sopraffare le nubi. La
ragazza distolse lo sguardo. Si voltò verso il ragazzo di
fronte a sé e quindi in direzione del laghetto alla loro
destra. Il picchiettio del fitto rovescio sulle acque creava uno strano
gioco di increspature che, unito alla debole luce naturale e a quelle
artificiali più consistenti, dava al luogo
un’insolita aria cupa.
“Sembra tutto così irreale,
pare di trovarsi in un mondo fantastico isolato dalla
realtà… eppure è proprio qui che un
bel mattino soleggiato mi hai portato in barca, ricordi?”
Ukyo avrebbe voluto che la memoria si arrestasse a quei dettagli, ma la
mente era troppo lucida per scordare il resto: che Ranma
l’aveva invitata al solo scopo di tallonare Ryoga e Akane,
per mettere i bastoni tra le ruote al loro appuntamento.
La giovane esperta di okonomiyaki si adirò con se stessa:
alla fine, non aveva fatto che aggiungere un altro pensiero di Akane a
una lista chiaramente già traboccante di suo. Si chiese come
mai non si fosse trattenuta ma avesse stupidamente aperto bocca. Forse
conosceva la risposta. Forse voleva solo che Ranma, una volta tanto,
pensasse alla
sua Ucchan.
Probabilmente aveva sbagliato tutto fin dall’inizio.
“Sì.” Esclamò lui
d’un tratto, come in risposta ai pensieri della ragazza. Ukyo
sentì il cuore accelerare il suo ritmo e tornò a
guardare Ranma dritto negli occhi, mentre quest’ultimo
continuava a parlare. “Ricordo ogni singolo dannato
dettaglio. Perché è così facile, se
poi non si può tornare indietro?! Aveva ragione lei,
ha sempre avuto ragione! Ero e sono un enorme stupido! Uno stupido! Stupido!”
Strinse i pugni con grande intensità. Non doveva essere la
prima volta, notò Ukyo, trattenendo inavvertitamente il
respiro. Le mani gli sanguinavano.
“Non… non dire così, Ran-chan! Tu non
hai colpa di niente!” Lo interruppe, enfatizzando il tono
della propria voce come per convincerlo della verità di
quelle parole.
Ma non ebbe il coraggio di proseguire, di spiegargli che la colpa era
tutta sua. Del suo egoismo, della vanità e della presunzione
che le derivavano dal sentirsi la fidanzata
carina. Se solo avesse pensato al suo bene fin da subito! Ma
forse non era ancora troppo tardi.
“Vattene, ti prego, Ucchan.” Mormorò
Ranma, con un tono che le parve debole e spento. L’ombra del
fiero combattente che conosceva. “Ho bisogno di stare un
altro poco da solo.”
Ukyo, per un attimo, prese in seria considerazione l’ipotesi
di obbedire a quella richiesta. Ma l’esitazione
svanì subito via.
Cominciò ad avanzare, avvicinandosi lentamente al ragazzo
con la treccia.
“No.” Disse con fermezza. “La
verità è che non devi restare solo, al contrario
hai bisogno più che mai di qualcuno.
E io… posso prometterti che… ci sarò
sempre per te…”
Ridusse ulteriormente la distanza che li separava e, portandolo a
sé sotto il suo ombrello con la mano libera, lo cinse in un
caldo abbraccio.
Lui sobbalzò, ma Ukyo non si ritrasse. Mantenne ferma la
presa, come per tranquillizzarlo, per rassicurarlo che andava tutto
bene.
Fidati di me, Ran-chan, pensava. Non sono forse sempre stata la tua
migliore amica? E ancora prima il tuo
migliore amico? Fidati, ripeteva. Io non ti abbandonerò.
“Ucchan…” La voce di Ranma tremava.
“Tu credi che stia diventando pazzo?”
“Certo che no, Ran-chan! Certo che no!” Rispose lei
tra le lacrime che non riusciva più a trattenere.
Così accadde.
Ranma Saotome lasciò cadere la sua maschera.
D’un tratto, non v’era più traccia
dell’insuperabile artista marziale, nulla era rimasto del
ragazzo sbruffone e pieno di sé. Solo un essere umano
disperato era colui che, abbandonando ogni resistenza, mandando al
diavolo le parole del padre, e con sola testimone la pioggia che li
circondava, accompagnò i propri singhiozzi a quelli della
compagna d’infanzia, lasciandosi cullare dal suo abbraccio.
“Aiutami, Ucchan… non voglio diventare
pazzo…” Biascicava con la voce spezzata dal pianto.
“Certo che no… stai tranquillo…
tranquillo…” Ripeteva lei, come una nenia.
Tranquillo, Ran-chan, io ti proteggerò, pensava la piccola
Ukyo. Io ti salverò.
Accentuò un altro poco la stretta, poggiando una guancia su
una sua spalla.
E vedrai che presto riuscirò a cancellare da te
l’ombra di Akane…