“...Don't smile
Don't you smile
You're supposed Wither away with me, so, Juliette
Please don't smile
I'm paralysed and you are still alive.”
(Juliette,
Sonata Arctica)
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Essere
autocompiaciuto fino al riprovevole, devo ammettere, è una mia pecca. Piuttosto
infelice, in effetti, ma vi chiedo di perdonare il mio tono se vi parlerò di
cose terribili con un sorriso, o col mio fare così irritante; non sareste i
primi a rimproverarmelo.
Tutto
questo potrebbe essere significativamente pedante, tuttavia, mio amato
pubblico, vi prego di prestare attenzione alla mia premessa: noi vostri
affezionatissimi personaggi, quelli di cui leggete, per intenderci, siamo tutto
quello che voi non osereste essere; uccidiamo perché voi non sapete farlo, corriamo
perché voi camminate, gridiamo perché la vostra voce è debole. Io vi mostrerò
quello che sareste potuti essere; pertanto sedete pure al caldo delle vostre
case sulla sedia, davanti al computer, preparate il mouse per scorrere la
pagina del sito, mentre io siedo qui a terra, giocherellando con le dita, col
sangue sul pavimento. Sedete, prego, miei amati lettori.
La
storia più vera che conosco. Quello che intendo mostrarvi per ora non ha nulla
a che vedere col sangue e qualcuno di voi sospirerà. In realtà riguarda un
pullman blu e bianco con file di sedili ruvidi e vetri velati di polvere beige
e butterati di pioggia secca. Quinto anno che portavo il culo e lo zaino su
quell’affare disseminato di teste scompigliate di prima mattina e musi
abbassati per il sonno, quinto anno in cui sentivo la stessa stazione radiofonica
e qualche coglione sui sedili in fondo che rideva dell’ennesima stronzata,
nonché un paio di vecchi ai primi posti che russavano. Quinto anno per me e il
sesto per Julie. Julie nel caso foste interessati a saperlo, e lo siete, era
una gran troia. Una puttana di prim’ordine, signori, senza dubbio. Di quelle
che impieghi nove mesi a conquistare, una settimana per baciare alla francese,
tre mesi per farci petting e che ami per l’arco dei tre giorni che separano una
mandata a fanculo dall’altra. E naturalmente quella che non ti scopi mai.
Andiamo
con ordine però. La cosa più importante che dovreste sapere è che il mio nome è
Alan Preston e che al quinto anno di scuola e di viaggi su un pullman del
cazzo, lucidavo moto all’officina di mio padre per una paga da miseria e anche
una buona dose di calci in culo dal vecchio. Il vecchio per fortuna aveva
tirato le cuoia solo un anno dopo, con gran disperazione di mia madre. A quel
tempo portavo i capelli ricci e tristemente crespi lunghi quasi fino alle spalle
e leggevo un sacco di saggi, per darmi qualche aria con delle citazioni buttate
giù col giusto criterio. Pareva che piacessi alle ragazze per la mia faccia
sbarbata vagamente androgina, il che non era poi troppo lusinghiero. Julie era
più grande di me di un anno, aveva i capelli lunghi come i miei ma lisci, più
chiari, il naso non dritto, gli occhi a mandorla e le labbra sottili. Mi
innamorai di lei circa due anni dopo averla conosciuta e non ricordo neppure
quello che aveva detto per attirare la mia attenzione. Ci misi un pezzo per
convincerla a stare con me e forse avrei dovuto considerare che aveva un
cervello da bambina vivace uscita da un cartone animato, che decantava
l’amicizia e non aveva idea di come comportarsi con un ragazzo: il risultato
era che sapeva essere fuori luogo come pochi, nonché abbastanza frigida da far
impazzire un ragazzo.
Non
intendo aggiungere altri dettagli, non per ora, a dire il vero, vi basti sapere
che a diciannove anni lasciai Julie con una delusione tale, che non insistetti
neanche più per rimettere le cose a posto e in effetti ero andato avanti per la
mia strada per altri sei anni senza vederla.
Avevo
venticinque anni quando sentii sul notiziario di quello che le era successo a Baltimora
nel 1991: precipitata giù da un balcone, anni ventisei, aveva agonizzato in
ospedale per cinque ore, poi era morta. Sospettato di averla spinta giù il
convivente di trentun anni: Carl Fish, figlio di un magnate di un’industria tessile
fallita del North Carolina.
Certo,
non saprei dirvi come mi sentii in quel momento, dato che in tutta onestà non
provai proprio nulla.
Anzi:
quello che non provai, in verità, fu il dolore, quello sarebbe stato normale,
invece una parte di me prese a essere curiosa, così curiosa che mi misi davanti
alla tv, mentre Carl Fish veniva accompagnato in un’auto della polizia con le
mani sulla nuca, la bocca aperta e il labbro inferiore sporgente.
La
curiosità fu quella di incontrare lui, naturalmente. Non ne compresi il motivo
ma volevo conoscere quell’uomo. Lui aveva conosciuto lei: l’aveva gettata giù
da un balcone, probabilmente perché lei gli aveva detto che “Sogno sempre di
buttarmi giù dal balcone. E volare, volare, volare è il mio sogno”. Infelice la
vita degli artisti: semplicemente quello che sognano, nella vita vera li
uccide. Infelice e ironico, perché Julie si era ritrovata con la testa aperta
per terra, probabilmente dopo aver esasperato un altro uomo come aveva fatto
con me. E quell’uomo l’aveva conosciuta, aveva avuto reazioni forse simili alle
mie davanti a quella donna.
Non
mi sforzai per nulla di capire il motivo per cui mi interessò così tanto
conoscere Carl Fish.
In
effetti sono parecchie le cose che in questa storia hanno non poco di
paradossale e immotivato, ma al buon osservatore – o ascoltatore – non sfuggono
quelli che a modo loro sono i cosiddetti motivi.
Quel
che è certo in tutta questa storia è che Julie Arlowe era morta e che ogni
riferimento a persone realmente esistenti non è affatto casuale, dunque
sappiate che se vi chiamate Julie Arlowe siete morti, signori, senza
possibilità di appello, grazie.
A
questo punto molti di voi mi daranno del pazzo, sapendo che quel giorno mi misi
in viaggio alla ricerca del simpatico signor Fish, ma ve lo ripeto. Io faccio
solo quello che voi dagli spalti non avreste l’ardire e la stupidità di fare,
questo perché l’artista impazzisce al posto del lettore, pur di insegnargli la
follia. Lasciate che vi racconti come.