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Autore: Bael    06/10/2009    5 recensioni
Voglio avvisarvi che da oggi cercherò di offrire alle signorine che hanno recensito Prometheus un racconto breve(tre pagine di formato A4 per tre capitoli U_U)come dono. Questo è per la gentile Reus, signori, spero che gradiate. "L'artista impazzisce al posto del suo pubblico, lasciate che vi racconti come."
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Julie, primo capitolo

“...Don't smile
Don't you smile
You're supposed Wither away with me, so, Juliette
Please don't smile
I'm paralysed and you are still alive.”

(Juliette, Sonata Arctica)

 

________________________________________________

 

Essere autocompiaciuto fino al riprovevole, devo ammettere, è una mia pecca. Piuttosto infelice, in effetti, ma vi chiedo di perdonare il mio tono se vi parlerò di cose terribili con un sorriso, o col mio fare così irritante; non sareste i primi a rimproverarmelo.

Tutto questo potrebbe essere significativamente pedante, tuttavia, mio amato pubblico, vi prego di prestare attenzione alla mia premessa: noi vostri affezionatissimi personaggi, quelli di cui leggete, per intenderci, siamo tutto quello che voi non osereste essere; uccidiamo perché voi non sapete farlo, corriamo perché voi camminate, gridiamo perché la vostra voce è debole. Io vi mostrerò quello che sareste potuti essere; pertanto sedete pure al caldo delle vostre case sulla sedia, davanti al computer, preparate il mouse per scorrere la pagina del sito, mentre io siedo qui a terra, giocherellando con le dita, col sangue sul pavimento. Sedete, prego, miei amati lettori.

 

La storia più vera che conosco. Quello che intendo mostrarvi per ora non ha nulla a che vedere col sangue e qualcuno di voi sospirerà. In realtà riguarda un pullman blu e bianco con file di sedili ruvidi e vetri velati di polvere beige e butterati di pioggia secca. Quinto anno che portavo il culo e lo zaino su quell’affare disseminato di teste scompigliate di prima mattina e musi abbassati per il sonno, quinto anno in cui sentivo la stessa stazione radiofonica e qualche coglione sui sedili in fondo che rideva dell’ennesima stronzata, nonché un paio di vecchi ai primi posti che russavano. Quinto anno per me e il sesto per Julie. Julie nel caso foste interessati a saperlo, e lo siete, era una gran troia. Una puttana di prim’ordine, signori, senza dubbio. Di quelle che impieghi nove mesi a conquistare, una settimana per baciare alla francese, tre mesi per farci petting e che ami per l’arco dei tre giorni che separano una mandata a fanculo dall’altra. E naturalmente quella che non ti scopi mai.

Andiamo con ordine però. La cosa più importante che dovreste sapere è che il mio nome è Alan Preston e che al quinto anno di scuola e di viaggi su un pullman del cazzo, lucidavo moto all’officina di mio padre per una paga da miseria e anche una buona dose di calci in culo dal vecchio. Il vecchio per fortuna aveva tirato le cuoia solo un anno dopo, con gran disperazione di mia madre. A quel tempo portavo i capelli ricci e tristemente crespi lunghi quasi fino alle spalle e leggevo un sacco di saggi, per darmi qualche aria con delle citazioni buttate giù col giusto criterio. Pareva che piacessi alle ragazze per la mia faccia sbarbata vagamente androgina, il che non era poi troppo lusinghiero. Julie era più grande di me di un anno, aveva i capelli lunghi come i miei ma lisci, più chiari, il naso non dritto, gli occhi a mandorla e le labbra sottili. Mi innamorai di lei circa due anni dopo averla conosciuta e non ricordo neppure quello che aveva detto per attirare la mia attenzione. Ci misi un pezzo per convincerla a stare con me e forse avrei dovuto considerare che aveva un cervello da bambina vivace uscita da un cartone animato, che decantava l’amicizia e non aveva idea di come comportarsi con un ragazzo: il risultato era che sapeva essere fuori luogo come pochi, nonché abbastanza frigida da far impazzire un ragazzo.

Non intendo aggiungere altri dettagli, non per ora, a dire il vero, vi basti sapere che a diciannove anni lasciai Julie con una delusione tale, che non insistetti neanche più per rimettere le cose a posto e in effetti ero andato avanti per la mia strada per altri sei anni senza vederla.

Avevo venticinque anni quando sentii sul notiziario di quello che le era successo a Baltimora nel 1991: precipitata giù da un balcone, anni ventisei, aveva agonizzato in ospedale per cinque ore, poi era morta. Sospettato di averla spinta giù il convivente di trentun anni: Carl Fish, figlio di un magnate di un’industria tessile fallita del North Carolina.

Certo, non saprei dirvi come mi sentii in quel momento, dato che in tutta onestà non provai proprio nulla.

Anzi: quello che non provai, in verità, fu il dolore, quello sarebbe stato normale, invece una parte di me prese a essere curiosa, così curiosa che mi misi davanti alla tv, mentre Carl Fish veniva accompagnato in un’auto della polizia con le mani sulla nuca, la bocca aperta e il labbro inferiore sporgente.

La curiosità fu quella di incontrare lui, naturalmente. Non ne compresi il motivo ma volevo conoscere quell’uomo. Lui aveva conosciuto lei: l’aveva gettata giù da un balcone, probabilmente perché lei gli aveva detto che “Sogno sempre di buttarmi giù dal balcone. E volare, volare, volare è il mio sogno”. Infelice la vita degli artisti: semplicemente quello che sognano, nella vita vera li uccide. Infelice e ironico, perché Julie si era ritrovata con la testa aperta per terra, probabilmente dopo aver esasperato un altro uomo come aveva fatto con me. E quell’uomo l’aveva conosciuta, aveva avuto reazioni forse simili alle mie davanti a quella donna.

Non mi sforzai per nulla di capire il motivo per cui mi interessò così tanto conoscere Carl Fish.

In effetti sono parecchie le cose che in questa storia hanno non poco di paradossale e immotivato, ma al buon osservatore – o ascoltatore – non sfuggono quelli che a modo loro sono i cosiddetti motivi.

Quel che è certo in tutta questa storia è che Julie Arlowe era morta e che ogni riferimento a persone realmente esistenti non è affatto casuale, dunque sappiate che se vi chiamate Julie Arlowe siete morti, signori, senza possibilità di appello, grazie.

A questo punto molti di voi mi daranno del pazzo, sapendo che quel giorno mi misi in viaggio alla ricerca del simpatico signor Fish, ma ve lo ripeto. Io faccio solo quello che voi dagli spalti non avreste l’ardire e la stupidità di fare, questo perché l’artista impazzisce al posto del lettore, pur di insegnargli la follia. Lasciate che vi racconti come.

 

 

  
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